L’abbronzatura, il lifting e la « Bella ragazza » di Nazareth…

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2008

Guardatevi attorno: tutto è un grido verso quel 15 agosto…

L’abbronzatura, il lifting e la

Sembra ieri che abbiamo vinto il campionato del mondo di calcio e già le belle bandiere tricolori messe a sventolare sulle finestre, sulle terrazze, nei bar o nei bagni al mare si sono scolorite. Erano così scintillanti. Ora sono inguardabili. Ne vedi alcune sfilacciate e strappate dal vento, altre consunte dal sole, altre ancora sporcate dalla pioggia. E’ incredibile come facciano presto, le bandiere, a sciuparsi. Tutte le bandiere. Non fai in tempo a crepare per loro che sono già diventate un cencio indecente. Da vessilli garruli e trionfanti in poco tempo diventano stracci tristi e smorti. E’ la parabola inevitabile delle cose. E anche dei sogni.

Eppure c’è una speranza. Splenderà proprio a Ferragosto e molti non se ne accorgeranno. E’ vero che le bandiere si consumano, i vestiti si sgualciscono, il giornale di ieri è già ingiallito e illeggibile, i campi di grano appena ieri pieni di spighe dorate, sembrano già steppe autunnali. I boschi cominciano a ingiallire e anche i fiori appassiscono. “Se son rose sfioriranno” dice una fulminante battuta di Montanelli. Una polvere impalpabile si posa incessantemente su tutte le cose. Guardi casa tua, ti sembra solida e robusta e invece ha bisogno di continua manutenzione, perché tutto invecchia e si guasta, si corrompe. Tutto tende al disordine, tutto decade e s’incasina, dice un fondamentale principio della fisica. Tutto si consuma.

Di solito evitiamo distrattamente di pensarci. Ma la prima cosa a decadere, consumarsi, guastarsi è il nostro stesso corpo. Osservare gli esseri umani sulla spiaggia, in questi giorni d’estate, è impressionante. Il vigore e la formosa armonia dei corpi giovani, orgogliosamente esibiti, fanno pensare alla scultura gotica, quella che rende leggero il marmo delle cattedrali e dà quasi la sensazione che lo proietti nel cielo vincendo la forza di gravità. Ma nel giro di qualche anno la forza di gravità si prenderà la sua rivincita: tutto cala, cade, si affloscia, si sforma, si usura. La terra chiama la terra verso di sé. Polvere sei e polvere tornerai. E allora cominciano i poderosi e continui lavori di manutenzione: tingere quei capelli imbiancati, tirar su quei glutei cadenti, stirare quelle rughe, consumare quel grasso in eccesso, cancellare quelle borse sotto gli occhi. Lavori interminabili, continui, costosi, instancabili come per tirar su ogni giorno un muro che la notte crolla. E poi la visita dall’oculista perché non si legge più bene senza occhiali e i capelli che cadono. E quei doloretti alle spalle.Si tenta di fermare in ogni modo (vanamente) l’invecchiamento. Si vorrebbe fermare l’attimo come il Faust di Goethe, ma svaniscono perfino gli imperi millenari, figuriamoci i singoli. “Tutto al mondo passa e quasi orma non lascia”, avverte Leopardi. Gli attimi della vita quotidiana sembrano non passare mai, ma sono gli anni che corrono imperterriti. Implacabili. In un batter d’occhio. E un sottile strato di polvere copre tutte le cose. Quella noia impalpabile che alla fine ammoscia perfino gli amori più ardenti e gli ideali più infiammati. E’ il peso della natura decaduta. La forza di gravità.

D’altra parte perfino i giovani investono giornate e sforzi sovrumani nell’immane quanto vana opera di manutenzione: a “scolpirsi” in palestra, a profumarsi e abbronzarsi. Poveretti, è come costruire i castelli sulla sabbia, come scrivere un nome amato sul bagnasciuga, questo illusorio fuggire dall’offesa del tempo. In fin dei conti è della carnalità del nostro essere che abbiamo terrore. Tutto ci ricorda il suo continuo corrompersi. Sudare è segno del degrado biologico a cui siamo sottoposti, l’odore stesso del corpo deve essere bandito, la nostra società è asettica: è proibito sudare, i corpi devono emanare solo profumo, nulla che sia segno di putrefazione.

L’epoca apparentemente più “materialista” ed edonista, la nostra, in realtà ha orrore della carne. Siamo tutti gnostici senza saperlo. Lo dimostrano l’enorme crescita delle nostre spese per cosmetici e l’orrore che abbiamo per il corpo malato, per la carne sofferente. Lo sconvolgente crocifisso di Grunewald, il più drammatico di tutta la storia dell’arte, fu concepito dal pittore tedesco del Quattrocento per i malati di lebbra e di Fuoco di S. Antonio che affollavano quella cappella disperatamente per pregare, ritrovando sulle carne devastata del Dio-Uomo, le proprie stesse piaghe, il proprio strazio.

Alla fine gli unici trionfalmente “materialisti” restano i cristiani. “E’ una Carne che salva la carne”, diceva un padre della Chiesa come s. Ambrogio. Nei “Fratelli Karamazov” – ottima lettura per l’estate – Dostoevskij racconta la storia di un parricidio che è più di un parricidio. Il vecchio Fedor Pavlovic Karamazov, padre dei tre fratelli, esprime infatti al massimo la terrestre carnalità che ci fa orrore: viene descritto volgare e violento, meschino e cinico, un “misero buffone”. E’ fisicamente calvo, nasone, bocca larga, doppio mento. Provoca ripulsa fisica nei tre figli. Ma mentre Ivan e Dimitrij lo disprezzano apertamente, Alioscia si fa monaco e pensa di evitare l’odio della carne scegliendo lo spirito e scegliendo un “padre spirituale” come il santo starets Zosima. Però il monaco gli dà la lezione più importante morendo: il suo corpo infatti comincia subito a emanare cattivo odore. Alesa prima ne è scioccato, sconvolto, poi comprende che anche quel santo è fatto di carne come suo padre: esce dalla stanza, scoppia in un pianto dirotto e gettandosi a terra abbraccia tutto il creato. Comprende che la fede in Cristo non è una fuga nello spirituale, ma è la certezza sull’unico Dio che ha preso la carne umana e il suo dolore vincendo la forza di gravità della natura decaduta, che ha manifestato con i miracoli il suo dominio sul creato, sulla malattia e perfino sulla putrefazione della carne con la resurrezione.

Alioscia comprende che il destino dell’uomo non è la decomposizione buia e disperata del corpo e non è neanche solo la “salvezza dell’anima”, ma è la resurrezione della carne, la glorificazione di tutto il nostro essere e la “divinizzazione”. E capisce che questa forza è entrata nella storia e questa nuova storia è già cominciata. Con la prima creatura che vive già questa glorificazione della carne, questa eterna giovinezza, questa bellezza che non si corrompe e non passa: Maria.

Nel paesetto dove mi trovo, sulla costa toscana vicino a Bolgheri, la chiesina è in mezzo alla pineta, vicino al mare. La parrocchia celebra la sua festa il 15 agosto: l’Assunta, cioè l’Assunzione di Maria in cielo in corpo e anima. Così a ferragosto si porta in processione per le vie, normalmente popolate di gente in costume, alle prese con le guerre dei corpi, la raffigurazione della “Bella Ragazza” di Nazareth, del suo corpo che è già in Cielo, glorificato, del suo volto eternamente giovane, bellissimo. Come il suo cuore. I cristiani sono considerati strani soggetti. Ma in realtà danno corpo alla segreta speranza di tutti.

di Antonio Socci – © “Libero” 25 luglio 2006

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Guidare bene

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2008

Non bastano le punizioni
Guidare bene è un problema di
coscienza

di S.E. Mons. COSMO FRANCESCO RUPPI

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Le recenti disposizioni governative che hanno inasprito le pene di chi guida in stato di ebbrezza, venendo meno alle norme essenziali del Codice dalla strada, hanno fatto pensare molti autisti ed hanno anche stimolato i gestori delle discoteche ad affiggere cartelli, in cui si ammonisce chi guida a tenersi lontano dalle sostanze alcoliche o stupefacenti.

Tutto giusto, tutto bene, anche la sorveglianza accresciuta sulle strade, specie il sabato notte, il ritiro di patente, la minaccia del carcere e dei cosiddetti lavori forzati per i più incalliti.

Nessuna legge, però, sarà valida, se non trova all’interno dell’uomo la sua doverosa accoglienza; nessuna pena sarà veramente, come dev’essere, «medicinale» se non trova all’interno della coscienza di ciascuno il suo più profondo radicamento.

Forse per questo ci si chiedeva giorni addietro qual è il radicamento di tutto questo nella legge naturale, nella legge della coscienza e la risposta è più che facile: il Codice della strada si fonda sul quinto comandamento, che dice: non uccidere, cioè, non mettere in pericolo la tua e l’altrui vita, non ferire, non esporti al pericolo di perdere la tua vita o di insidiare la vita degli altri.

Tra i dieci comandamenti, che sono patrimonio di tutto il genere umano, dopo quello di onorare i genitori, c’è quello di «non uccidere», cioè non ucciderti e non uccidere neppure l’altro. Non solo non uccidere, ma anche non ferire, non danneggiare la vita altrui, non esporti al pericolo di danneggiare e di ferire, ciò che fa l’autista spericolato, quello che guida in stato di ebbrezza, con scarsa coscienza e responsabilità.

Questo non è un problema religioso, ma civile e soprattutto morale, di quella morale che chiamiamo «naturale» cioè patrimonio di ogni uomo, di ogni tempo, di ogni latitudine.

La vita umana è sacra sin dal suo concepimento e fino alla morte; è sacra e pertanto deve essere rispettata nella propria e nella altrui esistenza. Attentare alla vita, con una guida spericolata o incauta, minacciare di andare o mandare fuori strada, costituisce non solo un reato civile e penale, ma anche un vero e proprio peccato, di cui bisogna pentirsi e confessarsi.

Forse nessuno, anche di quelli che si confessano abitualmente, nel suo esame di coscienza, si interroga sul modo come guida l’automobile o il motorino, invece dobbiamo cominciare a farlo, per radicare nella nostra coscienza il dovere di rispettare la nostra vita e la vita degli altri.

Si tratta, in parole semplici, di «un peccato sociale» pari, se non più grave di quello di non pagare lo tasse, perché non attiene a un dovere civile, ma un dovere morale fondamentale per l’umana esistenza.

Molto può fare la famiglia per rafforzare la coscienza di «guidare con prudenza» se i genitori e gli adulti insegnano ai bambini a conoscere e rispettare le leggi della strada e della guida: molto può fare la scuola e sappiano che lo fa, con l’aiuto dei vigili e della polizia, che volentieri si prestano a svolgere lezioni sul Codice della strada; molto possono fare i pastori delle anime, richiamando i fedeli su un dovere essenziale della vita e del vivere sociale.

Nessuno però può influire seriamente come se stesso. È dentro di noi, che dobbiamo radicare il dovere del rispetto scrupoloso della legge della strada. Tutti dobbiamo aver più rispetto della nostra vita e della vita degli altri.

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C’è un altro mondo

Posté par atempodiblog le 30 mai 2008

La vita dei bambini e dei ragazzi di oggi si svolge spesso in un bozzolo di beatitudine materiale e, in molti casi, di ebetudine spirituale. I loro orizzonti sono limitati, soprattutto perché lo sono quelli dei loro genitori e dei loro educatori. Le dimensioni spirituali della vita sono molto raramente prese in considerazione come tali. Il benessere che la nostra cultura cerca è soprattutto quello materiale: una specie di seduzione che incatena l’uomo alle cose meno importanti, se non addirittura spregevoli. Una seduzione che ieri agiva essenzialmente su certe classi privilegiate, oggi su tutti. Le giovani generazioni si affacciano così alla vita con un grande senso di vuoto interiore. Un vuoto che spesso tentano di riempire con una sempre più precoce serie di esperienze e brividi emozionali. Esiste una diffusa domanda di « religiosità » che non viene soddisfatta dalla nostra cultura che potremmo definire « malata d’anima». La pedagogia religiosa stessa corre il rischio di non trovare, soprattutto nei bambini e nei ragazzi, punti di ancoraggio reali. Vengono a mancare quelle che sono le « basi » della religiosità, soprattutto il rapporto dell’uomo con la trascendenza.
Per molti ragazzi la trascendenza è una dimensione inesistente, soprattutto perché completamente dimenticata dalle principali agenzie educative. Educare alla dimensione « religiosità » è invece un compito ineliminabile di una educazione integrale e umana.

Il coraggio di Giantarlo
In una trave dell’armatura di un vecchio e massiccio fienile viveva una comunità di tarli. La loro vita consisteva nel rosicchiare, rosicchiare e ancora rosicchiare. Se non rosicchiavano dormivano e questo era tutto.
In passato erano stati i loro genitori a fare la loro opera di rosicchiamento nella trave e, ancor prima di loro, i nonni e i bisnonni e i genitori dei bisnonni. Insomma tutti gli antenati di quei tarli non avevano fatto altro che rosicchiare quella trave e si erano potuti così nutrire molto bene.

La via che conduce fuori
E’ facile immaginare che la vita di quei tarli non era particolarmente eccitante. La noia era rotta dalle storie raccontate da un vecchio tarlo che una volta aveva rosicchiato un libro di favole e dalle serate di ballo nelle feste di compleanno e onomastico. Anche dal punto di vista della gola, non accadeva un gran che. Di tanto in tanto uno dei tarli incappava in una vena di resina essiccata e allora per breve tempo c’era una varietà nella lista delle vivande. Ma la cosa accadeva di rado.
Un giorno, l’allegra compagnia dei tarli era seduta insieme a banchettare, cioè a rosicchiare la solita trave. Tra un boccone e l’altro conversavano sui vari tipi di legno della loro trave: quello che fa ingrassare, quello che dà acidità di stomaco, quello stagionato al punto giusto. I tarli non parlano d’altro che di legno o del campionato di scavo che si svolge tutti gli anni.
Ad un tratto però, il più anziano dei tarli sbottò: «C’è un mondo al di fuori della trave. Io conosco la via che conduce fuori. Una formica che incontrai una volta in una delle mie passeggiate, me l’ha descritta con esattezza».
«Macché!», disse un altro tarlo, «secondo me non c’è nessun mondo all’infuori di questo. Sono tutte fantasticherie! Il mondo è fatto di legno, ecco la realtà della vita, mio caro, ti piaccia o no».
Un altro tarlo ancora disse: «Eppure è possibile che ci sia qualche altra cosa all’infuori del legno. Io non lo escluderei, ma vi avverto: non pensateci troppo, può diventare pericoloso. Chi sa realmente che cosa c’è al di fuori del legno? Nessun tarlo può saperlo!».
Un altro tarlo borbottò, con la bocca piena: «A me non interessa. Fintanto che posso riempirmi a sazietà, mi sta bene tutto!».
Giantarlo era un tarlino giovane e vispo e quei discorsi lo interessarono subito. Dopo aver molto riflettuto, intervenne dicendo: «Chissà? Forse esistono altre specie di legno. Forse noi mangiamo il legno più scadente che c’è e non lo sappiamo. Forse nelle strette vicinanze c’è un legno dolce o che so io!».
Gli altri tarli scoppiarono a ridere. «Ma tu sei completamente impazzito!», dissero, e il tarlo più anziano aggiunse beffardamente: «Se sei così sicuro, va’ a vederti l’altro mondo! La via per arrivarci è semplicissima: basta che rosicchi sempre in direzione sud come mi indicò la formica. Va’! Nessuno ti trattiene!».
Gli altri tarli risero di nuovo, ma Giantarlo rispose fiero: «Non avete motivo di ridere! Io rischio! Per conto mio potete ammuffire qui!». E da quel momento si mise a rosicchiare in direzione sud.

Addio al vecchio mondo
Lavorava con zelo e s’immaginava l’altro mondo meraviglioso. Era persuaso che la trave non poteva essere «tutto il mondo». Tutti i tarli che lo incontravano però non facevano che sghignazzare.
Il papà e la mamma lo inseguirono preoccupati. «Figlio mio», scoppiò a piangere la madre, «ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, rosicchia con noi in pace, come ti hanno insegnato tuo padre e tua madre, scava come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene».
Giantarlo voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e continuò risolutamente a rosicchiare in direzione sud.
Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di tarle che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere in una galleria boutique molto chic.
«Guardate!», disse una. «Passa il tarlo che pensa di uscire dal trave».
«Non c’è più buon senso», disse un’altra.
«Con tutte le belle cose che ci sono da fare qui», ribadì un’altra.
«Ohibò, ohibò», disse una quarta.
Ma Giantarlo proseguì diritto per la sua strada.

In due si scava meglio
Ad un certo punto si sentì chiamare da un vecchio tarlo dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo in una vecchia galleria ingombra di detriti.
«Buon giorno», disse Giantarlo.
Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: «Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di andarmene dal trave per trovare un altro mondo e altro legno. Ma poi mi è mancato il coraggio ed ecco che cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente pensa che sono matto. Fin che sei in tempo, da’ retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio».
Giantarlo non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava: «Ho ragione io».
E salutato gentilmente il vecchio tarlo riprese fieramente il suo cammino.
Rosicchiò e rosicchiò, ma i travi sono grossi e i tarli sono piccoli.
Il tempo passava e Giantarlo trovava sempre e soltanto legno. Mille volte gli venne la tentazione di fermarsi, tornare indietro e comportarsi come tutti i tarli di questo mondo.
Una notte, rannicchiato nella galleria che stava scavando, spossato per la fatica, con le lacrime agli occhi, prese la grande decisione: «Basta! Non c’è nessun mondo al di là della trave. Tutto è legno e nient’altro! Domani tornerò indietro».
Proprio in quel momento un rumore sottile sottile, che ben conosceva, lo fece trasalire. Era il rumore di un tarlo che scavava a tutta forza.
Dopo un po’ lo vide arrivare. Era ansante, sudato, ma sorridente fino alla coda. «Finalmente ti ho raggiunto!», disse il nuovo arrivato. «Mi chiamo Piertarlo e voglio venire con te. Anch’io sono stufo della trave. Sono certo che c’è un altro mondo, fuori».
«Piacere!», rispose Giantarlo. E sentì che gli era tornato in cuore tutto il coraggio. «Domani scaveremo una galleria di esplorazione in quella direzione là. Sento che non manca molto alla meta».

Il coro degli angeli
In realtà mancavano ancora dieci centimetri abbondanti, perché la direzione sud non era la migliore per uscire dalla trave, ma la formica che aveva dato l’indicazione al vecchio tarlo non aveva mai capito niente di punti cardinali.
Non importava più molto. In due era tutto più facile. Se uno era stanco o sfiduciato, veniva confortato dall’altro. La fatica era divisa a metà, il coraggio invece raddoppiato.
Così un mattino dorato di settembre, Giantarlo e Piertarlo sbucarono fuori del trave. Per la prima volta videro il cielo azzurro e lo splendore del sole.
«Urrà!», gridarono all’unisono e si abbracciarono. Che cosa perdevano i tarli che pensavano che tutto il mondo fosse un trave!
L’aria tersa del loro nuovo mondo era percorsa da suoni incantevoli.
«E il coro degli angeli!», esclamò estasiato Giantarlo. «Ma va’!», brontolò una formica che transitava da quelle parti trascinando un pesante chicco di grano. «Sono i grilli. Mi fanno venire il mal di testa…».
Ma per i due tarli quel cri-cri era la musica più straordinaria che avessero mai sentito.Suggerimenti didattici

L’esperienza nascosta nel racconto
Le convinzioni dei tarli nella trave sono le convinzioni e i comportamenti di basso profilo ideale di molte persone del mondo attuale. L’orizzonte «reale» presentato dal sistema comunicativo in cui viviamo è schiacciato, unidimensionale. Televisione, giornali, pubblicità si disinteressano palesemente della trascendenza, riconducendo ogni problema nei limiti di uno sfrenato egocentrismo e di una intransigente affermazione del «sé».
Giantarlo è l’uomo che sente un potente impulso verso una dimensione diversa della vita e rinnega il servilismo acritico verso l’opinione prevalente. Il giovane tarlo sceglie un’autentica libertà, anche se questo implica un certo distacco, fatica e isolamento. Non si può uscire da se stessi, darsi con generosità, abbandonare il proprio guscio se non si è profondamente liberi. Liberi dagli idoli della possessività e dell’autoconservazione, liberi da indottrinamenti e da suggestioni, liberi dal ricatto e dalla paura.
L’arrivo di Piertarlo aggiunge un altro tratto significativo: tutto questo è più facile se condiviso con qualcuno. E’ l’esigenza di un gruppo, una comunità.
L’insegnante può spiegare agli allievi che lo scopo dell’ora di religione è proprio la ricerca di quell’altra dimensione, così spesso dimenticata da chi pensa che tutto consista nel «rosicchiare» e basta.

Per il dialogo
L’insegnante deve condurre gli allievi a percepire l’esperienza umana nascosta nel racconto. Lo può fare con qualche domanda:
- A che cosa vi fa pensare la vita dei tarli nel trave?
- Perché Giantarlo se ne va? Che cosa cerca?
- Perché gli altri tarli non lo seguono?
- Perché l’arrivo di Piertarlo infonde nuovo coraggio a Giantarlo?
- Avete avuto bisogno di coraggio qualche volta? Dove lo avete trovato?
Com’è il mondo al di là della trave?

Per l’attività
Divisi a gruppetti, i bambini devono cercare di rappresentare con disegni o collages il «mondo dei tarli» e «il mondo di Giantarlo». La rappresentazione migliore è quella classica del labirinto, con tante piste che portano agli ideali «correnti» del nostro mondo: automobili, case, poltrone di comando, divertimenti, ecc. Una pista sola, anche se complicata, porta fuori del labirinto, in un luogo dove sono rappresentati gli ideali dello spirito.

Anche la Bibbia racconta…
I profeti, gli apostoli e naturalmente Gesù Cristo hanno indicato agli uomini la via del «cielo», della vita secondo lo spirito. L’insegnante può leggere o raccontare la storia di Giovanni Battista.

tratto da: Bruno Ferrero, Tutte storie, Elledici 1989
Fonte: Elledici

 

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La piccola matita nelle mani di Dio

Posté par atempodiblog le 7 mai 2008

Un volto bellissimo, in questo tempo dove si abusa della chirurgia estetica, può ricercarsi anche in chi ha sulla faccia molteplici rughe che la scavano, come Madre Teresa di Calcutta. Su questo viso che trasmette amore brillavano due occhi, che han fatto affermare ad un fotografo, abituato dalle riprese di migliaia di personaggi: “gli occhi più felici che io abbia mai visto”.

mother teresa eyes

Lei affermava di essere ‘la piccola matita nelle mani di Dio’

“Sono come una piccola matita
nelle Sue mani, nient’altro.
È Lui che pensa.
È Lui che scrive.
La matita non ha nulla
a che fare con tutto questo.
La matita deve solo
poter essere usata”.

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Le 12 regole del buon polemista

Posté par atempodiblog le 15 février 2008

Rubrica Persone e Parole pubblicata su Avvenire
di Cesare Cavalleri
Tratto da totustuus.it
In questi tempi di polemiche, elettorali e non, in cui si notano gravi cadute di stile, argomentazioni arruffate, battute spuntate e divagazioni fuori luogo, non è forse inutile ricordare le dodici regole del buon polemista, a suo tempo elaborate dal professore australiano Owen Harries, che fu ambasciatore del suo paese presso l’Unesco. Le sintetizzo qui, perchè possono servire anche nelle discussioni private che tutti, più o meno, sosteniamo in questo periodo, davanti ad un pubblico più o meno vasto.

Prima regola. Non pretendere di convertire l’avversario. Questa, infatti, è una possibilità talmente remota, che è meglio non metterla in conto. Senza dimenticare, peraltro, che per le strane simbiosi che spesso sorgono nelle discussioni, può succedere che anche i più esperti possono restare affascinati dagli avversari.

Regola seconda. Attenersi all’ordine del giorno. Chi definisce gli argomenti e stabilisce le priorità, è già sulla buona strada. Riportare l’avversario sul terreno specifico della discussione, è sempre una mossa vincente.

Regola terza. Rivolgersi a chi è già convinto, lungi dall’essere un’attività superflua, è qualcosa di vitale. Rafforzare nell’impegno, corroborare chi è già dalla propria parte, è essenziale. Inoltre non c’è niente di peggio che vedere la propria posizione mal rappresentata da chi sta discutendo.

Regola quarta. Non dimenticare mai i neutrali: quasi invariabilmente, sono l’immensa maggioranza. Sembra ovvio, ma spesso una polemica si riduce a un confronto specialistico tra avversari, controproducente per i neutrali e gli indecisi, che si lasciano più facilmente convincere dal buon senso, dalla pacatezza, dalla misura.

Regola quinta. Tenere presente che, almeno potenzialmente, ci si rivolge ad un pubblico composito. Ciò comporta una certa genericità delle argomentazioni, che però è l’unico modo per raggiungere un pubblico eterogeneo.

Regola sesta. Essere disposti a ripetere molte volte le stesse cose. Quando si ha un buon argomento, non stancarsi di ribadirlo. C’è sempre qualcuno che ascolta per la prima volta, ed è sempre bene ricondurre le discussioni ai punti fondamentali.

Regola settima. Usare sempre il rasoio di Occam: « Non sunt multiplicanda entia sine necessitate », cioè non aggiungere argomentazioni non strettamente necessarie, sprecando il tempo a discutere di particolari secondari.

Regola ottava. Massima cautela con gli esempi e le analogie storiche. E’ sempre opportuno fare degli esempi, ma l’aneddoto storico può concentrare (e distrarre) l’attenzione, col rischio di convogliare la discussione sull’interpretazione dell’aneddoto anzichè sull’argomentazione principale.

Regola nona. Se si fa una citazione autorevole, ricorrere preferibilmente a fonti che non coincidono con la propria posizione ideologica. Anche nelle opere di Marx si può trovare una frase favorevole al libero mercato.

Regola decima. Non invischiarsi in discussioni sulle intenzioni dell’avversario, anzichè sui suoi argomenti. Le intenzioni sono importanti soggettivamente, ma non incidono sulla solidità degli argomenti. Anche se sostenuti in malafede, bisogna controbattere gli argomenti: la malafede, semmai, verrà smascherata in un secondo momento.

Regola undicesima. Imitare l’iceberg, cioè non mettere sul tappeto tutti in una volta i propri argomenti. E’ saggio tenere in serbo qualche buona ragione, da far valere al momento opportuno.

Regola dodicesima. Conoscere bene l’avversario. Lo sosteneva già John Stuart Mill che chi conosce soltanto la propria posizione, in realtà non la conosce bene. E’ fondamentale capire esattamente la posizione dell’avversario qual essa veramente è, non in una versione superficiale o barzellettistica. Questo è il motivo, per esempio, per cui i più efficaci anticomunisti sono coloro che conoscono il comunismo dall’interno, per averne fatto parte o per averlo fiancheggiato. La vecchia tattica di accettare le premesse dell’avversario, per poi rivoltargliele contro, è sempre efficace e divertente.

Conclusione. Questa dozzina di regolette può migliorare l’abilità dell’aspirante polemista. Ma prima di applicare questi o altri accorgimenti, è bene accertarsi se la propria posizione è effettivamente difendibile dal punto di vista intellettuale, morale, ed eventualmente politico. Essere dalla parte del bene e della verità non garantisce il successo, ma, a parità di circostanze, certamente aiuta.

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Beata Imelda Lambertini

Posté par atempodiblog le 2 janvier 2008

 

Beata Imelda Lambertini dans Beata Imelda Lambertini

 

 

Beata Imelda Lambertini Vergine

12 maggio

Bologna, 1320 c. – 12 maggio 1333

Quella di Imelda Lambertini, al secolo Maria Maddalena, è una vicenda che si iscrive nel capitolo della santità dei bambini e degli adolescenti. Nata a Bologna intorno al 1320, morì nel monastero domenicano di Santa Maria Maddalena in Val di Pietra nel 1333, quindi a soli 13 anni circa. Era entrata nel monastero ancora bambina, desiderosa di ricevere l’Eucaristia. Ciò avvenne per via miracolosa, come attesta la tradizione. Questo prodigio l’ha resa modello di devozione eucaristica. Fu Papa Leone XII a confermare nel 1826 il culto della beata, già attestato nel catalogo dei santi e dei beati della Chiesa bolognese del 1582. Il Domenicano Giocondo Pio Lorgna (1870-1928) mise sotto la protezione della beata la Congregazione da lui fondata, le Suore domenicane della beata Imelda, oggi presenti in Italia, Albania, Filippine, Camerun, Brasile e Bolivia. Si occupano di pastorale parrocchiale, scolastica e giovanile. Per «Amare e far amare Gesù Eucaristia», secondo il detto del fondatore. (Avvenire)
Etimologia: Imelda = (forse) attiva in battaglia, dall’antico tedesco
Martirologio Romano: A Bologna, beata Imelda Lambertini, vergine, che, accolta fin da piccola come monaca nell’Ordine dei Predicatori, ancor giovinetta, dopo aver ricevuto l’Eucaristia con straordinaria devozione, d’un tratto emise il suo spirito.

L’essere santi non è un privilegio di pochi, ma una meta per tutti, senza limiti di età o condizione sociale; i giovani in particolare, seguiti dagli adolescenti e dai ragazzi, non sono mai mancati nella storia della Santità Cristiana; anche se per un lungo periodo, la Chiesa non ha preferito proclamare santi o beati dei fanciulli o adolescenti.
Poi questa preclusione è venuta meno e tanti giovani e ragazzi sono saliti o stanno per salire all’onore degli altari, inoltre le cause in corso hanno subito un’accelerazione; ne citiamo alcuni:
Servi di Dio: Silvio Dissegna 12 anni di Moncalieri (TO); Aldo Blundo 15 anni di Napoli; Angela Iacobellis 13 anni di Napoli; Girolamo Tiraboschi, novizio camilliano di Cremona; Giuseppe Ottone 13 anni di Torre Annunziata (NA); venerabili Maggiorino Vigolungo 14 anni, aspirante Paolino di Benevello (Cuneo); Mari Carmen Gonzalez-Valerio 9 anni spagnola; i beati Giacinta Marto 10 anni e Francesco Marto 11 anni, veggenti di Fatima in Portogallo; beato Nunzio Sulprizio 19 anni di Napoli; beato Pedro Calungsod di 18 anni, martire filippino; beati David Okelo 16 anni e Gildo Irwa 12 anni, martiri ugandesi; beata Laura Vicuña 13 anni cilena; san Domenico Savio 15 anni, oratoriano di don Bosco; santa Maria Goretti 12 anni di Nettuno (Latina), ecc.
Velocemente accenniamo anche ai santi adolescenti e martiri dei primi tempi cristiani, come s. Tarcisio, s. Vito, s. Pancrazio, s. Agata, s. Agnese.A questo incompleto elenco, bisogna aggiungere una beata del Basso Medioevo, periodo storico avaro di figure di bambini santi; si tratta di Imelda Lambertini nata a Bologna nel 1320 ca.; figlia di Egano Lambertini e della sua seconda moglie Castora Galluzzi, al battesimo ebbe il nome di Maria Maddalena.
Ancora bambina era entrata nel monastero delle Domenicane di S. Maria Maddalena di Val di Pietra, dove oggi sorge il convento dei Cappuccini e le fu dato il nome di Imelda, la comunità era composta dalle Canonichesse Regolari di S. Agostino, le quali verso la fine del sec. XIII erano passate alla Regola Domenicana.
Della vita di Imelda non si sa quasi niente, tranne il famoso miracolo eucaristico che la vide protagonista; come è noto, ricevere la Comunione Eucaristica, non era permesso in quei tempi prima di aver compiuto i 12 anni, ma l’educanda Imelda aveva un solo desiderio, che era quello di ricevere l’Ostia consacrata e ne faceva continua richiesta, sempre rifiutata.
La vigilia dell’Ascensione, il 12 maggio 1333, stava in Cappella partecipando con le suore e le altre educande alla celebrazione della Messa, arrivata alla Comunione Imelda inginocchiata al suo posto pregava fervidamente, desiderando nel suo intimo di ricevere Gesù, quando una particola si staccò dalla pisside tenuta in mano dal celebrante e volò verso la bambina, tutti i presenti poterono vederla, allora il sacerdote accostatosi la prese e gliela mise fra le labbra.
Subito dopo raggiante di gioia e ancora inginocchiata, Imelda Lambertini spirò in un’estasi d’amore, a quasi 13 anni. Le sue spoglie furono racchiuse in un artistico sepolcro di marmo con un’iscrizione e si cominciò a recitare in suo onore un’antifona.
Dal 1582 le Domenicane si trasferirono all’interno delle mura di Bologna, ottenendo dalla Curia arcivescovile la traslazione delle reliquie della beata, che oggi si trovano nella chiesa di S. Sigismondo. Da quell’anno il suo nome fu inserito nel Catalogo dei Santi e Beati della Chiesa Bolognese.
Sotto il pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), il quale la ricordò in una sua opera sulla canonizzazione dei Servi di Dio, furono avviate le pratiche di conferma del culto della beata bolognese, che però avvenne solo con papa Leone XII il 20 dicembre 1826.
La pratica di canonizzazione fu ripresa nel 1921 proseguendo fino al 1942, arenandosi poi per difficoltà di carattere storico.
Il culto per la beata Imelda Lambertini, si è diffuso di pari passo con la crescente devozione eucaristica in tutto il mondo; è la patrona venerata dei Piccoli Rosarianti e le Beniamine di Azione Cattolica e papa s. Pio X nel 1908, la indicò come protettrice dei bambini che si accostano alla Prima Comunione.
In Francia nel monastero di Prouilles sorse in suo onore una Confraternita, approvata dai Sommi Pontefici e messa sotto la guida dell’Ordine Domenicano.
Infine il Servo di Dio padre Giocondo Pio Lorgna (1870-1928) domenicano, mise sotto la sua protezione la Congregazione da lui fondata, le “Suore Domenicane della Beata Imelda”, oggi presenti in Italia, Brasile, Albania, Filippine, Camerum, Bolivia.

Autore:
Antonio Borrelli – santiebeati.it

 


 

BEATA IMELDA LAMBERTINI

All’inizio del 1300, viveva a Bologna il Conte Lambertini che con sua moglie Castora desiderava ardentemente un figlio che però tardava a venire, nonostante le preghiere e le suppliche che da loro s’innalzavano al cielo. Finalmente nacque una bimba, Imelda, che fin da piccola mostrò segni di grande personalità: invece di apprezzare i giochi che la circondavano, preferiva i grani del rosario e quando piangeva per qualche piccolo guaio, l’acquietava solo il sentir pronunciare il nome di Gesù.
Nonostante la giovane età, essa mostrò subito i segni di una precoce religiosità, che la vedeva inginocchiata spesso davanti ad una statua della Vergine, o recitare il rosario o andare alla Messa di frequente, guardando con invidia chi poteva ricevere il Corpo e il Sangue di Gesù. Imparò presto a leggere con un piccolo Messale e si faceva spiegare i passi della Bibbia dalle due zie suore, tra cui la sorella del padre che, prima dedita ai piaceri del mondo, si era tutt’a un tratto ritirata, coinvolgendo una cinquantina di sue amiche, in un convento dove visse venti anni in penitenza e contemplazione.

Quando Imelda compì 10 anni, i suoi genitori volevano festeggiare il suo compleanno ma ella rifiutò, chiedendo invece di entrare in convento presso le suore Domenicane. I genitori, oppressi dal dolore di perderla, tuttavia la lasciarono partire per la sua nuova vita. Il convento era regolato da ferree abitudini: bisognava amare l’obbedienza, la povertà, i digiuni, le veglie, la mortificazione… ma niente sembrava troppo per la giovanetta che con grande emozione ricevette il suo nuovo abito e cominciò a seguire le regole della sua nuova casa, pur pensando spesso ai genitori e sentendosi stringere il cuore per il loro dolore. Intanto, faceva tanti progressi ma ancora, purtroppo, non poteva ricevere Gesù e questo la feriva profondamente.
Un giorno, dopo aver sentito leggere la vita di Sant’Agnese, il suo sacrificio e il suo amore per Gesù, chiuse gli occhi immaginandosi la scena e sentì una voce che le chiedeva: “Figliola, cosa desideri da me?” e vide chinarsi su di lei la Madonna a cui, pronta, rispose: “Volevo conoscere la storia di Agnese perchè cerco in cielo un’amica poichè qui sulla terra non ne ho nessuna”. La Madonna la prese per mano e la condusse in un luogo dove trovò ad attenderla Maria Maddalena e san Domenico e successivamente conobbe la piccola santa Agnese. A questa visione si svegliò. Certo tutto era stato un bel sogno che l’aveva però molto confortata. Il suo pensiero fisso, comunque, era quello di ricevere Gesù, ma sembrava che per questo il tempo non passasse mai; chiedeva il permesso al cappellano ma questi rifiutava ed ella accettava la volontà di Dio con rassegnazione, pur struggendosi nella pena e nella penitenza.
Alla vigilia dell’Ascensione, Imelda era in ginocchio davanti all’altare mentre una suora più anziana si dava da fare lì intorno. Ad un tratto ella udì un leggero fremito e, volgendosi, vide un’Ostia che era sospesa a mezz’aria sul capo della bambina, mentre Imelda era in estasi. Corse ad avvertire le altre e tutte si radunarono nella cappella insiema al cappellano che, tenendo in mano una patena si diresse verso l’Ostia che discese e si posò tra le mani del sacerdote. Imelda fece così la sua prima comunione. Ma quando finalmente tutto fu finito e la superiora si diresse verso la bimba per rialzarla, la fanciulla ricadde inerte: era morta d’amore per Gesù e dal suo viso irraggiava ancora una felicità ineffabile.

Fonte: cartantica.it

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Amicizia

Posté par atempodiblog le 9 septembre 2007

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Un dono di amicizia implica un “sì” all’amico e implica un “no” a quanto non è compatibile con questa amicizia.

Benedetto XVI

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Come Kakà

Posté par atempodiblog le 8 septembre 2007

Bisogna vivere nella fede e nella grazia di Dio, come ci insegna Kakà (ed è tutto dire) che dopo aver vinto la Champions’ League ha alzato al Cielo una preghiera a Dio e una maglietta con la scritta:I belong to Jesus” (Io appartengo a Gesù). Sui laccetti delle scarpe si era fatto scrivere “cosa farebbe Gesù in questo momento?”. Kakà è nel mondo ma si preserva dal male. Dovremmo domandarci con Kakà: se morissi in questo momento sarei in grazia di Dio oppure no? Bisogna fare la ‘fatica’ del cuore di rinunciare al male (anche se dovesse occerrervi tanto tempo). Il calciatore brasiliano con quel gesto ci ha invitato ad alzare gli occhi al Cielo: raggiungere Dio è il fine della nostra vita, quindi Dio deve essere al primo posto. Bisona guardare all’eternità: una persona può vivere anche 120 anni ma preferirebbe essere felice nel tempo o nell’eternità che quando saranno passati miliardi e miliardi e miliardi e miliardi e miliardi di anni sarà solo l’inizio?

Come Kakà dans Riflessioni Kak

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Fantasia ed immaginazione

Posté par atempodiblog le 8 septembre 2007

Fantasia ed immaginazione dans Fede, morale e teologia Immaginazione

Tempo fa alla radio ho ascoltato una speaker che ha detto una cosa che annichilisce per quanto assurda: “l’adulterio fa bene alla salute, tradite spesso”. Spengo la radio, accendo la tv ed ecco altre cose che lasciano basiti e penso specialmente ai bambini che vedono violenza, immoralità, ecc… La loro fantasia, la loro immaginazione ed i loro sogni di che cosa sono imbevuti? Le risposte a queste domande sono l’indice della salute interiore. Bisogna custodire i sensi esterni affinché non entrino nell’anima immagini negative che, poi, la fantasia raccoglie ed elabora stimolando e infiammando le passioni. La natura umana è molto condizionata dall’immaginazione e anche gli adulti non devono sottovalutare questa cosa. Infatti nei pensieri di molte persone mature c’è la rappresentazione e la raffigurazione del male per poi desiderarlo. L’attento uso della tv può preservarci da un inquinamento giornaliero perché nessuno può vedere e leggere qualcosa di negativo senza correre dei rischi, nonostante un’attenta vigilanza.
Oggi si dice che il male è bene, quindi bisogna staccare la mente da tutte le falsità del mondo. In passato, chi faceva qualcosa di sbagliato si sentiva sporco ma invece di lavarsi (purificarsi) si copriva (con le foglie di fico) e già questo non andava bene ma oggi si è andato oltre dicendo che il male è bello e va esibito. Per quanto possa essere tappezzata (per non mostrarne il vero aspetto), la via del male si chiama così proprio perché percorrendola uno sta male e le crisi esistenziali, in tal senso, sono una grazia e da queste bisogna trovare la forza di alzarsi e cambiare vita.

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Storiella

Posté par atempodiblog le 3 septembre 2007

Storiella dans Racconti e storielle 1319812685_cafe-au-lait-ice-cream-sundae-recipe

Qualche tempo fa quando un gelato costava molto meno di oggi, un bambino di dieci anni entrò in un bar e si sedette al tavolino. Una cameriera gli portò un bicchiere d’acqua. “Quanto costa un sundae?”, chiese il bambino. “Cinquanta centesimi”, rispose la cameriera. Il bambino prese delle monete dalla tasca e cominciò a contarle. “Bene, quanto costa un gelato semplice?”. In quel momento c’erano altre persone che aspettavano e la ragazza cominciava un po’ a perdere la pazienza. “35 centesimi!”, gli rispose la ragazza in maniera brusca. Il bambino contò le monete ancora una volta e disse: “Allora mi porti un gelato semplice!”. La cameriera gli portò il gelato e il conto. Il bambino finì il suo gelato, pagò il conto alla cassa e uscì. Quando la cameriera tornò al tavolo per pulirlo restò di stucco perché lì, in un angolo del piatto, c’erano 15 centesimi di mancia per lei. Il bambino non chiese il sundae per riservare la mancia alla cameriera.

Autore: sconosciuto

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I primi 5 sabato del mese

Posté par atempodiblog le 25 août 2007

I primi 5 sabato del mese dans Angelo Figurelli Angelo-Figurelli

Cari amici,
oggi, come non mai, la misericordia del Signore ci avvolge con la meravigliosa grande promessa fatta a Fatima da Maria Santissima relativa ai primi 5 sabati del mese e unita al suo Cuore Immacolato.
Sì, cari amici, perché la pratica mariana dei “primi 5 sabati del mese” chiesti dalla Vergine Maria nasce proprio a Fatima dove il 13 maggio del 1917 Ella apparve ai tre pastorelli: Giacinta, Francesco e Lucia. Per mezzo loro e a causa della grave situazione in cui versava il mondo chiese a tutti gli uomini il ritorno alla preghiera, alla penitenza e alla conversione. In modo speciale chiese al Papa la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato per evitare che questo Paese diffondesse i suoi errori nel mondo portando distruzione e morte. Proprio durante una di questa apparizioni, il 13 giugno 1917, la Vergine disse, tra l’altro, a Lucia:
“Gesù vuole servirsi di te per farmi conoscere e amare. Egli vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato” e mostrò ai tre pastorelli il suo Cuore coronato di spine. Nell’apparizione del 13 luglio dello stesso anno, dopo aver mostrato ai tre pastorelli l’inferno, disse: “Avete visto dove vanno a finire le anime dei poveri peccatori. Per la loro salvezza Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato. Se faranno quanto vi dirò, molte anime si salveranno”.
Il 10 dicembre 1925 (Lucia era già entrata nell’Ordine delle Dorotee) ricevette l’apparizione di Maria SS e di Gesù Bambino nella sua cella. La Madonna le mostrò il suo Cuore coronato di spine. Racconta Lucia: “Il 10 dicembre 1925 mi apparve in camera la Vergine Santissima e, al suo fianco, un Bambino, come sospeso su una nube. La Madonna gli teneva la mano sulle spalle e, contemporaneamente, nell’altra mano reggeva un Cuore circondato di spine. In quel momento il Bambino disse: “Abbi compassione del Cuore di Tua Madre Santissima, avvolto nelle spine che gli uomini ingrati gli configgono continuamente, mentre non v’è chi faccia atti di riparazione per strappargliele”. E subito la Vergine Santissima aggiunse: “Guarda, figlia mia, il mio Cuore circondato di spine che gli uomini ingrati infliggono continuamente con bestemmie e ingratitudini. Consolami almeno tu e fa sapere questo: a tutti coloro che per cinque mesi consecutivi, al primo sabato, si confesseranno, riceveranno la santa Comunione, reciteranno il Rosario e mi faranno compagnia per quindici minuti meditando i Misteri, con l’intenzione di offrirmi riparazione, prometto di assisterli nell’ora della morte con tutte le grazie necessarie alla salvezza”.
È questa la grande promessa di Maria Santissima.

Per ottenerla ci vengono richieste:
1° – la Confessione entro gli otto giorni precedenti al sabato, con l’intenzione di riparare le offese fatte al Cuore Immacolato di Maria. Se ci si dimentica nella confessione di questa intenzione la si può formulare nella confessione successiva;
2°- la Comunione fatta in grazia di Dio partecipando alla SS Messa il primo sabato del mese sempre con l’intenzione di riparare le offese fatte al Cuore Immacolato di Maria;
3°- la Confessione e la Comunione devono ripetersi per 5 mesi consecutivi, senza interruzione, altrimenti si deve ricominciare da capo;
4°- la recita della corona del Rosario, almeno una terza parte, con la stessa intenzione della Confessione;
5°- la meditazione per 15 minuti dei misteri dei Rosario facendo compagnia alla Vergine SS.

Un confessore di Lucia le chiese il perché del numero cinque. Lei lo chiese a Gesù il quale rispose: “Si tratta di riparare le cinque offese dirette al Cuore Immacolato di Maria”:
1 – le bestemmie contro la sua Immacolata Concezione
2 – contro la sua Verginità
3 – contro la sua Maternità divina e il rifiuto di riconoscerla come Madre degli uomini
4 – l’opera di coloro che pubblicamente infondono nel cuore dei più piccoli l’indifferenza, il disprezzo e perfino l’odio contro questa Madre Immacolata
5 – l’opera di coloro che la offendono direttamente nelle sue immagini sacre.

Il 3 ottobre 1934 Lucia fece i voti solenni e il 24 marzo 1948, volendo fare vita più ritirata, entrò nel Carmelo di Santa Teresa a Coimbra in Portogallo e prese il nome di Suor Maria Lucia del Cuore Immacolato.
Possiamo dare inizio ai “primi 5 sabati del mese” quando lo desideriamo, ma soprattutto chiediamo a Maria SS la grazia di iniziare questo magnifico cammino con sincerità di cuore e con una fede ardente per poter veramente consolare il Suo Cuore Immacolato prendendo così parte a questa grande promessa.
Un abbraccio a tutti in Gesù e Maria SS.

di Angelo Figurelli per Il Giornalino di Radio Maria

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