San Giuseppe

Posté par atempodiblog le 19 mars 2025

San Giuseppe
Il beato Pio IX lo ha dichiarato patrono della Chiesa universale, consapevole della potentissima intercessione di Giuseppe, che si estende a ogni grazia, come già ricordava santa Teresa d’Avila
di Ermes Dovico – La nuova Bussola Quotidiana

San Giuseppe dans Angeli San-Giuseppe

Se giustamente l’antico adagio teologico afferma che di Maria non si dice mai abbastanza, similmente si può dire del suo castissimo sposo poiché in nessun altro santo, eccetto la stessa Madre di Dio, la dimensione del mistero è così grande come in san Giuseppe. E in nessun altro santo come nel padre putativo di Gesù le logiche divine appaiono del tutto straordinarie e ribaltate rispetto alle logiche del mondo. La Chiesa insegna che solo a Dio si deve il culto di latria (adorazione); a Maria è riservata una venerazione specialissima detta iperdulia («oltre la dulia», cioè il culto di angeli e santi), cui segue immediatamente la protodulia dovuta a Giuseppe, da venerare come primo tra tutti i santi.

Il perché lo spiega bene Leone XIII nella Quamquam Pluries: «Poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un vincolo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. Infatti il matrimonio costituisce la società, il vincolo superiore ad ogni altro: per sua natura prevede la comunione dei beni dell’uno con l’altro. Pertanto se Dio ha dato alla Vergine in sposo Giuseppe, glielo ha dato pure a compagno della vita, testimone della verginità, tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, mercé il patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei». Non è perciò casuale il posto unico che san Giuseppe occupa nel cuore dei credenti, dai fedeli più semplici ai più grandi teologi, fino ai pontefici, che da secoli esortano i cristiani ad accrescere la devozione verso il Custode della Sacra Famiglia, in sommo grado ripieno di fede, speranza e carità.

Il Vangelo non gli attribuisce direttamente nessuna parola, ma il suo silenzio e ogni circostanza in cui si parla di lui hanno un peso specifico enorme. Giuseppe collega Gesù alla discendenza di Davide, è l’uomo chiamato da Dio a cooperare alla realizzazione delle profezie e all’adempimento delle antiche promesse. Perciò il primo capitolo di Matteo, l’evangelista che più si rivolge ai Giudei, si apre con la genealogia di Gesù e – al suo culmine – ci presenta Giuseppe come «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo». Come Luca approfondirà la prospettiva interiore della Vergine, Matteo ci offre uno spaccato dei pensieri di Giuseppe, da lui lodato quale «giusto». Un giusto che in ogni istante, per quanto tormentato, pensò a proteggere Maria, preservandola dalla lapidazione e custodendone l’onore, fino al conforto del messaggero celeste: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».

Giuseppe abbracciò quindi la sua vocazione di sposo e «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore», prendendo con sé la sua sposa. Quel «fece» dice molto su questo glorioso santo nascosto, che ama la legge di Dio e dunque la osserva, abbandonandosi totalmente alla Volontà divina, con il pieno assenso del suo intelletto. Come Maria ha detto liberamente sì a Dio, così Giuseppe: entrambi sorpresi da Lui, entrambi pronti a servire il Suo disegno salvifico. «La sorpresa del casto Giuseppe era paragonabile a quella della Vergine Maria quando al momento dell’Annunciazione ha chiesto: « Come può accadere se non conosco uomo? » Maria voleva sapere come avrebbe potuto essere vergine e madre allo stesso tempo, e san Giuseppe non sapeva come poter essere vergine e padre», ha detto il venerabile Fulton Sheen (1895-1979) in una splendida catechesi: «L’Angelo del Signore ha spiegato a entrambi che solo Dio aveva il potere di fare una cosa simile».

Attraverso il matrimonio con Maria, luce per tutti gli sposi, Giuseppe divenne padre di Gesù e ne servì la missione proprio con la sua paternità verginale. Salvò il Bambino da Erode con la fuga in Egitto, lo allevò, lo nutrì, lo vestì, gli insegnò un mestiere, assolvendo di giorno in giorno i suoi compiti paterni verso Gesù, il quale da parte sua obbediva docilmente ai genitori e «cresceva in sapienza, età e grazia», preludio della sua attività pubblica. A Dio piacque che Gesù, Verbo incarnato, venisse chiamato figlio di Giuseppe e volle che alla custodia del santo patriarca fossero affidati «gli inizi della Redenzione» (Messale Romano). Come ricorda san Giovanni Paolo II nella Redemptoris Custos, Giuseppe fu allo stesso tempo il Custode del Redentore, il primo devoto di Maria e il primo uomo al quale fu partecipato il mistero dell’Incarnazione che si era compiuto nella sua sposa. Alla quale è indissolubilmente legato. Perciò, insegnano i santi, la vera devozione dell’uno accresce la devozione verso l’altra: e insieme sono strada sicura verso Cristo.

Ecco perché san Giovanni Crisostomo ne sottolineava l’eccezionale ruolo di «ministro della salvezza» e il beato Pio IX lo ha dichiarato patrono della Chiesa universale, consapevole della potentissima intercessione di Giuseppe, che si estende a ogni grazia, come già ricordava santa Teresa d’Avila: «Ad altri sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso San Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte. Con ciò il Signore vuol darci a intendere che, a quel modo che era a lui soggetto in terra, dove egli come padre putativo gli poteva comandare, altrettanto gli è ora in cielo nel fare tutto ciò che gli chiede».

Divisore dans San Francesco di Sales

Per saperne di più:

Freccia dans Viaggi & Vacanze Quamquam Pluries, enciclica di Leone XIII, con in calce l’orazione «A te, o beato Giuseppe…»

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Padre Roberto Pasolini: il vero riposo è pace interiore, accogliere ciò che la vita ci dona

Posté par atempodiblog le 14 mars 2025

Provate ad immaginare se un bel giorno vi arrivasse un invito che stavate aspettando da moltissimo tempo, da qualcuno che avevate tanto atteso di incontrare. Una persona al fianco della quale avete tanto desiderato di trattenervi, per stare lungo tempo vicini a parlare. Il giorno in cui quell’invito arrivasse, quanto grande sarebbe la vostra gioia? La morte è l’invito di Dio ed è con questa gioia in cuore che io la attendo. Io so bene quanto Dio sia buono e bello e con quanta tenerezza Egli si prenda cura di me”.

di Takashi Paolo Nagai

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Padre Roberto Pasolini: il vero riposo è pace interiore, accogliere ciò che la vita ci dona
Nella nona meditazione degli Esercizi Spirituali in Aula Paolo VI, di cui pubblichiamo una sintesi, il predicatore della Casa Pontificia si sofferma sul concetto biblico del riposo che non è inattività ma condizione di pienezza e appagamento. E prima delle parole del religioso, quelle di monsignor Viola, segretario del Dicastero per il Culto Divino, che a nome della Curia assicura al Papa, nell’anniversario dell’elezione, vicinanza e preghiera
de La Redazione di Vatican News

La vita eterna è un dono già presente, ma spesso fatichiamo a comprenderne un aspetto fondamentale: il riposo. Fin da piccoli, siamo abituati a sentire la preghiera:

«L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen».

L’idea di un’eternità basata sul riposo eterno può sembrare deludente, come se la vita finisse con un’infinita dormita. Ma questa percezione nasce da un equivoco profondo: vediamo il riposo solo come inattività, mentre nella visione biblica è una condizione di pienezza e appagamento.

Dio stesso ha vissuto il riposo, quando Gesù, dopo la croce, è stato deposto nel sepolcro. Questo momento non è un’inerzia sterile, ma il compimento di un’opera, come racconta un’antica omelia sul Sabato Santo: «Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi».

Cristo riposa, eppure agisce misteriosamente, liberando i prigionieri degli inferi. Questo ci insegna che fermarsi non significa essere inutili, ma saper abbracciare il tempo con fiducia, senza inseguire un’attività frenetica e sterile.

Oggi il riposo è un lusso trascurato. Viviamo in una società che ci impone di essere sempre attivi, sempre connessi, sempre produttivi. Eppure, più aumentano le opportunità, meno riusciamo a riposare davvero. La parabola del servo, che dopo aver lavorato non si aspetta un premio ma accetta di aver fatto ciò che era chiamato a fare, ci insegna un segreto importante. Fino a quando viviamo con l’ossessione del risultato, non troveremo mai riposo. Solo chi accoglie con serenità il proprio limite può finalmente fermarsi in pace.

Il vero riposo non è inattività, ma libertà. È lo stato in cui non dobbiamo più dimostrare nulla, perché ci lasciamo abbracciare dall’amore di Dio. È la pace interiore che ci permette di dire: «Chi è entrato nel riposo di Dio, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie» (Eb 4,10).

Vivere bene il riposo significa allenarsi alla vita eterna, imparando a vivere senza paura, a lasciar andare il superfluo e a fidarci del fatto che Dio è già all’opera in noi.

Il riposo vero è pace interiore, non si misura in risultati, ma nella capacità di accogliere ciò che la vita ci dona. Non è fuga, ma un modo per imparare a vivere più intensamente, senza ansia. Non è passività, ma una fiducia attiva che ci rende liberi di amare. «Nell’amore non c’è timore. L’amore perfetto scaccia il timore» (1Gv 4,18).

Alla fine, la vita eterna non è un traguardo lontano, ma una realtà che cresce già dentro di noi. Già ora, siamo chiamati a viverla.

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L’universo in una sola piaga di Gesù

Posté par atempodiblog le 13 mars 2025

L’universo in una sola piaga di Gesù
L’universo intero è in una sola piaga di Gesù, perché una sola sofferenza di Cristo ha ontologicamente la capacità di salvare tutto. Il Cristianesimo è l’unica religione che afferma che nella singolarità vi è la spiegazione di tutto.
di Corrado Gnerre – Radici Cristiane

L’universo in una sola piaga di Gesù dans Corrado Gnerre L-universo-in-una-sola-piaga-di-Ges

San Bonaventura insegnava a Parigi; era molto famoso: le sue lezioni erano seguitissime e molto apprezzate. Un giorno si recò a fargli visita un suo collega, san Tommaso d’Aquino. Questi lo pregò di mostrargli i libri di cui si serviva per i suoi studi. San Bonaventura lo introdusse nella sua celletta e gli mostrò dei libri ordinatissimi che stavano sul suo tavolino. San Tommaso non si accontentò e domandò di vedere altri libri, dai quali sicuramente attingeva la sapienza per i suoi insegnamenti.

Il Santo francescano gli mostrò allora un piccolo oratorio nel quale vi era solo l’immagine del Crocifisso: tutto annerito per i tanti baci che gli dava.

Ecco, padre, il mio miglior libro – disse san Bonaventura indicando il Crocifisso – da qui attingo tutto quello che insegno e scrivo; gettandomi ai piedi di questo Crocifisso, domandando a Lui la luce dei miei dubbi, faccio nelle scienze maggior progresso che leggendo qualsiasi libro”. Poi san Bonaventura concluse: “Vi sono uomini che studiano molto nei libri e concludono poco; mentre i santi diventano grandi sapienti soprattutto perché studiano il Crocifisso”.

Si racconta anche di una giovane aristocratica che chiese di entrare in una comunità religiosa. Per provarne la vocazione, la Superiora le fece un quadro assai duro ed esigente della vita in quella comunità. Le fece vedere il monastero insistendo particolarmente sui luoghi più austeri. La giovane sembrava scoraggiarsi, poi, improvvisamente, domandò alla Superiora: “Troverò un Crocifisso in quella cella in cui dovrò stare molto ristretta e in cui dovrò dormire sopra un pagliericcio? Troverò un Crocifisso in quel refettorio, in cui il cibo sarà molto grossolano? Lo troverò in quel Capitolo, in cui dovrò ricevere tante correzioni?”. La Superiora rispose: “Oh! sì, figlia, il Crocifisso è dappertutto”. “Ebbene, madre – rispose decisa la giovane – io penso che niente mi sarà difficile quando avrò con me un Crocifisso in tutti quei luoghi in cui dovrò sacrificarmi”.

Nella teologia cristiana la sofferenza di Cristo ha un ruolo centrale. Certamente la Passione e la Morte di Gesù non sono la conclusione; la conclusione è la Resurrezione, ma indubbiamente costituiscono il momento apicale del Cristianesimo, il momento più rappresentativo in quanto è la massima espressione dell’amore di Dio verso l’uomo. Non a caso il segno distintivo dei cristiani è, appunto, il segno della Croce.

La parte contiene il tutto
Tutto questo ci permette di fare delle considerazioni su un’unicità del Cristianesimo. Nella teologia salvifica cristiana si afferma che la sofferenza di Cristo ha redento l’universo intero. Tutto è ricapitolato in Cristo. Quando ci poniamo dinanzi ad un oggetto, per osservarlo nella sua interezza, dobbiamo indirizzare lo sguardo verso il centro e poi, eventualmente, ruotare lo sguardo per completarne la visione. E’ una legge dell’ottica. Ugualmente quando si vuole sintetizzare un discorso o un fatto bisogna enuclearne l’essenza. Ebbene, il Cristianesimo afferma che il centro non solo di una vita, non solo della storia di alcuni uomini, non solo di quella di una nazione o di un continente, ma dell’universo intero è nella singola, e circoscritta temporalmente (“sotto Ponzio Pilato” recitiamo nel Credo), sofferenza di Gesù.

Se nel centro s’include la visione di tutto l’oggetto, se nella sintesi si riassume un fatto, allora possiamo dire che nella sofferenza di Cristo vi è l’universo intero. Ma – è noto – tutto ciò che Gesù ha singolarmente fatto ha avuto un valore infinito, perché vissuto e voluto da un soggetto divino. Dunque possiamo dire che già in una sola sofferenza di Cristo vi è l’universo intero. Già in una sola sua piaga. […]

“Dentro le tue piaghe nascondimi”
Una famosa preghiera per il ringraziamento eucaristico (tanto amata da sant’Ignazio di Loyola) dice: “dentro le tue piaghe nascondimiOvvero l’uomo può trovare la sua dimora nelle piaghe di Gesù. […]

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Bartolo Longo, il fondatore del Santuario di Pompei, sarà santo. Decreto definisce venerabile Salvo D’Acquisto

Posté par atempodiblog le 25 février 2025

Bartolo Longo, il fondatore del Santuario di Pompei, sarà santo. Decreto definisce venerabile Salvo D’Acquisto
Brindisino di nascita, studi di Giurisprudenza a Napoli. Poi l’incontro con una nobildonna che sposa. Giovanni Paolo II lo eleva agli altari nel 1980. Papa Francesco avvia il processo di beatificazione di Salvo D’Acquisto
di Elena Scarici – Corriere del Mezzogiorno

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Bartolo Longo, il fondatore del Santuario di Pompei, sarà santo. Lo rende noto la Sala Stampa della Santa Sede, riferendo dell’udienza concessa ieri da Papa Francesco al cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, e a monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali, per autorizzare il Dicastero delle Cause dei Santi a promulgare i decreti riguardanti nuovi santi e beati.

Il nome di Bartolo Longo è sinonimo nel mondo della Madonna di Pompei, veneratissima dai napoletani e meta ogni anno di pellegrinaggi da tutti i continenti. Vissuto tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, pugliese di Latiano (Brindisi), quello che diventerà un apostolo del Rosario vive una prima fase della vita con un disagio interiore molto acuto. Durante gli studi di Giurisprudenza a Napoli si avvicina per qualche tempo allo spiritismo per poi ritrovare la fede grazie all’aiuto di alcuni sacerdoti. Si accende in lui il desiderio di promuovere opere di carità e diventato amministratore dei beni della contessa Marianna Farnararo, rimasta vedova con cinque figli piccoli, lavora perché la gente povera che viveva sui terreni della nobildonna nella Valle di Pompei abbia una esistenza più dignitosa. Nel 1875 porta a Pompei una immagine della Madonna e nel 1876 avvia la costruzione del santuario destinato a diventare luogo di culto mondiale, consacrato alla Madonna del Rosario il 7 maggio 1891.

Bartolo Longo sposa la contessa e insieme donano la proprietà del santuario a Leone XIII, che ne lascia ai coniugi l’amministrazione. Per lui è l’inizio di una nuova vita di totale devozione alla Vergine, che esercita anche con un intenso lavoro di scrittura e diffusione di libri, opuscoli e riviste. Muore nel 1926, Giovanni Paolo II lo eleva agli altari nel 1980. Proprio questa enorme diffusione della devozione mariana scaturita dal Santuario di Pompei ha indotto nel 2024 l’arcivescovo prelato e delegato pontificio del Santuario Tommaso Caputo, assieme al vescovo di Acerra Antonio Di Donna, presidente dei presuli campani, a chiedere al Papa la canonizzazione del Beato Bartolo Longo.

Si avvia invece alla beatificazione Salvo D’Acquisto, il vicebrigadiere napoletano dell’Arma dei Carabinieri Reali insignito della Medaglia d’oro al valor militare per essersi sacrificato il 23 settembre 1943 salvando così un gruppo di civili durante un rastrellamento delle truppe naziste nel corso della Seconda guerra mondiale. La storia di Salvo D’Acquisto è un esempio di eccellenza umana prima che prettamente cristiana: nato a Napoli nel 1920, a 18 anni entra nell’Arma dei carabinieri. Tra il ‘40 e il ’42 viene inviato in Libia dove dimostra schiettamente le sue convinzioni sia per la rettitudine morale sia per i gesti con cui la accompagna, il segno della croce in pubblico o la recita del Rosario. Diventato vicebrigadiere viene destinato alla stazione di Torrimpietra.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il 22 settembre un reparto nazista – ormai nemico in terra italiana – arriva alla Torre di Palidoro, ubicata nel territorio della caserma. Alcuni soldati individuano e forzano incautamente delle cassette contenenti ordigni, provocando un’esplosione che uccide un militare e ne ferisce altri due. Il comandante sospetta di un attentato e fa arrestare Salvo D’Acquisto che, per l’assenza del suo superiore, in quel periodo comanda la stazione dei carabinieri. Il vicebrigadiere spiega a più riprese che si è trattato di un tragico incidente, ma i nazisti decidono per una rappresaglia e rastrellano 22 persone, le costringono a scavare una grande fossa e si apprestano a fucilarle quando Salvo D’Acquisto si autoaccusa come unico responsabile dell’accaduto, offrendosi in cambio della liberazione di tutti gli altri. Il carabiniere 23enne viene fucilato all’istante mentre gli ostaggi riescono ad avere salva la vita. Una decisione, è stato riconosciuto nel decreto che definisce “venerabile” Salvo D’Acquisto, non dettata da «un semplice atto di solidarietà civica e di filantropia laica», bensì inserita «in uno stile di vita consapevolmente e coerentemente cristiano». Le spoglie di Salvo D’Aquisto sono conservate nella basilica di Santa Chiara a Napoli.

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La monaca santa dei Ponti Rossi

Posté par atempodiblog le 16 février 2025

La monaca santa dei Ponti Rossi
La Beata Maria Giuseppina di Gesù crocifisso. Padre Pio le disse: “Ci santificheremo insieme”.
di Francesco Bosco – Voce di Padre Pio

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Una bambina come tante
Giuseppina Catanea nasce a Napoli il 18 febbraio 1896, da Francesco, impiegato ferroviario a Benevento, e Concetta dei marchesi Grimaldi. Terzogenita di una famiglia devota e amorevole, viene battezzata pochi giorni dopo la nascita. “Pinella”, così viene affettuosamente chiamata in famiglia, si distingue per la sua salute delicata, ma per il resto appare una bambina come tutte le altre, dimostrando una profonda spiritualità.
Nonostante sia solo una bambina, frequenta da sola la Chiesa di Santa Caterina e si dedica ad aiutare i bisognosi. Sebbene la sua salute fragile la costringa spesso ad assentarsi da scuola, riesce comunque a eccellere negli studi.
Nel settembre 1908, la sorella maggiore Antonietta entra nel monastero carmelitano dei Santi Giovanni e Teresa. Giuseppina l’accompagna, e quel momento segna l’inizio di una forte attrazione verso la vita monastica. Tuttavia, decide di accantonare temporaneamente l’idea, legata com’è alla madre alla quale è molto affezionata. Per un periodo pensa persino di costruirsi una vita matrimoniale, ma ben presto si rende conto che il suo destino è altrove, vicino a Dio. Riceve alcune proposte di matrimonio che rifiuta con cortesia. Tuttavia, uno dei suoi pretendenti, risentito dal rifiuto, arriva persino a ferirla con un’arma da caccia. Invece di denunciare l’accaduto, Giuseppina decide di tacere, coprendo ferita con un’immagine della Madonna e lasciando che guarisse da sola.
Nel frattempo la sorella Antonietta, costretta a lasciare il monastero per motivi di salute, viene scelta dal suo direttore spirituale, padre Romualdo di Sant’Antonio, per fondare un nuovo Carmelo a Napoli. Viene considerata una missione voluta da Dio e accolta con fede dalla famiglia.
Il 15 agosto 1910 Antonietta inizia la sua nuova vita religiosa in due modeste stanze prese in affitto dalle suore Betlemite a Santa Maria dei Monti, sui Ponti Rossi. Qui, il 22 ottobre, riceve l’abito carmelitano e prende il nome di suor Maria Teresa.

Quadro-Miracoloso-di-san-Giuseppe-ai-Ponti-Rossi-di-Napoli dans Fede, morale e teologia

Una irresistibile chiamata
Anche Giuseppina è presente alla cerimonia, celebrata nella Chiesa di Santa Teresa al Museo, e avverte nuovamente il richiamo alla vita consacrata.
Il 2 aprile 1913, viene benedetta la cappella della nuova casa, un segno che il sogno del Carmelo di Napoli si sta realizzando.
Dopo lunghe preghiere e riflessioni, Giuseppina comprende che deve seguire il suo cuore e rispondere alla chiamata di Dio. Comunica la sua decisione alla madre e alle zie, che si oppongono fermamente, ma lei risponde con determinazione: “Non posso più far attendere Colui che mi chiama”. Decide quindi di unirsi al Terz’Ordine Carmelitano, ricevendo lo scapolare come segno di appartenenza alla famiglia carmelitana.
Il 10 marzo 1918, prende la decisione definitiva. Chiede alla madre il permesso di andare ai Ponti Rossi per partecipare alla novena in onore di san Giuseppe. La madre acconsente, pensando che il cambio d’aria possa aiutarla a guarire definitivamente dagli attacchi d’angina. Tuttavia, Giuseppina non tornerà mai più a casa: la sua permanenza nel monastero si prolunga a causa dei bombardamenti della Prima Guerra Mondiale e dell’epidemia della “spagnola”.
A Natale si ammala. Il medico le diagnostica una bronco-pleurite che si aggrava fino a diventare polmonite doppia. Le condizioni peggiorano ulteriormente quando sviluppa una broncoalveolite, ma non perde la speranza, e sopporta le sofferenze offrendo tutto a Dio.
Nel novembre del 1920, decide di entrare definitivamente in monastero, nonostante le pressioni dei familiari per farla tornare a casa.
Poco dopo, la sua salute subisce un ulteriore colpo: viene colpita da tubercolosi alla spina dorsale, paralisi completa e meningismo spinale. Nonostante queste prove dolorose, Giuseppina cerca di abbracciare la volontà di Dio con serenità, mentre le sue consorelle pregano per la sua guarigione.

Quel misterioso vento
Nella primavera del 1923, ha un sogno che segna un punto di svolta nella sua vita: le appare un santo vestito di nero e una voce che accompagna la visione dice: “San Francesco ti ha guarita dal tuo male”. Quando padre Romualdo le porta un’immaginetta di san Francesco Saverio, Giuseppina riconosce immediatamente il Santo del sogno.
Il 26 giugno, la reliquia del braccio del Santo viene portata nella sua cella: subito dopo un misterioso vento la spinge a rialzarsi. Quella che sembrava una paralisi permanente scompare, e Giuseppina riesce a stare in piedi e a camminare, tra le grida di gioia delle sue consorelle. E’ un vero miracolo.
Da quel momento, inizia per lei, un nuovo tipo di apostolato. In parlatorio accoglie persone di ogni ceto sociale, offrendo conforto, consigli e preghiere.
Dopo un lungo percorso, che condusse Giuseppina anche a Roma in udienza da Papa Pio XI, arrivò l’approvazione pontificia del monastero nel 1932.
Un anno più tardi, Giuseppina e le altre monache ricevono ufficialmente l’abito carmelitano, e lei diventa suor Maria Giuseppina di Gesù Crocifisso. La sua missione è quella di portare la luce di Dio a tutti coloro che la cercano.
Maria Jose, la futura regina d’Italia, viene a raccomandarle la sua creatura che sta per nascere. I suoi prediletti però sono i poveri e gli infelici.
È solita dire: “Lo dico a Gesù”.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Carmelo sperimenta, grazie a suor Giuseppina, una speciale protezione di Dio. Nonostante le bombe che cadono, tanta gente va da lei a chiedere la sua preghiera e notizie dei soldati lontani. Ella soffre l’indicibile e chiede continuamente a Dio la fine del conflitto armato. Consola, prega, ottiene l’impossibile. Vede il futuro il crollo del fascismo, l’Italia che rinasce.

Per Padre Pio era l’eletta di Dio
Sicuramente la santa monaca già conosceva Padre Pio, ma è dal 1940 che affiorano documenti che segnalano un rapporto di figliolanza spirituale quando dopo aver lanciato il suo grido di aiuto, Padre Pio dal Gargano le rispondeva tramite i comuni amici: “L’amato Padre Pio vi ha nel cuore quale eletta di Dio”.
All’inizio del 1944 dolori atroci stritolano il suo corpo lentamente, perde la vista, ma il suo sguardo rimane bello e luminoso.
La notte del 28 settembre Gesù le anticipa: “Sarà stentata la tua vita”.
I medici diagnosticano la sua nuova malattia: sclerosi a placche.
Continua a pregare: “Gesù, trasfigurami in Te”. Nonostante le sue condizioni, nel 1945 viene eletta priora e guida la comunità con dolcezza e determinazione.
Madre Giuseppina mantiene sempre il sorriso e la forza d’animo e continua ad accogliere i fedeli con parole di conforto e speranza.
Nel 1947, una donna napoletana dopo essersi confessata da Padre Pio, gli domanda: “Madre Giuseppina le manda a dire che vuole salvarsi l’anima. Se crede, le dica una parola per l’anima sua”. Padre Pio sorride e risponde: “Vuole salvarsi l’anima?”, poi con tono di voce appassionato, afferma: “Dille che le mando una fiumana di benedizioni, tutti i sorrisi degli angeli del Paradiso, e che ci santificheremo insieme”.
Le sue ultime parole mostrano una profonda accettazione della volontà di Dio: “E’ infermità della volontà di Dio”.
Riceve gli ultimi Sacramenti.
Offre le sofferenze atroci, le preghiere, la vita, per i sacerdoti, per i più lontani da Dio, per l’avvenire dell’Italia, per la Chiesa.
Prega intensamente: “Gesù, sii per me Gesù, sii per tutti Gesù”.
Muore serenamente il 14 marzo 1948, domenica di Passione. Pochi giorni prima, Padre Pio da Pietrelcina le aveva mandato a dire: “Prego tanto il Signore che l’aiuti nel suo olocausto, che sia sempre merito per sé, per le anime, per la gloria del Signore. Un giorno quando ci sarà dato di vedere la luce del pieno meriggio allora conosceremo quale valore e quali tesori siano state le sofferenze terrene che ci avranno fatto guadagnare tanto per la patria che non avrà fine. Dalle anime generose e innamorate, aspetta eroismi per giungere dopo l’ascesa al Calvario, al monte dell’Ascensione”.
Nel 1987 Papa Giovanni Paolo II la dichiarò Venerabile, mentre nel 2008 Papa Benedetto XVI la proclamò Beata. Oggi è conosciuta come la “monaca santa” dei Ponti Rossi.

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Il nunzio Cavalli: Medjugorje luogo di grazia scelto dal Signore per farsi incontrare

Posté par atempodiblog le 16 janvier 2025

Il nunzio Cavalli: Medjugorje luogo di grazia scelto dal Signore per farsi incontrare
Intervista con l’arcivescovo visitatore apostolico inviato da Papa Francesco nella parrocchia delle presunte apparizioni: è lui a leggere preventivamente i messaggi attribuiti alla “Regina della Pace” e ad autorizzarne la pubblicazione
di Andrea Tornielli – Vatican News
Tratto da: Radio Maria

Il nunzio Cavalli: Medjugorje luogo di grazia scelto dal Signore per farsi incontrare dans Andrea Tornielli Radio-Vaticana-Andrea-Tornielli-e-il-Nunzio-Apostolico-Cavalli

«Medjugorje è un posto normale, senza alcuna cosa speciale ed è divenuto per grazia un luogo spirituale dove le persone vengono da ogni parte del mondo. Vengono, e lì cominciano a pregare». Lo afferma in un’intervista con i media vaticani l’arcivescovo Aldo Cavalli, 78 anni, lecchese, una vita trascorsa al servizio della Santa Sede nelle nunziature, che nel novembre 2021 è stato inviato da Papa Francesco come visitatore apostolico nel piccolo paese della Bosnia ed Erzegovina divenuto negli ultimi quarant’anni uno dei centri mariani più visitati del mondo. Il 2024 è stato un anno importante per Medjugorje: lo scorso maggio il Dicastero per la dottrina della fede ha pubblicato le nuove norme sui presunti fenomeni soprannaturali che facilitano il via libera alla devozione senza impegnare la Santa Sede nella dichiarazione di soprannaturalità. E a settembre è stata divulgata la nota intitolata “La Regina della Pace”, dedicata all’esperienza spirituale di Medjugorje, che assegna al fenomeno mariano il “nulla osta”, cioè il riconoscimento più alto tra quelli previsti dalle nuove norme. Da allora i “presunti messaggi” che i veggenti ricevono vengono pubblicati «con approvazione ecclesiastica».

Già da qualche anno lei vive nella parrocchia di Medjugorje e incontra i pellegrini. Qual è stata la sua esperienza?
A Medjugorje non ero mai stato. Però sono italiano, e come tanti del mio Paese avevo avuto contatti con chi ci era andato. Sempre notavo, quando tornavano da Medjugorje, che queste persone erano più impegnate a livello spirituale e umano: in chiesa, nelle catechesi, nel fare il bene. Erano molto più impegnate di prima. Ora sono lì da tre anni: è un luogo normale, senza nessuna cosa speciale ed è divenuto per grazia un luogo spirituale dove le persone vengono da ogni parte del mondo. Vengono e lì cominciano a pregare. Entrano in comunione con il Signore Gesù e la Vergine Maria li accompagna. È un pregare semplice: vogliono cambiare vita, vivere meglio di prima, vogliono risolvere o affrontare bene i problemi che hanno. Un cambiamento che si chiama conversione, che si attua in particolare nel sacramento della penitenza. Questo accade normalmente a Medjugorje.

Che cosa la colpisce guardando ai tanti pellegrini?
Arrivano giovani e adulti. Vengono senza alcuna sponsorizzazione. Arrivano tutti con uno scopo: incontrare il Signore e la Vergine Maria. Non trovano niente da vedere o da visitare: come turismo religioso siamo a zero. Ma qui giovani e adulti cominciano a pregare. Ero appena arrivato, a febbraio di tre anni fa, e mi trovavo tra le panchine all’aperto dietro la chiesa. Viene una famiglia latinoamericana, con un ragazzo quindicenne che era un ribelle, un vero ribelle! Dopo appena cinque minuti è venuto a confessarsi… e i genitori lo guardavano sorpresi. È un luogo di grazia che il Signore ha scelto per farsi incontrare. Il nulla osta del Papa vuol dire: andate, andate, andate! Andate lì perché è un luogo di grazia, dove si incontra il Signore e il Signore ti incontra.

Grazie alle nuove norme volute da Papa Francesco, ora il procedimento per esaminare e pronunciarsi su questi casi punta più sui frutti spirituali.
Il Dicastero per la Dottrina della fede ha esaminato due punti che sono documentabili. Il primo riguarda i frutti. A Medjugorje vengono da ogni parte del mondo, in migliaia e migliaia. Quest’anno sono venuti due milioni di persone adulti e giovani. Quasi 50.000 preti sono venuti per pregare, per convertirsi. Poi altri frutti molto importanti sono le tante vocazioni. Tante persone che pregano. Il secondo elemento che è stato esaminato sono i messaggi. Ogni messaggio è stato confrontato con la nostra fede e si è constatato che i messaggi vi corrispondono. Frutti molto positivi, e i messaggi positivi per la fede: questo ha permesso di dire che Medjugorje è un luogo di grazia.

Lei è personalmente coinvolto nella pubblicazione dei messaggi che vengono divulgati una volta al mese. Che cosa accade concretamente?
È molto semplice: quando c’è un messaggio, chi l’ha ricevuto lo scrive e me lo invia nella lingua in cui scrive, cioè il croato. Me lo traducono subito in italiano. Questo processo è molto interessante: ci sono almeno due mediazioni umane molto importanti: per quello che parliamo sempre di “presunti messaggi” anche se siamo in favore al punto che alla fine del messaggio scriviamo: “con approvazione ecclesiastica”. Ma attenzione, i messaggi sono definiti “presunti” perché passano attraverso due mediazioni umane: non scrive la Madonna, scrive la persona che riceve. La seconda mediazione è la traduzione dal croato all’italiano: sono due lingue totalmente differenti. Noi diciamo che il messaggio va bene, che corrisponde alla fede e invitiamo a leggerlo e meditarlo perché è positivo. Non aggiunge nulla alla Rivelazione, però arricchisce. Aiuta a vivere meglio la fede oggi.

Sappiamo che nessuna rivelazione privata, dunque nessuna delle apparizioni mariane, aggiunge niente alla Rivelazione. Quale atteggiamento dobbiamo avere e quali rischi evitare? Perché talvolta c’è il rischio di lasciarsi prendere da un eccesso di curiosità verso i “segreti”, una curiosità un po’ apocalittica.
Il Dicastero per la Dottrina della fede lo scorso maggio ha pubblicato delle norme che sono fondamentali per capire la decisione su Medjugorje. Ha ricordato che prima cosa la Rivelazione, la Parola di Dio, è solo la Bibbia è che questa Rivelazione si è conclusa con l’Apocalisse. Ciò non toglie che lo Spirito Santo si possa servire di messaggi e di rivelazioni private affidate a persone e che servono per attuare meglio l’unica vera Rivelazione. Tutto questo non aggiunge niente alla Rivelazione, ma può essere utile. Ecco l’importanza dei messaggi. Possono essere utili per attuare oggi la Rivelazione che il Signore ha fatto una volta per sempre.

Lei ha conosciuto i veggenti di Medjugorje? Li ha incontrati?
Sì. E posso dire che sono persone semplici, hanno la loro famiglia, hanno i problemi che ha ogni famiglia.

Scusi se la interrompo: qualcuno aveva fatto un’obiezione per il fatto che nessuno di loro era diventato prete o suora…
Ma ognuno ha la sua vocazione! Sono persone semplici, persone buone. Non ho niente da dire. Ci vediamo spesso, prendiamo il caffè insieme. Sono persone che crescono nella fede, ognuno alla propria maniera, e diventano sapienti, sempre più sapienti. Sto in contatto con loro: non sono diventati preti o suore e ognuno ha la sua missione, la sua vita di famiglia.

Che cosa ha imparato in questi tre anni trascorsi nella parrocchia di Medjugorje?
Che lì c’è la grazia. Ho imparato che il Signore, con la sua grazia, ci segue sempre. Ho imparato che il Signore nella nostra vita ha un piano e ci accompagna. Ci vuole bene.

A Medjugorje la Madonna si è definita “Regina della Pace”. Un messaggio quanto mai attuale in questo nostro tempo.
Uno dei primi presunti messaggi, del 1981, è molto profondo a questo proposito. Dice: pace, pace, pace che regni la pace. Attenzione: non tra di noi, ma innanzitutto tra Dio e noi, e poi anche tra di noi. Questo è fondamentale. Quando gli ebrei sono usciti dall’Egitto, Dio ha detto tramite il profeta Mosè: se volete vivere liberi, ci sono alcune regole da seguire, sono i Comandamenti. Dio per la pace è fondamentale. Nei comandamenti ci vengono dette poche cose per vivere: rispettare la vita e non uccidere, la famiglia è fondamentale punto di riferimento, rispettiamoci a vicenda. Se viviamo così viviamo in pace. Se invece non viviamo così ci sono le guerre.

Un’altra caratteristica che rende particolarmente attuale il messaggio di Medjugorje è il fatto che la presunta apparizione sia avvenuta in una terra dove convivono religioni diverse e che è stata segnata in tempi recenti da violenze terribili. Ci sono messaggi che toccano questo tema. Che cosa può dire in proposito?
La parola che usiamo è dialogo. Dia logos, dialogo tra di noi, ma logos vuol dire: io ti presento la mia identità, ti presento il mio modo di vivere, di pensare, di credere, di attuare. Tu mi presenti la tua identità. Dialogando ci conosciamo, ognuno mantenendo la sua identità. Se perdiamo l’identità, non dialoghiamo più. E allora viene la tragedia. Lì ci sono diverse religioni, diversi modi di vivere. Dobbiamo dialogare. E lì noi a Medjugorje abbiamo una identità chiara: il Signore Gesù Cristo è per noi l’unico Signore.

Le nuove norme pubblicate lo scorso maggio dal Dicastero per la Dottrina della fede sono espressione dell’animo pastorale di Papa Francesco e corrispondono all’atteggiamento di grande attenzione verso la fede dei semplici e la devozione popolare. Quanto è importante questo aspetto?
Dobbiamo mettere dei punti di riferimento di fede molto forti. La fede popolare si arricchisce mettendo come punto di riferimento la Madre di Dio e punto di riferimento assoluto, il Signore Gesù Cristo. La Madre di Dio che ti accompagna a questo incontro. Quando la gente semplice viene con tutti i suoi problemi, si incontra con la Madre di Dio che ha sofferto come loro. L’immagine della Vergine Addolorata c’è in quasi tutte le parrocchie: lei che ha sofferto come te, e ti accompagna al Signore Gesù che ti dà la forza per vivere bene. Cambiare vita non è lasciare la famiglia, lasciare il lavoro… quando ritorni nella vita di prima, sei cambiato dentro. Sai che con il Signore posso affrontare i problemi. Ecco la fede dei semplici. Ecco il Rosario, l’Eucaristia e l’adorazione eucaristica. La scorsa estate avevo davanti a me 30/40 mila giovani che stavano in adorazione in un silenzio assoluto. Lì, in quel pane trasformato, c’è la presenza reale, sostanziale del Signore Gesù Cristo. Lui mi guarda, io lo guardo, Lui mi parla, io gli parlo. Quante persone mi han detto: io lì ho sentito il Signore che mi ha parlato.

Da quanto ci ha raccontato e da quanto abbiamo letto nella Nota del Dicastero sul fenomeno di Medjugorje, si può concludere rivolgendo l’invito a tutti di compiere questo pellegrinaggio?
Il documento vuol dire in modo ben chiaro: andate a Medjugorje perché è un luogo di grazia.

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Perché sant’Alfonso dice che i pastori, accorrendo alla mangiatoia, trovarono nel viso di Gesù un “morso” di Paradiso?

Posté par atempodiblog le 26 décembre 2024

Perché sant’Alfonso dice che i pastori, accorrendo alla mangiatoia, trovarono nel viso di Gesù un “morso” di Paradiso?
Fonte: Il Cammino dei Tre Sentieri

Perché sant’Alfonso dice che i pastori, accorrendo alla mangiatoia, trovarono nel viso di Gesù un “morso” di Paradiso? dans Canti Adorazione-dei-pastori

Una strofa del celebre canto Quanno nascette ninno di sant’Alfonso Maria de’ Liguori recita così: “Correttero i Pasture a la Capanna; Là trovajeno Maria / Co Giuseppe e a Gioja mia; / E ‘n chillo Viso / Provajeno no muorzo e Paraviso.” Che tradotto dal significa: “Corsero i Pastori alla Capanna e là trovarono Maria con Giuseppe e la Gioia mia e in quel viso provarono (cioè gustarono) un morso di Paradiso.”

Soffermiamoci sul termine “muorzo”, cioè “morso”. “Morso” sta significare “boccone”, ovvero un qualcosa che si gusta come antipasto. Ebbene, questa espressione alfonsiana ci presenta due importanti verità.

La prima verità è che scegliendo Cristo noi possiamo vivere un “morso”, cioè un “anticipo” di Paradiso già su questa terra. In che senso? Non nel senso che la vita cristiana faccia sparire qualsiasi prova o sofferenza, tutt’altro, visto che il cristiano deve uniformarsi al Cristo crocifisso, bensì che la sofferenza che comunque ci tocca, con Cristo, acquista senso e diventa alternativa a qualsiasi disperazione, cioè a qualsiasi assenza di speranza. Infatti, ciò che ci sembra negativo, alla luce di Dio, non è tale, anzi.

Giovanni Pascoli (1855-1912) nel suo La mia sera scrive: “O stanco dolore, riposa! / La nube del giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera.” Certamente Pascoli, in considerazione delle sue idee, non alludeva alla risposta cristiana; ma è interessante come poeticamente ci dica che non bisogna mai disperare…perché anche un giorno “nero” può produrre una nube “rosa” nell’ultima sera.

La seconda verità che ci fa capire l’espressione alfonsiana “…in quel viso provarono un morso di Paradiso” è che la vita cristiana è gusto ed è bellezza, infatti il morso richiama l’assaporamento. La Verità cattolica è Bellezza. Cristo va conosciuto, ma non per collocarlo all’interno di una serie di grandi maestri e pensatori; no! Cristo va conosciuto (e bisogna conoscerlo: guai a costruirsi un Cristo a proprio uso e consumo), ma per amarlo, cioè per gustarlo. Con Lui, solo con Lui, la vita si illumina di splendore. Splende ciò che non ha in sé una luce propria, ma è capace di riflettere la luce che le viene donata. Lo splendore rende bello tutto, perché è quel luccichio che definisce e fa risaltare tutto, anche i dettagli più nascosti.

Diceva santa Teresina che è bello pensare che anche un piccolo ed insignificante gesto come raccattare un ago da terra, se fatto per amore di Cristo, rimane scolpito nell’eternità nella serie dei gesti santi. E quindi quel piccolissimo gesto diverrà nell’eternità più importante di qualsiasi gesto che il mondo avrà potuto ritenere eroico ma fatto senza l’amore di Cristo. Dunque, con Gesù la vita di ognuno di noi può splendere. Dunque, ecco perché sant’Alfonso dice che quando i pastori andarono alla capanna scoprirono nel viso di quel Bambino “…nu muorzo e Paraviso”.

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Natale: un calore che scioglie i cuori induriti

Posté par atempodiblog le 25 décembre 2024

Natale: un calore che scioglie i cuori induriti
L’intervento del Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione: per quanto ci si impegni ad oscurarne il significato, questa rimane la festa che unisce tutti, credenti e atei
di Davide Prosperi – Corriere della Sera

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Caro direttore,
in una recente intervista al Corriere, Lorenzo Jovanotti dice a un certo punto, commentando Imagine di John Lennon: «Un mondo senza religioni sarebbe peggiore, perché la fede è la cosa più umana di te. (…) Il punto non è liberarsi delle religioni; è liberarci». E più avanti: la Chiesa è «casa mia». In questo, Jovanotti descrive un’esperienza che è anche la mia. Ma soprattutto ha espresso una posizione rivoluzionaria rispetto al pensiero comune.

Le sue parole aprono interrogativi che credo riguardino tutti: in che senso la fede può liberarci? E in che modo la Chiesa, cioè una realtà umana fatta di persone limitate e fragili come tutti, può essere luogo di vera liberazione? Sembra solo una favola, o un’assurdità. C’è però un dato innegabile: tutti hanno il desiderio di essere davvero liberi. Liberi da quel sentimento d’essere niente, numeri casuali persi in una massa indistinta; un sentimento che neanche l’espandersi di una libertà fondata sui diritti e sulla tecnologia è in grado di sopire.

Ci ritroviamo così a sopprimere questo desiderio con svariate distrazioni, immersi in una cultura che fa di tutto per favorirle. E dunque? Scrive Italo Calvino, riferendosi a quella sorta di “inferno” che è spesso la vita quotidiana: «Due modi ci sono per non soffrirne; il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più; il secondo è rischioso ed esige attenzione ed approfondimento continuo, cioè cercare e saper riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare, e dargli spazio».

In apparenza, di fronte al moltiplicarsi di guerre e di episodi di intolleranza e violenza, di fronte all’aridità che spesso prevale nelle nostre giornate, viene la tentazione di rassegnarsi al primo modo. A meno che, in mezzo all’inferno, ci sia davvero qualcosa che inferno non è. Don Giussani commenta così la frase di Calvino: «“Chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno”. È accaduto, questo! (…) il Destino, il Destino nostro, si è reso Presenza. Ma Presenza come padre, madre, fratello, amico, come un compagno improvviso di cammino. Un compagno di cammino: Emmanuele, il Dio con noi! È accaduto questo!». In un momento preciso della storia, è accaduto qualcosa di nuovo che ha cambiato tutto. Eppure, senza apparentemente cambiare niente.

Ecco la cosa veramente “rivoluzionaria” del Natale. Che cosa può cambiare infatti un bambino che giace in una mangiatoia? Per quanto ci si impegni ad oscurarne il significato, questa rimane la festa che unisce tutti, credenti e atei. Quasi inconsciamente tutti sentono lo strano, paradossale calore che si sprigiona da quel neonato che giace al freddo. Un calore che scioglie i cuori induriti, che unisce e riconcilia, ridando speranza. Non credo sia un caso che il Natale si tenda a festeggiarlo con i propri cari. È proprio a Natale, davanti a questo Dio bambino che dorme tra le braccia di sua madre, che riscopriamo il potere che anche i nostri fragili corpi hanno di dirci gli uni gli altri ciò che è più essenziale, scambiandoci l’unica parola che davvero libera: sei amato. Don Giussani diceva che «occorrerebbe guardare alla famiglia come all’esempio più impressionante dell’Incarnazione».

Attraverso la pochezza apparente della nostra umanità continua a passare il calore della compagnia di Dio alla nostra vita: padre, madre, fratello, amico. Dante allude a tutto questo da par suo, nel XXX Canto del Purgatorio: “Io vidi già nel cominciar del giorno / la parte oriental tutta rosata, / e l’altro ciel di bel sereno addorno; / e la faccia del sol nascere ombrata, / sì che per temperanza di vapori / l’occhio la sostenea lunga fiata”. Come l’intensità abbagliante della luce del sole diviene all’alba sopportabile alla vista, grazie ai “vapori rosacei” che a quell’ora la “temperano”, così, l’amore divino, si rende afferrabile, percepibile, attraverso il “rosa” della nostra carne, attraverso cioè una compagnia umana. Non c’è un annuncio più paradossale e al tempo stesso più ragionevole. Ed io mi ritrovo a dire, con umile gratitudine, assieme a tanti altri amici, che questa compagnia guidata dal Papa, la Chiesa, “è casa mia”. Con il desiderio di darle spazio, offrendola a tutti.

L’autore è Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

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Giubileo, il Papa apre la Porta Santa: “Portiamo speranza nei luoghi profanati da violenze”

Posté par atempodiblog le 25 décembre 2024

Giubileo, il Papa apre la Porta Santa: “Portiamo speranza nei luoghi profanati da violenze”
Francesco compie il rito che dà inizio all’Anno Santo. Per primo attraversa il varco di San Pietro, dietro di lui oltre 50 pellegrini di ogni angolo del mondo in abiti tradizionali. Circa 25 mila persone in Piazza, altre 6 mila in Basilica dove il Pontefice celebra la Messa della Notte di Natale. Nell’omelia l’invito a “trasformare” un mondo piagato da povertà, schiavitù, conflitti: “Pensiamo ai bambini mitragliati, alle bombe su scuole e ospedali”
di Salvatore Cernuzio – Vatican News

Giubileo, il Papa apre la Porta Santa: “Portiamo speranza nei luoghi profanati da violenze” dans Articoli di Giornali e News Il-Santo-Padre-Francesco

In silenzio, sulla sedia a rotelle, con il capo chino in preghiera e l’espressione assorta. Due colpi alle valve di bronzo tra le formelle che narrano la storia della salvezza. La Porta Santa della Basilica di San Pietro si spalanca e Papa Francesco per primo la attraversa.

Inizia il Giubileo. Inizia l’Anno Santo della speranza. Inizia il tempo delle indulgenze, del perdono, della rinascita, del rinnovamento. Il tempo dell’impegno a “portare speranza là dove è stata perduta”.

Dove la vita è ferita, nelle attese tradite, nei sogni infranti, nei fallimenti che frantumano il cuore; nella stanchezza di chi non ce la fa più, nella solitudine amara di chi si sente sconfitto, nella sofferenza che scava l’anima; nei giorni lunghi e vuoti dei carcerati, nelle stanze strette e fredde dei poveri, nei luoghi profanati dalla guerra e dalla violenza

“Pellegrini di speranza” da ogni angolo del mondo
Il momento è solenne. I rintocchi delle campane accompagnano il lento incedere di Francesco. I fedeli – 25 mila fuori nella Piazza a seguire la celebrazione dai maxi schermi, circa 6 mila all’interno di San Pietro –, che fino a quel momento hanno atteso l’arrivo del Papa con la preghiera, rimangono per tutto il tempo in silenzio. Si uniscono alla Schola Cantorum intonando l’inno d’ingresso che risuona nell’atrio e all’esterno.

Cinquantaquattro pellegrini di diverse nazionalità, anche da Cina, Iran e zone dell’Oceania, attraversano la Porta Santa dopo il Papa. Si vedono copricapi piumati, cerchietti di fiori, sombrero, turbanti, mettersi in fila e attraversare il varco che il Pontefice chiuderà il 6 gennaio 2026. Sono i primi “pellegrini di speranza”, insieme a cardinali, vescovi, concelebranti, rappresentanti di altre religioni cristiane, autorità tra cui il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e la premier Giorgia Meloni.

Il dolore per le guerre
“A ogni uomo e donna sia dischiusa la porta della speranza… che non delude”, scandisce Francesco durante il rito nell’atrio della Basilica. Ha il volto serio, ma negli occhi si legge la commozione. È al suo secondo Giubileo, dopo quello straordinario indetto nel 2016 per ricordare al mondo l’importanza della Misericordia. Questo è il XXVII Anno Santo ordinario della Chiesa cattolica, oltre mille anni dopo il primo, venticinque dopo il “grande Giubileo” di San Giovanni Paolo II che traghettò la Chiesa nel nuovo millennio. Ora un Papa ottantottenne, “venuto dalla fine del mondo”, vuole dare un’iniezione di speranza ad un mondo afflitto come mai negli ultimi decenni da crisi, violenze, guerre che costringono ad assistere a scene drammatiche come “bambini mitragliati” o “bombe su scuole e ospedali”, come Francesco denuncia – a braccio – nell’omelia della successiva Messa della notte di Natale.

Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi. Ma non dimenticatevi, sorelle e fratelli, che Dio perdona tutto, Dio perdona sempre

La speranza una promessa, non un happy end
La “speranza cristiana” che si fa dono nel tempo giubilare “non è un lieto fine da attendere passivamente”, “non è l’happy end di un film”, bensì “la promessa del Signore da accogliere qui e ora, in questa terra che soffre e che geme”, dice il Papa in una Basilica gremita, ornata di fiori, dove all’altare è esposta la statua della Madonna Madre della Speranza. Questa speranza è “qualcos’altro”; chiede di muoverci “senza indugio” verso Dio. “A noi discepoli del Signore, infatti, è chiesto di ritrovare in Lui la nostra speranza più grande, per poi portarla senza ritardi, come pellegrini di luce nelle tenebre del mondo”.

“La speranza non è morta, la speranza è viva, e avvolge la nostra vita per sempre!”

Trasformare il mondo
“Fratelli e sorelle, questo è il Giubileo, questo è il tempo della speranza!”, esclama Papa Francesco. L’Anno Santo “ci invita a riscoprire la gioia dell’incontro con il Signore, ci chiama al rinnovamento spirituale e ci impegna nella trasformazione del mondo, perché questo diventi davvero un tempo giubilare: lo diventi per la nostra madre Terra, deturpata dalla logica del profitto; lo diventi per i Paesi più poveri, gravati da debiti ingiusti; lo diventi per tutti coloro che sono prigionieri di vecchie e nuove schiavitù”.

“Senza indugio”
Il Papa invita a mettersi in cammino “senza indugio” così da “ritrovare la speranza perduta, rinnovarla dentro di noi, seminarla nelle desolazioni del nostro tempo e del nostro mondo”. Tante desolazioni: “Pensiamo alle guerre”, afferma il Papa. “Non indugiare”, “non trascinarci nelle abitudini”, “non sostare nelle mediocrità e nella pigrizia”, esorta ancora. La speranza “ci chiede di farci pellegrini alla ricerca della verità, sognatori mai stanchi, donne e uomini che si lasciano inquietare dal sogno di Dio, il sogno di un mondo nuovo, dove regnano la pace e la giustizia”.

La speranza che nasce in questa notte non tollera l’indolenza del sedentario e la pigrizia di chi si è sistemato nelle proprie comodità, e tanti di noi abbiamo il pericolo di sistemarci nelle nostre comodità. La speranza non ammette la falsa prudenza di chi non si sbilancia per paura di compromettersi e il calcolo di chi pensa solo a sé stesso; è incompatibile col quieto vivere di chi non alza la voce contro il male e contro le ingiustizie consumate sulla pelle dei più poveri

“Audacia”, “responsabilità”, “compassione”, sono le strade che indica il Vescovo di Roma in questo tempo speciale, a partire già da questa notte in cui si apre la “porta santa” del cuore di Dio: “Con Lui – conclude il Papa – fiorisce la gioia, con Lui la vita cambia”. Con Lui “la speranza non delude”.

Al presepe della Basilica
Al termine della Messa, il Papa, accompagnato da un gruppo di bambini di diverse nazionalità, si reca al presepe all’interno della Basilica per posare nella grotta la statua di Gesù Bambino. Anche lì qualche istante in preghiera dinanzi alla natività a cui ha esortato a guardare come riferimento per la vita. Poi un passaggio attraverso la navata centrale per salutare le due ali di fedeli.

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“Tu scendi dalle stelle”, storia di un canto che ha fatto la storia del Natale

Posté par atempodiblog le 24 décembre 2024

“Tu scendi dalle stelle”, storia di un canto che ha fatto la storia del Natale
Uno dei canti più popolari del Natale nasce dall’ispirazione che ebbe Sant’Alfonso Maria de’ Liguori
di Antonio Tarallo – ACI Stampa

“Tu scendi dalle stelle”, storia di un canto che ha fatto la storia del Natale dans Antonio Tarallo Tu-scendi-dalle-stelle

Natale vuol dire anche musica: note che entrano nel cuore. Una melodia aiuta sempre a pregare. Lo sapeva bene Sant’Agostino: “Chi canta prega due volte”. Ed è proprio vero. E fra i canti natalizi più conosciuti vi è il famoso “Tu scendi dalle stelle”: una melodia che commuove e muove l’animo alla grotta di Betlemme. 

La canzone ha origini antiche: il testo che tutti conosciamo deriva da un motivo scritto nel dicembre 1754, dal titolo “Quanno nascette Ninno” (chiamato anche con il nome “Pastorale »). Autore del brano, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Fu scritto in lingua napoletana. Una grande novità per l’epoca: il primo testo di un canto religioso scritto in lingua partenopea. Quando fu pubblicato nel 1816, venne chiamato « “Per la nascita di Gesù ». 

Già i versi dell’incipit rendono bene l’idea: “Quanno nascette Ninno a Bettlemme / Era nott’e pareva miezo juorno. / Maje le Stelle – lustre e belle Se vedetteno accossí: / E a cchiù lucente / Jett’a chiammà li Magge all’Uriente. / De pressa se scetajeno l’aucielle / Cantanno de na forma tutta nova: / Pe ‘nsí agrille – co li strille, /  E zombanno a ccà e a llà; / È nato, è nato, / Decevano, lo Dio, che nc’à criato”. Proviamo a tradurre questo napoletano così antico in un moderno italiano per avere meglio il quadro della scena: « Quando nacque il Bambino a Betlemme / Era notte eppure sembrava mezzogiorno. / Le stelle così belle e lucenti non si videro mai così: / E la più lucente/ andò a chiamare i Re Magi dell’Oriente. / Velocemente si svegliarono gli uccelli / cantando in nuova forma: / così anche i grilli, con le stelle, / e saltellano qui e lì; / È nato, è nato, / così dicevano, il Dio che ci ha creato ». E’ la natura che parla e che partecipa a tutta la bellezza della nascita di un bambino, anzi del Bambino. Tutti partecipano a questa Natività, con stupore e meraviglia.

Ma come nasce “Quanno nascette Ninno”? In merito a questo racconto abbiamo diverse versioni. Una, ci parla della città campana di Nola, un’altra della città Scala o Santa Maria dei Monti; altra versione, quella che fa riferimento al convento della Consolazione di Deliceto, in provincia di Foggia. La versione che vede nascere la famosa canzone nei pressi di Nola è quella con più dettagli. “In questo palazzo S. Alfonso Maria de’ Liguori, ospite dei Rev.mi Canonici Giuseppe, Michele e Felice Zamparelli, nel corso della Novena alla Beata Vergine Maria nel dicembre del 1754 compose la celebre pastorale natalizia “Tu scendi dalle stelle”, presentata per la prima volta nella Cattedrale di Nola in occasione del Santo Natale”, così recita una targa posta nel 2010 nel palazzo dove si crede abbia soggiornato, per un periodo, il santo redentorista, ospite di un sacerdote del luogo, tale Don Michele  Zamparelli, citato nella targa.

Nel corso di una delle sue missioni popolari, nel 1754, Sant’Alfonso stava predicando a Nola, in provincia di Napoli. Poche ore prima della Santa Messa di Natale voleva comporre un nuovo inno natalizio. La famosa melodia – denominata “Pastorale” – fu scritta in presenza dello stesso don Zamparelli che fu il primo, in assoluto, ad ascoltarla. Il sacerdote, emozionato dall’evento, chiese subito al santo di poterla copiare. Il santo però si oppose, volendola prima farla stampare. Poco dopo, il santo scese per celebrare la Messa di Natale, lasciando i fogli del componimento in vista. Don Michele li copiò e nascose i preziosi foglietti nelle sue tasche. Aveva raggiunto l’ambizioso traguardo. Ora poteva andare a concelebrare. E fu in questo momento che accadde un episodio assai divertente. Sant’Alfonso era proprio nel momento di cantare quel canto che aveva composto poco prima, quando gli mancarono le parole. Ma si sa, i santi conoscono tutto e, allora, mandò un chierichetto a chiedere a don Zamparelli “quei fogli che stavano nel suo taschino”. La chiesa fu “riempita”, finalmente, dalle note del nuovo canto sacro. Era nata quella che noi oggi cantiamo come “Tu scendi dalle stelle”.

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Parigi. C’è un presepe di Napoli nella cattedrale di Notre-Dame

Posté par atempodiblog le 24 décembre 2024

Parigi. C’è un presepe di Napoli nella cattedrale di Notre-Dame
Esposto il capolavoro settecentesco appartenuto al collezionista Ravaglioli. L’allestimento potrà essere ammirato fino a inizio febbraio
di Daniele Zappalà – Avvenire
Tratto da: 
Radio Maria

Parigi. C'è un presepe di Napoli nella cattedrale di Notre-Dame dans Articoli di Giornali e News Parigi-C-un-presepe-di-Napoli-nella-cattedrale-di-Notre-Dame

Questo primo Natale celebrato a Parigi nella Cattedrale di Notre-Dame appena riaperta ha pure un sapore e colori un po’ italiani. Avanzando nella navata Nord, i fedeli e visitatori vengono presto attratti dall’incanto di un’isola di luce che suggerisce già a distanza il mistero fulgido della Natività. Si tratta proprio di uno splendido presepe di tradizione napoletana settecentesca, allestito grazie a una felice comunanza d’intenti fra i due versanti delle Alpi.

L’insieme si deve al critico d’arte e collezionista Alberto Ravaglioli, deceduto prematuramente l’anno scorso. Lungo i decenni, per studio e passione, aveva esplorato i segreti della nobile arte partenopea, instaurando un rapporto speciale proprio con le due botteghe artigianali all’origine del presepe esposto ora a Parigi: quella dei fratelli Sinno, per quanto riguarda le figure, e quella di Biagio Roscigno, per le scenografie.

Il sì della Cattedrale è giunto anche grazie all’impegno dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, prima di un sostegno offerto pure dall’Ambasciata d’Italia a Parigi. Allestito su una lunghezza di 6 metri, il presepe incanta tanto per il numero delle figure — circa 160, di un’altezza attorno ai 25 centimetri —, quanto per la pregevolezza di ogni singolo dettaglio, oltre che per la variopinta armonia d’insieme.

Destinato ad essere ammirato da oltre 2 milioni di persone fino a inizio febbraio, il presepe ha ricevuto venerdì scorso la benedizione di monsignor Olivier Ribadeau Dumas, rettore della Cattedrale, pronto a sottolineare pure il felice contesto di questa presenza dell’arte napoletana a Parigi:

«Papa Francesco, qualche giorno fa in Corsica, ha parlato della religiosità popolare, della necessità di vivere la nostra fede con dei segni. Il presepe è una manifestazione essenziale di questa religiosità popolare e permette alle persone di raccogliersi e di riconoscersi in questi pastori che illustrano così bene la vita di tutti i tempi, di tutti i giorni».

Per il rettore, la natura stessa dell’iniziativa ha un forte valore simbolico: «È un nuovo segno dell’amicizia fra la Francia e l’Italia. È un nuovo segno della cattolicità della Chiesa, cioè della sua universalità. La Chiesa è universale, tutte le tradizioni vi si ritrovano. E la tradizione napoletana di questo presepe ci dice magnificamente che è fatto affinché chiunque passi davanti possa pregare».

L’opera è stata posta ai piedi della Natività trecentesca rappresentata sulla facciata esterna del coro di Notre-Dame, all’insegna dunque pure di un felice gioco di corrispondenze artistiche fra Medioevo e Settecento.

Per la realizzazione del sogno di Alberto Ravaglioli di vedere il proprio presepe esposto a Notre-Dame si è molto speso il fratello Marco, già corrispondente Rai e deputato Dc: «Opere come queste sono pure straordinari biglietti da visita e strumenti dei rapporti internazionali. In un modo che resta al di sopra degli interessi contingenti, danno visibilità allo spirito italiano più autentico e genuino. Così, si porta nel mondo il messaggio della cultura e della spiritualità italiane». Al fianco della realizzazione, pure sponsor quali Banca Intesa San Paolo, Ferrero, Generali e World Cargo.

L’avvocato Agatino Alajmo, amico intimo di Alberto Ravaglioli, è un altro protagonista dell’iniziativa: «Si tratta innanzitutto di una promessa mantenuta. È stato un lavoro duro, ma pure un’esperienza bellissima, oltre che una grande soddisfazione. Il risultato è un messaggio di fede e di fiducia».

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Il valore apologetico del presepe napoletano

Posté par atempodiblog le 23 décembre 2024

Il valore apologetico del presepe napoletano
di Corrado Gnerre

Il valore apologetico del presepe napoletano dans Avvento Presepe-napoletano-del-700

Il presepe è una devozione autenticamente cattolica. Escludendo i cosiddetti presepi viventi che hanno avuto san Francesco come iniziatore, tra quelli classici il presepe napoletano è sicuramente il più famoso e, diciamolo anche francamente, il più bello.

Ci sono almeno sei fondamentali caratteristiche che rendono questo tipo di presepe non solo unico, ma anche fortemente apologetico, nel senso che esso più chiaramente esprime la verità cattolica.
Tutti i presepi sono autenticamente cattolici, ma quello napoletano lo è ancora di più.

La prima caratteristica cattolica del presepe napoletano è la collocazione della Natività sotto un rudere dell’antica civiltà romana. Il significato è chiaro: il Cristianesimo ha superato il paganesimo.
Chiediamoci: perché i presepisti napoletani del XVIII sec. – secolo di maggiore splendore di quest’arte – ci tennero ad esprimere questo messaggio? Perché proprio in quel tempo si voleva diffondere, ancor più che nel periodo umanistico-rinascimentale, l’idea della superiorità del mondo classico rispetto a quello cristiano; è il neoclassicismo. Era questa un’idea di cui si facevano maggiormente sostenitori gli intellettuali. Nel presepe napoletano, invece, il popolo basso ribadì attraverso l’arte presepiale che anche se intellettualisticamente si può dire quello che si vuole, resta che il Cristianesimo ha vinto e superato il paganesimo.

Il tempio rotto e incompleto sta proprio a significare il crollo di un mondo. Un semplice Bambino ha vinto la presunzione di secoli e secoli di cultura… che pur non raramente arrivava ad esprimere la sapienza naturale, figura, comunque, come qualcosa di incompleto rispetto alla Sapienza di tutte le sapienze, che è, appunto, il Verbo incarnato. A tal proposito si racconta che un Vanvitelli, o il padre Luigi o il figlio Carlo, entrambi neoclassicisti, soleva disprezzare i presepisti napoletani ritenendoli ignoranti.

Un particolare non secondario: sarà sempre il popolo basso, i cosiddetti lazzaroni e non gli intellettuali, a ribellarsi contro la laicizzazione imposta dalla giacobina repubblica partenopea del 1799 e sarà sempre il popolo basso, i cosiddetti briganti e non gli intellettuali, a ribellarsi ad un’altra laicizzazione, questa volta imposta dalla conquista piemontese.
La riaffermazione della Civiltà cristiana rispetto a quella pagana è autenticamente cattolica.

La seconda caratteristica del presepe napoletano è un’apparente contraddizione: da una parte il superamento del paganesimo, dato storico, e dall’altra l’utilizzazione della contemporaneità, dato metastorico. Chiarisco: abbiamo visto che in tale presepe si vuole sottolineare, in polemica con il neoclassicismo illuminista, che il Cristianesimo ha vinto il paganesimo e lo si fa ponendo la Natività sotto un rudere di un tempio romano. Ora ci si attenderebbe che per far questo il presepe napoletano riproduca fedelmente il dato storico, ovvero l’ambiente della Betlemme della nascita di Gesù, invece non è così.
Per quanto riguarda l’ambientazione il presepe napoletano è volutamente antistorico, anzi dovremmo essere più precisi: volutamente metastorico. L’ambiente, infatti, è quello della Napoli del ‘700.

Ci sono almeno due elementi che ne spiegano il motivo:
1) il mistero è nella contemporaneità: i presepisti napoletani sanno bene, e lo vogliono esprimere, che l’Incarnazione ha una dimensione di contemporaneità perché segna la possibilità della salvezza per tutti i giusti, tanto per quelli che erano già vissuti, tanto per quelli che stavano vivendo allora, quanto per quelli che sarebbero vissuti anche dopo;
2) il mistero è nella quotidianità: i presepisti napoletani sanno anche che l’Incarnazione riguarda tutti, non solo nella dimensione temporale – ieri, oggi e domani –, ma anche in quella spaziale: ricchi e poveri, colti e ignoranti. Tocca dunque tutto il reale con le sue innumerevoli sfaccettature. Tutto questo è ovviamente cattolico e autenticamente cattolico.

La terza caratteristica cattolica del presepe napoletano è il riferimento ad alcuni dati apocrifi. Teniamo presente che ci sono due tipi di vangeli apocrifi, quelli innocui che non stravolgono la figura di Gesù, ma la mitizzano solamente, e quelli più specificamente eretici perché deformano la figura di Gesù. I primi, quelli innocui, tendono al miracolismo e sono pieni di particolari anche per quanto riguarda la nascita e l’infanzia di Gesù. Ed è in questi apocrifi che si parla del bue e dell’asinello ed è in questi che si parla anche di due lavandaie, Salomé e Zelomi, che avrebbero aiutato la Madonna dopo la nascita del Bambino.
Ebbene, il presepe napoletano oltre al bue e all’asinello, che sono presenti i tutti i tipi di presepe, pone sempre due lavandaie vicino alla Natività: sono appunto Salomé e Zelomi.
Ora, questo voler riprodurre particolari che vanno oltre i dati scritturistici canonici, muove dalla convinzione che non tutto è contenuto nella Scrittura e questo è tipicamente cattolico e, quindi, alternativo al ‘sola Scriptura’ del luteranesimo, ovvero a quella convinzione protestante secondo cui l’unica fonte della rivelazione sia la Bibbia.

La quarta caratteristica cattolica del presepe napoletano è la presenza della dimensione mondana. In esso c’è sempre una locanda con dei tipici personaggi, fra cui il celebre Ciccibacco seduto su delle botti o con in mano dei fiaschi di vino, dal volto chiaramente brillo. E’ un personaggio che rappresenta l’uso del vino per perdere il controllo di sé e darsi ai vizi. Non a caso il nome popolare è il richiamo al dio Bacco presente nei rituali dionisiaci. In questo caso i presepisti napoletani vollero esprimere che la vita è una scelta tra la virtù e il vizio, e che non basta solo la fede. Ricordo che Lutero, che aveva appunto affermato la necessità della sola fede, era arrivato a legittimare la pratica di qualsiasi vizio: “pecca fortemente, l’importante è che tu creda ancor più fortemente”, aveva detto.
Il presepe napoletano, invece, ci dice che la fede deve essere sempre accompagnata dalle opere e dall’esercizio delle virtù. Quindi anche dalla temperanza.

Inoltre, a detta di alcuni studiosi, questa centralità del vino nel presepe napoletano, rappresentato dalle tante locande ed osterie, starebbe anche ad evidenziare come questa bevanda sarebbe stata poi trasformata e sublimata proprio da Cristo con l’istituzione dell’Eucarestia. Insomma il vino da bevanda di perdizione a bevanda di santificazione.

La quinta caratteristica cattolica del presepe napoletano è l’immancabile figura di Benino. Si tratta del famoso personaggio che dorme non lontano dalla Natività. Solitamente si dice che la sua presenza stia nel fatto che il presepe costituisca il suo sogno. Si tratta però di un’interpretazione che contraddice le palesi convinzioni da cui nasce il presepe napoletano. In realtà la spiegazione sembrerebbe essere un’altra: Benino è colui che rimane indifferente dinanzi alla Salvezza. Anche questo è tipicamente cattolico. Dinanzi a Dio ci possono essere l’accettazione, il rifiuto, ma anche l’indifferenza. Dipende da quella volontà libera dell’uomo che invece nel protestantesimo non è riconosciuta o, se lo è, lo è molto parzialmente.

Un’ultima caratteristica cattolica del presepe napoletano è l’attenzione al particolare. Un’attenzione che arriva fino all’esasperazione. Le rocce, gli intonaci screpolati delle case, le botteghe con le loro mercanzie, il volto dei pastori, tutto è di un realismo portato all’estremo. Si tratta di quella spiritualità tipicamente cattolica secondo cui non può sfuggire nessuna sfaccettatura. In alternativa alla convinzione già luterana, ma poi soprattutto calvinista, secondo cui vi sarebbe una sola discriminante fra eletti e non eletti: o si è scelti da Dio o no. Se questo fosse vero la realtà non sarebbe affatto complessa, ma estremamente semplice e lineare.
La visione cattolica, invece, è ben diversa. Tutti sono chiamati alla salvezza e le risposte a questa chiamata possono essere anche molto complesse e sfumate, ciò rende il reale esuberante e tutt’altro che riducibile a pura equazione matematica.

Un’ultima considerazione: questa attenzione al particolare del presepe napoletano rende evidente quanto la teologia cattolica sia tutta adagiata sulla prospettiva mariana. E’ proprio la psicologia femminile ad essere più attenta ai particolari. Nulla sfugge all’attenzione tipicamente materna.

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La storia incredibile di Nadia Nadim, la dottoressa del calcio che ha segnato a San Siro

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2024

La storia incredibile di Nadia Nadim, la dottoressa del calcio che ha segnato a San Siro
Fuggita a 11 anni dall’Afghanistan, con la mamma e le sorelle, dopo l’assassinio del padre per mano dei Talebani, ha scoperto il calcio in un campo profughi in Danimarca e non è finita lì
di Elisa Chiari – Famiglia Cristiana

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C’è chi dice che la vita di Nadia Nadim, l’attaccante del Milan che dal 10 dicembre 2024, è la prima calciatrice straniera a segnare una rete a San Siro, sembra un romanzo o un film. Ma chi lo fa dimentica che spesso la realtà ha più fantasia di ogni arte e di ogni letteratura. La storia da 250 reti nel calcio femminile di questa donna tosta, che non disdegna di mostrarsi su Instagram in mille vesti, sportive e da sera, e anche da sposa quando nell’agosto scorso ha sposato in Turchia il fidanzato storico Idrees, è cominciata nel 1988, da secondogenita di una famiglia di cinque figlie femmine.

Nadia aveva sette anni quando i Talebani hanno preso il potere e ristretto la sua vita di bambina. Ne aveva 11, quando il padre, generale dell’esercito considerato espressione dell’esiliato governo di Burhanuddin Rabbani, è stato ucciso dai Talebani. In quel momento la madre ha preso il coraggio della disperazione ha venduto tutti gli averi di casa per partire con cinque bambine alla ricerca di un posto di mondo meno pericoloso in cui vivere, nell’immaginario c’era Londra, dove già c’era un pezzo di famiglia. Il destino ha deciso diversamente: attraverso il Pakistan, con passaporti falsi rimediati a Islamabad, sono arrivate fino all’Europa. Nelle tappe del viaggio anche Milano, quattro giorni in quello che nei suoi racconti di questi anni Nadia ha raccontato come uno scantinato freddo, buio e molto sporco. Di lì in clandestinità dentro un camion che si credeva diretto in Inghilterra e invece è approdato a Renders in Danimarca, dove prima di qualunque altra cosa hanno dovuto chiedere a un passante: “Dove siamo?”. Per poi approdare al primo posto di polizia a fare domanda di asilo. Una domanda accolta in tempi relativamente brevi e cominciata con l’umanità di un agente che a cinque bambine sedute ad aspettare la mamma che esponeva le sue ragioni alla Polizia, ha chiesto a gesti toccandosi la pancia: “avete fame?” e ha rimediato loro qualcosa da mangiare. Un ricordo capace di fissarsi nella mente di una bambina che ancora non aveva un posto nel mondo e di indirizzare in lei un desiderio ancora senza forma di fare qualcosa per aiutare gli altri.

Il calcio a quel tempo non era neanche nei calcoli: nessuna di quelle bambine aveva mai visto una ragazza giocare a pallone. È successo per la prima volta dietro la rete di un campo profughi danese, dove Nadia e la mamma e le sorelle sono state per qualche anno. Quel campo di calcio, in cui Nadia e le due sorelle più grandi sono entrate quasi per caso, è diventato presto l’emblema della libertà: dopo cinque anni in cui era stato loro vietato di uscire, di andare a scuola, di fare sport di fare qualunque cosa, passare la mattina a studiare la lingua del Paese che le aveva accolte e il pomeriggio a giocare, un gioco creduto da maschi, con le altre bambine rifugiate, significava un modo diverso di vedere la vita e cominciare a pensarsi in un mondo nuovo.

Una volta uscita dal campo profughi, e arrivata in una piccola vera casa, Nadia ha cominciato a giocare con una società di Skørping vicino a dove vivevano. Ma presto con la scoperta del talento è arrivata la proposta di una squadra di livello superiore l’Aalborg. Significava bicicletta, treno, autobus, ore di viaggio dopo la scuola. La madre non voleva saperne: dovete studiare, se non studiate vi perderete, il calcio non è un lavoro e poi non abbiamo i soldi. In una parola tutto il campionario di ragionevolezza che metterebbe davanti una madre sola con cinque figlie in un paese straniero. La società si offrì di pagare il viaggio rimuovendo il primo ostacolo, Nadia fece il resto mantenendo la promessa di portare a casa sempre i voti migliori. Era partita da una sequela di “non puoi”, a trasgredire i quali si rischiava la vita, nella sua nuova aveva deciso che avrebbe rimosso da sola gli ostacoli che erano solo questione di organizzazione e di buona volontà.

Questo ha fatto sì che oggi Nadia Nadim sia una stella del calcio femminile, la prima naturalizzata a far parte della Nazionale di calcio danese, che ha giocato nel Paris Saint Germain, nel Machester City e ora nel Milan, mettendo insieme oltre 250 reti.

All’università di Aarhus in Danimarca si è laureata in medicina, utilizzando il periodo in cui ha giocato negli Stati Uniti per studiare durante la stagione di gioco e concentrare i tirocini nella pausa dal campionato, più lunga che in Europa: c’è voluto più tempo del normale: un semestre all’anno invece di due, ma anche in questo Nadia ha mantenuto la promessa fatta alla madre e risposto a chi le diceva: “Non ce la farai mai”. Ripete di aver scelto la medicina in ossequio a quel desiderio di tornare un giorno utile a qualcuno.

La visibilità che ottiene sul campo da calcio le serve anche per promuovere nel mondo l’importanza dello sport e dell’istruzione per le bambine e i bambini dei Paesi più poveri. Quando le chiedono della parità nel calcio risponde: «Non sono femminista, ma umanista, nel senso che mi interessano le persone, e realista: so che non arriveremo facilmente alla parità con i maschi nel calcio ma possiamo crescere molto». E intanto si batte perché nessun bambino e nessuna bambina nel mondo davanti all’aula di una scuola o a un campo di calcio si senta sentire dire: «Non puoi». Al momento la sua residenza è la Danimarca, è lì che ha comprato la prima casa alla sua mamma, scomparsa nel 2022 investita da un camion. Ha detto che se mai tornerà in Afghanistan sarà come chirurga. Vuol dire che il mondo, quel mondo, deve fare ancora un pezzo di strada.

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Nigeria: a Kaduna è nata Radio Maria

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2024

Nigeria: a Kaduna è nata Radio Maria
Tratto da: Notizie da Radio Maria nel mondo

Nigeria: a Kaduna è nata Radio Maria dans Articoli di Giornali e News Inaugurazione-Radio-Maria-Nigeria-a-Kaduna

Ieri, 9 dicembre 2024, a Kaduna è nata Radio Maria. Cinque vescovi e circa 100 sacerdoti hanno celebrato la Santa Messa d’inaugurazione.
È stato un evento per tutta la provincia ecclesiastica di Kaduna. In questa regione tristemente conosciuta per Boko Harakiri, Radio Maria è un mezzo per l’evangelizzazione, la promozione della pace e riconciliazione tra le diverse religioni e gruppi etnici.
Il Nunzio Apostolico della Nigeria ha inviato un prezioso messaggio di auguri.
Che la Madonna benedica gli italiani dal cuore così generoso con Radio Maria, che hanno reso possibile la realizzazione di questa Radio Maria importatissima!

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Il Papa al popolo del Nicaragua: “La Provvidenza del Signore ci accompagna”. Il pensiero all’Immacolata

Posté par atempodiblog le 3 décembre 2024

Il Papa al popolo del Nicaragua: “La Provvidenza del Signore ci accompagna”. Il pensiero all’Immacolata
Una lettera al popolo del Nicaragua impegnato nella recita della Novena per l’Immacolata
de La Redazione di ACI Stampa

Il Papa al popolo del Nicaragua: “La Provvidenza del Signore ci accompagna”. Il pensiero all'Immacolata dans Fede, morale e teologia Maria-Immacolata

Cari fratelli e sorelle in Cristo dell’amata Chiesa in Nicaragua, da tempo desidero scrivervi una lettera pastorale per ribadirvi, ancora una volta, l’affetto che professo al popolo nicaraguense, che si è sempre distinto per uno straordinario amore a Dio. Con queste parole, Papa Francesco ha cominciato la sua lettera al popolo della Chiesa del Nicaragua.

Un popolo che chiama “affettuosamente Papachú” la Vergine Maria, come ricorda il Papa nella stessa lettera che continua con parole di vicinanza e affetto:

“Sono con voi, soprattutto in questi giorni che state celebrando la Novena dell’Immacolata Concezione. Non dimentichiamo l’amorevole Provvidenza del Signore, che ci accompagna ed è l’unica guida sicura. Proprio nei momenti più difficili, dove diventa umanamente impossibile farlo, comprendere ciò che Dio vuole da noi, siamo chiamati a non dubitare della sua cura e misericordia”.

Il pensiero del Pontefice corre alla “Vergine Immacolata, Lei è la luminosa testimonianza” della fiducia in Dio. Il Pontefice, inoltre, si augura che “questa celebrazione dell’Immacolata, che ci prepara all’apertura del Giubileo del 2025” donerà “l’incoraggiamento necessario nelle difficoltà, nelle incertezze e nelle privazioni”.

Importante, per Papa Francesco, il ricordo della preghiera del Rosario “nel quale ogni giorno meditiamo i misteri della vita di Gesù e di Maria”: e sono proprio i Misteri del Rosario a “squarciare l’intimità dell’uomo, dei nostri cuori, dove è protetta la libertà delle figlie e dei figli di Dio, che nessuno può strappare. Quante grazie riceviamo dal Rosario, è una preghiera potente”.

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