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Il Duomo di Milano

Posté par atempodiblog le 18 octobre 2015

madonnina
Dedicazione del Duomo di Milano, solennità liturgica celebrata dalla Chiesa latina di Rito Ambrosiano la III Domenica di ottobre

Ogni tanto alzava gli occhi ai fastigi del duomo, che gli apparivano da prospettive diverse: dovunque sulle guglie gotiche c’erano statue, fatte dello stesso marmo delle pareti, erano centinaia e centinaia. Pensò ai maestri scalpellini che le avevano scolpite: uomini sconosciuti i quali, qui e altrove, avevano spesa la vita intera, soprattutto nel medio evo, a scolpire con pazienza, e spesso con arte mirabile, le statue delle cattedrali, anche quando sapevano che una volta issate al loro posto, nessuno avrebbe potuto ammirarle: nessuno, tranne Dio. Lui dopo tutto non si era sempre considerato uno scalpellino? Sebbene scolpisse pagine anziché pietra. Cos’era dunque questa pena che l’attanagliava perché la gente non avrebbe forse mai conosciuta la sua opera? Certo, come dice il Vangelo, non si accende un lume per metterlo sotto il moggio: tuttavia il suo dovere era di continuare a scrivere senza lasciarsi turbare, seguisse o no il successo. Delle sue opere avrebbe certamente goduto Iddio; e anche suo padre, lo scalpellino–scultore, che si trovava con Dio là in alto.

di Eugenio Corti – Il cavallo rosso

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Quando la misericordia di Maria supera l’immaginazione degli scettici

Posté par atempodiblog le 12 octobre 2015

Quando la misericordia di Maria supera l’immaginazione degli scettici
di Dom Antoine Marie O.S.B. – Radici Cristiane

vergine del pilar
Immagine tratta da: Mis ilustraciones

Nel 1874, Émile Zola visita il santuario di Lourdes. Davanti ai numerosi ex-voto della grotta, egli dichiara, con ironia: “Vedo molti bastoni, molte stampelle, ma non vedo nessuna gamba di legno”. Voleva dire che mai, a Lourdes o altrove, si era visto un arto mancante o amputato riprendere vita e ricrescere.
Analogamente, Jean-Martin Charcot, celebre neurologo della sua epoca: «Consultando il catalogo di guarigioni cosiddette “miracolose” di Lourdes, non si è mai constatato che la fede abbia fatto rispuntare un arto amputato».
Queste dichiarazioni sotto forma di sfida miravano a distruggere, nel nome della ragione e dello spirito critico, la credenza nell’esistenza di un mondo soprannaturale. Ernest Renan dichiara senza ambagi: «Quello che noi confutiamo è il soprannaturale (…) Fino ad ora, non è mai avvenuto un “miracolo” che potesse essere osservato da testimoni degni di fede e constatato con certezza» (Prefazione della Vie de Jésus).

Renan smentito
Il miracolo che racconteremo è di molto anteriore a Renan. Si tratta non di un sogno, né di una favola, ma di un fatto, attestato con tutte le sue circostanze da prove storiche irrefutabili. Questo fatto smentisce categoricamente l’affermazione di Renan…
Per una curiosa anomalia, è rimasto pressoché sconosciuto al di fuori della Spagna per circa tre secoli. Il beneficiario, Miguel Juan Pellicer, è perfettamente noto grazie alle numerose informazioni conservate dagli archivi della parrocchia di Calanda (provincia di Aragona, Spagna settentrionale), che una persona coraggiosa ha sottratto al saccheggio e alle distruzioni durante la Guerra Civile del 1936.
Miguel Juan Pellicer riceve il battesimo il 25 marzo 1617. Egli è il secondo degli otto figli di modesti agricoltori che conducono una vita virtuosa. L’istruzione del bambino si riduce al catechismo. Questa formazione religiosa elementare radica in lui una fede cattolica semplice e solida, fondata sui Sacramenti ricevuti regolarmente e su un’ardente e filiale devozione alla Vergine Maria, venerata a Saragozza con il titolo di “Nuestra Señora del Pilar” (Madonna del Pilastro), Patrona della Spagna.
Verso l’età di diciannove o vent’anni, Miguel si stabilisce come bracciante, al servizio di uno zio materno, nella provincia di Valencia. Alla fine del luglio 1637, mentre guida verso la fattoria due muli che tirano un carro carico di grano, cade dal dorso di uno degli animali e una delle ruote del carro gli passa sulla gamba, al di sotto del ginocchio, provocando la frattura della tibia.
Lo zio Jaime trasporta senza indugio il ferito alla cittadina vicina, poi a una sessantina di chilometri di là, a Valencia, dove arriva il 3 agosto. Miguel vi rimane cinque giorni, nel corso dei quali gli vengono applicati vari rimedi che rimangono senza effetto.
Egli ritorna allora a Saragozza dove giunge nei primi giorni dell’ottobre 1637. Sfinito e febbricitante, viene ricoverato al Real Hospital de Gracia. Lì, viene esaminato da Juan de Estanga, docente all’università di Saragozza, primario del reparto di Chirurgia, e da due maestri chirurghi, Diego Millaruelo e Miguel Beltran. Questi medici, avendo constatato la cancrena avanzata della gamba, concludono che l’unico modo di salvare la vita del malato è l’amputazione.
Quando testimonieranno davanti ai giudici, questi medici descriveranno la gamba come «molto flemmonosa e incancrenita», al punto di apparire «nera».
Verso la metà di ottobre, Estanga e Millaruelo procedono all’operazione: essi tagliano la gamba destra «quattro dita sotto il ginocchio». Anche se assopito dalla bevanda alcolica e narcotica usata a quei tempi, il paziente prova atroci dolori: «Nei suoi tormenti - diranno i testimoni - il giovane invocava di continuo e con molto fervore la Vergine del Pilar».
Uno studente di chirurgia, di nome Juan Lorenzo Garcìa, è incaricato di raccogliere la gamba tagliata e di sotterrarla degnamente nella parte del cimitero dell’ospedale riservata a questo uso. In quell’epoca di fede, il rispetto verso il corpo destinato a risuscitare imponeva che anche i resti anatomici fossero trattati con pietà. Garcìa testimonierà in seguito di aver seppellito il pezzo di gamba, orizzontalmente, «in una buca profonda un palmo», cioè ventun centimetri secondo la misura aragonese.

La potenza della Vergine
Dopo alcuni mesi di permanenza nell’ospedale, prima ancora che la sua piaga sia perfettamente cicatrizzata, Miguel si reca al santuario “del Pilar” distante circa un chilometro, e ringrazia la Vergine «di avergli salvato la vita, affinché potesse continuare a servirla e a manifestarle la sua devozione»; poi la prega con insistenza di «poter vivere del suo lavoro».
Nella primavera 1638, l’amministrazione dell’ospedale gli fornisce una gamba di legno e una stampella. Per sopravvivere, il giovane non ha altra soluzione che farsi “pordiosero”, cioè mendicante autorizzato dal Capitolo dei canonici del santuario del Pilar.
Saragozza conta allora 25.000 abitanti: la maggior parte si recano “a salutare la Vergine” ogni giorno. L’attenzione di questi innumerevoli visitatori è attirata dal viso sofferente di questo giovane storpio che sollecita la loro carità.
Miguel partecipa ogni giorno alla Santa Messa nel santuario; alla fine di questa, egli unge il suo moncone con l’olio delle lampade che ardono continuamente davanti alla statua della Madonna del Pilar. Il professor Estanga ha un bel spiegargli che queste unzioni avranno come effetto di ritardare la cicatrizzazione della sua piaga, Miguel continua il suo gesto di devozione: questo atto di fede nella potenza della Vergine prevale, per lui, sulle regole sanitarie.
All’inizio del 1640, Miguel rientra nel suo paese natale. Egli arriva a Calanda, a dorso di un asinello, nel mese di marzo. Il suo viaggio di circa 120 chilometri l’ha sfinito; ma l’accoglienza affettuosa dei suoi genitori gli restituisce le forze. Miguel sta per compiere 23 anni. Non potendo aiutare i suoi con il suo lavoro, ricomincia a chiedere l’elemosina.
Molti sono coloro che testimonieranno di aver visto il giovane mutilato nei villaggi dei dintorni di Calanda, a dorso di un asinello, con la gamba tagliata in vista, per fare appello alla carità degli abitanti.
Il 29 marzo 1640, si festeggia, quell’anno, il 1600° anniversario della «venuta in carne mortale» della Vergine Maria sulle rive dell’Ebro, secondo la convinzione della gente di quei luoghi. È qui l’origine della venerazione secolare degli spagnoli per la Vergine del Pilar.
Quel giovedì 29 marzo, Miguel si sforza di aiutare i suoi riempiendo di letame delle gerle caricate sul dorso dell’asinello. Lo fa nove volte di seguito, nonostante la sua difficoltà a reggersi sulla sua gamba di legno. Venuta la sera, rientra a casa, stanco, con il moncone più dolente del solito.
Quella notte, i Pellicer devono ospitare, per ordine del governo, uno dei soldati della Cavalleria reale che è in marcia verso la frontiera per respingere le truppe francesi: Miguel è costretto a lasciargli il suo letto e va a dormire su un materasso posato per terra, nella camera dei suoi genitori. Vi si corica, verso le dieci. Dopo essersi tolto la gamba di legno, si stende addosso un semplice mantello, troppo corto per coprire tutto il corpo, perché ha prestato la sua coperta al soldato, poi si addormenta…

Due piedi e due gambe
Tra le dieci e mezzo e le undici, la madre di Miguel entra nella camera, con in mano una lampada a olio. Essa avverte subito «un profumo, un odore soave». Sorpresa, solleva la lampada: dal mantello che copre suo figlio profondamente addormentato sporgono non uno, ma due piedi, «l’uno sull’altro, incrociati».
Colta dallo stupore, va a cercare il marito; questi solleva il mantello: non c’è dubbio, sono proprio due piedi, ognuno all’estremità di una gamba! Non senza difficoltà, riescono a svegliare il figlio. Prendendo a poco a poco coscienza di quello che è avvenuto, Miguel ne è meravigliato; le prime parole che gli vengono sulle labbra sono per chiedere a suo padre che «gli dia la mano e che lo perdoni per le offese che ha potuto fargli».
Questa reazione spontanea e immediata di umiltà, in lui che è il beneficiario di un prodigio, è un segno molto forte dell’origine divina di quest’ultimo. Quando gli si chiede, con emozione, se ha «qualche idea del modo in cui questo è avvenuto», il giovane risponde che non ne sa nulla, ma che quando è stato scosso dal suo sonno, «stava sognando che si trovava nella Santa Cappella di Nostra Signora del Pilar e che si ungeva la gamba tagliata con l’olio di una lampada, come aveva l’abitudine di fare».
Egli tiene subito per certo che è Nostra Signora del Pilar ad avergli riportato e rimesso a posto la gamba tagliata. Davanti al notaio, il lunedì seguente, i genitori affermano a loro volta di «giudicare e tenere per verità che la Vergine Santissima del Pilar ha pregato suo Figlio, Redentore nostro, e che da Dio ha ottenuto questo miracolo, grazie alle preghiere di Miguel, o perché tali erano le Sue vie misteriose».
Riavutosi dalla sua prima emozione, il giovane comincia a muovere e a palparsi la gamba. Osservandola, si scoprono su questa dei segni di autenticità: il primo è la cicatrice lasciata dalla ruota del carro che ha fratturato la tibia; vi è anche la traccia dell’asportazione di una grossa cisti, quando Miguel era ancora piccolo; due graffi profondi lasciati da una pianta spinosa; infine, le tracce del morso di un cane sul polpaccio.
Miguel e i suoi genitori hanno quindi la certezza che «la Vergine del Pilar ha ottenuto da Dio Nostro Signore la gamba che era stata sepolta più di due anni prima». Essi lo dichiareranno sotto giuramento e senza esitazione, davanti ai giudici di Saragozza.
Un giornale del tempo, L’Aviso Histórico, scrive in data 4 giugno 1640, il giorno prima dell’apertura del processo, che, nonostante le ricerche fatte nel cimitero dell’Ospedale di Saragozza, la gamba sepolta non è stata ritrovata: la buca che la conteneva era vuota!

Tutti sono sbalorditi
Fin dall’alba del 30 marzo, venerdì della settimana di Passione, ricorrenza della Beata Vergine Addolorata, l’incredibile notizia si diffonde in tutto il villaggio. Don Juseppe Herrero, vicario della parrocchia, arriva dai Pellicer, segito dal “justicia” che riunisce le funzioni di giudice di pace e di responsabile dell’ordine pubblico, dal sindaco e dal suo vice, dal notaio reale e da due medici di Calanda. Si forma una processione per accompagnare il giovane miracolato alla chiesa parrocchiale, dove lo aspetta il resto degli abitanti. Tutti, dicono i documenti, sono sbalorditi vedendolo di nuovo con la sua gamba destra, mentre l’avevano visto con una sola gamba fino alla sera precedente. Il miracolato si confessa, e riceve la santa Comunione nel corso della Messa di ringraziamento celebrata dal vicario.
Tuttavia, la gamba non ha, all’inizio, un bell’aspetto: colore violaceo, dita del piede ricurve, muscoli atrofizzati e, soprattutto, lunghezza inferiore a quella della gamba sinistra di alcuni centimetri. Ci vogliono tre giorni perché la gamba riprenda il suo aspetto normale, con la sua scioltezza e la sua forza.
Queste circostanze, diligentemente osservate e studiate nel corso del processo, confermano che non si tratta di un numero di illusionismo; esse provano che la gamba restituita è proprio la stessa di quella che era stata sepolta due anni e cinque mesi prima, a più di 100 chilometri di distanza…
Nel mese di giugno seguente, i testimoni affermano davanti ai giudici di Saragozza che Miguel «può appoggiare il tallone a terra, muovere le dita del piede, correre senza difficoltà». Si constata inoltre che, a partire dalla fine di marzo, l’arto ricuperato si è«allungato di quasi tre dita», e che è attualmente lungo quanto l’altro. Un solo segno non scompare: la cicatrice che forma un cerchio rosso nel punto in cui il pezzo di gamba si è riunito all’altro. È come un marchio indelebile del prodigio.
«Bisognerebbe quindi che venisse constatato un miracolo da un certo numero di persone sensate che non avessero alcun interesse alla cosa», affermava Voltaire. «E bisognerebbe che le loro testimonianze fossero registrate in debita forma: in effetti, se noi abbiamo bisogno di tante formalità per atti come l’acquisto di una casa, un contratto di matrimonio, un testamento, quante non ne occorrerebbero per appurare delle cose naturalmente impossibili?» (Voce “Miracle” del suo Dizionario filosofico). Ora, cent’anni prima, è avvenuta precisamente la stesura di un simile atto a Calanda. Il lunedì 1° aprile 1640, quarto giorno dopo il prodigio, il parroco e un prete vicario di Mazaleón, villaggio alla distanza di 50 km, si spostano con il notaio reale del luogo per verificare la realtà dei fatti e ne stendono un atto ufficiale.

Nessuna voce discordante
Alla fine dello stesso mese di aprile, la famiglia Pellicer decide di andare a ringraziare la Vergine del Pilar. A Saragozza, il Comune chiede che si apra un processo, perché sia fatta tutta la luce possibile sull’avvenimento. Il 5 giugno, quindi due mesi e una settimana dopo l’evento, si apre ufficialmente il processo canonico. Esso è pubblico e non a porte chiuse. Vi prendono parte più di cento persone di svariate condizioni sociali.
Contro l’affidabilità di questo processo, non si è mai sollevata nessuna voce discordante. Il 27 aprile 1641, l’arcivescovo pronuncia solennemente la sua sentenza. Egli dichiara «mirabile e miracolosa» la restituzione della gamba destra, precedentemente amputata, di cui ha beneficiato Miguel Juan Pellicer, nativo di Calanda.
Il miracolo di Calanda, impensabile eppure perfettamente attestato, è di natura tale da confortare la nostra fede nell’esistenza di un mondo invisibile, quello di Dio e del suo Regno eterno, al quale siamo chiamati a partecipare in quanto figli adottivi. È questa la realtà suprema ed eterna, alla quale dobbiamo riferire tutte le altre, come un uomo prudente ordina i mezzi al fine.
I miracoli ci rivelano soprattutto il Cuore amante e misericordioso di Dio per l’uomo, in particolare per l’uomo che soffre, che è nel bisogno, che implora la guarigione, il perdono e la pietà. Essi contribuiscono a fondarci in una speranza indefettibile nella misericordia di Dio e ci incoraggiano a dire spesso “Gesù, confido in Te!”.

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Perché a volte abbiamo difficoltà a dire di NO?

Posté par atempodiblog le 16 septembre 2015

Un dono di amicizia implica un “sì” all’amico e implica un “no” a quanto non è compatibile con questa amicizia.

Benedetto XVI
no no

Perché a volte abbiamo difficoltà a dire di NO?
Ecco i motivi che ci portano a dire “SÌ”, anche contro la nostra volontà
Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti
Tratto da: Aleteia

Ho deciso di scrivere questo articolo pensando alle persone che dicono “SÌ” a qualcuno anche quando questo “SÌ” comporta qualche conseguenza negativa. Un giorno, un’amica mi ha invitato a una festa che si svolgeva in un posto le cui caratteristiche non mi facevano sentire a mio agio. No, non volevo andarci, non volevo stare con quelle persone – non è che sia antisociale, ma credo che a volte abbiamo bisogno della nostra privacy, di un po’ di tempo per stare da soli. Io con me stessa e nessun altro.

Avrei voluto dire “NO”, “NO, non voglio andare a quella festa!”, ma ci sono andata. E perché? Quando siamo arrivate è accaduto tutto ciò che avevo immaginato. Non mi sono sentita bene tutta la sera e non mi sono neanche goduta la festa. Ero di malumore, con il mal di testa. L’unica cosa a cui pensavo era a quando ce ne saremmo andate. E il giorno dopo ho iniziato a chiedermi perché avevo detto “SÌ” quando avrei potuto dire semplicemente “NO”.

Dopo quel giorno ho cominciato ad osservare alcune persone che dicevano sempre “SÌ” pur volendo dire “NO”, e sono arrivata a una mia conclusione: a volte diciamo “SÌ” per non ferire un amico o per non perdere l’immagine di persona cool. Diciamo di “SÌ” a quel figlio che resta accigliato, quello che fa un “ricatto emotivo” per ore (chi non lo ha mai fatto da bambino?)

Diciamo “SÌ” al momento di prestare quell’oggetto che in realtà non vorremmo prestare. Diciamo “SÌ” per andare da qualche parte quando l’unica cosa che avremmo voluto è rimanere a casa, a guardare quel film o quella partita di calcio. Fermatevi un attimo: quante volte avete già detto “SÌ” quando volevate dire “NO”?

Non posso tralasciare la psicologia per spiegare questo nostro comportamento. Esistono varie teorie, ma preferisco basarmi sulla teoria cognitiva comportamentale.

Ho già parlato altre volte delle “credenze centrali negative”, formate a partire dalle nostre esperienze, soprattutto quelle vissute durante l’infanzia. Il modo in cui interagisco con il mio ambiente, con le persone che mi circondano, fa sì che io crei automaticamente pensieri o convinzioni, positivi o negativi.

Ad esempio, un bambino che ha sentito molte volte la frase “Non ci riesci”, “Non sei capace”, probabilmente crescerà sviluppando la convinzione negativa di incapacità, spesso non percepita. Poi, in qualche momento della sua vita, si sentirà incapace di svolgere qualche compito. Un altro esempio è una persona che in un certo momento della vita è stata o si è sentita respinta. Probabilmente quella persona si sentirà rifiutata in altri aspetti, generalizzando fino a pensare che sarà sempre rifiutata.

Mi baserò su questa convinzione per spiegare uno dei motivi che fanno sì che le persone abbiano difficoltà a dire “NO”, ma esistono altre convinzioni che contribuiscono certamente alla cosa. Posso dire “SÌ” per aver paura di essere rifiutata, perché voglio usare strategie compensatorie (se assecondo, poi sarò amata/ho bisogno di fare questo per essere accettata/se dico “SÌ” quella persona mi vorrà più bene/ se dico “SÌ” lo conquisterò, …)

Sono solo alcuni esempi. Sono pensieri come questi, automatici, che spesso lasciamo passare inosservati ma influenzano totalmente la nostra vita e le nostre scelte.

Se vi siete identificati con il tema, vi invito a compiere una riflessione: ogni volta che pensate di dire “SÌ” a qualcuno quando invece vorreste dire “NO”, pensate in primo luogo se esiste qualche convinzione negativa, e se ce n’è qualcuna affrontatela; non permettete che qualcun altro prenda in mano le redini della vostra felicità.

Quante volte ci lasciamo sfuggire delle opportunità per il fatto di permettere che questi pensieri disfunzionali ci dominino? Non temete! Se avete qualche pensiero negativo o vi siete identificati con qualcuna di queste convinzioni, condivido con voi una delle mie citazioni preferite:

“Il pensiero positivo può venire naturalmente ad alcuni, ma può anche essere imparato e coltivato. Cambia i tuoi pensieri e cambierai il tuo mondo”
(Norman Vicent  Peale)

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2e2mot5 dans Diego Manetti La storia dei “no” e dei “sì” della monaca di Monza

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8 settembre: Natività della Beata Vergine Maria

Posté par atempodiblog le 8 septembre 2015

8 settembre: Natività della Beata Vergine Maria

compleanno madonna

La Vergine Maria, fin dal primo momento della sua esistenza terrena, è la stella che illumina la notte dell’umanità, la lucerna che rischiara le tenebre di cui le creature hanno voluto —e vogliono— circondarsi a causa del peccato. Con la sua apparizione nel mondo, duemila anni fa, un lume di purezza e di bontà si accese sulla terra. Come l’aurora è annuncio della venuta del nuovo giorno, “così Maria fin dalla sua concezione immacolata ha preceduto la venuta del Salvatore, il sorgere del sole di giustizia nella storia del genere umano”. Da questa Vergine Immacolata nascerà la Stirpe che schiaccerà la testa del Serpente, Cristo Signore Nostro, che è sceso dal Cielo per riscattarci dal peccato e darci la sua stessa Vita, con lo Spirito Santo, affinché noi viviamo per Dio.

Per questa ragione, perché fosse degna di arrivare a essere la Madre di Dio, Maria fu concepita senza macchia di peccato originale, preservata immune da qualsiasi colpa personale, per quanto lieve potesse sembrare, e arricchita con ogni specie di doni e grazie dallo Spirito Santo. Quanto è meravigliosa Nostra Madre, figlie e figli miei! “Più di Te, soltanto Dio!”, ci piace ripeterle, sapendo che —come insegna la tradizione della Chiesa— de Maria numquam satis, mai potremo lodare ed esaltare la Vergine Santissima come Ella merita. Osiamo dire —perché ci ascolta!—: Madre, libera le tue figlie e i tuoi figli —tutti e ciascuno— da ogni macchia, da tutto ciò che ci allontana da Dio, anche a costo di soffrire, anche a costo della vita.

Beato Álvaro del Portillo

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Comunioni sacrileghe

Posté par atempodiblog le 28 août 2015

La mia vita nel cuore della Trinità - Diario della beata Elisabetta Canori Mora

ALLA SOMMITÀ DELLA GLORIA DI DIO

Comunioni sacrileghe dans Beata Elisabetta Canori Mora Beata-Elisabetta-Canori-Mora
Immagine tratta da: Mis ilustraciones

Comunioni sacrileghe
Mi portai in questa medesima giornata del 27 dal mio padre spirituale, il quale mi domandò come avevo passato la notte del santo Natale, e mi obbligò di manifestargli quanto mi era accaduto nello spirito. Io, per obbedienza, gli comunicai il surriferito fatto, il medesimo mi domandò se mi ero ricordata di raccomandare i poveri peccatori, io gli risposi: «Padre mio, mi sono dimenticata, in quei momenti, affatto di tutti; ho perfino dimenticato che gli uomini, che vivono in questo mondo, fossero capaci di offendere Dio, mentre in quei momenti altro non conoscevo che amore».

Il suddetto padre mi gridò e mi disse: «Così voi amate il vostro prossimo, che ve ne siete dimenticata? Io», mi disse, «vi comando di fare per i peccatori una forte preghiera al Signore, acciocché li illumini».

Con umile sommissione gli risposi che avrei fatto quanto mi comandava, e che da miserabile peccatrice, avrei fatto subito, per questi, la preghiera. Difatti, all’istante, mi portai in una chiesa, dove si celebrava la messa cantata, e pregai il Signore per i poveri peccatori, come mi aveva comandato il mio padre spirituale. Fatta la preghiera, così sento dirmi: «Mira, o figlia, come viene oltraggiato il mio amore da questi uomini ingrati, che sacrilegamente hanno la temerarietà di ricevermi, non per ossequiarmi, ma per dileggiarmi».

E difatti, fisso l’interno sguardo, e vedo, con somma mia pena ed orrore, tanti uomini con la bocca aperta e molto spalancata, con un palmo di lingua fuori della bocca, con i capelli dritti, con gli occhi stravolti e spaventati, a guisa di spiritati, sopra la loro lingua avevano l’impressione della sacrosanta particola, il loro aspetto era tanto spaventevole e brutto che faceva orrore; a questa vista così funesta, io ebbi proprio a morire dalla pena e dallo spavento, che mi cagionò un male tanto grande nell’anima e nel corpo, che credevo di morire in chiesa; ma, per misericordia di Dio, dopo qualche poco di tempo, potei tornare alla mia casa, accompagnata da una delle mie figlie, che si credeva di non potermici condurre, perché parevo un cadavere, per il gran male che avevo sofferto.

Il resto della giornata lo passai un poco in piedi, e un poco sopra il letto, non potendo reggere la grave afflizione e travaglio di spirito, al riflesso delle tante e gravi offese che riceve il Signore da tanti uomini ingrati.

Tre giorni restò afflitto il mio spirito e cagionevole ancora il mio corpo per questo fatto, ma poi il Signore, per sua infinita bontà, tornò a dare la calma e la pace al mio spirito, col dissipare questa funesta vista, così cessò la grave mia afflizione. E così potei iniziare il nuovo anno 1822 in somma tranquillità di spirito, non avendo altro pensiero che di perfezionare la povera anima mia con l’acquisto delle sante virtù, non avendo altro desiderio che di prepararmi alla morte. Bramando di lasciare questa spoglia mortale, il mio spirito altro non cerca che di tornare al suo principio e al suo fine, che è Dio: questo desiderio mi fa perdere ogni altro pensiero, e ogni altro qualunque desiderio. Mi pare propriamente di vivere in questo mondo in un duro esilio, mi pare di essere fuori del mio centro, altro non desidero che di terminare i miei giorni nella pace del Signore, per potermene tornare donde ne ebbi origine.

Ah, sì, al mio Dio, per poterlo amare e incessantemente ringraziare e benedire per tutta l’interminabile eternità, affidata alla sua divina grazia e nei suoi infiniti meriti.

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Le vie di Santa Caterina a Siena: itinerario tra arte e fede

Posté par atempodiblog le 25 août 2015

Percorso nei luoghi simbolo della santa
Le vie di Santa Caterina a Siena: itinerario tra arte e fede

Tratto da: Turismo in Toscana

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Siena, un percorso guida il visitatore alla scoperta dei luoghi simbolo della vita di Caterina attraverso un tragitto interamente pedonale e percorribile sia singolarmente che in gruppo. Grazie ad elementi grafici identificativi dei singoli luoghi, l’utilizzo di una cartellonistica coordinata e l’utilizzo di strumenti multimediali, è possibile seguire con facilità l’itinerario proposto.

I touch screen multimediali che sono stati allestiti in ciascuna sede del percorso, forniranno informazioni relative al luogo in cui ci si trova collegandosi in rete al sito www.viaesiena.it, al quale si potrà accedere anche attraverso il QR-code che sarà inserito in tutta la cartellonistica coordinata.

Un percorso che permetterà di conoscere la straordinaria figura di santa Caterina, immergendosi nella Siena trecentesca e scoprendo i luoghi segnati dal suo passaggio:

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1- Basilica di San Domenico: Un’imponente basilica gotica, strettamente legata alla figura di Caterina: al suo interno ella visse momenti salienti della sua eccezionale esperienza mistica. Nella Cappella dedicata alla santa si può osservare la più importante delle sue reliquie, la sacra testa.

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2- Santuario Casa di Santa Caterina: Un complesso che permetterà di entrare nell’intimità di Caterina, nella sua casa natale, arricchita nel corso dei secoli di opere d’arte e trasformata in un vero e proprio Santuario: la visita attraverso i vari ambienti consentirà di comprendere le origini e la formazione della santa.

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3- Fontebranda: Collocata nel quartiere dove nacque Caterina, è la più antica delle fonti della città e un luogo di enorme importanza per la vita del popolo senese dell’epoca: oltre a fornire acqua ai cittadini, garantiva l’esistenza di numerose attività, tra le quali la tintoria del padre della santa.

4- Salita del Costone: Il luogo che fu teatro della prima visione di Caterina, avvenuta all’età di soli sette anni: un episodio che segnerà profondamente la sua vita futura. La memoria di quella visione è tramandata dall’affresco collocato lungo la via.

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5- Battistero e scalinata di San Giovanni: Un edificio sacro di grande interesse, annesso alla Cattedrale. Qui Caterina venne battezzata, come tutti i senesi per secoli. Lungo la scalinata che porta alla soprastante piazza del Duomo, una piccola croce su uno dei gradini segna il punto in cui la santa cadde durante una tentazione del demonio.

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6- Oratorio di Santa Caterina della Notte: Un luogo suggestivo, in cui Caterina pregava e faceva penitenza insieme ai confratelli dell’antica compagnia di San Michele Arcangelo. Sul lato sinistro dell’oratorio si trova l’angusta celletta in cui ella riposava dopo aver vegliato sui malati dello Spedale.

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La grandezza e la fama di santa Caterina hanno travalicato i secoli, tanto che è stata proclamata Patrona d’Italia, Dottore della Chiesa e Patrona d’Europa.

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2e2mot5 dans Diego Manetti Passeggiando per Siena

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Card. Stella: Francesco vuole sacerdoti misericordiosi e vicini al popolo

Posté par atempodiblog le 6 août 2015

Card. Stella: Francesco vuole sacerdoti misericordiosi e vicini al popolo
Un pastore secondo il cuore di Dio. La Chiesa celebra [il 4 agosto] la memoria di San Giovanni Maria Vianney, patrono di tutti i parroci del mondo. Ancora oggi, a 150 anni dalla morte, il Santo Curato d’Ars è una figura di grande attualità per i sacerdoti e in molti aspetti ricorda lo stile pastorale di Papa Francesco. Alessandro Gisotti [di Radio Vaticana] ne ha parlato con il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il Clero:

Card. Stella: Francesco vuole sacerdoti misericordiosi e vicini al popolo dans Fede, morale e teologia Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

R. – A me sembra che il Curato d’Ars sia una figura che ormai è entrata nella vita della Chiesa e soprattutto che dovrebbe incidere con la sua propria storia, con il suo insegnamento nella vita dei sacerdoti di oggi. In che senso? E’ stato un pastore estremamente vicino al gregge, nel senso che ne ha condiviso la storia, ne ha condiviso un po’ anche le povertà, che erano tipiche di quel tempo. E’ stato un grande esempio per questo gregge, soprattutto con la sua semplicità di vita, con la sua povertà personale. Semplicità e povertà sono due virtù che hanno una grande attualità, anche per il mondo di oggi. Il sacerdote che si presenta umile, povero, semplice, direi che ha una marcia in più per farsi capire!

D. – San Giovanni Maria Vianney era un parroco che viveva in mezzo al popolo di Dio. Pensiamo anche alle tante ore passate nel confessionale. Papa Francesco ricorda un po’ con il suo stile pastorale proprio la figura del Curato d’Ars…
R. – Direi che uno dei messaggi sostanziali, importanti di Papa Francesco sia il messaggio sulla misericordia. Ha esortato i preti a diventare, ad essere dei confessori con il cuore aperto all’accoglienza dei peccatori. Proprio il Curato d’Ars ci ha insegnato quest’arte di ricevere i peccatori con cuore aperto. La cosa unica è che in questo stesso ambito il Papa ci insegna a prendere anche noi, come sacerdoti, l’abitudine della Confessione. Abbiamo visto il Papa inginocchiarsi, il marzo scorso, durante la liturgia penitenziale, davanti al suo confessore, nella Basilica di San Pietro. Io penso che sia un’immagine che ci deve essere molto cara. Il Papa ha detto – e lo ripete sempre – “Io sono un peccatore”. E ogni peccatore ha bisogno di essere purificato e di incontrare la misericordia del Signore. Io direi che un grande esempio che avvicina il Santo Curato d’Ars e Papa Francesco sia la predica sulla misericordia e l’esercizio della misericordia per gli altri e per se stessi.

D. – L’Anno della misericordia è vicino. Quali frutti potrà dare questo anno così speciale, in particolare ai sacerdoti nel loro ministero?
R. – I sacerdoti oggi lavorano tanto. Quindi vorrei che questo Anno della misericordia portasse ulteriore lavoro ai sacerdoti, ma non un lavoro burocratico, non un lavoro amministrativo, ma un lavoro veramente sacerdotale, un lavoro proprio nel senso profondo di ricevere i frutti di questo incontro con Dio nella vita liturgica, nel Sacramento della riconciliazione, ed anche una necessità di approfondire la fede. Confido che l’Anno giubilare porterà lavoro ai sacerdoti, però un vero lavoro sacerdotale, che li affatichi di più, nel senso di una fatica salutare. Fatica, impegno, sacrificio nel senso che Dio vuole e che il Papa desidera.

D. – Qual è la cosa che, anche considerando le conversazioni che ha potuto avere con il Santo Padre, sta più a cuore a Papa Francesco riguardo ai sacerdoti?
R. – Io ricordo un incontro con il Papa qui in Congregazione, lo scorso mese di maggio, quando il Papa disse: “Si parla tanto della riforma della Curia Romana – il  Papa stava visitando i dicasteri della Curia Romana – ma la riforma della Curia è legata ad una riforma della Chiesa, ad una rinnovata riscoperta del Vangelo. E a questo rinnovamento della Chiesa, si arriva solamente attraverso il ministero dei sacerdoti”. Ecco, quindi torniamo alla questione di sempre: il peso dei sacerdoti nella vita ecclesiale. Il Papa desidera molto l’autenticità della vita. Il Papa ci dà un grande esempio di vicinanza al popolo cristiano. Il sacerdote ha in Papa Francesco un vero modello, un modello vicino. C’è nella vita di Papa Francesco, nel suo stile di essere vescovo e di essere sacerdote, un qualche cosa che accomuna e ricorda a tutti i sacerdoti della Chiesa alcune esigenze primordiali, sostanziali: vita di preghiera, disciplina personale, dedizione apostolica, amore per il gregge, stare con il proprio gregge… pastori del gregge, fedeli, umili, semplici. La gente ascolta ciò che diciamo, guarda come agiamo, le nostre azioni, ma soprattutto considera ciò che siamo!

Divisore dans San Francesco di Sales

La misericordia e il perdono spalancano le porte dei cuori
Mi ricorderò sempre di come ho conquistato un’anima. Vi racconto questa stupidaggine: riguarda un ragazzo della Parrocchia. C’erano dei ragazzi di Parrocchia che erano dei somarelli a scuola e non avevano voglia di studiare a cui dissi “sentite ragazzi faccio un fioretto vi farò delle lezioni di latino” nonostante tutto il lavoro che avevo da fare, però un paio di volte alla settimana facevo la lezione a sei o sette ragazzi. Un giorno uno di loro si presentò alla lezione di latino con il suo cane e, quest’ultimo, continuava ad abbaiare mentre gli altri ragazzi ridevano a questa scenetta… “ma scusa”, dico, “porta fuori il cane”, non l’avessi mai detto! Ha preso il cane e se n’è uscito; non veniva più in Chiesa. Non dovevo dire una cosa del genere. Sapete cosa ho fatto? Gli ho telefonato e gli ho detto “ti chiedo scusa, sono stato maleducato”.

Facendo questo ho conquistato un’anima, se non lo avessi fatto (e avevo mille ragioni per non farlo) l’avrei persa. Questo è un piccolo esempio di come nella vita familiare la capacità di perdonare è fondamentale, oggi. La misericordia e il perdono ci spalancano le porte dei cuori. Sono quei tratti di santità che hanno una valore sociale e familiare incredibili. Sono quelle che Gesù ci dice: “siate misericordiosi come il Padre Celeste”, “nella misura in cui giudicate sarete giudicati”, “perdonate e vi sarà perdonato”, “date e vi sarà dato”.

di padre Livio Fanzaga – Radio Maria
Per approfondire  Freccia dans Viaggi & Vacanze La misericordia e il perdono

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Maria Elena Boschi, Camillo Langone e un problema serio

Posté par atempodiblog le 6 août 2015

Maria Elena Boschi, Camillo Langone e un problema serio
Camillo Langone sostiene che Maria Elena Boschi è una “mangiaostie a tradimento”. Al di là dei toni giornalistici adoperati, il problema è molto, molto serio.
di Stefano Fontana – Vita nuova. Settimanale cattolico di Trieste

Una dottrina propria dans Alessandro Gnocchi fkqwyh

Il ministro per i rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi, fedelissima del premier Matteo Renzi, partecipando alla trasmissione “Sette” ha detto di essere cattolica ma di avere sulle unioni civili un parere diverso da quello della Chiesa ufficiale e di essere favorevole quindi ai matrimoni tra omosessuali. Sul quotidiano “Il Foglio”, Camillo Langone ne ha parlato nei toni che riportiamo qui sotto:

“Mangiaostie a tradimento Maria Elena Boschi, ma perché la domenica invece di fare la comunione non fai come me, che della comunione sono indegno siccome cattivo, e ti ingolli una tigella, che è tonda uguale, oppure una toscanissima schiacciata? “Vengo dall’esperienza delle Giornate mondiali della Gioventù, sono cattolica, ma sulle unioni civili ho una posizione diversa rispetto a quella ufficiale della Chiesa” hai detto a Sette.

No, Maria Elena, non sei cattolica, sei un cuculo della chiesa cattolica, un parassita della chiesa cattolica. Non esistono posizioni non ufficiali della Chiesa, la Chiesa è il corpo di Cristo, chi avvalora posizioni non ufficiali della Chiesa sta macellando il corpo del Cristo che pregò affinché i suoi discepoli fossero “una cosa sola”. Tu sei tradimento e divisione, Maria Elena. Tu sei il soldato romano che si gioca a dadi la tunica di Gesù crocefisso, Maria Elena. Tu sfrutti una cosa che non è tua e per la quale non hai sofferto, Maria Elena. “Io sarei favorevole al matrimonio omosessuale”. Puoi essere favorevole anche al matrimonio fra uomini e criceti però devi esserlo da apostata, Maria Elena. Cristo disse all’adultera, colpevole soltanto di essere stata con un uomo, di non peccare più, e quindi nessun cattolico, nessun cristiano può esortare a peccare ancora, a peccare fino alla fine dei propri giorni, e figuriamoci se parte di questo peccato è a carico dei contribuenti (vedi reversibilità della pensione per le coppie omosessuali), di bambini incolpevoli (vedi adozioni per le coppie omosessuali) e di donne povere (vedi noleggio uteri per le coppie omosessuali). Che poi la tigella col lardo è così buona”.

Il problema è serio. Un cattolico può dirsi pubblicamente cattolico e, anzi, vantare questa sua cattolicità – “Vengo dall’esperienza delle Giornate mondiali della Gioventù, sono cattolica” – se nega valore a principi di fede e di morale fondamentali della religione cattolica, attestati dalle Scritture e continuamente ribaditi dal Magistero? (quella che la Boschi chiama “Chiesa ufficiale” in verità è il Magistero Ecclesiastico – non c’è una Chiesa ufficiale e una non ufficiale). Il buon senso direbbe di no.

Concedendo a tutti una pur non meritata buona fede, una motivazione di un simile comportamento potrebbe essere la seguente: ci sono delle verità di fede a cui tutti i credenti devono aderire, ma questi problemi della sessualità, della famiglia, delle unioni civili appartengono ad ambiti che sono lasciati alla coscienza individuale. Questa motivazione, però, è sbagliata. La dottrina sul matrimonio è stata stabilita direttamente e chiaramente da Gesù stesso. Egli ha elevato il matrimonio naturale a sacramento e così facendo ha confermato il matrimonio anche naturale. E’ competenza della Chiesa non solo l’ambito di fede ma anche quello della morale, compresa la morale naturale. Un cattolico non solo non può non credere che il matrimonio sia un sacramento, ma nemmeno che il matrimonio tra uomo e donna sia unico e indissolubile sul piano naturale. Le questioni in cui la Boschi rivendica la sua libertà di coscienza non sono tali.

Una seconda motivazione, in bocca questa non tanto alla nostra Maria Elena ma a tanti cattolici che continuamente la ribadiscono, è che, pur stabiliti i punti di principio, bisogna comunque dialogare e non imporli. Niente lotte, quindi. Anche questa motivazione è piuttosto puerile. Se il Parlamento sta approvando una legge profondamente sbagliata, ossia disumana, e lo farà entro un certo tempo, stiamo lì a discutere o facciamo una battaglia per impedire l’approvazione di quella legge? Ci sono i momenti e i luoghi del dialogo, ci sono i momenti della lotta civile e rispettosa, ma lotta. Altrimenti i cattolici dovrebbero solo organizzare convegni e tavoli di confronto. Eppoi, quale dialogo se, come fa la signora Boschi, abbiamo già rinunciato in partenza alle nostre verità? Il dialogo diventa l’alibi per pensarla diversamente dalla “Chiesa ufficiale” e continuare a dirsi cattolici lo stesso. Perché, poi, se questa etichetta ormai non frutta granché a livello di voti e di consenso?

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Una dottrina propria
La maggior parte dei cattolici ormai oggi, in totale buona fede, pensando di continuare ad essere cattolici, dicono “mah, si la Chiesa… sono d’accordo su quasi tutto, però su questa cosa per esempio no”, sulla questione dei divorziarti-risposati no, oppure sulla questione dell’aborto no, oppure sulla questione del divorzio no, oppure sulla questione dell’eutanasia no, oppure su tutte queste cose insieme no. Quindi su tutta una serie di questioni i cattolici si fanno una morale, una teologia, una dottrina propria. E’ ovvio che chiunque dissenta in qualche cosa che riguarda la struttura fondamentale della fede, della dottrina… non è più cattolico, però questo sembra  difficile da far capire oggi.
Spesso le persone più disorientate dalla ferma dottrina che sta ribadendo Benedetto XVI sono tanti cattolici, i quali non si rendono conto di come un Papa possa dire delle cose che non vanno discusse, vanno imparate. Questo verbo “imparare” piace molto poco.

Alessandro Gnocchi – Radio Maria

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70 anni dopo Hiroshima

Posté par atempodiblog le 6 août 2015

70 anni dopo Hiroshima
La città di Hiroshima ha commemorato oggi con un minuto di silenzio il 70esimo anniversario dal lancio della bomba atomica sulla città giapponese da parte degli Stati Uniti
di Luca Romano – Il Giornale

70 anni dopo Hiroshima dans Articoli di Giornali e News 2vmc5me

La città di Hiroshima ha commemorato oggi con un minuto di silenzio il 70esimo anniversario dal lancio della bomba atomica sulla città giapponese da parte degli Stati Uniti, in una cerimonia alla quale hanno preso parte i rappresentanti di un centinaio di Paesi.

Migliaia di persone hanno rispettato un minuto di silenzio nel Parco Memoriale della Pace alle 8.15 ora locale, nel momento esatto in cui, sette decadi fa, un aereo americano ha sganciato la prima bomba nucleare della storia, giusto a pochi metri di distanza da dove è avvenuta la celebrazione. Tra i presenti l’ambasciatrice americana in Giappone, Caroline Kennedy, e il sottosegretario di Stato americano per il controllo delle armi e la sicurezza internazionale, Rose Gottemoeller, rappresentanti di altre potenze come l’Inghilterra, la Francia, la Russia.

Dopo il minuto di silenzio, il sindaco della città, Kazumi Matsui, ha chiesto al primo ministro giapponese, Shinzo Abe, e ad altri leader mondiali, tra i quali il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, che “lavorino instancabilmente per ottenere un mondo libero dagli armamenti nucleari ».

Nel suo discorso, Matsui ha affermato che il vertice dei leader del G7 che si celebra l’anno prossimo nella località costiera di Shima offrirà “la perfetta opportunità per dare un messaggio congiunto sull’abolizione degli armamenti nucleari”. Inoltre, il sindaco ha invitato Obama a “visitare una delle città bombardate, ascoltare con le proprie orecchie gli ‘hibakusha’ (nome che è stato dato in Giappone ai sopravvissuti degli attacchi nucleari, ndr) e riflettere sulla realtà dell’armamento atomico”. Il sindaco di Hiroshima ha anche difeso il carattere pacifista della costituzione giapponese, dopo che il Governo centrale aveva spinto verso una controversa reinterpretazione della carta per promuovere un protocollo più attivo delle forze di autodifesa a livello globale. Il Giappone “deve promuovere un cammino verso una vera pace in tutto il mondo, attraverso l’esempio che offre la sua Costituzione”, ha dichiarato Matsui, lui stesso figlio di un ‘hibakusha’.

“Settant’anni dopo, Hiroshima e Nagasaki restano il manifesto più potente dell’atrocità della guerra. Anche nei momenti più difficili della contrapposizione Est-Ovest, quell’attacco nucleare è stato un monito assoluto a evitare di precipitare nello stesso orrore, fino a far prevalere il coraggio della pace”.

315fyfr dans Fede, morale e teologia

2e2mot5 dans Diego Manetti Il Santo Rosario e la bomba atomica di Hiroshima

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La divina unione tra la Madonna e il glorioso San Giuseppe

Posté par atempodiblog le 1 août 2015

Il santo proposito di San Giuseppe

Il fatto che l’Evangelista, pur evidenziando il proposito di verginità di Maria, la presenti ugualmente come sposa di Giuseppe costituisce un segno della attendibilità storica di ambedue le notizie. Si può supporre che tra Giuseppe e Maria, al momento del fidanzamento, vi fosse un’intesa sul progetto di vita verginale. Del resto, lo Spirito Santo, che aveva ispirato a Maria la scelta della verginità in vista del mistero dell’Incarnazione e voleva che questa avvenisse in un contesto familiare idoneo alla crescita del Bambino, poté ben suscitare anche in Giuseppe l’ideale della verginità.

Giovanni Paolo II

La divina unione tra la Madonna e il glorioso San Giuseppe dans Fede, morale e teologia Giovanni-Paolo-e-Maria

La divina unione tra la Madonna e il glorioso San Giuseppe

Ora qual divina unione tra nostra Signora ed il glorioso san Giuseppe! Unione, che faceva, che quel bene de’ beni eterni nostro Signore, fosse ed appartenesse a san Giuseppe, così come apparteneva a Maria, non secondo la natura, che aveva presa nelle viscere della nostra gloriosa Vergine; natura, che era stata formata dallo Spirito Santo del purissimo sangue di Lei; ma secondo la grazia, la quale lo rendeva partecipe di tutti i beni della sua cara sposa, e la quale faceva che egli andasse meravigliosamente crescendo nella perfezione; e ciò per la comunicazione continua, che aveva con nostra Signora, la qual possedeva tutte le virtù in così alto grado, che nessun altra né candida, né pura creatura vi può giungere.

Nientedimeno il glorioso san Giuseppe era quello, che maggiormente vi si approssimava; e siccome si vede uno specchio ricevere i raggi del sole dal riverbero d’un altro specchio, e rimandarli cosi al vivo che non si potrebbe quasi giudicare qual sia quello, che li riceve immediatamente dal sole, o quello, che non li riceve se non per riflesso; parimente nostra Signora era come un purissimo specchio opposto ai raggi del Sole di giustizia: raggi, che apportavano nell’anima sua tutte le virtù nella loro perfezione; quali perfezioni, e virtù facevano un riflesso così perfetto in san Giuseppe, che pareva quasi  ch’egli fosse così perfetto, o che avesse le virtù in sì alto grado, come le aveva la Vergine santissima.

Ma in particolare (per non deviare dal nostro proposito) in qual grado pensiamo noi che avesse la verginità, quella virtù, che ci rende simili agli angioli? Se la santissima Vergine non fu solamente vergine tutta pura, e tutta candida; ma come canta la santa Chiesa nel responsorio delle lezioni dei mattutini, santa ed immacolata verginità, cioè che era la stessa verginità: quanto pensiamo noi che quel che fu eletto da parte dell’eterno Padre per custode della sua verginità, o per dir meglio per compagno (poiché ella non aveva bisogno d’esser guardata da altri, che da se medesima) quanto dico, doveva egli esser grande in questa virtù?

Ambedue avevano fatto voto d’osservar verginità in tutto il tempo della lor vita, ed ecco che Iddio vuole che siano uniti col legame di un santo matrimonio, non già per farli disdire, né pentirsi del voto; ma per confermarli, e fortificarli l’un l’altro a perseverare nella santa impresa; e per questo lo fecero ancora di viver verginalmente insieme in tutto il resto della lor vita.

Tratto da: Trattenimenti spirituali di San Francesco di Sales Vescovo e Principe di Ginevra Volume unico. – Brescia : Tipografia Pasini nel Pio Istituto di S. Barnaba, 1830, pp. 363 – 364.

Divisore dans San Francesco di Sales

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La difesa dell’amante e la lode dell’amore

Posté par atempodiblog le 24 juillet 2015

La difesa dell’amante e la lode dell’amore dans Don Giustino Maria Russolillo Beato-Giustino-Maria-della-Santissima-Trinit-Russolillo

La difesa dell’amante
Ci troviamo dunque di fronte ad una – la Maddalena – che non sa fare altro che esprimere il suo amore; si getta ai piedi di Gesù ama, piange, bacia in silenzio, oppure si getta ai piedi di Gesù e sta a sentire le sue parole, o spezza l’alabastro e profuma l’umanità di Gesù.

Osservate in tutti e tre i casi c’è qualcuno a cui questo fatto non piace, si risente e mormora esteriormente o interiormente, ma in tutti e tre i casi Gesù ha preso la sua difesa.

Chi mai ha difeso Gesù? Egli ha difeso tutta l’umanità di fronte al Padre, è vero, ma qui parliamo in un senso più usuale e più umile. Nostro Signore tutte e tre le volte prende le difese di quella persona.

Simone ti devo dire una cosa e gli dà una lezione efficace. Marta, Marta, perché ti turbi di tante cose? E voi altri – agli apostoli – perché volete farle dispiacere? Questa poveretta ha fatto bene. Ha fatto bene a non fare altro che amare e a concentrare tutti i suoi atti in un atto di amore.

La lode dell’amore
Infine quella grande lode: Ha amato molto! Come è possibile amare Dio molto? Chiunque ama si illude di essere amato molto perché misura l’altro da se stesso. Forse il Signore poteva avere illusioni?

Non possiamo crederlo, ma quando si tratta d’amore, egli vede le cose con un certo ingrandimento perché chi ama in Lui è lo Spirito Santo. Comunque Gesù non ha lodato l’amore di nessun altro; ha lodato la fede di altre creature, ma la fede è lodata in quanto è principio d’amore, qui invece ha lodato soltanto l’amore: Ha molto amato.

Ecco ciò che notiamo in quest’anima: si è tutta consacrata all’amore, e all’amore manifesto nel modo più sensibile, ciò che anche noi faremmo volentieri.

E perché non lo facciamo? Anche S. Francesco d’Assisi ci fa pensare ad applicare, anzi a trovare applicato questo principio: Che cosa ha fatto come fondatore? Proprio niente. Egli si è messo ad amare Gesù Cristo e gli altri gli sono andati dietro. S. Francesco è caro al Signore perché lo ama. Si è messo ad amare perdutamente e non ha fatto altro; il resto lo ha fatto il Signore.

del beato Giustino M. Russolillo

Divisore dans San Francesco di Sales

Freccia dans Viaggi & Vacanze Novena del Beato Giustino Maria della SS. Trinità Russolillo (dal 24 luglio al 1 agosto)

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Il vero fine del compimento è la contemplazione

Posté par atempodiblog le 24 juillet 2015

Il vero fine del compimento è la contemplazione dans Citazioni, frasi e pensieri 258m8u1

La scienza antica, la scienza di epoca vittoriana dei giorni di Charles Darwin, sosteneva quella bizzarra intuizione in base a cui tutto è credibile se avviene molto lentamente. Che è come dire che si può credere all’ippogrifo, a patto che a un cavallo sia cresciuta una piuma alla volta; o che si può credere all’unicorno, solo se il corno non salta fuori all’improvviso, ma comincia a svilupparsi come un piccolo brufolo. Ma, qualsiasi cosa sia, questa non è scienza moderna. La vera scienza moderna, la nuova scienza, per quel che può valere, tende sempre più ad avvicinarsi alla visione mistica di un disegno matematico, che potrebbe benissimo essere fuori dal tempo.

In base alle ultime teorie scientifiche, il cosmo sarebbe potuto nascere in sei giorni, o in sei secondi, o più probabilmente in meno sei secondi o forse nella radice quadrata di meno sei secondi. Io però non voglio mettermi a insistere sulla verità letterale dei sei giorni, perché la mia fede non lo richiede e qui non sto parlando della fede di nessuno. Voglio parlare delle grandi idee che quel simbolo suggerisce, ovvero il fatto che il potere creativo è stato tale per sei giorni e il settimo è stato contemplativo. Perché il vero fine di tutta la creazione è il compimento, e il vero fine del compimento è la contemplazione.

Gilbert Keith Chesterton
Tratto da: G. K. Chesterton – Il blog dell’Uomo Vivo

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Confessarsi, che fatica!

Posté par atempodiblog le 18 juin 2015

Le avventure di un «povero peccatore» che decide di riconciliarsi con Dio
Confessarsi, che fatica!
«Non stanchiamoci mai di chiedere perdono», ha esortato il Papa. A volte però trovare un sacerdote nel confessionale, che abbia tempo di ascoltarci senza fretta, è un’impresa. Le risposte dei sacerdoti: «Dovremmo essere sempre disponibili e non mandare via nessuno. Ma a volte non è facile…».
di Redazione Toscana Oggi

Confessarsi, che fatica! dans Articoli di Giornali e News vne637

«Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono». Sono queste le parole pronunciate da Francesco nel suo primo Angelus da Papa.

Certo, Dio non si stanca, ma verrebbe da chiedersi: e i suoi ministri? In loro, infatti, un po’ di stanchezza a dire il vero si coglie. Da qualche tempo, mi capita di raccogliere le confidenze di persone che, indignate, raccontano le peripezie che hanno dovuto sostenere per accedere alla grazia del Sacramento della Confessione.

Di solito l’avventura del povero peccatore pentito comincia quando, in modo del tutto inopportuno, è assalito dal desiderio di confessarsi al di fuori della domenica e degli orari delle Messe. Sembra, infatti, che nei gironi feriali l’elargizione della grazia sia più difficile. Per di più, l’incauto penitente, che non ha un confessore stabile, pensa di poter ricevere la misericordia del Signore anche senza appuntamento, ma si sa che ormai, essendo tutti strapieni di cose da fare e non avendo tempo da perdere, non si può fare nulla senza appuntamento, né una visita medica, né ricevere una consulenza tecnica, né riparare un guasto della macchina e tanto meno fare una semplice messa in piega dalla parrucchiera. L’ignaro «cercatore di grazia» si mette dunque in movimento, cominciando la sua peregrinazione di chiesa in chiesa, con il primo e apparentemente facile obiettivo di trovare un ministro del Signore che possa concedergliela. Ma ecco la prima difficoltà. Là dove non trova la porta della chiesa serrata a quattro mandate, non è facile incontrare un prete o un religioso che si aggiri in zona, solo qualche extracomunitario addetto alla sorveglianza o alla pulizia.

Nei casi più fortunati, il penitente si può avvalere di una soffiata da parte di un amico: «Vai in quella chiesa, c’è un cartello che dice che le confessioni sono dalle 10 alle 12». Così, pieno di fiducia, il povero peccatore va, entra nella chiesa e si sedie, cominciando la sua preparazione. Passa un quarto d’ora, passa mezz’ora, passa un’ora e niente, non si vede nessuno, solo tanto buio e tanto freddo. Per riscaldarsi allora il poveretto comincia a passeggiare su e giù e così gli occhi cadono su un campanello su cui è scritto «suonare». Comincia dunque a suonare una, due, tre volte, ma il risultato è sempre lo stesso, non si vede nessuno. Alla fine, deluso e ormai «congelato», il penitente, persa ogni speranza, si incammina verso casa, costretto a rimandare ad un’altra volta il suo proposito, sempre se riuscirà a trovare il tempo e la disposizione d’animo per poter fare un secondo tentativo.

È andata meglio, se così si può dire, ad un altro «peccatore pentito» che proprio alla vigilia di Natale, volendo giustamente riconciliarsi con il Signore, è entrato in una chiesa, contento di poter riconoscere subito la presenza di un sacerdote presso l’altare. Timoroso il penitente si avvicina chiedendo: «Mi scusi, Padre, potrebbe confessarmi?». Non lo avesse mai detto: «Ma viene a confessarsi a quest’ora? Non vede che sto preparando i fiori per l’altare? Venite a confessarvi proprio quando noi sacerdoti abbiamo più da fare?». Per gentile concessione, però, il sacerdote, seppur bofonchiando un po’, accetta di confessare il devoto penitente che, ingenuamente, comincia a parlare dei vari aspetti della propria vita per i quali desidera chiedere perdono al Signore. E mentre con timore e tremore tenta di mettere insieme le parole per esprimere i suoi sentimenti, dall’altra parte della grata si sente dire: «Ma che fa? È venuto qui per tenere un’omelia?». Ovviamente tutto quello che il poveretto aveva in testa e soprattutto nel cuore viene d’un colpo azzerato e si ferma ammutolito, aspettando solo di poter ricevere l’assoluzione e scappare via da tanto disagio, chiedendosi poi se una confessione del genere sia realmente valida.

Non sono poche le volte in cui il penitente deve insistere e fare una vera e propria opera di convincimento nei confronti del ministro che tergiversa, invitando a tornare un’altra volta o a scegliere un momento più opportuno.

Ma c’è da chiedersi: non è sempre il momento opportuno quando nel cuore di una persona sorge il desiderio di incontrare il volto misericordioso del Signore? Forse, bisognerebbe che i nostri sacerdoti e religiosi, smettessero di fare tante altre cose e trovassero più tempo per restare in chiesa a pregare e ad amministrare quello che è davvero il più grande dono che il Signore ci ha lasciato, la sua grazia sovrabbondante, la sua misericordia infinita. Certo, il sacramento ha la sua efficacia indipendentemente dalla povertà dei suoi ministri, ma spesso un cuore pentito desidera ricevere e percepire quella carezza, quel tenero abbraccio che il Signore stesso è pronto a donare a chi con sincerità ritorna a Lui, qualunque sia stato il suo percorso, un abbraccio e una carezza che, non lo possiamo negare, possono giungere solo attraverso un ministro accogliente, disponibile all’ascolto e capace di offrire una parola di conforto ed incoraggiamento, restituendo un po’ di speranza e di pace ad un cuore smarrito e scoraggiato.

di A. R.

Confessarsi come Dio comanda dans Fede, morale e teologia confessionali

Le risposte dei sacerdoti: «Dovremmo essere sempre disponibili e non mandare via nessuno. Ma a volte non è facile…»

L’invito di papa Francesco a non stancarsi di chiedere perdono a Dio sembra aver trovato riscontro: a confermarlo c’è anche una indagine statistica promossa dal Cesnur (l’istituto di ricerca sulle religioni diretto dal sociologo Massimo Introvigne): «su un campione di duecento sacerdoti e religiosi intervistati, il 53% ha affermato di avere riscontrato nella propria comunità un aumento delle persone che si riavvicinano alla Chiesa o si confessano, aggiungendo che queste persone citano esplicitamente gli appelli di Papa Francesco come ragione del loro riavvicinamento alla pratica religiosa».

E i sacerdoti, come vivono il sacramento della confessione? Don Antonio Scolesi è parroco ad Albinia (diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello) ma è anche confessore presso alcuni istituti religiosi e di alcuni seminaristi. «È vero – dice – che noi preti siamo pochi e presi da molti impegni, e può capitare che qualuno venga a cercare un sacerdote e non lo trovi. Però nella mia esperienza posso dire che chi viene con un desiderio forte, la disponibilità la trova. A me capita spesso di persone che vengono da me dopo la Messa, oppure telefonano, e mi dicono “quando posso venire?” Sicuramente per chi sente il bisogno di un colloquio più ampio è il modo migliore». Poi ci sono le persone che si confessano, per abitudine, prima della Messa domenicale: «Anche quella è una esigenza a cui si deve rispondere: lì la confessione è più veloce, si limita all’elenco dei peccati e all’assoluzione».

L’importante comunque, secondo don Antonio, è che i sacerdoti non tralascino questo sacramento ma anzi cerchino di farne scoprire sempre di più la bellezza: «Chi non si accosta alla confessione è perché non ha scoperto quanto sia bello sentirsi perdonati. L’assoluzione che si riceve dal prete non la si può avere da nessun altro. Ed è un sacramento bello anche per il sacerdote: lo si celebra insieme, e fa bene anche al prete».

Don Serafino Romeo è parroco di Chiesanuova, in diocesi di Prato: una parrocchia popolosa, dove il desiderio dei fedeli di confessarsi è ancora vivo. Anche se certe abitudini andrebbero riviste: «Nei momenti delle feste, prima di Natale e Pasqua, abbiamo grandi file, si passa ore e ore a confessare, fino a prosciugarsi. Nel resto dell’anno invece capita anche di stare ad aspettare invano, in chiesa, durante gli orari che vengono indicati per la confessione. Sono momenti in cui il parroco dà la sua disponibilità e le persone troverebbero tempo e ascolto. Se si vuole che la confessione diventi anche un colloquio, qualcosa di simile alla direzione spirituale, c’è bisogno di farla con tranquillità, Invece molti vengono prima della Messa, e allora capita di dover chiedere che aspettino la fine della celebrazione».

A parte questi aspetti pratici, comunque, anche secondo don Serafino i preti devono sempre essere disponibili: «A me, prima di diventare prete, è capitato di chiedere di confessarmi e di sentirmi rispondere di tornare in un altro momento o di andare nella parrocchia vicina. Adesso, da parroco, riconosco che non è sempre facile riuscire a districarci tra tutti gli impegni. Però dobbiamo ricordarci che quello della confessione è un compito che spetta al prete e nessun altro lo può svolgere al posto nostro. Quindi dobbiamo prendere i fedeli quando vengono, anche di notte». Può capitare? «Certo – risponde – le richieste di persone che sentono il bisogno di confessarsi arrivano nei luoghi e negli orari più imprevisti: a me per esempio è capitato durante un viaggio in treno. Poi si deve saper distinguere: ci sono persone che si confessano abitualmente e possono essere disponibili a tornare, ci sono persone che vengono dal prete spinte da un bisogno urgente di raccontare qualcosa che pesa sulla loro coscienza. Per loro la confessione può diventare un momento importante, di svolta per la loro vita. In questi casi l’impegno a non mandare via nessuno è ancora più importante».

di Riccardo Bigi

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Il sacerdote deve essere riconoscibile

Stralcio di una conversazione sulla figura del sacerdote, ai microfoni di Radio Maria, tra il Prof. Palmaro e il dott. Gnocchi

Prof. Mario Palmaro: «Eravamo a un convengo insieme [con il dott. Gnocchi] e si discorreva con un sacerdote che era vestito con la sua bella talare, come si conviene a un sacerdote cattolico, e mentre si parlava… a un certo punto si è avvicinata una persona e ha detto: “scusi padre ha 10 minuti per confessarmi?”. Ecco queste sono le scene che fotografano meglio di tante parole che cos’è un prete; un prete è uno che si rende innanzitutto riconoscibile da tutti e che quindi in qualsiasi momento è al servizio dei fratelli perché non ha un momento in cui agisce privatamente e nello stesso momento può fare questa cosa grande che è assolvere i peccati».

Dott. Alessandro Gnocchi: «Questo episodio me ne ricorda un altro assolutamente simile, ma che ci tengo a raccontare: qualche anno fa ero a Firenze per una conferenza ed eravamo stati a mangiare qualcosa in una trattoria con un sacerdote che aveva la sua brava talare, come si potrebbe dire, e mi ricordo che uscendo, era sera, verso le 11:00 – 11:30, si è avvicinata una donna, era una barbona, una donna che viveva sotto i ponti e ha chiesto a questo sacerdote di essere confessata… Siccome questa donna non era sicuramente in buone condizioni e poteva morire di lì a poco…. poteva anche capitarle qualcosa… se non avesse riconosciuto un sacerdote non avrebbe potuto confessarsi».

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L’ipocrisia sociale in don Abbondio

Posté par atempodiblog le 2 juin 2015

L’ipocrisia sociale in don Abbondio
della prof.ssa Francesca Procaccini (audio) - Radio Maria

L’ipocrisia sociale in don Abbondio dans Alessandro Manzoni 2j604ld

[…] Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. […]

Don Abbondio si era, dunque, creato un suo sistema per vivere senza problemi né contrasti di sorta e ad un uomo di questa fatta capita ciò che mai avrebbe potuto immaginare. Gli accade, come tutti sanno, di essere aspettato, proprio al termine di quella tranquilla passeggiata, da due bravi:

[…] – Signor curato, – disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.
– Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
– Lei ha intenzione, – proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
– Cioè… – rispose, con voce tremolante, don Abbondio: – cioè. […]

Diciamo noi: che cos’è questo “cioè”? E’ l’uomo che si mette subito nella posizione di chi ha torto, perché abituato a tremare davanti al più forte, il quale assume il tono del superiore, facendo sentire l’altro in uno stato di inferiorità, ovviamente.
Il prepotente ha il piglio minaccioso ed iracondo. Ed egli risponde con voce tremula, sottomessa. Quello, il prepotente, ha il tono di accusatore e don Abbondio si scusa, quello considera il celebrare il matrimonio come una colpa ed egli dice:

Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi… e poi, vengon da noi, come s’andrebbe a un banco a riscuotere; e noi… noi siamo i servitori del comune.
– Or bene, – gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, – questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.
– Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca…
[…] – Ma, – interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non si farà, o… – e qui una buona bestemmia, – o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e… – un’altra bestemmia. […]
–  Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.

Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: – se mi sapessero suggerire…
– Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti… ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?
– Il mio rispetto…
– Si spieghi meglio!
– … Disposto… disposto sempre all’ubbidienza […]

Don Abbondio vorrebbe continuare a parlare, ma i due non lo ascoltano più e si allontanano. Sapete bene che il povero parroco una volta giunto a casa non riuscirà a tacere e tra mille titubanze e incertezze vuoterà il sacco con la sua perpetua. Ho voluto riportare tutto il dialogo perché si commenta da sé.
Ora riflettiamo un po’: in che consiste l’umorismo del personaggio? Come dice Luigi Pirandello, in un saggio dedicato a don Abbondio, consiste in “avvertimento del contrario” e successivamente nel “sentimento del contrario”.

Mi spiego meglio: ognuno coglie fin da subito la distanza abissale che separa il comportamento di questo prete da quello che si aspetterebbe da un pastore di anime. Addirittura egli accusa i poveri sposi di aver combinato pasticci e di essere andati da lui per riscuotere come si va in banca. Sta veramente farneticando. Vorrebbe convincere i bravi a dargli dei consigli per uscire da quella situazione, si dichiara disposto all’obbedienza nei confronti di chi commette un sopruso e che sopruso. Don Abbondio con i suoi atti timorosi, con i gesti impacciati, con le sue frasi reticenti e del tutto improprie, non può non apparire comico, anzi potremmo dire ridicolo o grottesco.

Tuttavia se riflettiamo un attimo, il personaggio da comico diventa patetico e ci suscita non più riso, bensì un misto di sdegno e di compassione. In quella circostanza ci sarebbe voluto un eroe e invece chi troviamo? Don Abbondio, antieroe per eccellenza. Ecco scattare il “sentimento del contrario”, cioè quella comprensione umana che ci permette di capire il dramma che si nasconde dietro questo povero cristo. Dietro la sua assurdità, per cui è più corretto parlare, sempre secondo Pirandello, di “umorismo”. Sicuramente Manzoni in don Abbondio ha voluto simboleggiare la debolezza della natura umana che non va approvata, ma neppure stigamatizzata come qualcosa che non ci appartiene. Quanti di noi avrebbero avuto il coraggio di disubbidire sapendo con certezza che la minaccia si sarebbe trasformata in azione?

Un altro momento topico del suo umorismo è il soliloquio della sua salita al castello dell’Innominato in compagnia dell’Innominato stesso, come molti ricorderanno. L’Innominato a seguito dell’incontro con il cardinale Federigo ha deciso di cambiar radicalmente vita, ma don Abbondio non credere alla conversione e non vorrebbe seguirlo per andare a confortare Lucia che era ancora presente nel castello dopo il rapimento. […]

Il nostro eroe, don Abbondio, se la prende con i santi che come birboni hanno l’argento vivo addosso, se la prende con don Rodrigo che avrebbe potuto andare in Paradiso in carrozza mentre voleva andare a casa del diavolo a pie’ zoppo, se la prende con l’Innominato che dopo aver messo a soqquadro il mondo con le sue scelleratezze, lo metteva sottosopra con la conversione, se la prende anche con il cardinale perché era troppo precipitoso e si giocava la vita di un povero curato a pari e dispari, come se lo avesse gettato nelle fauci di un leone ed, infine, se la prende con Lucia che era nata per la sua rovina…

Al ritorno dal castello, don Abbondio, teme che i bravi dell’Innominato vedendo il cambiamento del loro padrone possano scambiare lui per un missionario artefice della conversione, un prete che teme di essere scambiato per un missionario. Don Abbondio rimane la stessa povera creatura di sempre anche durante il colloquio con il cardinale Federigo che gli chiede spiegazioni sul matrimonio non celebrato, di fronte alle parole infiammate dallo spirito d carità del suo superiore, il povero prete non trova altra giustificazione che questa: “il coraggio, chi non ce l’ha non se lo può dare”. E
così lui si sente giustificato. [...] Il coraggio massimo lo ha dimostrato Gesù Cristo morendo sulla Croce per noi. [...] L’unica motivazione, l’unica sollecitazione, è l’amore: l’amore ci da il coraggio di agire.

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L’ipocrisia, il peccato sociale più grave
Ritornando al nostro don Abbondio, la sua era stata una scelta opportunistica, per lui farsi prete significava solo assicurarsi un futuro senza problemi, non c’era stata altra considerazione. Tutto ciò è senz’altro deprecabile, ma c’è una colpa ancora maggiore in don Abbondio ed è la sua ipocrisia.

Il peccato sociale più grave è proprio l’ipocrisia: che falsifica le sue relazioni con i potenti, ai quali rivolge un ossequio obbligato ed insincero, ovvio, ma l’ipocrisia anche con gli umili che cerca di ingannare con la sua superiorità culturale. Come non ricordare la scena in cui accampa scuse al povero Renzo che arriva tutto baldanzoso per fissare l’ora delle nozze. Prima il parroco finge di non ricordare che quello era il giorno stabilito, poi protesta di non sentirsi bene, accenna ad imbrogli e ad ostacoli, a formalità non ancora espletando, enumerando in latino tutti i motivi che rendono non valido il matrimonio. Poi chiede un posticipo delle nozze, sapendo benissimo che bastavano quattro giorni per sconfinare nel periodo dell’Avvento in cui la Chiesa, allora, impediva la celebrazione dei matrimoni. Don Abbondio con il suo latinòrum e, come dice Renzo, vorrebbe intimidire il povero ragazzo analfabeta, e quindi ingannarlo.

Si può cogliere una sorta di parallelismo tra don Rodrigo e don Abbondio. A parte le motivazioni che sono totalmente diverse, entrambi cercano, comunque, di schiacciare il più debole. Il primo con la violenza bieca e brutale, che conosciamo, ed il secondo con la cultura, uno strumento così nobile che diventa, in questo caso, strumento di oppressione del più debole. Questo è gravissimo, pensate quanto grave deve essere stato per il Manzoni che sentiva nella cultura uno strumento di elevazione morale. E’ interessare notare che il Manzoni pur considerando la Chiesa fondata da Cristo e depositaria del messaggio evangelico, come l’unica istituzione in grado di salvare la civiltà dalla catastrofe, non risparmia neppure gli uomini di Chiesa e accanto alla luminosità del cardinale e allo spirito missionario di fra’ Cristoforo pone un don Abbondio.
Luci e ombre si mescolano, ma queste ultime servono soprattutto per far risplendere ancora di più le prime, hanno una funzione. A questo punto mi piacerebbe parlarvi di Donna Prassede, ma lascio prevalere il buon senso e mi fermo qui, comunque dico per chi volesse conoscere questa “santa di mestiere” o rispolverare questo personaggio che basta leggere i capitoli XXV e XXVII.

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Rivive il miracolo di luce della Sainte-Chapelle di Parigi. E Benedetto XVI ci guida a contemplarlo

Posté par atempodiblog le 27 mai 2015

Rivive il miracolo di luce della Sainte-Chapelle di Parigi. E Benedetto XVI ci guida a contemplarlo dans Viaggi & Vacanze 25yxf14

«Una delle meraviglie del mondo medievale – scrive il britannico Guardian – la vetrata istoriata della Sainte-Chapelle di Parigi, è stata restaurata dopo sette anni di scrupoloso lavoro. Il restauro è stato completato in occasione dell’800esimo anniversario della nascita del re Luigi IX, che commissionò la Cappella alla metà del XIII secolo perché ospitasse la sua collezione di reliquie, inclusa quella che era ritenuta la corona di spine di Gesù e una parte della sua croce».

Qui è possibile vedere un’immagine ingrandita del miracolo di luce che è la Sainte-Chapelle. Di seguito un estratto dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella Cattedrale di Saint Patrick a New York, il 19 aprile 2008, e che è forse la più bella introduzione al significato delle vetrate medievali:

«[…] L’Arcivescovo John Hughes che – come ci ha ricordato il Cardinale Egan – è stato il promotore della costruzione di questo venerabile edificio, volle erigerlo in puro stile gotico. Voleva che questa cattedrale ricordasse alla giovane Chiesa in America la grande tradizione spirituale di cui era erede, e che la ispirasse a portare il meglio di tale patrimonio nella edificazione del Corpo di Cristo in questo Paese. Vorrei richiamare la vostra attenzione su alcuni aspetti di questa bellissima struttura, che mi sembra possa servire come punto di partenza per una riflessione sulle nostre vocazioni particolari all’interno dell’unità del Corpo mistico.

Il primo aspetto riguarda le finestre con vetrate istoriate che inondano l’ambiente interno di una luce mistica. Viste da fuori, tali finestre appaiono scure, pesanti, addirittura tetre. Ma quando si entra nella chiesa, esse all’improvviso prendono vita; riflettendo la luce che le attraversa rivelano tutto il loro splendore. Molti scrittori – qui in America possiamo pensare a Nathaniel Hawthorne – hanno usato l’immagine dei vetri istoriati per illustrare il mistero della Chiesa stessa. È solo dal di dentro, dall’esperienza di fede e di vita ecclesiale che vediamo la Chiesa così come è veramente: inondata di grazia, splendente di bellezza, adorna dei molteplici doni dello Spirito. Ne consegue che noi, che viviamo la vita di grazia nella comunione della Chiesa, siamo chiamati ad attrarre dentro questo mistero di luce tutta la gente. […]».

da «The Guardian» (in inglese)
Fonte: Il Timone
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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Per approfondire:

2e2mot5 dans Diego Manetti Sainte-Chapelle, un gioiello dello stile gotico fiorito

2e2mot5 dans Diego Manetti La Sainte-Chapelle di Parigi, scrigno di luce

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