Preghiera per le vacanze

Posté par atempodiblog le 5 juin 2014

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Dammi, o Signore, la gioia di scoprire e ammirare le bellezze che, attraverso la natura e l’arte, hai profuso ad ogni passo nell’universo.

Dammi la gioia della serena fraternità, la gioia di scoprire dei buoni fratelli in tutti quelli che incontrerò sul mio cammino, la gioia di apprezzare le buone qualità di ciascuno.

Dammi la gioia della gentilezza, della adattabilità alle circostanze, in modo che nessuno abbia da me motivo di tristezza.

E conservami sempre nel cuore la gioia pensosa del viandante che passa per le vie del mondo come pellegrino e forestiero con lo sguardo sempre fisso alla Patria celeste.

Amen!

Tratta dalla Lettera Estate 2014 di Radio Maria

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Passeggiando per Siena

Posté par atempodiblog le 5 juin 2014

Un insieme di piccole strade attorcigliate l’una sull’altra, viottoli stretti e tortuosi fanno di Siena quella città misteriosamente arroccata su tre colli tufacei fatta a chiocciola, per parafrasare il romanziere Guido Piovene, un vero capolavoro urbanistico medievale.
di Roberta Mochi – Radici Cristiane

La città toscana fu colonia militare romana col nome di Siena Julia, da qui probabilmente la derivazione del mito che riconosce tra i suoi fondatori i figli di Remo, Senio ed Aschio; di queste illustri origini ancora oggi si possono ammirare le tracce, come la lupa che allatta i gemelli (il cui retaggio romano è naturalmente indubbio) che si innalza nella piazza antistante il Duomo.
Non tutti sanno che la città, fatta a forma di Y, è ancora oggi divisa in Terzi: di Città, di San Martino e Camollia. Il primo costituisce il nucleo abitativo originario di Siena, che ebbe come prima fortificazione Castelvecchio; il secondo si è quello formatosi lungo la Francigena, la via che portava i pellegrini a Roma, e proprio per questo è stato chiamato San Martino, come il protettore dei pellegrini e dei viandanti; l’ultimo, infine, è diventato il simbolo dell’ospitalità senese, infatti, sull’arco della Porta eretta in onore di Ferdinando I de’ Medici si può ancora leggere questa iscrizione: “Cor Magis Tibi Siena Pandit” (“Siena ti apre il suo cuore più di questa porta”).

Passeggiando per Siena

Il Duomo
Il Duomo di Siena è uno degli edifici più riusciti del gotico italiano, fu costruito durante il XII e il XIII sec. e alla fabbrica lavorarono artisti importanti come Giovanni Pisano e Giovanni di Cecco, che si dedicarono alla facciata e ai portali. Al primo, si deve la facciata inferiore, distinta dai tre grandi ed elaborati archi che introducono ai portali. Anche se la facciata non eccelle per omogeneità, l’asimmetria esistente tra la parte inferiore e quella superiore, aggiunta in epoca più tarda, non è percepibile e non ne intacca l’armoniosa bellezza.

La bicromia dei marmi, di struttura romanica, viene ripresa anche nel campanile, a fasce bianconere, ed è ripetuta nell’ambiente interno, riuscendo a creare incantevoli effetti di chiaroscuro. La suggestione dello spazio è aumentata, poi, dal moltiplicarsi delle arcate a tutto sesto e dal sorprendente pavimento figurato, opera eccezionale in ambito italiano, iniziato nel 1372 e terminato nel 1562 (in cui spiccano i disegni del grande pittore manierista senese Domenico Beccafumi, eseguiti tra il 1522 e il 1525).
Di sicuro interesse sono inoltre la Cappella della Madonna del Voto, posta in fondo alla navata destra, voluta nel 1661 da Papa Alessandro VII Chigi ed eseguita su un disegno del Bernini. L’opera chiaramente barocca si compone di due statue scolpite dal grande architetto, quella di san Girolamo e quella della Maddalena, che riempiono la scena creando di fascino commosso.
Lo stesso si può dire del ciborio bronzeo realizzato, per il presbiterio dell’Altare maggiore, da Lorenzo di Pietro (detto il Vecchietta) fra il 1467 ed il 1472; l’opera era stata fusa per l’altare grande della chiesa dell’Ospedale di S. Maria della Scala e venne trasferita nel Duomo solo nel 1506, quando la sua magnificenza venne utilizzata per esaltare il culto Eucaristico.
Il vero capolavoro della Basilica resta però la vetrata, eseguita su disegno del celebre Duccio di Boninsegna (iniziatore della scuola senese), che raffigura la Morte, l’Assunzione, l’Incoronazione della Vergine, i quattro Evangelisti e i Santi Patroni di Siena; essa rimane una delle più alte testimonianze dell’arte vetraria del gotico italiano, ed è impossibile non rimanere colpiti da tanta variopinta grazia.
Il Duomo della piccola città toscana è un vero forziere di opere d’arte al quale hanno contribuito Donatello e Nicola Pisano, Arnolfo di Cambio e Pinturicchio, opere come il solenne altare Piccolomini, voluto da Pio II quando era ancora Cardinale, con la sua massiccia struttura a più ordini, decorata anche da quattro statue di Michelangelo, raffiguranti i santi Gregorio e Paolo (a sinistra) e i santi Pietro e Pio (a destra).
Interessante anche il fatto che di recente siano stati resi visitabili gli ambienti sotterranei della Basilica, che documentano le vicende della costruzione dell’edificio; all’interno, si possono ammirare affreschi duecenteschi, alcuni probabilmente opera di Duccio di Boninsegna. In questi locali l’aspetto maggiormente incisivo resta però quello della prova tangibile della fede dei senesi, infatti sono ancora visibili le invocazioni scritte dai cittadini e sulle pareti spiccano le tracce lasciate nel corso del tempo dal fumo di lampade e candele alla luce delle quali ci si riuniva in preghiera.

Passeggiando per Siena

Il Battistero
Passando attraverso la porta gotica del cosiddetto “Duomo Nuovo” (il nome deriva dall’ambizioso progetto di ampliamento del Duomo del 1339), attraverso una incantevole scalinata si arriva alla Piazza di S. Giovanni, su cui prospetta la bella facciata gotica del Battistero omonimo, che fu costruito tra il 1316 e il 1325 e costituisce quasi una cripta della Cattedrale della città toscana.

La sua facciata gotica è incompiuta nella parte superiore, ovvero quella in comune con l’abside del Duomo. L’interno si divide in tre navate su cui spicca il meraviglioso fonte battesimale esagonale del 1417, sormontato da una statua del Battista ad opera di Jacopo della Quercia.
Il fonte è peraltro impreziosito dalla mano di molti altri artisti (Donatello, Giovanni di Turino, Lorenzo Ghiberti, Goro di Neroccio), pur mantenendo una armonia stilistica davvero eccezionale. Le sei formelle bronzee descrivono le vicende del Battista e tra queste spicca per perfezione il “Battesimo di Gesù” e “la cattura di S. Giovanni”, in quest’ultima è possibile ammirare la tecnica a bassorilievo detta “schiacciato” utilizzata da Donatello.
Di impagabile bellezza sono anche gli affreschi del Vecchietta e della sua scuola che adornano le volte del Battistero, raffiguranti i Profeti, le Sibille, gli Apostoli e le verità del Credo cattolico.

Passeggiando per Siena

L’Ospedale di Santa Maria della Scala
È un vasto complesso monumentale medievale, un tempo adibito a funzioni sanitarie ed oggi sottoposto ad una vasta opera di restauro, nonché di riutilizzo del grande edificio; infatti molti spazi sono già stati destinati ad attività museali e culturali (come il Museo Archeologico Nazionale e la grande collezione numismatica con monete etrusche, umbre, laziali e romane).

Il nome deriva proprio dall’ubicazione della costruzione, eretta di fronte alla scalinata del Duomo. La sala più spettacolare dell’edificio è indubbiamente quella del Pellegrinaio, che fino agli anni Settanta del secolo appena passato svolgeva funzioni di infermeria. Lo spazio è completamente affrescato da pittori senesi del ‘400, tra cui emerge Domenico di Bartolo.
Di altrettanto valore artistico è la chiesa di S. Maria della Scala, fondata prima dell’Ospedale stesso e completamente rinnovata nel 1466, con la splendida statua d’altare del Cristo Risorto, realizzata in bronzo dal Vecchietta nell’ultimo quarto del Quattrocento.
Recentemente, oltre all’ingresso posto di fronte alla facciata del Duomo, è stato aperto il nuovo ingresso del chiasso di Sant’Ansano, che permette di accedere al complesso monumentale utilizzando la scala mobile che collega direttamente al Parcheggio di Santa Caterina. Questo secondo ingresso ha inoltre valorizzato la serie di archi e di portali appartenuti a numerosi corpi di fabbrica edificati tra la fine del Duecento e gli inizi del secolo successivo riemersa con il restauro.

Passeggiando per Siena

Piazza del Campo
Piazza del Campo è un unicum irripetibile, non corrisponde, infatti, ai canoni della tipica piazza italiana, non è adornata da giardini e piante lussureggianti ma rossa di pietra e mattoni, non permette scorci panoramici ma è chiusa su se stessa, come una conchiglia.

Le fanno da corona una schiera di nobili palazzi (Sansedoni, Piccolomini, Saracini) e la stessa piazza fa da cornice al Palazzo Pubblico, eretto tra il 1297 e il 1343 e costruito parte in pietra e parte in cotto, al lato del quale si innalza esile e leggera la Torre del Mangia, costruita nel 1325 con i suoi 400 scalini, agile come un altissimo stelo, che deve il proprio nome a quello campanaro Giovanni di Duccio detto il “mangiaguadagni”.
Sull’impronta goticheggiante della piazza si innesta una graziosissima nota di stile fiorentino costituita dalla Cappella votiva della Vergine Maria, voluta dai senesi a seguito della peste del 1348 e realizzata da Domenico di Agostino e di Giovanni di Cecco.
Sulla Piazza è, inoltre, possibile ammirare la copia (del Sarocchi) della bellissima Fonte Gaia, realizzata da Jacopo della Quercia all’inizio del Quattrocento, che inneggiava alla Vergine e al Buon Governo e celebrava al contempo l’arrivo dell’acqua in città. La fonte, dopo essere resistita per ben quattro secoli, venne distrutta dai cittadini che la reputavano colpevole delle proprie sconfitte militari (pare, inoltre, che proprio per questo i suoi resti, oggi conservati a Santa Maria della Scala, vennero seppelliti in terra fiorentina).
Questo che è considerato il “Salotto buono” dei senesi è senza dubbio una delle più celebrate e rappresentative piazze medioevali della penisola, costituisce il cuore stesso della città, occupando, tra l’altro, il sito dell’antico foro romano, e sfrutta l’avvallamento naturale formato dall’unione delle tre colline su cui sorge il centro abitato, facendone un elemento scenografico di grande effetto.
La sua eleganza è tale che lo stesso Dante non poté esimersi dal citarla nel Purgatorio. Il suo spazio, inoltre, incarna bene lo spirito forte e al contempo gentile della città di Siena, qui vi si tenevano le assemblee popolari, si festeggiavano le vittorie e si pregava per le sorti delle battaglie, qui San Bernardino faceva risuonare la propria voce durante le proprie predicazioni, qui si celebravano spettacoli e giostre cavalleresche, qui si percepisce, tuttora, lo spirito vivo di un’epoca ormai lontana e che in estate tuttora scalpita durante il famoso palio, e sempre qui la città ogni giorno si raduna rinnovando quello che era lo spirito di un tempo.

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Pompei: una città dedicata a Maria

Posté par atempodiblog le 27 avril 2014

Pompei: una città dedicata a Maria
“… ad una città sepolta …succede una città piena di vita, che attinge la sua oigine dalla Civiltà nuova portata dal Cristianesimo: la Nuova Pompei!” (Bartolo Longo)
di Roberta Mochi – Radici Cristiane

Pompei: una città dedicata a Maria dans Apparizioni mariane e santuari santuario-Pompei

Sulla distesa delle case della nuova Pompei, quasi a proteggerne gli abitanti, si erge la cupola del maestoso campanile del santuario della madonna del Rosario. Il mistico luogo è sorto per volontà del beato Bartolo Longo, che era rimasto colpito dall’ignoranza religiosa in cui vivevano gli indigenti contadini della campagna campana.
Fu così che, su consiglio del Vescovo di Nola e finanziata dalla campagna di sottoscrizione chiamata “un soldo al mese”, l’8 maggio 1876 iniziò la costruzione del tempio che terminò nel 1887 e, quattro anni più tardi venne consacrato.
La Basilica venne disegnata da Antonio Cua, anche se l’attuale struttura si deve all’ampliamento del 1933 della chiesa originaria. Entrando nel Santuario, si passa sotto la monumentale cantoria, che è stata realizzata da Giovanni Rispoli e che, oltre allo splendore degli intagli, possiede uno dei migliori organi del nostro Paese.
L’interno è a croce latina, completamente decorato di marmi, oro, mosaici e quadri ottocenteschi, che esaltano ed arricchiscono ogni centimetro delle pareti. Sull’altare maggiore è posta, in una cornice di bronzo dorato, la veneratissima tela seicentesca della Madonna di Pompei, della scuola di Luca Giordano.
Il quadro è adornato di gemme, e vi si possono riconoscere tre grandi zone. In alto, la figura solenne di Maria in trono che invita la Chiesa (in Basso) ad avvicinarsi al mistero della Trinità. Lo spazio laterale, invece, si apre al mondo. L’unione di questi campi è rappresentata dal Rosario, consegnato dal Figlio e dalla Madre a San Domenico e a Santa Caterina da Siena, come via di meditazione e assimilazione del Mistero.
Ai lati dell’altare maggiore ci sono le due porte d’accesso alla cripta. Quest’ultima è davvero immensa ed è abbellita da numerosi dipinti, oltre che da due statue di marmo che simboleggiano l’orazione mentale e quella vocale; inoltre il Crocifisso e la statua dell’Addolorata sono quelle appartenute al Beato Longo.
Nella basilica, infine sono esposti numerosi ex voto, che illustrano i ripetuti episodi di prodigi e grazie attribuiti alla Madonna di Pompei. Guardandoli con attenzione è possibile notare come siano la testimonianza dell’infinita potenza dell’amore di Maria: guarigioni di ogni tipo e salvezze da naufragi ed incidenti, quasi a preludio della vera Salvezza a cui conduce la preghiera.
Grazie agli sforzi di Bartolo Longo, quello che è stato definito il Vangelo dei poveri, il Rosario, ha finalmente una casa. Una piccola città splendente di marmi e colma della devozione delle centinaia di fedeli che cominciarono da subito ad accorrere per pregare di fronte alla dolce icona della Madonna del Rosario.

L’icona della Vergine del Rosario
Per comprendere appieno la portata del fenomeno che circondò la tela sarà bene raccontarne la genesi, tanto travagliata da sembrare fiabesca eppure reale, come attestano le numerose documentazioni.
Il 13 novembre del 1875 l’avvocato Longo si recò a Napoli con l’intenzione di acquistare una immagine della Madonna del Rosario da esporre al culto dei fedeli. Per singolare coincidenza incontrò il suo confessore, Alberto Radente, che molti anni prima aveva acquistato un quadro con lo stesso soggetto, da un rigattiere (pagando 3 lire e 40!) al solo scopo di sottrarlo al bieco commercio a cui altrimenti sarebbe stato destinato e l’aveva lasciato in custodia ad una pia suora del Convento del Rosariello di Porta Medina di Napoli.
Suor Maria Concetta De Litalia la offrì volentieri a Bartolo Longo che, inizialmente, ne ebbe un’impressione tutt’altro che lusinghiera; il commento del Beato in proposito è chiarissimo: “Provai una stratta al cuore al primo vederlo … Chi mai dipinse questo quadro? Misericordia!… Deformità e spiacevolezza del viso … manto screpolato e roso dal tempo e bucherellato dalla tignola … screpolature … distacchi e caduti qua e là brani di colore … bruttezza degli altri personaggi”.

A questo si aggiunse presto un altro problema: l’icona doveva arrivare a Pompei per quella stessa sera. Viste le grandi dimensioni (1,20 x 1,00), il trasporto venne affidato ad Angelo Tortora, un carrettiere che, nella sua ingenua carità, avvolse l’immagine in un lenzuolo e la adagiò sul suo carro di letame. Era il 13 novembre 1875.
Ancora oggi si festeggia la data come nascita della Nuova Pompei. E’ una giornata di preghiera, in cui i fedeli vengono ammessi alla venerazione diretta del quadro e pregano la Vergine. La straordinarietà dell’evento consiste soprattutto nel vedere una moltitudine di folla che fin dalle prime luci del mattino si ordina in una lunga fila, senza preoccuparsi di null’altro che dell’amore che ha da portare in dono e, a dispetto di ogni avversità, forma una lunga catena, a imitazione di quella donataci dalla dolcezza di Maria, il Rosario.
Nel corso del tempo la tela ebbe numerosi interventi di restauro, che miravano a ripristinare l’antica lucentezza del colore e a mitigare quella rozzezza di forme che tanto aveva colpito il beato Longo; tuttavia, non furono certo gli interventi umani a donare all’immagine l’efficacia che la contraddistingue bensì, come ci viene raccontato dallo stesso Longo, quando il quadro “venne tolto dalla vecchia e crollante parrocchia del SS. Salvatore e fu posto in una cappella nuova (…) da quel giorno cominciò nella fisionomia della celeste Regina a ravvisarsi una bellezza, una maestà e una confidenziale dolcezza, che non vi si ravvisavano innanzi (…) E’ raggio di bellezza, di dolcezza e di maestà insieme che piove da quel ciglio neanche fa pregare in ginocchio e battere il cuore a quanti con fede si accostano in questo Santuario a quella vecchia tela. Io sono convinto che con un visibile portento la Vergine abbia abbellito la sua figura”.

Il campanile
Quando il Santuario fu ampliato nel 1933, venne costruito un campanile alto ben 80 metri, che svetta nella sua imponenza. I cinque piani che lo compongono, sono abbelliti oltre che da marmi e colonne, dalla presenza di quattro angeli trombettieri e da una grandiosa raffigurazione del Sacro Cuore di Gesù. Inoltre, otto campane diffondono per la campagna circostante il loro suono. Per costruirle vennero fusi ben 100 quintali di cannoni da guerra.
L’opera è coronata da una cupola in bronzo, che è sovrastata da una croce gemmata in rame e bronzo di 6 metri, benedetta da PIO XI prima del trasporto a Pompei.
Il campanile, subì degli interventi di consolidamento, per i danni subiti durante il terremoto, nella seconda metà degli anni Ottanta, e da oggi è possibile ancora salire fin su la sua cima per ammirare lo splendido panorama campano, la Valle, gli Scavi e il Golfo di Napoli.

Il museo
In via Colle San Bartolomeo si trova il villino che fu la dimora di Bartolo Longo. L’abitazione è oggi adibita a Museo. Al pian terreno è possibile visitare la camera da letto e lo studio del Beato ed osservare diversi oggetti che facevano parte del suo quotidiano.
Al piano superiore, invece, è ospitato il Museo Vesuviano dove, grazie a un’accurata rassegna di stampe antiche e moderne, ci si può documentare sull’attività del vulcano, infatti sono riprodotte le eruzioni che vanno dal 1631 al 1944, il tutto corredato dall’esposizione di numerosi campioni di minerali e prodotti vulcanici.

La Cappella del Beato Bartolo Longo
La cappella dedicata al beato Bartolo Longo è adiacente al Santuario; è stata realizzata durante i lavori per il Grande Giubileo del 2000. Di forma quadrata, ampia 360 mq, ha il soffitto in cemento armato sagomato. Sotto l’altare è posta l’urna con le spoglie del Beato. Egli è raffigurato in un simulacro di resina, all’interno del quale sono posti i suoi resti mortali. La testa e le mani, in argento, sono state realizzate dall’argentiere Franco Scarmigliati di Roma. Il simulacro è rivestito con un abito nero e il mantello dei Cavalieri dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, al quale apparteneva Bartolo Longo.

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L’incanto di Verona

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2014

L’incanto di Verona
di Annamaria Scavo – Radici Cristiane

“Non c’è mondo per me aldilà delle mura di Verona: c’è solo purgatorio, c’è tortura, lo stesso inferno; bandito da qui, è come fossi bandito dal mondo, e l’esilio dal mondo vuol dir morte…”.
(WILLIAM SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta, atto III, scena III)

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Sarà forse per i fantasmi di Shakespeare, di Giulietta e Romeo, sarà per tutte quelle fortificazioni che parlano di lotte e di storia, o per i bei palazzi antichi e l’incantevole campagna vista in distanza da bianche balaustre, e per quell’aspetto di piccola cittadina antica e la sua atmosfera rarefatta, le chiese marmoree, le torri alte, le quiete vecchie strade nelle quali “echeggiavano dei Montecchi e Capuleti…”, Verona spinge il visitatore in epoche antiche.
L’Adige l’avvolge e la divide con il suo duplice abbraccio serpentino e ne ha condizionato la vita sin dall’antichità. L’alluvione del 1882 ha imposto un lavoro di pulizia del fiume e di difesa da eventuali piene per mezzo di alti muraglioni. I canali sono stati così eliminati, il fiume scorre rigorosamente entro gli argini, la vita attorno è cambiata, la città è come se non vivesse più sull’acqua.
Verona conserva il tessuto urbano romano delle origini, cui si sono aggiunti palazzi medievali nel centro storico, assieme anche a palazzi più recenti, cinquecenteschi, settecenteschi, ottocenteschi. I quartieri di Veronetta e San Zeno sono caratterizzati da edifici del basso Medioevo. Le zone esterne alle mura presentano edifici e ville in stile barocco, la zona industriale è del Ottocento e Novecento, mentre tutta la città moderna è sorta senza intaccare questi tessuti urbanistici.
Per questi motivi l’Unesco la include tra i beni di interesse mondiale per la sua caratteristica di roccaforte che attraverso varie fasi storiche ha assunto un particolare fascino, e per quel suo essersi sviluppata nel corso di due millenni integrando elementi artistici di alta qualità dall’antichità, al Medioevo e al Rinascimento.
Tratti delle cinque cinte murarie che hanno racchiuso Verona sono tutt’ora visibili da quella romana di epoca imperiale di cui restano solo rovine, a quella del XIII secolo dal Ponte Aleardi sino a Piazza Bra, ben conservata e con tre torri (una è la torre pentagona dei portoni della Bra); alle mura scaligere sul Colle San Pietro con quindici torri; ai terrapieni alzati dai veneziani con alcuni bastoni; alle mura, ai bastioni e ai numerosi forti costruiti dagli austriaci, ancora quasi completamente intatti.
Il cuore antico della città risulta contenuto entro le mura romane tra Porta Borsari, Porta Leoni e le mura di Gallieno. Dall’altra parte, la circonvallazione interna è ricca di fortilizi rinascimentali completati dagli austriaci.

I romani e l’Arena
Dell’epoca romana restano numerosi monumenti. Il più famoso è l’Anfiteatro veronese, il terzo anfiteatro per grandezza dopo il Colosseo e quello di Capua antica, ma il meglio conservato, tanto da ospitare annualmente il festival lirico oltre a numerosi concerti.
Costruito molto probabilmente in epoca augustea, come quello di Pola al quale molto somiglia, era rimasto inizialmente al di fuori delle mura repubblicane e fu poi inglobato da quelle imperiali di Gallieno, formando una curiosa ed apposita ansa.
Ora fa da quinta spettacolare al lato nord di piazza Bra, una grande piazza nata quasi per caso e nel tempo arredata con bei palazzi.
L’Arena, come ora tutti la chiamano, fu utilizzando all’epoca romana per combattimenti fra gladiatori o fra animali, e vari tipi di esecuzioni. In epoca comunale e scaligera vi si tenevano lotte giudiziarie: le cause incerte venivano risolte attraverso la sfida di lottatori dal corpo unto. Dante li descrive nel XVI canto dell’Inferno.
Nel Medioevo l’Arena fu sede di giostre e tornei, per diventare nell’Ottocento teatro di prosa durante la bella stagione. Nel 1931, in occasione del centenario della nascita di Verdi, vi si rappresentò l’Aida. Da quel momento è divenuta il più importante teattro all’aperto ed è valsa a Verona nel 1996 la segnalazione Unesco come “Capitale della lirica e della poesia”.
C’è poi il teatro romano del I secolo a.C., tornato alle luce solo nel 1830 quando vennero abbattuti  gli edifici che lo ricoprivano. Ospita la stagione teatrale veronese estiva.
Restano anche la Porta Borsari, inizialmente detta porta Iovia, perché vicina al tempio di Giove, poi dei Borsari, che erano gli esattori del dazio. Di esse, è ben conservata la facciata interna. E la porta dei Gavi, dedicata alla gens Gavia, romana, che dalla via Postumia portava al centro abitato.
E’ romano il ponte Pietra, l’unico ponte romano ancora visibile in città, formato da cinque arcate, quattro delle quali furono distrutte dai tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale e ricostruite con le pietre stesse ritrovate nel fiume.

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Piazza delle Erbe
All’antico foro romano e al Campidoglio corrisponde l’attuale Piazza delle Erbe, che era al tempo il centro politico ed economico della città,. Nei sotterranei di numerosi edifici si possono visitare le fondamenta di strade, fognature e resti di case e di una basilica romana. Alcuni palazzi sono dipinti a fresco, altri ricordano, per il rapporto larghezza-altezza, le case-torri comunali; il Medioevo e il Rinascimento si palesa nei palazzi più importanti, come palazzo Maffei decorato con divinità greche o la Casa Mercatorum, ora sede di una banca.
Su tutti svetta la Torre dei Lamberti, una torre medievale alta 84 metri costruita nel 1172. Colpita e danneggiata da un fulmine nel 1408, fu ricostruita nel 1448 e i lavori terminarono venti anni dopo. Ne è risultata una torre più alta dell’originale, a cui nel 1779fu aggiunto l’orologio. Per fortuna la ricostruzione ha rispettato i materiali originali, è quindi distinguibile una prima parte in mattoni di tufo, una di soli mattoni e infine il marmo.
Su di essa vennero poste due campane, la Marangona, che segnalava gli incendi e dava le ore, e la Rengo (da arengo, il luogo delle assemblee medievali), che suonava per radunare il consiglio comunale o per chiamare alle armi i cittadini. Dalla sua cima si può godere una fantastica vista panoramica della città.
Una statua antica del 380 orna la fontana della Madonna Verona, una colonna sostiene un’edicola trecentesca con scolpiti la Vergine e i santi Zeno, Pietro martire e Cristoforo; un’edicola detta Tribuna serviva nel secolo XIII durante le cerimonie di insediamento del potestà e dei pretori. Una colonna, davanti a palazzo Maffei sostiene il leone de San Marco, simbolo della serenissima.

Piazza dei Signori e le Arche scaligere
D’angolo, nell’adiacente Piazza dei Signori è il palazzo del Comune o della Ragione, uno dei palazzi meglio conservati anche all’interno, con a fianco l’Arco del Mercato vecchio che serve proprio a far comunicare le due piazze.

Sulla medievale Piazza dei Signori si affacciano palazzi di rilevante importanza storica e artistica: oltre al palazzo del Comune, il palazzo di Cansignorio, la Chiesa di Santa Maria Antica, il palazzo del Podestà, la Loggia del Consiglio. Al centro, in occasione del sesto centenario della nascita, nel1865 è stata posta la statua di Dante Alighieri che proprio nel palazzo del Podestà era stato ospitato a suo tempo.
Il palazzo del Podestà venne costruito da Alberto I della Scala sopra rovine romane e doveva essere adibito a dimora dei signori della città. Nel 1311 vi andò a risiedere Cangrande I e nel tempo il palazzo venne risistemato più volte. Vi furono ospitati uomini illustri come Dante e Giotto.
Caduta la dinastia della Scala il palazzo divenne, durante la dominazione veneziana, sede di importanti magistrature. Erano presenti anche gli uffici del podestà, da cui prese appunto il nome.
Palazzo di Cansignorio, signore della Scala, è stato sede del potere politico degli scaligeri e dei veneziani. Di esso rimane l’originale torre trecentesca mentre la facciata, attribuita all’architetto Michele Sanmicheli, è del XV secolo.
A lato, seminascosta, la chiesa romanica Santa Maria Antica, una piccola chiesa amata dagli scaligeri, tanto che sul portale d’entrata è stato collocato il sarcofago di Cangrande I della Scala. Un cancello in ferro battuto riporta il simbolo di Verona e degli scaligeri, la scala, e nelle arche scaligere sono presenti le tombe di illustri signori della Scala.
Si tratta del monumentale complesso funerario in stile gotico della famiglia scaligera. La grazia di questi sepolcri è stata celebrata da scrittori celebri come John Ruskin che ili paragona al coro di Burg e alla tomba di Francesco II, Duca di borgogna, riconoscendo all’Italia, rispetto alla Francia, il privilegio di aver anticipato il loro incanto di un secolo.
Le arche furono realizzate nel XIV secolo da artisti diversi. Arrivando da Piazza dei Signori si incontra quella di Mastino I della Scala addossata al muro della chiesa di Santa Maria con un sarcofago semplice all’uso romano e poco avanti quella di Alberto I della Scala, più istoriata, ma simile alla precedente.
Vicino al muro esterno vi sono poi tre semplici tombe appartenenti a Bartolomeo I, a Cangrande II e a Bartolomeo II della Scala. Sopra la porta laterale della chiesa è la magnifica arca di Cangrande I, il più grande signore scaligero, al quale Dante ha dedicato il suo Paradiso.
Il sarcofago di Cangrande è sostenuto da quattro cani che reggono lo stemma scaligero e reca sulla facciata anteriore una Pietà, l’Annunciata e l’Angelo Annunciante, ma soprattutto le formelle attorno celebrano la città di Verona e illustrano le vittorie del signore. Sopra il sarcofago giace la statua sorridente di Cangrande, in cima all’arca, la sua statua equestre, di cui attualmente l’originale, assieme a quello di Mastino II, si trova al museo di Castel Vecchio.

La Basilica di san Zeno
E’ doveroso ricordare che Verona come la sede di uno splendido romanico, appunto il romanico veronese, che trova una delle sue più interessanti espressioni nella basilica di san Zeno.
Ci si trova in una zona non molto vicina alla città vecchia, ma in un’area già frequentata in epoca romana, dove la via Gallica si univa con la Postumia. Qui si estendeva la necropoli cittadina anzi, secondo la tradizione, il cristianesimo a Verona è nato proprio in questi cimiteri ove furono sepolti i predecessori di san Zeno.
Nel V secolo vi sorse isolata la Chiesa di san Procolo in onore del quarto vescovo sul luogo della sua sepoltura. La chiesa esiste ancora, completamente ricostruita dopo il terremoto del 1117.
Analogamente si era costruita nel 581 una chiesetta sulla tomba di san Zeno, l’ottavo vescovo di Verona. Distrutta dagli ungari, fu ricostruita per volontà del vescovo Raterio e con i fondi dell’Imperatore Ottone I a partire dal 967. Accanto sorse anche l’abazia omonima, mentre un borgo vi si andava organizzando attorno, il burnus Sancti Zenonis, una zona di una certa importanza.
Nel XIII secolo la basilica venne ingrandita, ed in età scaligera fu costruita la torre abbaziale sul fianco sinistro.
La basilica mostra nella facciata uno splendido rosone, inserito in quattro cerchi concentrici di marmo azzurro, detto la ruota della fortuna per il contenuto dei rilievi che lo illustrano. La parte centrale della facciata è scandita da sette lesene in marmo rosa e presenta un interessante protiro. Le colonne, a simboleggiare il diritto e la fede, poggiano su leoni che rappresentano la forza. Sulle mensole interne ed esterne del protiro sono rappresentati dodici mesi ed i mestieri ad essi collegati. Uno splendido portale al centro contiene 48 formelle bronzee decorate con motivi sacri e profani, la cui storia si legge a partire dal basso. L’interno è a croce latina, diviso in tre navate da pilastri e colonne corinzie. Nel presbiterio vi è un trittico di Andrea Mantegna di pregevole fattura, che, portato via da Napoleone, fu recuperato, mentre la corrispondente predella, rimasta in Francia, è presente in copia.

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La Cappella grande del Duomo di Verona

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2014

La Cappella grande del Duomo di Verona
Nella cappella grande del Duomo di Verona è presente in nuce quello che sarà lo spirito della vera riforma cattolica in risposta alla rivoluzione protestante che andava in quegli anni affermandosi.

di Martino Cisago – Radici Cristiane

La Cappella grande del Duomo di Verona dans Viaggi & Vacanze 124yn20

Il cuore della cattedrale di Verona, rifatta all’interno nello stile del Quattrocento, è a oriente nella “Cappella grande”. Ad esso conduce la “direzione sacra” ad altare Dei: lì, entro la cancellata marmorea, sull’altare dell’abside romanica trasfigurata dal Rinascimento si offre Cristo.
L’arte sostanziata di sapienza, fede, pratica liturgica e docilità alle direttive spirituali e culturali del vescovo Giberti (Palermo 1492-Verona 1542) – gigante della riforma cattolica e antesignano del Concilio di Trento – ha conferito allo spazio l’aspetto dello scrigno prezioso. Gli affreschi, l’altar maggiore con lo scomparso tabernacolo, il pavimento che copre le tombe di Papa Lucio III e del vescovo Ludovico di Canossa, la recinzione marmorea, gli stalli per il vescovo e il capitolo, le cantorie e gli arredi mobili, sono capitoli di un programma episcopale che anticipò in Verona la riforma della Chiesa.

Il programma iconografico
Il cantiere della cappella si aprì tra il 1527 e il 1528. Le pitture del presbiterio di Francesco Torbido (1482 ca-1561) furono ultimate nel 1534 e fanno parte di un piano generale che potrebbe attribuirsi a Giulio Romano (1494-1546).
Giulio, infatti, aveva conosciuto e lavorato per Giberti a Roma e nel 1528 aveva presentato i cartoni per la decorazione pittorica della cappella. Il ciclo è una novità nel contesto veronese della prima metà del XVI secolo; le conseguenze della maniera romanista di Giulio, frutto del classicismo raffaellesco e dell’antico, saranno per Verona assai significative.
Sul fronte dell’arco vediamo l’Annunciazione e negli incavi della base del fondale architettonico, Isaia, additante il cartigio “Ecce Virgo concipiet”, ed Ezechiele, il profeta della nuova Civitas Dei che l’esegesi medievale aveva eletto simbolo di Maria.
Nella volta del presbiterio e nel catino osserviamo «in quattro gran quadri, la natività della Madonna, la presentazione al tempio, et in quello di mezzo, che pare che sfondi, son tre angeli in aria che scortano all’insù e tengono una corona di stelle per coronar la Madonna, la quale è poi nella nicchia accompagnata da molti angeli, mentre è assunta in cielo, e gli apostoli in diverse maniere et attitudini guardano in su» (Vasari).
Il vescovo Giberti, attento all’anima popolare della devozione, non disprezzava queste storie tradizionali e le volle dipinte nel luogo più santo della cattedrale. I riquadri della natività e della presentazione al tempio evocano quelli della “Bibbia di Raffaello” nella II loggia del Palazzo Apostolico vaticano.
L’intelaiatura architettonica dei grandi affreschi si estende anche alla parte inferiore dell’abside dove sono riconoscibili, nella nicchia, un colossale san Zeno, nel fregio e nelle cantorie suppellettili liturgiche.
I due corali con le antifone Veni sponsa Christi e Salve Regina – preziosità decorative alludenti alla riforma liturgico-musicale di Giberti -, anticipano i monocromi con alcune scene dell’Antico Testamento, che la liturgia applica in modo accomodatizio alla maternità verginale di Maria e al suo ruolo di Madre di Dio: il roveto ardente, il sacrificio d’Isacco, il vello di Gedeone, la radice di Jesse, l’arca di Noè, la legge antica del Sinai, Giuditta e Oloferne, l’acqua dalla roccia, il santuario dalle porte chiuse, la vittoria di Davide su Golia.
Anche qui il programma iconografico accosta dogma e pietas: i dogmi della maternità divina di Maria e della sua verginità perpetua stanno accanto alla dottrina, a quel tempo non ancora definita, dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione.

Presbiterio e altare
La cancellata marmorea, idea presente in nuce negli affreschi, modificò l’assetto del presbiterio. La sistemazione, comprendente l’altare con il tabernacolo, la cancellata e il pavimento è da ricondursi all’architetto veronese Michele Sanmicheli (1484-1559).
L’inizio si ebbe nel 1533, allorquando Giberti volle sepolto in cattedrale Ludovico di Canossa suo amico e alleato anche nel proporre al papa l’idea di una riforma generale della Chiesa. Al centro del presbiterio, alto su un podio di tre gradini, si erge l’altare: un policromo cofano marmoreo aperto sul fronte ovest da una fenestrella confessionis che permette la discesa al suo interno.
La confessione incorporata nell’altare unisce al significato teologico quello apologetico: il protestantesimo disprezzava l’uso di porre le reliquie dei martiri, sacrificio degli uomini che si unisce a quello di Cristo, nell’altare.
Giberti, nel desiderio di emulare Roma, optò per un altare che rammentasse le basiliche romane, ma trascurò la tradizionale posizione di questi altari a oriente. Tuttavia, la cancellata che lo circonda ha la funzione di ridestare, velando, il desiderio del Mistero e indica che non vi è necessità visiva fra il popolo e l’azione sacra all’altare.

Tabernacolo a pianta centrale
Il sistema geometrico della cappella aveva il suo cardine nel tabernacolo a pianta centrale. Giberti fu il pioniere della custodia dell’Eucaristia sugli altari maggiori rendendola obbligatoria in diocesi. Per lui l’altare del Sacramento doveva essere solenne e davvero al centro.
Pier Francesco Zini, un ecclesiastico formatosi alla sua scuola, scrive che il vescovo «rese il coro [della cattedrale] più ampio e più bello con grande arte (…) in modo tale che contenesse il (…) tabernacolo per il Corpo del Signore Gesù Cristo come il cuore nel mezzo del petto e la mente al centro dell’anima (…). Tale è la maestà con la quale è innalzato da quattro angeli di bronzo sull’altare maggiore posto in mezzo al coro, che le menti dei religiosi e dei laici, come è giusto, sono ispirate alla devozione».
Nel 1534 si fusero gli angeli di bronzo che sostenevano la custodia preziosa di cristalli e pietre. Una novità nella forma e nell’iconografia che san Carlo Borromeo pensò bene di proporre per gli altari maggiori delle sue chiese; e pure Papa Sisto V nella cappella sistina a Santa Maria Maggiore volle un tabernacolo così.
Circonda l’altare una cancellata che, sviluppandosi dalle parti estreme dell’abside, ne ripete a rovescio la curvatura. La recinzione evoca altre sistemazioni chiesastiche come quella dell’antica San Pietro descritta nella Donazione di Roma della Sala di Costantino in Vaticano di Giulio Romano e Francesco Penni (1524). Da ultimo la forma sepolcrale dell’altare e il tappeto lapideo, che copre la tomba del papa e dei vescovi Canossa e Giberti, conferiscono al luogo anche un significato funerario.
Così la cappella di Giberti appare grande, bella e spaziosa e adatta alla devozione dei fedeli verso l’altar maggiore dove si celebrava Messa e si conservavano le Sacre Specie. La pianta centrale enfatizza l’altare e il tabernacolo e il tradizionale legame di Maria con gli edifici circolari.

Nello spirito della Riforma cattolica
Tutto è concepito in funzione della Presenza e del dogma mariano. L’altare sotto l’arco, circondato dall’abside e dalla solennità del tornacoro, rende evidente il primato del culto e perciò del Sacrificio Augusto sugli altri interessi della comunità.
L’Eucaristia è la sintesi della storia della salvezza, «il Sacramento più grande e il coronamento di tutti gli altri» (san Tommaso d’Aquino). L’Eucaristia è intimamente legata alla vita della Chiesa e dei fedeli e questa vita si appoggia a essa e in essa continuamente si esprime.
La discesa del Verbo in carne e sangue, annunciata dagli affreschi, si compie definitivamente nel sacrificio del Calvario rinnovato sull’altare. La divina potenza che suscitò il Corpo di Cristo nel grembo di Maria, suscita sull’altare la “mirabile conversione” del pane e del vino che il Concilio di Trento chiama “Transustanziazione”.
Nella Comunione la stessa potenza attua l’intima unione dei fedeli con Cristo immolato per essi e la trasformazione della loro vita nella sua. L’Eucaristia diviene così pegno di quella gloria futura anticipata a Colei che portò Dio nel proprio corpo.
L’Eucaristia renderà vuote le tombe per la gloria. La “tomba nuova… scavata nella roccia”, l’altare, in cui il Verbo incarnato discende fino agli inferi è anche la tomba vuota dell’umanità divinizzata, l’Assunta. La tomba vuota ora è per noi luogo di confessione della fede, di martyria, di venerazione delle reliquie e appello alla santità.

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Una città… da favola: Bergamo, gioiello dell’Alta Italia

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2013

Bergamo, gioiello dell’Alta Italia
Tra i tesori d’Italia, incanto irripetibile e forse non conosciuto bene come meriterebbe, è la città di Bergamo. Scopriamone la storia ultramillenaria, la radicata cultura e le meravigliose bellezze di cui è depositaria la Città Alta.
di Riccardo Bevilacqua ed Enzo De Canio – Radici Cristiane

Bergamo.
Veduta notturna della città di Bergamo

Nel sito dell’attuale Bergamo Alta (originariamente sette colline, poi appianate fra loro) sorgeva già nel VI–VII a.C un centro abitato (oppidum) dei celti orobi, popolazione che rientrava nella cosiddetta cultura di Golasecca, che per molti secoli fece da tramite fra il mondo mediterraneo (etruschi e greci) e quello dei celti transalpini.
La presenza romana, che pure rispettò a lungo autonomie e costumi locali, risale agli inizi del II a.C: la celtica Bérghem divenne il municipio romano di Bergomum, una città ordinata secondo il classico schema dei cardini e dei decumani, con tanto di foro (probabilmente nell’area di Santa Maria Maggiore e della Cappella Colleoni), terme, arena, un capitolium e naturalmente mura.
I Bergomates si latinizzarono gradualmente, ottennero la cittadinanza romana ai tempi di Cesare, fornirono all’Urbe valorosi legionari e, qualche secolo dopo, cominciarono a ricevere la Buona Novella.

Bergamo.
Urna contenente le spoglie del patrono di Bergamo, Sant’Alessandro

Bergomum diviene cristiana
San Narno fu il primo vescovo, ma maggior fama ebbe il martire Sant’Alessandro, futuro patrono, un soldato di origine egiziana che fu decapitato alla fine del III d.C. in Città Bassa, poi sepolto con il debito onore nella Basilica paleocristiana in Città Alta che da lui prese il nome.

Vennero poi i tempi delle invasioni barbariche, Bergamo fu capitale di un potente ducato longobardo e la presenza di questa gente germanica influì in maniera non secondaria sui costumi, le leggi, la lingua, la composizione etnica (una larga parte, ad esempio, dell’originaria nobiltà è di origine longobarda, a partire dai Suardi, articolatisi poi in varie casate tuttora esistenti).
Nel 774 Bergamo con la sua provincia divenne centro di una contea franca, ma verso la fine del IX-inizi del X secolo i vescovi, a partire da Adalberto, assunsero il controllo anche politico della città, coadiuvati nel governo dalle famiglie di nobili, feudatari e maggiorenti, quelle che poi, nel 1098, crearono un nuovo regime, il libero Comune, originariamente gestito da aristocratici sovente in dissidio fra loro, come i Suardi (Ghibellini), i Rivola e i Colleoni (Guelfi).

Bergamo.
Il percorso della funicolare che collega la città Bassa a quella Alta

Nel cuore delle lotte fra Chiesa e Impero
Bergamo partecipò alle lotte dell’epoca del Barbarossa: nel famoso Monastero Cluniacense di San Giacomo di Pontida si sarebbe svolto il famoso Giuramento. Conobbe poi ulteriori scontri politico-sociali anche per l’emergere del cosiddetto Popolo (in realtà la borghesia più ricca). Col tempo i dissidi indussero i vari capi partito bergamaschi ad appoggiarsi a più potenti referenti milanesi, così la città, in larga misura su impulso dei ghibellini Suardi, entrò nel 1332 nella Signoria del ghibellino Azzone Visconti. Il dominio di questa famiglia durò fino al 1428 e fu decisamente poco tranquillo, sia per l’opposizione dei Guelfi, soprattutto delle Valli, sia per l’eccessiva oppressione fiscale ai danni della popolazione.

Bergamo.
Mura Venete

Venezia signora di Bergamo
Il dominio veneto, che sapeva rispettare con intelligenza le autonomie locali, fu turbato agli inizi del ‘500 dall’invasione francese, ma abbastanza presto il Leone tornò a dominare in Città Alta e in tutta la Bergamasca, cioè nell’area di Terraferma geograficamente più lontana dalla Dominante.

A Bergamo in questi anni operarono artisti “foresti” quali Lorenzo Lotto, ma anche quelli locali furono sovente di notevole valore, ad esempio Palma il Vecchio o il Moroni. Tra i personaggi di altro genere dell’epoca ricordiamo Gabriele Tadino, detto il Martinengo, Cavaliere di Malta e grande architetto militare, capace di dare moltissimo filo da torcere ai turchi: fu ritratto da Tiziano.
Via via Bergamo, sostanzialmente soddisfatta della dominazione veneta, mostrò di saper dare in più occasioni un proprio contributo significativo alla lotta per la Fede: così non pochi bergamaschi si batterono egregiamente a Lepanto. A turbare la serenità della città furono solo le distruzioni inevitabilmente provocate dalla costruzione delle Mura Venete (1561), pur necessarie per proteggere la città da eventuali brutte tentazioni degli spagnoli insediati a Milano.
Nel ‘600, tutto sommato tranquillo, la città fu purtroppo pesantemente toccata dalla famosa peste manzoniana, mentre nel secolo successivo il dato più notevole fu l’espansione della Città Bassa, con attività commerciali e artigianali che a fine agosto, specie nel campo tessile (la seta) trovavano occasione di valorizzazione nella Fiera di Sant’Alessandro, in locali in muratura nell’attuale Piazza Dante.

Bergamo.
Veduta del centro di Bergamo bassa, Piazza Vittorio Veneto

Nel vortice delle guerre napoleoniche
Purtroppo verso la fine del secolo la diffusione delle idee illuministiche attecchì in città fra non pochi nobili e borghesi, “convertiti” al credo massonico; furono costoro, nel 1797, a supportare il colpo di Stato con il quale le truppe napoleoniche abbatterono il dominio veneto, grazie anche ad una vergognosa provocazione (l’incendio del teatro cittadino), attribuita falsamente all’ultimo capitano della Serenissima.
Il popolo della città non mostrò eccessivo entusiasmo per le novità e le esibizioni dei giacobini locali, che tra l’altro si affrettarono a mettere le mani sui beni della Chiesa e delle istituzioni benefiche, spesso a loro personale pro.
Un esempio per tutti è la soppressione del Monastero di Pontida, la cui magnifica biblioteca venne venduta a peso (!) dai suddetti “intellettuali”, ad eccezione dei tomi più preziosi che qualcuno ritenne opportuno far propri… Le autonomie dei vari quartieri e dei centri vicini vennero eliminate in nome del centralismo democratico.
I Valligiani insorsero, parroci in testa, in nome di Maria e di San Marco, ma vennero purtroppo massacrati alle porte del capoluogo. Giunsero i tempi della Repubblica Cisalpina, con un breve intermezzo austro-russo, poi di quella cosiddetta Italiana, infine del napoleonico Regno d’Italia (dal 1805 al 1814), con tante tasse, i giovani mandati a morire di qua e di là per l’Europa nelle guerre del Buonaparte, con il cosiddetto brigantaggio che si diffondeva sempre più, trovando capi popolari quali Pacì Paciana, “il terrore della Val Brembana”.

Bergamo.
Gaetano Donizetti, uno dei maggiori autori melodrammatici italiani

L’anima cattolica rimane salda
Con l’unificazione, a fronte del predominio politico liberale, come del resto in tutta Italia, andò crescendo il peso dell’opposizione dei cattolici che – non dimentichiamolo – non votavano alle elezioni politiche, ma lo facevano alle amministrative, condizionando così le varie giunte locali.

Nello sviluppo del movimento cattolico, che si estese a società di mutuo soccorso, mense popolari, sindacati, banche e quotidiani (L’Eco di Bergamo, tuttora dominante per diffusione), spiccano i nomi di Nicolò Rezzara e, soprattutto, del conte Stanislao Medolago Albani: grazie a loro, tra l’altro, fu possibile mitigare la povertà allora molto diffusa e contrastare la propaganda socialista.
Nella Prima Guerra Mondiale si distinsero gli alpini e in generale i combattenti orobici, primo tra tutti il grande aviatore, poi podestà, Antonio Locatelli, compagno di D’Annunzio nel volo su Vienna e triplice Medaglia d’Oro al Valor Militare.
In epoca fascista la città fu profondamente rinnovata in senso architettonico, specie nel centro piacentiniano di Città Bassa; gerarchi di spicco a livello nazionale furono i bergamaschi conte Giacomo Suardo e il sindacalista Nino Capoferri.
Dopo il ’43 la guerra civile segnò dolorosamente la vita dei bergamaschi, già colpiti da tragedie come il micidiale bombardamento di Dalmine, sede di un’importante industria siderurgica a pochi chilometri dal capoluogo, né mancarono, all’indomani del 25 aprile, eccidi come quello di Rovetta (in alta Val Seriana).
Nonostante le violenze contrarie, la Bergamasca, il 2 giugno del’46, si dichiarò a maggioranza per la monarchia, poi iniziò un più che quarantennale dominio politico democristiano. Fra le eredità della tradizionale e sincera fede cattolica nella Bergamasca ricordiamo anche il risultato, nei pur tristi anni ’70, delle votazioni per il referendum volto ad abolire l’omicidio di massa dell’aborto. La provincia di Bergamo si espresse, contrariamente a troppe parti d’Italia, per il sì all’abrogazione.
Tornati gli austriaci nel 1814, Bergamo rimase tranquilla fino al 1848, ebbe un capo liberale di rilievo in Gabriele Camozzi; dodici anni dopo fu l’industriale tessile Francesco Nullo a spiccare fra i garibaldini bergamaschi. Proprio nel ’48 muore il bergamasco Gaetano Donizetti, uno dei maggiori rappresentanti del melodramma italiano. Tra i suoi capolavori rammentiamo Elisir d’amore, Lucia di Lammermoor e La Figlia del Reggimento. Molto interessante è il museo a lui dedicato all’interno del Conservatorio di Musica, in via Arena, in Città Alta. Proprio le genti delle Valli furono le prime ad accogliere volentieri, già nel 1426, due anni prima della città, il nuovo dominio veneziano, e bergamasco era, non dimentichiamolo, il grande condottiero Bartolomeo Colleoni, capitano generale delle milizie della Serenissima, innovatore in campo militare, raffinato mecenate nel suo stupendo castello di Malpaga; è sepolto alle spalle di Piazza Vecchia nella celebre Cappella Colleoni, opera dell’Amadeo e tuttora proprietà dei suoi discendenti.

Una città... da favola: Bergamo, gioiello dell'Alta Italia dans Viaggi & Vacanze Divisore

Una città… da favola

Del fascino della città di Bergamo, del suo prestigioso patrimonio artistico, uomini famosi hanno detto e scritto. L’architetto Frank Lloyd Wright l’ha definita «… meravigliosa… sorprendente sino a stordire…», Stendhal addirittura «Il più bel luogo della terra e il più affascinante mai visto». Torquato Tasso, che era nato a Salerno ma la considerava sua patria, ne parla con grande nostalgia nelle sue lettere e le ha dedicato un sonetto che l’Ateneo bergamasco ha fatto incidere su una tavola di marmo. Per coglierne l’atmosfera, la vera anima bisogna, come sempre, andarci.
di Annamaria Scavo – Radici Cristiane

Bergamo.
Città Alta, gruppo monumentale

Cresciuta ai piedi delle prealpi Orobie, allo sbocco di verdi vallate alpine, davanti ad un’ampia pianura, Bergamo, per l’importanza strategica della sua posizione, ha iniziato ben presto la sua storia. Dal V secolo a.C. in poi i popoli più vari l’hanno percorsa ed abitata (liguri, etruschi, galli, romani, franchi, longobardi, prima di passare ai Visconti e alla Serenissima Repubblica di Venezia le cui tracce sono ovunque evidenti), e una vivace vita storica ha lasciato visibili tracce nel patrimonio culturale ed artistico.

Bergamo.
Portale meridionale della Basilica di Santa Maria Maggiore

Bergamo di sopra
Quando emerge dalla fitta nebbia padana, con il suo inconfondibile profilo animato da cupole, campanili e torri (si dice che un tempo fossero circa trecento), sembra illustrare una vecchia favola. Sarà forse anche per le robuste mura rinforzate da bastioni che la cingono, poderosa opera di architettura militare con cui i veneziani a partire dal 1561 hanno fortificato preesistenti mura romane. Non mancano un castello, quello di San Vigilio con quattro torrioni e una rocca con il mastio.
Dentro, un mondo antico, fatto di monumenti importanti ma anche di una particolare atmosfera, di viuzze acciottolate, piazzette, fontane, scalinate, vicoli, angoli suggestivi che riportano indietro nel tempo di secoli, dove ci si potrebbe attendere da un momento all’altro di veder passeggiare i personaggi delle opere buffe di Donizetti, il noto compositore lirico dell’Ottocento che in Bergamo ha avuto i suoi natali.
Quattro importanti porte danno accesso alla parte alta. Tutte costruite fra la seconda metà del 1500 e il 1627, ospitavano i corpi di guardia permanenti e l’esattoria. Solo in occasione della catastrofica pestilenza del 1630 (quella di cui racconta il Manzoni) le porte urbane per ben due volte rimasero aperte e incustodite, pare per tre mesi circa, non essendoci sopravvissuti.
La più cara ai bergamaschi, quella considerata principale, è la porta di Sant’Agostino. Progettata nel 1575 da Paolo Berlendis assieme alla fontana monumentale interna, introduce subito ad un “gioiello” della città, il Monastero con la chiesa di Sant’Agostino.
L’importante complesso conventuale gotico-rinascimentale dai chiostri armoniosi, pare sia stato imprevedibilmente salvato dalla pesante distruzione di opere che accompagnava la fabbrica delle mura venete, grazie ad una borsa piena di zecchini d’oro allungata alla persona giusta nel momento giusto.
La chiesa, ha una bella facciata tardo-gotica in pietra arenaria, con due quadrifore a sesto acuto, un portale a tutto sesto e il tradizionale rosone gotico sovrastato dalla statua del Santo protetta da una nicchia.
La copertura interna dell’unica navata è ritmata da grandi archi ogivali molto suggestivi dall’intradosso dipinto che lasciano a nudo le falde del tetto.
Altri complessi conventuali, tutti antichi, tutti da conoscere costellano la vecchia città, come quello soppresso delle carmelitane. Resta infatti, accanto alla Chiesa del Carmine, un mirabile chiostro quattrocentesco a due ordini sovrapposti che merita andare a cercare in via Colleoni.
Nel 1355 Bernabò Visconti aveva voluto un complesso fortificato, “La Cittadella”. La individuano due caratteristiche torri, quella elegante della Campanella e la torre di Adalberto, senza quasi aperture, tristemente nota come “torre della fame” perché qui Venezia rinchiudeva gli evasori fiscali.
L’insieme si presta attualmente ad ospitare spettacoli e feste popolari e accoglie due importanti musei di Bergamo, quello di Scienze naturali “Enrico Caffi” e il Museo Archeologico.

Bergamo.
Piazza Vecchia, Fontana Contarini

Piazza Vecchia
L’edificio in muratura arenaria ha un caratteristico finestrone centrale di gusto veneziano, cui è stato aggiunto successivamente il balcone, sormontato dal leone di S. Marco. Al primo piano sette capriate in legno per sostenere la copertura. L’orologio solare visibile nel pavimento del portico è del 1798.
Posata sul pavimento regolare in mattoni rossi e lastre di pietra, la elegante fontana detta “del Contarini”, il podestà veneto che la donò alla città.
Di fronte al Palazzo della Ragione, la Biblioteca civica Angelo Mai, una delle più ricche biblioteche italiane (oltre seicentomila volumi e preziosi incunaboli), un tempo sede municipale. Poco rimane dell’originale Palazzo del Podestà, oggi occupato dell’Ateneo.
Non può mancare la Torre civica (il Campanone) centro vitale e istituzionale, luogo rappresentativo di Città Alta e quindi di Bergamo, che da quasi un millennio proietta la sua ombra sui momenti importanti della vita cittadina, protagonista in tempo di festa, quando le tre campane chiamavano la cittadinanza ad onorare il santo patrono, nei momenti di pericolo, per i ripetuti incendi che hanno coinvolto il Campanone stesso e gli edifici adiacenti, e sempre, ogni giorno ancora oggi, quando battono gli oltre cento rintocchi delle 22.00 che un tempo ricordavano la chiusura delle porte d’ingresso alla città.
Attorno al Campanone nei secoli sono state costruite le sedi del potere politico (Palazzo del Podestà, Palazzo della Ragione e Palazzo dell’Istituto Tecnico) e del potere spirituale (complesso della Curia vescovile), ma anche botteghe, carceri, istituti culturali (Palazzo dell’Ateneo) e luoghi di culto e di memoria che ospitano tesori artistici di rilievo come il Duomo, Santa Maria Maggiore e la Cappella Colleoni.
Oggi, la Torre, che all’epoca della costruzione era 37,7 metri, a seguito di successivi sopralzi, tocca i 52,76 metri di altezza. La base ha muri spessi quattro metri e un tempo era luogo di tortura e di carcere duro. Ora funge da osservatorio della Città Alta e dell’abitato in piano ed è destinata a divenire sede del Museo storico cittadino.

Bergamo.
Veduta del Battistero, del Duomo, della Cappella Colleoni, di Santa Maria Maggiore

Piazza del Duomo e la Cappella Colleoni
Anche il Duomo, con la sua facciata ottocentesca, è addossato al palazzo della Ragione. Sorge sull’antica cattedrale di San Vincenzo ed è ora dedicato a Sant’Alessandro, patrono della città. Contiene notevoli dipinti fa cui uno di Giovan Battista Tiepolo.
La piazza è però visivamente dominata da uno degli edifici più emblematici di Bergamo, la Cappella Colleoni, capolavoro in assoluto del primo Rinascimento lombardo anche se, per molti dettagli, la facciata ricorda il gusto gotico fiorentino. A volerla, un grande condottiero che desiderava sepoltura nel luogo più prestigioso della città (tanto da far sacrificare la sagrestia della basilica accanto) ed il suo giovane ma già noto architetto e scultore che si era messo in luce nella fabbrica del Duomo di Milano e della Certosa di Pavia.

Bergamo.
Monumento funebre di Bartolomeo Colleoni, all’interno della Cappella

Architettura medioevale e veneziana ispirano quest’opera, con una cupola genialmente leggera che poggia su tamburo ottagonale rivestito da balaustra e sormontata da una lanterna. Il corpo della Cappella sopravanza il protiro della basilica accanto quel tanto che basta a porla in una gerarchia spaziale vincente. Preziosamente decorata anche all’interno, ospita il corpo del condottiero e della diletta figlia Medea.
Alla destra della Cappella un gioiellino, il Battistero, che dopo essere migrato da Santa Maria Maggiore ad un cortile del Duomo, si è conquistato il suo onorevole posto sulla piazza.
Piazza del Duomo, di Piazza Vecchia è in un certo senso la continuazione. Lì, quasi a voler significare quanto storia e arte si compenetrino, i palazzi, sembrano contendersi lo spazio.
La basilica di Santa Maria Maggiore, opera assai importante, costruita su una precedente chiesa per sciogliere un voto alla Vergine Maria, conserva all’esterno l’originaria struttura romana a croce greca, mentre l’interno è stato modificato nel XVI e XVII secolo.
Contiene un importante presbiterio, preziosi affreschi trecenteschi nel transetto, un grande crocifisso in legno del 1300 e la tomba di Gaetano Donizetti. Due protiri di particolare bellezza e la grande abside sono tutto ciò che compare all’esterno, poiché la basilica curiosamente non ha facciata essendo corpo unico con la Cappella Colleoni. La città Alta continua in un labirinto di stradine, absidi, torri, guglie. L’atmosfera irreale di un ambiente rimasto fermo nel tempo, si apre ogni tanto in una visione deliziosa.
È quanto capita uscendo nella meravigliosa Piazza Vecchia, cui fa da quinta il Palazzo della Ragione, simbolo della libertà comunale medievale.
Eretto nella seconda metà del XII secolo, il palazzo aveva un orientamento opposto all’attuale, finché nel 1453, dopo un incendio, non fu deciso di invertirlo, aprendo i fornici e le trifore, costruendo una scala coperta che conduce al primo piano e sistemando il piano terra con quattro colonne tuscaniche e una loggia a volte che mette in comunicazione la Piazza Vecchia con quella del Duomo, un’opera completata dopo il 1520 dall’architetto Pietro Isabello.Bergamo si presenta divisa in due parti ben distinte, la Città Alta e la Città Bassa, collegate da strade e scalinate e da una pittoresca funicolare che dal 1886 supera un dislivello di circa ottanta metri in poco più di duecento di lunghezza.
La Città Alta, è la parte più antica, da sempre la sede delle istituzioni e del potere.

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Sulle tracce di Maria: Saragozza

Posté par atempodiblog le 6 octobre 2013

Sulle tracce di Maria: Saragozza dans Apparizioni mariane e santuari 1bbq

Il Santuario della Virgen del Pilar, una delle più grandi chiese al mondo, è costruita intorno alla colonna (pilar, in spagnolo) da dove nel 40 d.C. Maria, lì trasportata dagli angeli, ha parlato all’apostolo Giacomo. La Virgen del Pilar è anche legata al “miracolo dei miracoli”, avvenuto nel 1640, quando a Miguel Juan Pellicer «fu restituita la gamba che da molto tempo gli era stata amputata».

Divisore dans Diego Manetti

La nuova Bussola Quotidiana: Ogni primo sabato del mese, su Radio Maria, va in onda alle 22.45 un programma condotto da Diego Manetti e titolato “Sulle tracce di Maria”. Si tratta di un cammino che, puntata dopo puntata, porta gli ascoltatori nei tanti santuari dedicati alla Madonna. Per gentile concessione dell’autore, seguiamo anche noi questo cammino, pubblicando la trascrizione di ogni puntata del programma, non appena terminata. Dopo quelle dedicate a Notre Dame du Laus e alla Regina della Famiglia delle Ghiaie di Bonate (Bg), oggi è la volta della Virgen del Pilar di Saragozza.

Sulle tracce di Maria Freccia dans Libri Saragozza

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La chiesa di San Sulpizio, a Parigi, dove il Montfort celebrò la sua prima Messa

Posté par atempodiblog le 13 août 2013

Saint Sulpice, monumento di architettura e di fede

- L’interno, capolavoro dello stile classico francese, porta soprattutto il marchio dell’architetto Gittard risalente al 1660.

- La facciata, a cui è collegato il nome di Servandoni, é fatta di elementi aggiunti dopo il 1750.

Fonte: Église Saint Sulpice Paris

La chiesa di San Sulpizio, a Parigi, dove il Montfort celebrò la sua prima Messa dans Apparizioni mariane e santuari igfc

San Luigi Maria Grignion de Montfort [...] nel fiore dei suoi vent’anni, nel seminario di San Sulpizio a Parigi (non lontano da Rue du Bac) dove, nel 1700, venne ordinato sacerdote. Ha celebrato la prima Messa proprio nella chiesa di San Sulpizio, nella cappella dedicata alla Beata Vergine Maria: “Vidi un uomo come un angelo all’altare”, dirà un testimone.

Tratto da: Pellegrino a quattro ruote — Padre Livio Fanzaga

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Nostra Signora delle Vittorie, Parigi

Posté par atempodiblog le 11 août 2013

Nostra Signora delle Vittorie, Parigi

Nostra Signora delle Vittorie, Parigi dans Apparizioni mariane e santuari NS-delle-Vottorie-Parigi

Un po’ di storia…

Il 3 dicembre 1836, il Padre Desgenettes, curato di Nostra Signora delle Vittorie celebrava la Messa a l’Altare della Vergine. La Chiesa era deserta. Aveva deciso di andare a chiedere al Vescovo l’autorizzazione di lasciare la Parrocchia, quando sentì ben distintamente queste parole: “Consacra la Parrocchia al Santissimo Cuore Immacolato di Maria”.

Rientrato a casa sua, si mise a comporre gli statuti di una confraternita mariana di preghiera, avente come scopo la conversione dei peccatori.

La domenica seguente, 11 dicembre, dopo la Messa, annunciò ai 10 fedeli presenti la sua intenzione di consacrare la Parrocchia al Cuore di Maria all’ora dei Vespri. La sorpresa fu grande di vedere in quel momento la Chiesa piena e da allora restò sempre così!

Conversioni e numerose grazie furono da allora attribuite a profusione in questo luogo, Rifugio dei peccatori, come testimoniano i circa 37.000 ex-voto che ricoprono le pareti.

L’arciconfraternita fu riconosciuta da Papa Gregorio XVI il 24 aprile 1838. Ha accolto dall’origine più di 1.680.000 membri individuali, e ha affiliato più di 21.000 comunità, distribuite in tutto il mondo.

Luogo di grande spiritualità, Nostra Signora delle Vittorie ha ricevuto da Papa Pio XI il titolo di Basilica nel 1927.

Il Curato d’Ars e tante altre persone, famose e non, sono iscritte all’Arciconfraternita.

Per approfondire Freccia dans Viaggi & Vacanze La Basilica di Nostra Signora delle Vittorie di Parigi

Prossime feste nella Basilica

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L’Assunzione della Vergine Maria

14 agosto

18:00 primi Vespri dell’Assunzione (non c’è Messa alle 19:00)

21:00 Veglia con processione e a seguire Messa solenne

15 agosto

11:00 Santa Messa solenne

14:45 Santa Messa per glia ammalati (in diretta su Radio Notre-Damehttp://radionotredame.net/)

15:30 Rosario

17:00 Vespri dell’Assunzione

18:00 Messa della sera e a seguire santo Rosario

Coronazione della Beata Vergine Maria

22 agosto

12:15 Messa solenne

14:45 Messa per gli ammalati (su Radio Notre-Damehttp://radionotredame.net/)

15:30 Celebrazioni mariane, Rosario, Adorazione del Santissimo

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I festeggiamenti del 3 e 4 agosto a Rue du Bac

Posté par atempodiblog le 11 août 2013

Il 3 e 4 agosto 2013 a Rue du Bac, dove vi ho ricordato in preghiera, ci sono stati i festeggiamenti per l’anniversario della dedicazione della Cappella consacrata al Sacro Cuore e, successivamente, a Nostra Signora della Medaglia Miracolosa. La Cappella fu solennemente benedetta il 6 Agosto del 1815 e dedicata al Sacro Cuore di Gesù.

I festeggiamenti del 3 e 4 agosto a Rue du Bac dans Apparizioni mariane e santuari 2yulylz

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Per approfondire Freccia Rue du Bac – Medaglia Miracolosa

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Sainte-Chapelle, un gioiello dello stile gotico fiorito

Posté par atempodiblog le 11 août 2013

Sainte-Chapelle, un gioiello dello stile gotico fiorito

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Nel cuore de l’Île de la Cité

Il Palazzo della Cité, sede e residenza potere reale dal X al XIV secolo, comprende la Conciergerie e la Sainte-Chapelle, racchiuse nel Palazzo di giustizia, la sua nuova assegnazione.
La Sainte-Chapelle venne edificata fra il 1242 e il 1248 per conservare al suo interno, secondo la volontà di Luigi IX (re dal 1226 al 1270 e futuro San Luigi), le reliquie della Passione di Gesù. La più celebre tra queste, la Corona di Spine, venne acquistata nel 1239 per una somma che superava di gran lunga le spese di costruzione dell’edificio stesso.

Un’importanza religiosa e politica

Le Sante Reliquie appartenevano agli imperatori di Costantinopoli fin dal IV secolo.
Acquistando queste reliquie, Luigi IX aumentò il prestigio della Francia e di Parigi che diventò, agli occhi dell’Europa medievale, una nuova “Nuova Gerusalemme” e, allo stesso tempo, la seconda capitale della cristianità. Durante il periodo della Rivoluzione, la Sainte-Chapelle, simbolo della regalità di diritto divino, subì molti danni. Ciononostante, le vetrate sono ancora oggi quelle originali. Dal 1846, l’edificio fu oggetto di importanti lavori di restauro, che conferirono al momento il suo aspetto attuale.

Due santuari sovrapposti

In origine, le reliquie erano esposte e venerate nella cappella superiore. Solo il re, le personalità della sua cerchia e il collegio dei canonici incaricati degli uffici liturgici potevano accedervi tramite la terrazza esterna, in quel tempo collegata al Palazzo. La cappella inferiore era il luogo di culto riservato al personale del Palazzo.
La pianta, di tipo basilicale con abside semicircolare, è molto semplice e verrà usata come modello per le altre Sainte-Chapelle, tra cui di Vincennes e Châteaudun.

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La cappella inferiore

La statua della Vergine, patrona del santuario, accoglie il visitatore al portale. All’interno, il ripristino delle decorazioni policrome risale, come le decorazioni scolpite nel portico, ai lavori di restauro del XIX secolo. Alla sinistra dell’abside, al di sopra dell’antica sacrestia, un affresco del XIII secolo rappresenta l’Annunciazione. Si tratta della più antica pittura murale di Parigi.
La volta ribassata è sostenuta da puntelli traforati che collegano le colonne delle navate laterali ai muri laterali. Questi ultimi sono animati da fughe di archi ciechi tribolati e da 12 medaglioni raffiguranti gli apostoli. I gigli sul fondo azzurro delle volte si ritrovarono sulle colonne alternati a torri su fondo porpora, insigne della regina Bianca di Castiglia, madre di Luigi IX.

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La cappella superiore

Vero e proprio reliquiario monumentale, questa cappella è stata sontuosamente decorata. Sculture e vetrate in tripudio rendono gloria alla Passione di Cristo e danno l’impressione di raggiungere la Gerusalemme celeste, inondata di luce e di colore. Le vetrate hanno contribuito moltissimo alla fame della Sainte-Chapelle.
Le 1113 scene rappresentante nelle 15 vetrate raccontano la storia dell’Umanità, dalla Genesi alla resurrezione di Gesù. Quattordici vetrate, che rappresentano altrettanti episodi tratti dalla Bibbia, vanno lette da sinistra a destra e dal basso verso l’alto.

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1 La vetrata sulla storia delle reliquie della Passione è l’unica da leggersi secondo l’ordine della scrittura bustrofedica. Nella parte inferiore delle lancette, la vetrata illustra la scoperta delle reliquie da parte di Sant’Elena a Gerusalemme, fino al loro arrivo nel regno di Francia.

2 La statua di San Pietro è quella dell’origine, come altre 5 statue di apostoli. Il santo tiene le chiavi del Paradiso. Le statue dei 12 apostoli, “pilastri della Chiesa”, sono simbolicamente disposte lungo la navata in corrispondenza delle imposte delle volte sulle crociere a ogiva. Queste statue ben rappresentano la scultura parigina tra il 1240 e il 1260, impregnata d’armonia e caratterizzata da volti idealizzati.

3 La grande teca contenente 22 reliquie della Passione di Cristo, tra le quali il frammento della Croce e la Corona di Spine, era un tempo esposta sulla tribuna e venne fusa durante la Rivoluzione. Le restanti reliquie sono oggi conservate nel tesoro della cattedrale di Notre-Dame de Paris.

4 Il rosone occidentale illustra il libro profetico di San Giovanni: l’Apocalisse è rappresentata simbolicamente di fronte alla Passione di Cristo, nella vetrata assiale del coro. Al centro del rosone, il Cristo ritorna in gloria alla fine dei Tempi per giudicare i vivi e i morti.

I 100 capitelli con decorazione a foglie dei muri laterali sono tutti diversi. In corrispondenza delle pietre angolari delle fughe di archi, gli angeli ricordano le 42 scene di martirio raffigurate nei quadrilobi.

L’Île de la Cité

La sede del potere reale

Nel I secolo a.C., la tribù gallica dei Parisi si insediò su un’isola in mezzo alla Senna (la futura Île de la Cité) e vi fondò la città di Luteria. Nel V secolo, questa città prese il nome di Parigi. Nel VI secolo, Clodoveo, primo re dei Franchi, scelse il palazzo della Cité come dimora reale. suo figlio Childerberto, in seguito, fece costruire la prima cattedrale di Parigi. Alla fine del X secolo, Ugo Capeto, primo re capetingio, insediò il suo consiglio e la sua amministrazione nel palazzo che divenne così la sede del potere reale.

Il palazzo abbandonato dai re

Nel 1248, quando Luigi IX firmò l’atto relativo alla fonazione della Sainte-Chapelle, la vicinissima cattedrale di Notre-Dame presentava già la sua attuale facciata. Nel 1358, i consiglieri di re Giovanni II, detto il Buono, furono assassinati sotto gli occhi del Delfino, il futuro Carlo V, il quale, diventato re, scelse di abitare in luoghi più protetti: la residenza di Saint-Pol, edificio andato poi distrutto, il Louvre e Vincennes,. L’amministrazione reale, il Parlamento, la Cancelleria e la Camera dei Conti rimasero a lungo nel palazzo capetingio, ma nel corso dei secoli venne mantenuta solo la parte giudiziaria con l’annessa prigione.
Oggi, la Sainte-Chapelle e la Conciergerie sono le uniche parti ancora visibili del più antico palazzo dei re di Francia.

Fonte: Centre des monuments nationaux

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Per approfondire Freccia La Sainte-Chapelle di Parigi, scrigno di luce

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La Napoli di Dostoevskij

Posté par atempodiblog le 20 juillet 2013

La Napoli di Dostoevskij
Lo scrittore russo rese omaggio ne “L’idiota” alla città partenopea, in cui soggiornò un paio di volte e che paragonò alla Nuova Gerusalemme. Lo ricorda la studiosa Tat’jana Kasatkina
di Nicola Sellitti – Russia Oggi

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Dostoevskij e Napoli. Un legame intenso, con pochi riferimenti nella storiografia del grande scrittore russo. Un amore per la capitale del Mezzogiorno descritto ne “L’idiota”, realizzato a Firenze nel 1868, in uno dei suoi due viaggi in Italia.

Tatiana Kasatkina, direttrice del Dipartimento di Teoria della Letteratura all’Università pedagogica di Mosca e della commissione di studio su Dostoevskij all’Accademia russa delle Scienze, racconta dell’esperienza napoletana e italiana dell’autore di numerosi capolavori della letteratura ottocentesca, a margine della conferenza “Lo sguardo di Dostoevskij sul mondo e sull’uomo”. Un evento organizzato a Napoli dal Centro Culturale Neapolis su alcuni temi tratti dal libro scritto nel 2012 dalla studiosa “Dal Paradiso all’Inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij” (edizioni Itaca, a cura di Elena Mazzola). Il rapporto tra Cristo e verità, la religione, la libertà. L’uomo che determina l’ambiente che lo circonda, non l’opposto. E il mondo che sarà salvato dalla bellezza.

Professoressa Kasatkina, la storiografia ha lasciato poche tracce sulla presenza del grande scrittore a Napoli.
Dostoevskij arrivò a Napoli con la giovane moglie, Anna Gregorievna Snitkina, sua stenografa e compagna fedele di peregrinazioni. È vero, non ci sono molte notizie sul suo soggiorno napoletano. Ma parla della città ne “L’idiota”. E delineava Napoli come l’immagine della nuova città, della nuova Gerusalemme. Un posto dove l’eroe vuole andare oltre l’orizzonte. Per lui, Napoli era un luogo “dove la Terra respirava il mistero”. Non un luogo legato agli aspetti della quotidianità. Napoli, soprattutto, predisponeva naturalmente alla bellezza.

Crede che il carattere di Dostoevskij fosse compatibile con Napoli, con la visione della vita che hanno i partenopei?
Lo scrittore arrivò in Italia (ci è stato in due occasioni) in un momento particolare della sua vita, non stava bene di salute, la figlia era morta qualche tempo prima, ripensava alle difficoltà dovute alla censura in Russia sulla rivista fondata con il fratello, Vremya – Il Tempo -, e in più, aveva perso molti soldi alla roulette russa a Givevra, in Svizzera. Di sicuro l’approccio alla vita dei napoletani, ottimista e gioioso, gli venne parecchio in aiuto. Senza contare che a Napoli incontrò Herzen, filosofo e intellettuale russo, un mito dell’Ottocento, nobile schierato contro l’autoritarismo e a favore della causa contadina. Non ci sono però notizie sull’esito del loro rapporto napoletano.

In generale, vede punti di contatto tra il carattere, il modo di vivere dei suoi connazionali e dei napoletani?
Certo, vedo molti elementi in comune tra russi e napoletani. Soprattutto, la profondità, la passionalità e un pizzico di follia.

L’Italia è solo una delle tappe europee nel percorso di Dostoevskij. Che considerazione aveva della realtà politica e culturale del Vecchio Continente?
Dostoevskij aveva un’ottima considerazione dell’Europa e soprattutto della cultura europea, elemento determinante nella formazione culturale dei russi. “Per diventare russo si deve possedere la ricchezza europea”, era solito dire più volte. Dell’Europa odiava il fango della quotidianità, così come in Russia. Dostoevskij era anche fortemente convinto dell’amore che i suoi connazionali nutrivano per l’Europa.

Dostoevskij ha scritto L’idiota” a Firenze. Quanto fu influenzato dalla realtà religiosa, politica e sociale italiana?
Più che dalla situazione politica, Dostoevskij fu fortemente ispirato dai messaggi che lanciava la pittura italiana. A Firenze si stava compiendo un passaggio epocale: gli artisti raffiguravano nelle loro opere il messaggio di Gesù Cristo, invitando gli spettatori a cogliere quel messaggio e a metterlo in pratica nella vita quotidiana. E Dostoevskij ne fu affascinato e fece lo stesso nel suo capolavoro.

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Buone vacanze!!

Posté par atempodiblog le 15 juillet 2013

 Il tempo della libertà dans Don Luigi Giussani buonevacanze

Atempodiblog prende una pausa estiva.

Gli aggiornamenti saranno meno frequenti, ma potrebbe anche esserci qualche novità nelle prossime settimane… quindi occhio al blog. f4.png

Buone vacanze con Gesù e Maria sempre nel vostro cuore!

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Vacanze cristiane

Posté par atempodiblog le 15 juillet 2013

Il cattolico si distingue anche dal modo in cui si riposa e si diverte. Il Timone propone ai suoi lettori un vademecum di consigli utili per una vacanza da cristiani. Per non dimenticarci che, anche sotto l’ombrellone o in cima a una montagna, la meta della vita non è un pacchetto turistico, ma il Paradiso
Tratto da: Il Timone

Vacanze cristiane dans Articoli di Giornali e News an1xuh

Arriva l’estate e l’uomo moderno si misura con un appuntamento obbligato quasi per tutti: le vacanze. Faccenda profana, ma che ha a che fare con i temi della fede e dell’apologetica. Perché il cattolico si riconosce anche dalle vacanze che fa.
Ovviamente, c’è una grande libertà di scelta tra le molte opzioni che abbiamo a disposizione, in una forbice che va da Borghetto Santo Spirito alle Antille. Ma dentro questa libertà ci sono alcuni punti fermi che ci dovrebbero guidare anche durante le nostre ferie. Proviamo a stilare un piccolo vademecum per “la vacanza cattolica”.

1. Continua a essere cristiano anche in vacanza.
Questo dovrebbe essere il punto di partenza di ogni cattolico che progetta il suo tempo di riposo e di divertimento. Andare tre settimane in Patagonia non è un delitto per un cristiano. Ma lo diventa se uno nemmeno si pone la domanda: e la Messa? In tempi di turismo globale, e di pacchetti turistici che ci portano agevolmente ovunque, bisogna stare attenti a non dimenticarsi l’essenziale: che non è il passaporto, ma Gesù Cristo. Che si incontra innanzitutto a Messa, almeno la domenica e nelle feste comandate.

2. Riposa ma non oziare.
Vacanza è, semplicemente, cambiare attività. Questo è vero anche solo dal punto di vista umano. C’è qualcosa di patologico nell’idea di “bruciare” il tempo delle ferie nel nulla assoluto, in un’abulia senza costrutto che è, notoriamente, l’anticamera del vizio e del peccato. Per questo motivo anche una giornata di vacanza richiede una certa disciplina, cioè un programma di vita nel quale ci siano tanto riposo e divertimento, il fermo proposito di lasciare da parte il lavoro di ogni giorno, ma anche il tempo per gli altri, a cominciare dai nostri familiari.

3. Stai allegro, divertiti ma non peccare.
Era uno dei consigli fondamentali di don Bosco. La vacanza è un grande privilegio, che i nostri antenati non hanno praticamente conosciuto. Chi dice che è un diritto, esagera. È piuttosto un grande dono, un talento, a patto di saperlo trafficare bene. È innanzitutto un tempo di rigenerazione, e quindi di meritato riposo. È legittimo anche divertirsi, purché questo obiettivo non travolga il primo: infatti, quale riposo è possibile se cerchiamo solo la confusione, la folla assordante, il rumore; se, in altre parole, ricreiamo a centinaia di chilometri di distanza lo stesso scenario confuso e dissipato in cui siamo costretti a vivere ogni giorno? Ci sono ambienti e divertimenti che in sé non sono illeciti, ma che costituiscono l’humus ideale per il peccato. Sono le famose occasioni, e già ricercarle e non fuggirle diventa una colpa grave.

4. Datti delle norme di vita.
Sappiamo benissimo che in vacanza è molto più difficile rispettare un certo ordine nella giornata. Paradossalmente, il lavoro, la scuola e la famiglia impongono un ritmo, degli orari, e dentro questa cornice il cattolico può inserire le sue pratiche di pietà, la Messa, il rosario. Con le vacanze, questi schemi inevitabilmente saltano, e c’è il rischio – spesso la certezza – che vada a farsi benedire anche la vita di fede. Invece che avere più tempo per il Signore, ci dimentichiamo di lui. Anzi: potremmo addirittura aver vergogna di mostrare a parenti e amici che, anche a Cortina o a Ischia, vorremmo andare a Messa in settimana, o prenderci un quarto d’ora per l’orazione. Tenendo sotto controllo l’eccesso opposto – l’ostentazione – dobbiamo invece difendere questi spazi sacri, senza essere d’ostacolo ai legittimi progetti di svago della nostra compagnia.

5. Fai la vacanza proporzionata al tuo tenore di vita.
Non è una questione di dottrina ma di buon senso. Quanti soldi è giusto investire nelle nostre vacanze? Ovviamente non esiste una tabella o una soglia dell’esagerazione. C’è però un criterio sempre buono: evitare gli eccessi, mantenendo una proporzione fra il nostro tenore di vita ordinario e l’investimento per il viaggio di piacere o la settimana al mare o ai monti. Inseguire una vacanza al di sopra delle proprie normali possibilità può essere il sintomo di un’esistenza triste, nella quale si passa l’anno aspettando quei quindici giorni come se fossero l’unica ragione per cui vale la pena vivere. Gli eccessi sono sempre ingiustificati, per ragioni morali e di stile. Inoltre, chi esagera si priva della possibilità di fare, con quel denaro, qualche opera di bene per la Chiesa e per i poveri.

6. Non lasciare che i tuoi figli vadano dove vogliono e con chi vogliono. Vacanze autonome per i figli?

Anche qui, mode e abitudini contemporanee talvolta fanno a pugni con le esigenze della morale. Ad esempio, è assolutamente da riprovare la leggerezza con cui i genitori tollerano o incoraggiano le vacanze congiunte di ragazzi e ragazze; prassi che diviene addirittura “istituzionale” quando due giovani sono più o meno fidanzati. Mandare in vacanza un gruppo di ragazzi e ragazze significa incoraggiarli alla promiscuità; mandarci due fidanzati è “istigazione al peccato”. Significa costruire una generazione di persone senza forza di volontà, appassita prima di fiorire nella freschezza degli anni più belli della vita. Pianificare vacanze cristiane significa anche far ragionare i nostri figli sulla opportunità di certe comitive, e sul primato che comunque la famiglia merita – almeno fino a una certa età – anche in materia di vacanze. Si dice: durante l’anno non c’è nemmeno il tempo per guardarsi un po’ in faccia. Ma se poi arrivano le vacanze e i figli vanno da una parte, e i genitori dall’altra, quando la famiglia sta insieme? E chi l’ha detto che ognuno deve andare in vacanza solo dove ci sono i divertimenti adatti alla sua età, sennò “che vacanza è?” Non conformarsi alla mentalità del tempo, come ammonisce San Paolo, significa anche spezzare questi luoghi comuni e re-imparare a stare insieme nel tempo delle ferie.

7. Fate letture utili ed edificanti.
In vacanza si cerca un po’ di evasione, anche nei libri. Naturale. Tuttavia è consigliabile portarsi al mare o ai monti almeno una lettura edificante che ci faccia conoscere meglio la nostra fede: la vita di un santo, un romanzo apologetico, il saggio di un autore cattolico affidabile, un testo sulla preghiera o sulla dottrina, il Vangelo, il Timone. Insomma: c’è molta scelta, basta volerlo.

8. Visita i luoghi della fede.
Alcuni trascorrono le loro vacanze in un monastero o in un’oasi di preghiera. Bello, ma praticamente impossibile per molti, e certamente per una famiglia. Si può però inserire sapientemente in ogni vacanza la visita ai luoghi della fede più vicini al nostro soggiorno estivo: un santuario, una cattedrale, la città di un grande santo, una comunità di religiosi, un sacerdote amico o il parroco del paesino di villeggiatura. Un modo semplice per insegnare anche ai propri figli che il nostro cuore è con Cristo anche quando ci stiamo rilassando e divertendo.

9. Ricordati degli altri.

La vacanza ci fa pensare che stiamo “incassando” una ricompensa meritata con un anno di lavoro stressante, o di studi faticosi, e guai a chi ce la tocca. C’è il rischio di guardare solo a sé stessi e di abbandonarsi all’egoismo; il mondo ci sussurra suadente che ci meritiamo un po’ di attenzione tutta per noi, e gli altri si arrangino. Ma il cristiano non può dimettersi durante le vacanze: San Josemaria Escrivà scriveva che «la santità e l’autentico desiderio di raggiungerla non si concede né soste né vacanze » (Cammino, n. 129). Allora, teniamo lo sguardo vigile e attento sugli altri, chiediamoci che cosa possiamo fare per aiutarli e se possibile mettiamo loro davanti alle nostre aspirazioni. Gesù ci ripagherà con vacanze bellissime, dove la gioia degli altri diventa la nostra gioia.

10. Non tralasciare i sacramenti.
Durante l’anno diciamo sempre: non ho tempo. Di pregare, di fare direzione spirituale, di confessarmi, di fare una visita in chiesa. In vacanza non abbiamo alibi, e allora approfittiamone. Non c’è fede cattolica senza sacerdote e senza sacramenti. Parafrasando una vecchia, celebre pubblicità di un’agenzia di viaggi, potremmo concludere dicendo: «Cristiano fai da te? No Chiesa? Ahiahahiahi!».

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Il pellegrinaggio

Posté par atempodiblog le 15 juillet 2013

A piedi, in treno o in auto, il pellegrinaggio è una metafora della vita umana, che è un cammino dal tempo all’eternità, dalla terra al cielo, dall’effimero all’assoluto. Per pregare, purificarsi, nutrire l’anima e prepararsi alla meta finale del Cielo.
di Padre Livio Fanzaga – Il Timone

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Il pellegrinaggio è una pratica presente in molte esperienze religiose, in particolare nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’Islam, le tre religioni che fanno riferimento ad Abramo, il pellegrino di Dio per eccellenza. Il Signore disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1). In questo comando vi sono già compresi quegli elementi che distinguono il pellegrinaggio in senso stretto dal semplice turismo, sia pure quello che non disdegna le mete religiose. Infatti, nella dinamica del pellegrinaggio vi è innanzi tutto una rottura con la vita di ogni giorno: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre». All’origine vi è una spinta ad uscire fuori dagli ingranaggi di un’esistenza soffocata dagli affanni del vivere, dalle paure e dalle preoccupazioni del futuro e dai limiti angusti della finitezza. Non si tratta però di una fuga da se stessi e dalle proprie responsabilità. Infatti, l’abbandono del quotidiano è per cercare qualcosa di più grande e di eterno: «Verso il paese che io ti indicherò», dice il Signore.

In questa prospettiva il pellegrinaggio è una metafora della vita umana, che è un cammino dal tempo all’eternità, dalla terra al cielo, dall’effimero all’assoluto. Alla radice della decisione del pellegrino di mettersi in viaggio non vi è tanto un bisogno di evasione, quanto invece il desiderio di infinito. Potremmo dire che il pellegrinaggio religioso è una testimonianza sull’uomo e sul suo destino.

L’uomo non è un animale più evoluto di altri, che si esaurisce nel ciclo finito della materia. In lui vi è una dimensione eterna, che invano si cercherebbe di sopprimere. Nella sua decisione di mettersi in viaggio verso una meta santa, il pellegrino attesta che il cuore dell’uomo è affamato di eternità e che il cielo è la meta a cui siamo stati predestinati.

Il cristianesimo ha ereditato il pellegrinaggio dalla ricca tradizione di Israele. Per ogni buon Israelita era necessario recarsi tre volte all’anno davanti al Signore nel suo santuario (Es 23, 14-19). Infatti là si trova «la casa di Dio» e «la porta del cielo», dove vi è il punto di contatto e di incontro fra Dio e l’uomo. Nel santuario ci si reca innanzi tutto per cercare «il volto di Dio». Alla partenza il cuore si ricolma di gioia: «Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore» (Sal 122,1). Anche il viaggio, per quanto faticoso e non di rado esposto a pericoli, viene percorso festosamente: «verso la casa di Dio camminavamo in festa» (Sal 55,15). Giunti al santuario ci si riposa non solo e non tanto il corpo quanto l’anima, finalmente giunta alla meta dei suoi desideri: «Questo è il mio riposo per sempre, qui abiterò perché l’ho desiderato» (Sal 132, 13-14). Gesù stesso si è fatto pellegrino, salendo a Gerusalemme con i genitori all’età di dodici anni, per obbedire alla legge (Lc 2,41ss) e, nel corso della sua missione, vi sale ancora in occasione di diverse festività.

La tradizione biblica è rimasta viva nel cristianesimo e ha avuto un impulso notevole a partire dal IV secolo, quando la religione cristiana diviene lecita. In questo periodo incomincia la costruzione di grandiosi edifici nei luoghi santi della redenzione, che inaugurano quel pellegrinaggio in Palestina che fino ai nostri giorni è rimasto il «pellegrinaggio» per eccellenza, nonostante le difficoltà dovute all’invasione mussulmana.
Nel medioevo il pellegrinaggio cristiano raggiunge il suo apogeo. Esso è l’espressione di quello straordinario fervore religioso che ha innalzato in tutta Europa della mirabili cattedrali, capolavori di arte, ma soprattutto espressione di fede granitica e di carità operosa.

Accanto a Gerusalemme sono Roma e Santiago de Compostela le mete dei pellegrini nell’ambito della «Respublica christiana», come allora veniva chiamata l’Europa, unita da un’unica fede e un’unica lingua, il latino, mentre fioriscono ovunque pellegrinaggi regionali e locali, in modo particolare laddove sono conservate le reliquie e i corpi dei santi. A partire dall’VIII fino al XVI secolo il pellegrinaggio è stata una pratica altamente espressiva della concezione cristiana dell’esistenza umana. Molti pellegrini lo vivevano come una preparazione al momento estremo della vita, quando l’anima abbandona la scena di questo mondo e compare davanti al Giudice divino. Prima di partire vi erano quelli che vendevano tutti i loro averi per darli ai poveri e iniziare in povertà il cammino purificatore verso l’eternità. Altri facevano il testamento, ben consapevoli dei pericoli che li attendevano lungo vie infestate da briganti e attraverso territori devastati dalla guerra. Nel cuore di tutti vi era un desiderio di purificazione attraverso la preghiera e la dura penitenza del viaggio, oltre al lavacro rigeneratore del luogo santo da raggiungere, con i sacramenti, l’intercessione dei santi e le loro reliquie, ritenute onnipotenti.

Lungo il corso dei secoli il pellegrinaggio era fatto a piedi, o in barca o sul dorso di animali. La fatica del viaggio era una componente penitenziale essenziale. Il pellegrinaggio a piedi ha conservato il suo fascino anche al giorno d’oggi, ma si tratta sopratutto di imprese solitarie e non di una prassi comune come nei secoli andati. Nei tempi moderni ha preso un certo vigore il pellegrinaggio in bicicletta, che ha il vantaggio di comportare anch’esso una certa dose di penitenza corporale, pure essendo assai più rapido di quello a piedi. Si è invece affermato a livello di massa il pellegrinaggio in treno o in corriera. Se ben preparato e guidato produce indubbiamente gli effetti spirituali desiderati, anche se i disagi del viaggio sono minimi.

Personalmente ho scoperto il fascino segreto e la straordinaria efficacia del pellegrinaggio in macchina. Con una quattroruote ho percorso l’Europa da un capo all’altro, visitando i santuari mariani, i luoghi delle apparizioni del Signore e della Madonna, le grandi cattedrali e le innumerevoli sorgenti di santità di cui il nostro continente è punteggiato. Mi è bastato ritagliarmi ogni anno una decina di giorni di ferie per poter tracciare itinerari ricchi di spiritualità, di arte, di cultura e di bellezze naturali. I vantaggi del pellegrinaggio su una quattroruote sono innumerevoli, sia che si compiano da soli che in compagnia. In macchina infatti si può viaggiare pregando e meditando, ottenendo così uno degli obbiettivi primari del pellegrinaggio stesso. Inoltre in macchina si può riposare, mangiare e persino dormire, coniugando le esigenze delle penitenza con quelle del risparmio. Sopratutto in macchina si può andare dove e quando si vuole, senza la schiavitù dei gruppi e degli orari e senza i limiti di distanza e di tempo imposti dal pellegrinaggio a piedi e in bicicletta.

Le componenti di un pellegrinaggio vero in ultima istanza sono: il pellegrino, la strada e la meta. Queste tre componenti sono presenti anche nel pellegrinaggio sulla quattroruote. I giovani e le famiglie in particolare possono inaugurare una stagione nuova e originale del pellegrinaggio cristiano. Le radici dell’Europa non possono restare sulla carta. Vanno riscoperte e rinverdite per una nuova stagione della fede.

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DA NON PERDERE
Padre Livio Fanzaga,
Pellegrino a quattroruote – sulle strade d’Europa, Sugarco Edizioni

Nostra Signora de La Salette dans Apparizioni mariane e santuari pellegrinoaquattroruote

Questo libro è la testimonianza di un vissuto personale. Racconta i pellegrinaggi effettuati in automobile durante le vacanze estive in alcuni dei luoghi di grazia dell’Europa (esclusa l’Italia), santificati dalle apparizioni di Gesù Cristo e della Santa Vergine, oppure dalla presenza dei santi. Si tratta di un’esperienza accumulata nel corso di decenni e che alla fine ha preso la forma di un reportage in prima persona. Tuttavia il protagonista non è tanto il pellegrino, quanto quei luoghi dell’Infinito che egli ha incontrato e che ritiene utile fare conoscere agli altri, affinché possano attingere una nuova forza spirituale da sorgenti d’acqua viva che non cessano di zampillare. Numerosi sono i luoghi descritti per le loro bellezze artistiche, per la memoria storica e soprattutto per le straordinarie ricchezze spirituali: Medjugorje, Cracovia, Wadovice, Auschwitz, Czestochowa, Lourdes, Avignone, Taizé, Paray le Monial, Nevers, Parigi, Ars, Domremy, Reims, Rouen, Chartres, Lisieux, Alencon, Dozulé, Mont-Saint-Michel, Montligeon, Pontmain, Monfort-sur-Meu, Saint-Laurent-sur-Sèvres, Pellevoisin, Issoudun, La Salette, Laus, Banneuux, Beauring, Amsteerdam, Montserrat, Barcelleona, Saragozza, Torreciudad, Peralta del la Sal, Avila, Alba de Tormes, Santiago de Compostela, Fatima.

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