Lewis Hamilton campione del mondo

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2008

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L’epilogo più giusto
di Carlo Genta – Il Sole 24 ORE

Alla fine tocca giustamente all’inglesino. Solo contro il mondo. E chi dice che non l’ha meritato è un bugiardo o un morto di tifo. Stavolta non gli salta il nervo: Lewis Hamilton parte come chi guida tra i cristalli. E poi si lascia portare dalla corrente della corsa. Fino al più folle finale che si possa immaginare, con il sorpasso di Vettel, Lewis che perde, Massa che vince la corsa e per 30″ anche il mondiale. Poi Glock s’arrende e Hamilton piange, stavolta di gioia dopo che già aveva pronte ben altre lacrime. È quanto gli basta per raccogliere quel che gli spetta. In mattinata Gordon Brown, premier inglese forse mosso a pietà da quello che pareva diventato un clima anche vagamente intimidatorio, si era scomodato per ricordargli il supporto britannico. Dal Medio Oriente, ha dichiarato che «tutti gli inglesi stanno appoggiando incondizionatamente il giovane pilota della McLaren». Magari proprio tutti no. Già abbiamo ricordato come Bernie Ecclestone sia nato ad Ipswich… Noi avremmo voluto invece una telecamera fissa dentro ai box, perché lì si leggeva la corsa più che sulla pista. Sulle facce sconvolte dalla tensione e dall’apnea. Facce anche bellissime, come quella della fidanzatina di Lewis, ridotte a statue senza respiro. Chi vuol essere sportivo, anche se ferito, ci mancherebbe perché così fa ancora più male, deve ammettere che giustizia è fatta. Anche perché da due stagioni il mondiale è sporcato da spazzatura di varia natura, dalle storie di spie, ad « arbitraggi » che non fanno onore a nessuno. Ha vinto il più forte e il più costante, un ragazzo giovane come nessun altro campione del mondo, con dei limiti caratteriali da limare col tempo, ma con stoffa da vendere. Non come l’ultimo iridato britannico, quel broccaccio di Damon Hill. Vincere un mondiale non vuol necessariamente dire essere grandi piloti, purtroppo.

Alla Ferrari si apre invece l’inverno degli interrogativi. Deve essere così. Abbiamo, hanno ripetuto per tutta la stagione che quella rossa era la macchina più forte e alla fine la festa la fa Ron Dennis. Il conto non può tornare. E il titolo costruttori vinto non può bastare. Lo scorso anno, al netto degli interventi « arbitrali », alla McLaren hanno perso un titolo all’ultima curva mettendo due galli (Alonso e Hamilton) nello stesso recinto a beccarsi via punti. Lo stesso continua a fare la Ferrari, con i due galli che non sono però dello stesso livello. Non finiremo mai di dire che Felipe è stato bravissimo e che più di così sarebbe stato disonesto domandargli. Raikkonen invece è partito ancora brillo della vittoria, poi s’è fatto prendere dalla spocchia, rifiutando a parole e in cuor suo (basta leggere le gare) il ruolo di spalla quando era ormai chiaro che, al di là della matematica, al titolo non sarebbe mai arrivato. Eppure gli è stato allungato il contratto. Una politica che convince poco. Noi possiamo permetterci di esser chiari saltando politichese e giri di parole: Raikkonen e Massa non sono i due più forti piloti in circolazione. Dovendo scegliere per cattiveria e freddezza punteremmo a malincuore sull’antipatico finlandese, mettendogli però vicino una seconda guida utile nello sviluppo quanto poco ingombrante. Potendo scegliere faremmo di tutto, a costo di stracciare contratti e andare alla guerra con Briatore, per andare a prendere il pilota più forte che c’è: Fernando Alonso. A quel punto, ma con gerarchie chiare e condivise fin dalla prima curva della stagione, sarebbe bello lasciargli accanto Felipe che può essere la più forte delle seconde guide. L’impressione è che Massa la sua grande occasione se la sia vista sciogliere tra le lacrime dalla pioggia di Interlagos.

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La squadra che ha inventato il calcio

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

« Qui è iniziata la storia ». In viaggio con la squadra che ha creato il calcio 
di Giuseppe De Bellis – Il Giornale (2007)

La squadra che ha inventato il calcio dans Sport calcioxj6

L’ora del tè, più o meno. Il campo là, a vista: erba verde, un po’ alta, fitta, perfetta per il cricket. Però la pioggia, maledetta: Sheffield non era ancora triste come oggi. Grigia sì, il 24 ottobre. Nuvole. Allora la noia. William, Nathaniel e Thomas: «Dovremmo trovare qualcosa da fare per divertirci in inverno, quando il cricket si ferma». Sulla poltrona di fronte alla finestra, sotto la pioggia, col tè bollente. Il football fu quella cosa lì: l’antinoia. Ne avevano sentito parlare, William, Nathaniel e Thomas. L’avevano visto, pure: la palla presa a calci, due pali, un punteggio. Pioggia, sole, vento, neve: sull’erba il pallone rotola sempre. This is football. Il calcio moderno, eccolo. Esisteva il gioco, non una squadra. Si faceva così: scapoli e ammogliati, oppure misti, gruppi di amici, la terza E del liceo, contro la terza B dell’altro liceo.

Quel giorno no: Sheffield Football Club, la prima squadra della storia. Maglie, pantaloncini, calzettoni. Berretto, pure: all’epoca era obbligatorio. Undici ragazzi: Thomas Ward si defilò, troppo preso dal resto. Rimase proprietario della sede del Club: una depandance di casa sua, quella del tè e della noia, quella di quel pomeriggio di pioggia. Da soli, Nathaniel Creswick e William Prest, andarono a chiamare i ragazzi che avevano visto giocare sui prati della città: «Vuoi venire? Abbiamo formato una squadra di calcio». Uno alla volta ne presero una ventina. Li misero in campo, a scannarsi. Perché il football allora era un’appendice del rugby. Con le punizioni, però: non si poteva trattenere un avversario, non si poteva sgambettare, non si poteva toccare il pallone con le mani. Sheffield inventò un codice, l’alba di un regolamento. Sulle porte arrivarono le traverse, i giocatori erano limitati a undici per squadra, il pallone non doveva superare i due chili. Poi il corner, che non se ne poteva più di battere con le mani anche quando il portiere salvava un gol. Cambridge aveva già cominciato, nove anni prima, a scrivere i punti chiave del calcio diventati poi le tavole uniche del pallone dal 1863. Sheffield contro Cambridge: per un secolo e mezzo hanno litigato per stabilire chi sia stata la casa del pallone. Si sono divise i meriti: a una la legge, all’altra gli uomini. Quella squadra, allora. Quella squadra che la prima volta in trasferta andò a giocare addirittura a Londra. E perse. Però fece esordire un’altra regola: la partita doveva durare novanta minuti, divisa in due tempi da quarantacinque. Quella squadra che adesso ha 150 anni e che s’è ostinata a rimanere incredibimente uguale: in città è arrivato lo United, poi il Wednesday. Si sono presi la gloria: promozioni, coppe d’Inghilterra, scudetti. First division e pure la Premiership. Lo Sheffield Football Club gioca nella Premier Division della Northern Counties East League. È la nona divisione inglese, una terza categoria italiana. Dilettanti. Di più: amatori. E però con lo store ufficiale, col sito internet, con la maglia griffata Nike. Con uno scudetto sulla divisa: Ordine del merito della Fifa. C’è solo un’altra squadra al mondo ad averlo: è il Real Madrid.

Furbi quelli dello Sheffield Fc: fanno finta di fare i poveri per diventare ricchi. Allora giocano l’amichevole con i Glasgow Rangers e col Manchester United. Venti sterline a testa l’ingresso. «Sono partite uniche. Sono la nostra leggenda e la leggenda del calcio: i 150 anni del club più antico del mondo». Richard Tims è il Nathaniel Creswick contemporaneo. Faccia tosta. S’è comprato la storia nel 1999, in prospettiva. «Nel 2007 volevo essere io il presidente». Ora c’è. Sua la baracca, suo il campo: è la prima volta che l’Fc ne ha uno vero. Prima ha vagato per quelli della zona, alla ricerca di un posto, di uno spogliatoio, di una doccia. L’ha trovato a Dronfield, poco più in là dalle ciminiere di Sheffield, dall’acciaio che cola e fuma, dal paesaggio alla Full Monty. Lontano dallo stadio dello United, lontano dallo stadio del Wednesday, lontani dai tornelli e dagli steward, dalle telecamere, dal satellite e dal cavo.

Cinquecento posti a sedere, gli altri in piedi, please. Il campo si chiama Coach & Horses Ground: alle panchine si accede passando attraverso un pub. Una pinta per la vita, un’altra per la gloria. Ora gli hanno dato un altro nome: Bright Finance Stadium. Questione di sponsor, ovviamente. Soldi anche qui. Soldi sempre. Ne approfitta pure la storia, quando ci sono. Qui non succede sempre, neppure quando arriva uno che sa giocare, quando cresce, quando qualcuno lo viene a vedere e vuole comprarselo. Come Sam Sodje. Oggi gioca nel Reading, Premier League. A Sheffield passò nel 2000, solo per un anno. Lo chiese il Stevenage Borough e lo pagò sull’unghia: quattro palloni e ventidue divise da gioco. Bianco-rosse: maglietta, pantaloncini, calzettoni. Arrivarono sporchi.

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Una L ‘tricolore’ per il Pocho

Posté par atempodiblog le 16 octobre 2008

Una L 'tricolore' per il Pocho dans Cucina e dintorni pizzaxr2

Ripieno a forma di ‘L’ con all’ interno ricotta, mozzarella di bufala, salame e peperoncino. Sono alcuni degli ingredienti che caratterizzano la pizza ‘Ezequiel Lavezzi’, ultimo lavoro del maestro pizzaiolo Salvatore Urzitelli, titolare della pizzeria ‘Addò Guaglione’ di via Consalvo a Napoli. La pizza, dedicata al ‘Pocho’, è ricoperta per una parte da crema ai quattro formaggi con zucchine, prosciutto cotto e mozzarella, per un’altra da pomodori e mozzarella e sull’ultima da salsicce e friarielli: si tratta di una sorta di tricolore con l’augurio che l’asso argentino, così come fatto dal suo connazionale Diego Armando Maradona, regali ai napoletani il tricolore. «Ho deciso di dedicare una pizza a Lavezzi – ha sottolineato Urzitelli – perché da tifoso spero che ci regali al più presto lo scudetto. Come ingredienti ho utilizzato i prodotti tipici della nostra terra. In più ho aggiunto il peperoncino poichè il ‘Pocho’ è piccante nelle sue giocate».

L’IDEA - «Dopo la pizza al Pallone d’Oro di Cannavaro e a quella dei campioni del Mondo -ha detto al corrieredellosport.it- ho deciso di crearne una per il nostro mito Lavezzi. L’ho fatta al forma di L e i clienti possono sceglierla con tre gusti diversi». Una pizza appena sfornata dunque ma chissà se il profumino è giunto già dalle parti del campione argentino: «Non so se lo ha saputo. Qualcuno glielo dirà ma io lo invito ufficialmente ad assaggiarla visto che è l’unico che non l’ha ancora fatto».

Fonte: corrieredellosport.it

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Un processo di 5 minuti

Posté par atempodiblog le 23 septembre 2008

Liberi e felici i due fermati per il caos Roma-Napoli
Patteggiamento e pena sospesa. Il legale: « Ma che ha fatto? »

Treni distrutti e coltelli
un processo di 5 minuti

di CARLO BONINI – repubblica.it


ROMA - Danilo Durevole, ultras da San Giorgio a Cremano, cui lo hanno detto per telefono, pare non volesse crederci. Da non stare nella pelle. Alle 9 e mezza del mattino, nell’aula 7 della quarta sezione penale del tribunale ordinario di Roma, giudice monocratico Maria Bonaventura, lo Stato salda il primo « conto » (si fa per dire) con la domenica della vergogna. 31 agosto, Roma-Napoli. Ventiquattro ore di normale devastazione. E fanno 4 mesi e 10 giorni di reclusione, 800 euro di multa. Sospensione condizionale della pena. Danilo, libero già la mattina del 1 settembre, libero resterà.Per liquidare una storia che, non più tardi di dieci giorni fa, aveva messo a rumore Governo, opposizione, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, sono sufficienti quindici minuti di orologio. Danilo non c’è. Se ne è rimasto a Napoli, perché la prima regola, in ogni processo ultras, è « buttarsi contumace ». Far dimenticare la propria faccia a chi ti dovrà giudicare e confidare nel tempo che, nel calcio, è medicina miracolosa, capace di annebbiare la rabbia e la paura. Alessandro Cacciotti, l’avvocato che difende Durevole, confabula con il pubblico ministero. Chino sul codice, somma e sottrae con perizia contabile. Quando si raddrizza per interloquire, appare soddisfatto. « Patteggiamo », dice. Il giudice chiede: « In che misura? ». « Mesi 3 di reclusione, 600 euro di multa. Pena sospesa ». « Mi sembra un po’ pochino, avvocato, non crede? ». Cacciotti appare sconcertato: « Mi scusi, signor giudice, in fondo il mio cliente che ha fatto? ».

Già, in fondo, Danilo Durevole ha avuto soltanto la sfortuna di essere uno dei due soli tifosi napoletani arrestati quel giorno. Se ne stava tranquillo in curva nord con « una torcia esplosiva in mano ». Era arrivato da Napoli su un treno sequestrato in partenza e devastato lungo il tragitto (500 mila euro di danni). Dalla stazione Termini aveva raggiunto l’Olimpico su un convoglio speciale dell’Atac da cui, lungo un tragitto di poco più di 4 chilometri, erano state lanciate appena 41 bombe carta. Aveva soltanto menato mani e piedi con chi lo ha arrestato. Allarga le braccia Cacciotti, in un crescendo di enfatica incredulità.

« Una vicenda come al solito amplificata dai media. Il ragazzo è incensurato e in fondo risponde solo del possesso di un petardo e di resistenza alla polizia. Normale, quando si viene fermati in uno stadio ». Il giudice lo interrompe: « Il contesto in cui si sono svolti i fatti è particolare. Provi a riformulare la richiesta, avvocato ». Cacciotti riformula: « Potrei arrivare a mesi 4 e giorni 10″. Il giudice: « Quattro mesi e mezzo, direi ». Cacciotti: « No, giudice, 4 mesi e 10 giorni che per altro è perfettamente divisibile con le imputazioni. Guardi, facciamolo insieme. Pena base, mesi 9 di reclusione. Ridotta per le attenuanti generiche a mesi 6. Aumentata per il secondo capo di imputazione a mesi 6 e giorni 15 oltre a 1.200 euro di multa. In forza del rito, ridotta a mesi 4 e giorni 10 di reclusione più 800 euro di multa. E naturalmente sospensione condizionale della pena ». Il pm annuisce distratto. Cinque minuti di camera di consiglio. Quattro mesi e 10 giorni siano. Pena sospesa.
Toccherebbe ora al suo compare, Diego De Martino. L’altro sfortunato. Quando lo hanno arrestato all’Olimpico, le mani le aveva impegnate entrambe. Una bomba carta nella sinistra. Un coltello a serramanico nella destra. Anche lui, libero, ha pensato bene di non affacciarsi in aula. Anche lui è difeso da Cacciotti. Meglio, da Cacciotti e Lorenzo Contucci, l’avvocato degli ultras, il professionista che ha legato la sua immagine all’omicidio di Gabriele Sandri (è l’avvocato della famiglia). Rispetto a Durevole, De Martino naviga in acque più agitate. Non fosse altro, perché ha precedenti per rapina e un Daspo di 3 anni scaduto pochi giorni prima di Roma-Napoli.

Ma Contucci non si perde d’animo. Sussurra all’orecchio del collega la trovata. « Signor giudice – argomenta Cacciotti – per De Martino chiediamo il rito abbreviato (prevede una riduzione di un terzo della pena, ndr) ma, preliminarmente, chiediamo una perizia sul coltello che la polizia dice di avergli sequestrato per verificare se effettivamente siano presenti impronte digitali dell’imputato. Vede, signor giudice, De Martino non ha avuto difficoltà ad ammettere le sue responsabilità. Ma il coltello, proprio no. Lui dice di non averlo mai avuto. E’ una questione di giustizia ».

La perizia sul coltello equivale a sostenere che la polizia ha mentito nel suo rapporto di fermo. Il giudice la concede e rinvia il processo « agli esiti dell’esame peritale ». Sul fondo dell’aula, i due poliziotti del reparto celere che hanno arrestato De Martino hanno la faccia di pietra. Uno di loro, Gianluca Salvatori, incrocia l’avvocato Contucci. « Ma non vi vergognate? », dice.

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Intervista-verità a Ivano Fanini

Posté par atempodiblog le 23 septembre 2008

Pantani, la provetta scambiata e il dopato che vincerà il Mondiale di Varese

Intervista-verità a Ivano Fanini, presidente dell’Amore & Vita: “I big hanno lasciato la Vuelta una settimana prima per assumere epo in tranquillità” – “Riccò? Da squalifica a vita” – “Tutti i miei ragazzi morti miseramente”

di Paolo Ziliani – paoloziliani.it

Non usa giri di parole Ivano Fanini, 57 anni, presidente del team ciclistico «Amore & Vita-McDonald’s», parlando dell’aria pesantissima che si respira in gruppo a 5 giorni dalla gara clou dei professionisti ai Mondiali di Varese.

Fanini, che Mondiali saranno?

«Se alla Rai facessero le cose per bene, domenica, al momento della premiazione della prova iridata su strada dei professionisti, dovrebbero mandare una didascalia che dica: “Corridore Tizio, medaglia d’oro, dopato; corridore Caio, medaglia d’argento, dopato; corridore Sempronio, medaglia di bronzo, dopato”».

Le sue sono accuse molto gravi.

«Lo so, ma accadrà quello che avviene da anni nei Giri d’Italia, di Spagna e di Francia: vincerà un corridore che si dopa, altrimenti non ce la farebbe, e batterà un corridore che si dopa e un altro che si dopa. E se le “cure” saranno state fatte in modo “intelligente”, l’antidoping non diventerà un problema».

Si spieghi meglio.

«Ha visto cos’è successo nell’ultima settimana della Vuelta? Tutti i big che puntano a vincere il Mondiale e i loro gregari sono tornati a casa senza un motivo giustificato. Ho chiesto al mio direttore sportivo, Pierino Gavazzi, che è stato tre volte campione d’Italia e ha vinto una Sanremo, come mai succede questo: e mi ha risposto che i corridori tornano per fare quello che in gergo viene chiamato il “rifornimento”, cioè per assumere epo al riparo da occhi indiscreti. È quello che i corridori chiamano “la cura”. La fanno tutti, il big che deve vincere e il gregario che deve aiutare a vincere. Unica avvertenza: sospenderla qualche giorno prima della corsa per non lasciare tracce il giorno fatidico».

Qualcuno però ogni tanto viene beccato.

«Poca roba. Nella rete generalmente finiscono i giovani, come Riccò e Sella. Dopo i tanti casi di doping in cui era stato coinvolto da dilettante, Riccò avrebbe già meritato di essere squalificato a vita. In quanto a Sella, fino a un anno fa era un corridore normale. Di colpo, al Giro 2008, è diventato un fenomeno: e anche nel suo caso la spiegazione ha il nome della nuova epo, il Cera. Anche lui in un certo senso paga l’inesperienza. Errori così non li commette certo un Piepoli, la lunga ombra di Riccò. Che la sua squadra ha licenziato lo stesso perché nessuno ormai si fida più di uno come lui».

Riccò cacciato dal Tour ha fatto rivivere i fantasmi di Pantani, spedito a casa in maglia rosa a Madonna di Campiglio il 5 giugno del 1999.

«È vero. Ma nessuno sa che anche l’anno prima, al Giro del ’98, quello da lui vinto trionfalmente, Pantani avrebbe dovuto essere mandato a casa. Invece al posto suo fu cacciato Forconi, un gregario. Che il giorno dopo, visto che era un mio ex corridore, era stato con me 6 anni all’Amore & Vita, venne a trovarmi in ufficio e mi raccontò tutto. “Hanno fatto uno scambio di provette e hanno mandato a casa me, che alla Mercatone sono l’unico ad avere i valori bassi”, mi disse. Riccardo era un modesto gregario, uno da 20-30 milioni di lire l’anno. Beh, dopo quell’episodio, e quella squalifica, si è costruito una villa sulle colline di Empoli: e si è fatto una posizione. Oggi collabora con Beppe Martinelli, il direttore sportivo di allora, ed è il team manager della Vangi, un club di dilettanti assai quotato».

Abbiamo parlato di Riccò, Sella, Piepoli, ma fra i corridori squalificati in casi diversi ci sono stati anche Basso, Di Luca, Petacchi…

«È una situazione senza ritorno. Un anno fa, al Giro, dopo il tappone dello Zoncolan vennero sottoposti a un controllo a sorpresa Di Luca, Riccò, Simoni e Mazzoleni: i 4 italiani meglio piazzati in classifica. Ebbene, tutti e 4 fecero la pipì degli angeli: in pratica mostrarono il profilo ormonale di un bambino di 7 anni. Una cosa da ridere. Nonostante questo, credo che Di Luca continui a intrattenere rapporti col medico super-squalificato Santuccione; e il massaggiatore di Riccò è sempre Pregnolato, che seguiva Pantani e fu incastrato nella retata dei Nas a Sanremo, nel Giro del 2001, con un sacco di robaccia in valigia, quindi venne squalificato. Per non parlare di Basso, che è stato coinvolto nell’Operación Puerto, ha raccontato un sacco di balle e adesso è pronto al rientro, bello come il sole».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Squalificare a vita l’atleta trovato positivo. Ed estendere automaticamente la squalifica al team manager, o direttore sportivo, perché alle verginelle tradite dal loro pupillo non crede più nessuno. Due anni fa, dopo i pasticci combinati dai suoi corridori, la Milram ha licenziato in tronco il d.s. Stanga – che sapeva tutto – e ha fatto bene. E mi chiedo: che cosa ci sta a fare ancora nel ciclismo uno come Bjarne Rijs? Uno che ha imbrogliato tutta la vita, che ha vinto un Tour da dopato e che dopo gli scempi commessi da d.s. è ancora lì, sull’ammiraglia, e ha appena vinto il Tour de France con Sastre, che sul podio a Parigi ha avuto l’impudenza di ringraziare Manolo Saiz, ossia il principale artefice del doping nel ciclismo assieme ai medici Ferrari e Santuccione».

Lei è il presidente dell’Amore & Vita-McDonald’s e da molti anni si sta battendo a spada tratta contro il doping. Perché lo fa?

«Fino al ’98 sono stato un dirigente come un altro, ho fatto come tutti. Le mie squadre hanno vinto una quindicina di tappe, tra Giro e Vuelta, con corridori che si dopavano. Poi ho cominciato a vedere ragazzi che stavano male, ho cominciato a contare i morti, e mi sono ribellato. Vuole sapere quanti miei ex ragazzi sono morti negli ultimi anni? Sei. E ben tre nelle ultime tre stagioni: Galletti, Cox e Fois. Galletti l’avevo ingaggiato a 30 anni a patto che non toccasse più il doping e si era rilanciato al punto da diventare un fido gregario di Cipollini. È morto in gara due anni fa. Cox, sudafricano, aveva talento e a 23 anni era passato alla Barloworld: a 28 anni è morto nel suo Paese, abbandonato da tutti, dopo un’inutile operazione in Francia per problemi vascolari dovuti all’assunzione di sostanze proibite. Fois è stato l’ultimo, circa 6 mesi fa: è morto con la maglia dell’Amore & Vita nell’armadio. Come ho fatto spesso con tanti corridori in difficoltà, l’avevo ingaggiato per ridargli una ragione di vita, per toglierlo dalla strada. Si stava riprendendo. Non ce l’ho fatta».

Ma i telecronisti e gli inviati, quando Riccò vince «alla Pantani», si perdono in peana.

«Sanno tutto ma tacciono. E quando succede il fattaccio fingono di stracciarsi le vesti. La parola d’ordine è “business & spettacolo”: il resto non conta. E la salute dei corridori meno che mai. Un dramma, perché molti di questi ragazzi, quando subiscono lunghe squalifiche o smettono di correre, passano dal doping alla cocaina o ad altre tossicodipendenze. Com’è successo a Pantani, a Jiménez e a Fois: che purtroppo oggi non ci sono più».

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Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2008

Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati:
vedere la classifica è stress

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Spero che Il papà di Giovanna, il nuovo bellissimo film di Pupi Avati, arrivi presto sugli schermi della Gran Bretagna e spero che lo vadano a vedere tutti i dirigenti del football inglese che ieri hanno abolito risultati e classifiche dei campionati dei bambini di 7 e 8 anni (in alcune zone, anche di quelli di 9, 10 e 11 anni). Il film potrebbe essere un provvidenziale antidoto alla sciagurata illusione di preservare i piccoli dal trauma della sconfitta, dall’onta dell’ultimo posto, perfino dall’istinto della competizione.
Perché questo è il movente ultimo dei dirigenti del calcio inglese: proteggere i bambini, evitare che fra loro qualcuno emerga come più bravo e quindi qualcun altro, inevitabilmente, come meno bravo; soprattutto, poi, evitare la gogna mediatica della classifica appesa all’ingresso degli spogliatoi o magari – orrore – pubblicata sul settimanale locale. Resta il gioco, restano i gol, restano i più forti e i più scarsi, perché la realtà non la si può eliminare. La si può però nascondere. Non basta più ovattarla con De Coubertain, addolcirla con un complimento, ripararla con un giocattolo. No: la realtà, quando è sgradevole, bisogna occultarla, negarla.
La partita senza risultato e il campionato senza classifica sono l’ultimo anello di una catena che parte da lontano, dal vietato sgridare del dottor Spock all’abolizione dei cartelloni murali con i voti di scuola a fine anno. Così come il bocciato non deve essere traumatizzato dal vedere il proprio nome in quella che ormai viene considerata una lista di proscrizione, il baby inglese non deve provare l’umiliazione neppure di un secondo posto.
Va detto che tra le motivazioni addotte dalla federazione calcistica inglese ce n’è una non peregrina, che si rifà all’ormai straripante e prepotente presenza dei genitori alle partite di calcio dei bambini. Chiunque abbia figli che giocano sa di che cosa parlo. Fino a una ventina di anni fa ai campionati di pulcini, primi calci e giovanissimi il genitore era una presenza rara e persino preziosa: serviva a dare una mano, anzi un volante e quattro ruote, ad allenatori e accompagnatori indaffarati a organizzare le trasferte. Sugli spalti non si sentiva gridare un «bravo», né un batter di mani. Oggi papà, mamme, zie e nonni si costituiscono in tifo organizzato: cominciano incitando; poi passano all’insulto all’arbitro; quindi a quel pirla dell’allenatore che non capisce che mio figlio non può giocare sulla fascia; infine la rissa con i genitori dell’altra squadra: sta’ zitto, che c. vuoi, ti faccio un c. così, ci vediamo fuori.
Ma non è con l’abolizione del risultato e della classifica che si risolve il problema. Intanto perché i genitori-ultras ai bordi del campo se ne fregheranno del mancato verbale: continueranno a seguire la partita e a contare i gol. E poi non è anestetizzando i bambini che si placano i furori e le frustrazioni degli adulti. Si puniscano loro, piuttosto: si impedisca ai genitori scalmanati di seguire i figlioli al campo.
I bambini poi, anche quando perdono, soffrono molto meno di quanto soffriamo noi per loro. Prima ancora di rientrare negli spogliatoi, per il bimbo la sconfitta è digerita, il gol in fuorigioco dimenticato, il fallo accettato come facente parte della realtà di una partita.

Eppure è nel malinteso tentativo di tutelarlo da un trauma che la federazione inglese – e chissà quanti altri tra poco – vogliono privarlo dell’aspetto più sano del gioco. La competizione non è – non deve essere, almeno – occasione per prevaricare e per irridere. Ma per sperimentare se stessi sì; per provare fatica, per capire che ogni traguardo va meritato, per fare esperienza della gioia di una vittoria e della delusione di una sconfitta. Perché di questo i bambini dovranno poi vivere: fatica, merito, gioia, delusioni, vittorie e sconfitte.
Come Il papà di Giovanna trucca i risultati degli esami di maturità per procurare un fidanzato alla figlia bruttina, i dirigenti del football inglese truccano anzi addirittura annullano le classifiche per evitare uno scacco ai bambini meno bravi. Come Il papà di Giovanna, vogliono tenere i bimbi sotto una campana di vetro, nell’illusione di preservarli dalle prime avvisaglie dell’asprezza della vita. Ma come Il papà di Giovanna produrranno disastri. I bambini sono abbastanza intelligenti per capire, e una sconfitta tenuta nascosta fa più male di una sconfitta accettata.
Questo dovremmo capire noi che siamo un po’ tutti papà di Giovanna: dovremmo capire che i nostri figli sono più forti di quanto noi immaginiamo.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Striscioni anti-Napoli tifoso risarcito dall’Inter

Posté par atempodiblog le 6 août 2008

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L’Inter è stata condannata a pagare 1.500 euro a un tifoso del Napoli come risarcimento del «danno esistenziale» subito per gli striscioni esposti a San Siro contro i napoletani durante il match del 6 ottobre dello scorso anno. Lo ha stabilito una sentenza del giudice di pace della prima sezione di Napoli, Antonio Marzano. Il tifoso azzurro – G.D.B., difeso dall’avvocato Raffaele Di Monda – si era rivolto al giudice raccontando di aver lasciato lo stadio di San Siro «indignato e profondamente colpito da striscioni denigratori, esposti nel secondo anello della curva nord, occupata dagli ultrà interisti, nei confronti dei napoletani». Sugli alcuni di questi striscioni, si legge nell’esposto presentato al giudice di pace, gli ultrà nerazzurri avevano tra l’altro scritto «Napoli fogna d’Italia», «Ciao colerosi», «Partenopei tubercolosi», «Infami». Senza dire poi dei numerosi e continui cori razzisti e offensivi urlati all’indirizzo dei napoletani. Il giudice di pace, ha commentato l’avvocato Di Monda, ha riconosciuto nella fattispecie un «danno esistenziale», condannando quindi la società nerazzurra per «responsabilità oggettiva». L’azione legale è stata vinta in primo grado nonostante l’opposizione degli avvocati dell’Inter, i quali ne chiedevano la cancellazione per incompetenza territoriale.

Fonte: Il Mattino

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Spagna campione d’Europa

Posté par atempodiblog le 30 juin 2008

Torres piega la Germania  
Tratto da:
La Gazzetta dello Sport

A Vienna, la nazionale allenata da Aragones conquista il secondo Europeo della sua storia battendo 1-0 i tedeschi in finale. Decide un guizzo dell’attaccante del Liverpool al 33′ del primo tempo. Le furie rosse chiudono il torneo senza sconfitte e fanno festa dopo 44 anni

Spagna campione d'Europa dans Articoli di Giornali e News torresmn8
Fernando Torres esulta: è suo il gol che ha risolto la partita. Ansa

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Italia, che peccato!

Posté par atempodiblog le 23 juin 2008

Fuori ai rigori con la Spagna

Europeo: azzurri battuti 4-2 (0-0 al 120′). Dal dischetto errori di De Rossi e Di Natale

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La festa dei tifosi spagnoli. Reuters

VIENNA (Austria), 22 giugno 2008 – L’avventura è finita. La Spagna ci batte 4-2 ai rigori e ci caccia dagli Europei. La magia di Berlino svanisce in una notte torrida viennese. Dopo 120′ senza gol, sbagliano dal dischetto De Rossi e Di Natale, mentre Buffon illude parando il tiro di Guiza. La Nazionale volta pagina; i campioni del mondo escono di scena.

CONFERME – Donadoni schiera il modulo di Zurigo contro la Francia. Ma nel 4-3-1-2 le varianti sono a centrocampo, dove la Nazionale paga l’assenza di Pirlo e Gattuso. Il c.t. corregge con Aquilani dal primo minuto: il romanista a destra, De Rossi al centro e Ambrosini a sinistra. Poi dà ancora fiducia a Perrotta, trequartista alle spalle di Toni e Cassano. Conferma tutto anche Aragones: 4-4-2, con il solito centrocampo a quattro con Iniesta a destra e Senna appena dietro la linea.

SPAGNA LANCIATA – Gli azzurri partono alti e accennano al pressing che la Spagna limita subito. A ritmo lento, gli iberici ruminano gioco orizzontalmente, ma danno un’impronta più evidente alla partita. Al 9′ Silva si accentra e libera un sinistro deviato e poi bloccato da Buffon. Nulla di trascendentale, ma prova evidente che è la Spagna a tenere in mano le redini del gioco. Dell’Italia il più ispirato appare Cassano. Il blucerchiato nel breve non ha rivali, ma ha poco appoggio, finendo vittima del raddoppio.

SOFFRIAMO - Al 18′ si vede Torres; imbeccato da Iniesta penetra in area dalla sinistra, ma alza la mira. Sono segnali a cui l’Italia dovrebbe dare peso. Su quel corridoio gli spagnoli godono di libertà: Aquilani è troppo leggero e sente il peso della responsabilità. Al 19′ ecco l’Italia. Il cross di Ambrosini dalla sinistra viene girato debolmente di testa da Perrotta; nessun problema per Casillas. Al 23′ è ancora Ambrosini a spingere sull’acceleratore, ma sbaglia a scodellare subito per Toni, evidentemente attardato. Al gol si avvicina però la Spagna. Con Villa al 25′: punizione tesa in mezzo a una selva di gambe, parata a terra da Buffon.

CASSANO CI PROVA – L’Italia sembra uscire dalla gabbia, ma manca l’uomo d’ordine e Perrotta fatica nel suo compito. Va meglio la Spagna che con Silva al 32′ impegna ancora Buffon. Ma la cosa bella la fa Cassano al 36′ su tocco di Ambrosini; il cross del barese per Toni è perfetto, ma il bomber non salta: occasione gettata al vento. La replica fa paura: al 38′ Silva dal limite sfiora il palo alla destra di Buffon. La Spagna gioca meglio. Fatichiamo a centrocampo, dove De Rossi e Ambrosini sono costretti a lavorare per tre, limitando così le sortite sulle fasce di Zambrotta e Grosso.

MAGO CHIELLINI – Silva mette subito la firma all’inizio della ripresa, ma Chiellini gli dice di no con una chiusura da marpione. Il ragazzo della Juve fa gli straordinari e deve alzare la voce perché non filtriamo. Al 10′ Torres gabba Panucci e mette dentro: ci pensa ancora Chiellini a metterci una pezza. Sembriamo vicini alla capitolazione. Al 13′ Camoranesi entra per Perrotta. Ne avevamo bisogno come il pane, ed è proprio lui al 16′ a far gridare al gol, evitato da uno strepitoso Casillas con il piede sinistro. La Spagna, con Fabregas e Cazorla (fuori Xavi e Iniesta) fa più possesso palla, ma ci siamo anche noi.

PIU’ SQUADRA – Camoranesi ha dato ordine ed equilibrio. Al 29′ Di Natale rileva Cassano, ma la Spagna torna a comandare. Al 35′ Buffon respinge con una violenta punizione di Senna. Al 36′ è invece il palo a salvarci, perché a Buffon sfugge la palla sul nuovo bolide del brasiliano. Noi ci proviamo ancora con Toni, ma a Luca mancano centimetri. E al 38′ l’impeto dell’inguardabile bomber toglie a Grosso la palla-gol per eccellenza sul cross di Di Natale. Esce Torres ed entra Guiza e gli ultimi minuti sono di furore. Ed è Zambrotta a salvare la patria al 93′ anticipando Villa.

BRIVIDI - Supplementari ed è subito thrilling, perché al 3′ Villa conclude a lato d’un soffio. Ma al 5′ per due volte ci avviciniamo al gol: prima Marchena anticipa Toni, poi Di Natale sfiora di testa. E ci mangiamo le mani, perché a conti fatti le occasioni più nitide sono le nostre. Lunghe e disfatte, le squadre si affidano a istinto e passione. Ma tocca anche a Del Piero, dentro per Aquilani al 108′. Loro ci provano di più; Buffon salva su Villa: soffriamo troppo e al 120′ Cazorla sciupa a lato il diagonale che consegna la sfida ai rigori. E questa volta la Spagna non fallisce.

di Gaetano de Stefano – gazzetta.it

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Trionfo della Roma

Posté par atempodiblog le 25 mai 2008

Coppa Italia, trionfo della Roma
La Sensi: Noi Campioni d’Italia

Inter battuta 2-1 in finale all’Olimpico: i giallorossi si aggiudicano per la nona volta il trofeo. Decidono Mexes e Perrotta, gol nerazzurro di Pelè. L’ad: «Come uno scudetto». Totti alza la Coppa con la maglia speciale col numero 9: «Vittoria bellissima». Spalletti: «Dedicata al presidente e ai tifosi».

di Pasquale Salvione - Corriere dello Sport

Trionfo della Roma dans Articoli di Giornali e News romacampionejm2

ROMA, 24 maggio – La Coppa Italia l’ha alzata al cielo Francesco Totti davanti al presidente della Repubblica Napolitano. Una maglia bianca addosso con dietro il numero 9 grande (tante le volte che l’ha vinta la squadra giallorossa) e la data di oggi, 24 maggio 2008. Una maglia che indossavano anche tutti i suoi compagni per festeggiare in un Olimpico in delirio. La Roma ha avuto ragione dell’Inter prendendosi la rivincita sei giorni dopo aver dovuto arrendersi nella corsa scudetto. Un successo che Rosella Sensi, alla fine della partita paragona al tricolore e dedica a una persona speciale: «Questa coppa è per il presidente Franco Sensi, è meritata quanto lo scudetto. Una grande vittoria strameritata come tante altre che non sono arrivate. I campioni d’Italia siamo noi».

DECISIVI MEXES E PERROTTA – A decidere l’ennesima puntata della sfida infinita fra le due squadre sono stati Mexes (stupenda girata di destro ) e Perrotta (tocco facile dopo un bel triangolo con Vucinic), al termine di un match aperto, pieno di emozioni e in dubbio fino all’ultimo. Soprattutto perché l’Inter, che aveva subito il tremendo uno-due a cavallo fra primo e secondo tempo, ha reagito bene e, grazie alle mosse di Mancini, ha trovato in Pelè (entrato al posto di Stankovic) un trascinatore (e non solo per il gol). I nerazzurri, dopo aver accorciato le distanze, hanno sfiorato anche il clamoroso pareggio, con uno stupendo colpo di testa di Burdisso che ha centrato in pieno il palo. Ma il forcing nerazzurro non ha portato altri frutti: è finita con la Roma a festeggiare in campo. Mentre Totti e De Rossi alzavano la Coppa sotto la Curva Sud, Vucinic correva per il campo con l’automobilina del soccorso medico. E’ la serata della rivincita giallorossa.

LA GIOIA DI TOTTI - «Quest’anno abbiamo trovato una squadra un pò più forte di noi, un poco…». Francesco Totti rende omaggio all’Inter vincitrice del campionato ed insieme promette rivincite durante la festa. «Vincere la coppa in casa dà una grande soddisfazione – ha aggiunto Totti ai microfoni Rai – il nostro pubblico se lo merita. Cosa significa? La continuità della nostra competitività».

LA DEDICA DI SPALLETTI - Felice per la vittoria ovviamente anche Luciano Spalletti: «Per noi è una grande soddisfazione - ha detto ai microfoni di Roma Channel - Questa coppa la dedichiamo a Franco Sensi e a tutti i tifosi. I campioni d’Italia? Sono quelli dell’Inter, noi siamo secondi ma non perdenti, lo dicono i numeri di vittorie fatte in tutto il campionato».

LA FELICITA’ DEI PROTAGONISTI - «Ci siamo tolti una grande soddisfazione», dicono sorridendo a fine partita i match winner Philippe Mexes e Simone Perrotta. «Ho fatto il primo gol del campionato e l’ultimo della stagione – dice il difensore francese – Daremo ancora di più il prossimo anno, vogliamo vincere altri trofei». La curva sud canta ‘I campioni d’Italia siamo noi’, Perrotta è d’accordo in parte: «Virtualmente forse lo siamo, ma non sulla carta. Stasera però ci siamo tolti una bella soddisfazione. Abbiamo fatto una stagione strepitosa, meritavamo questa coppa. Questa è stata una stagione che ricorderemo per molto tempo. A momenti lo sbaglio quel gol… sono stato fortunato». Felicità anche nelle parole di Cassetti: «Abbiamo vinto contro i campioni d’Italia vuol dire che ce la possiamo giocare alla pari». Lo segue Aquilani: «Vincere questa Coppa dà una doppia soddisfazione perchè abbiamo battuto i campioni d’Italia». Chiude Vucinic: «È fantastico vincere qui speriamo di continuare a farlo».

ROMA-INTER 2-1
ROMA (4-2-3-1): Doni; Cassetti, Juan, Mexes, Tonetto; De Rossi, Pizarro; Giuly (21′ st Cicinho), Aquilani (46′ st Panucci), Perrotta (28′ st Brighi); Vucinic. A disp. Curci, Antunes, Mancini, Esposito. All. Spalletti
INTER (4-1-4-1): Toldo; Maicon, Burdisso, Chivu, Maxwell; J. Zanetti (45′ st Crespo); Balotelli, Vieira, Stankovic (1′ st Pelè), Cesar (17′ st Jimenez); Suazo. A disp. Julio Cesar, Fatic, Maniche, Solari. All. Mancini
Arbitro: Morganti di Ascoli Piceno
Marcatori: 36′ pt Mexes (R), 9′ st Perrotta (R), 15′ st Pelè (I)
Note: ammoniti Perrotta, Vieira, Vucinic, Burdisso, Pelè. Recupero 1′ pt, 6′ st. Spettatori 45 mila circa.

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Inter campione d’Italia e gli altri verdetti

Posté par atempodiblog le 19 mai 2008

Torna Ibrahimovic e l’Inter è campione d’Italia. Fiorentina in Champions
di Lara Vecchio – Il Sole 24 ORE

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Il terzo per gli almanacchi. Il secondo per i protagonisti. Il primo, vero, questo sì, per i tifosi che non si sono mai davvero accontentati né del frutto del peccato altrui, né dell’impresa monca della scorsa stagione sulla quale pesava la falsa partenza o addirittura la latitanza delle contendenti storiche. Del trionfo di ieri si è detto tutto, troppo, e a tratti, giocando d’anticipo, a sproposito; oggi è il giorno di rendere onore ai campioni d’Italia, perché i detrattori, o i « gufi » (come li hanno definiti i neo scudettati) non hanno più nulla a cui aggrapparsi. E col senno di poi, aver rischiato di perderlo rocambolescamente non è una colpa, ma solo l’ingrediente segreto per rendere più gustoso il boccone. Il 16° scudetto dell’Inter è quello che straccia via, una volta per tutte, senza se e senza ma, l’etichetta dell’eterna incompiuta. È quello catartico che scrolla di dosso la frustrazione. È quello che i protagonisti si godranno solo dopo aver realizzato appieno. Ieri sera, paradossalmente, sono mancati i tempi tecnici. Come se non bastasse giocarsi tutto all’ultima giornata, a fine primo tempo il tricolore stava chiuso nella cassaforte del Massimino, a Catania, mentre Mancini e compagnia, al Tardini di Parma, rientravano in campo per la ripresa ostentando sicurezza, ma traditi dallo sguardo smarrito dell’ animale braccato. Certo, dopo aver respirato l’odore pungente della paura, quello della festa è così inebriante che arriva al cervello, ti toglie il respiro, annebbia immagini, riflessioni e pensieri. Per recuperare la visione d’insieme c’è tempo. Per ora bastano i flash. Il primo abbaglia e stordisce: arriva da Catania e, come nei film, in un istante, ti passa davanti una vita. Perché per la prima in volta in stagione, dopo 8′ dell’ultimo atto, l’Inter si trova a rincorrere senza averne attitudine e abitudine. Il gol di Vucinic, che illumina la faccia giallorossa della luna e prende a picconate il fortino della scaramanzia costruito ad hoc dal popolo romanista e dagli uomini di Spalletti, disegna rughe profonde sui volti nerazzurri e annichilisce i tifosi interisti infiltrati al Tardini, quelli che attendono fuori, quelli radunati sotto
la Madonnina. Il secondo, nell’intervallo, è un segreto che per sempre sarà custodito dai muri del Tardini. Le parole di Mancini, quelle di Moratti , o solo uno sguardo, chissà. Fatto sta che nel diluvio di Parma, i flash successivi sciolgono il ghiaccio e scaldano il cuore. È il 6′ della ripresa e, quando Ibrahimovic si alza dalla panchina, la Roma è campione d’Italia. Lo svedese, in undici minuti, spinge l’altalena dell’Inter così forte da rispedirla in paradiso. E rotto il digiuno con uno splendido gol (controllo, dribblig e gran destro), si assicura i titoli a nove colonne marchiando a fuoco lo scudetto con un sinistro al volo. Gli ultimi, sono quelli dei fotografi, che immortalano l’urlo liberatorio di Roberto Mancini fradicio come un pulcino, il mucchio nerazzurro in mezzo al campo e le lacrime gialloblù di un Parma che lascia la serie A dopo 18 anni. Speculari le immagini che giungono dalla Sicilia, dove si spengono i sorrisi di una Roma tenace e straordinaria, vinta dalla spossatezza di un’estenuante rincorsa, raggiunta dal gol salvezza del Catania che, a catena, condanna alla serie B l’Empoli, pur vittorioso sul già retrocesso Livorno. Mai, negli ultimi anni, un’ultima giornata era stata così decisiva e così gravida di verdetti:in testa, in coda, in mezzo. Milan e Fiorentina non sono state da meno. Nella lotta per la Champions League è successa un po’ la stessa cosa. Fiorentina avanti per tutto il campionato, raggiunta e superata da uno sprint milanista a un passo dal traguardo, aggredita al primo cedimento mentre tentava invano di smaltire la delusione dell’eliminazione in Coppa Uefa, capace però di piazzare la zampata finale per riprendersi meritatamente un posto tenuto in caldo per quasi tutta la stagione. La splendida rovesciata di Osvaldo, che vale la vittoria sul Toro, vanifica il 4-1 del Milan sull’Udinese. Giornata nera per il Milan e i suoi tifosi, costretti a beccare le briciole tenendo stretta la qualificazione in Coppa Uefa, ma soprattutto a sfollare alla svelta San Siro per cedere il palcoscenico alla festa dei cugini. Davvero pochi, ieri, i campi neutrali. Una scampagnata tra Cagliari e Reggina, già in vacanza: finisce 2-2, come Siena-Palermo, altra sfilata di fine stagione.
La Lazio all’Olimpico vince sul Napoli ma i risultati più interessanti sono, per ovvie ragioni, quelli che appaiono sul tabellone. Riflettori puntati invece su Atalanta-Genoa, con uno spettatore più interessato di altri: Alessandro Del Piero. In vetta alla classifica cannonieri con 21 gol, dopo la doppietta nella gara di sabato con la Sampdoria, Pinturicchio attendeva la consacrazione via telecomando. Il digiuno di Marco Borriello, che si ferma a quota 19, toglie l’ultimo alibi a Donadoni che, di fronte al capocannoniere del campionato, si trova con le spalle al muro.

Tutti i verdetti:
85 Inter, campione d’Italia con accesso diretto in Champions League
82 Roma, in Champions League accesso diretto 72 Juventus, 66 Fiorentina, in Champions League (preliminari);
64 Milan, 60 Sampdoria, 57 Udinese, in Coppa Uefa;
50 Napoli; 48 Genoa, Atalanta; 47 Palermo; 46 Lazio; 44 Siena; 42 Cagliari; 40 Torino Reggina; 37 Catania
36 Empoli, 34 Parma, 30 Livorno (serie B)

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4 maggio 1949: cade il Grande Torino

Posté par atempodiblog le 2 mai 2008

Storie dalla storia / 4 maggio 1949: cade il Grande Torino

di Marco Innocenti – Il sole 24 ore

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Dominò per cinque anni il campionato italiano: un monologo per il Torino, una teoria di scudetti color granata, con Juventus e Inter a fare da primi avversari. Dal 17 gennaio 1943 al 30 aprile 1949 il Filadelfia rimase imbattuto: 93 partite con 83 vittorie e dieci pareggi. Erano i campioni più amati dall’Italia sportiva. Poi, improvviso, il tiro crudele del destino: scompare un gruppo di ragazzi che è vissuto insieme per un tempo troppo breve.

Lo schianto

Pomeriggio del 4 maggio 1949. La primavera tarda al Nord e nebbie basse sporcano ancora i tramonti. Il cielo è cupo, fa freddo. Le nubi incombono basse e cupe, color inchiostro; la pioggia cade a ondate, sferzata dal vento. La sera ruba spazio al pomeriggio, la visibilità è di trenta metri, Torino sembra avvolta da un’ombra di malinconia, quasi un presagio. L’aereo del Torino, un trimotore Fiat proveniente da Lisbona, sta atterrando. Alle 17,07 , improvvisi, un boato e uno scoppio, come una folgore. L’apparecchio si schianta contro il colle della Basilica di Superga e si incendia. Non ci sono superstiti. «Che le nubi e i venti ci siano propizi e non ci facciano troppo ballare», così chiudeva il servizio del giornalista Luigi Cavallero, una delle 31 vittime, trasmesso dall’aeroporto di Lisbona a un quotidiano della sera.

L’Italia in lutto

Il Paese è stordito. L’emozione è immensa, e poi confusione, lacrime, cordoglio, disperazione. Dolore e amore sono complementari e nessun lutto è nazionale come la scomparsa del Grande Torino. Tutta la pietà d’Italia si stringe attorno ai caduti, alle loro mogli e ai loro bambini. I tifosi si trovano affratellati nel dolore. Il Torino è la più forte squadra d’Europa, la bandiera del calcio italiano, una gloria nazionale in un Paese che non ha glorie. Ha vinto quattro campionati consecutivi, stava per vincerne il quinto. I ragazzi recitano la formazione a memoria: Bagicalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Erano giovani, sani, amici fra loro, leali, bravi ragazzi e il destino li ha portati via in un colpo. «Sono caduti come soldati – scrive « La Stampa » – spensierati, semplici, colti a tradimento sulla soglia dell’accampamento. E ci sorgono spontanee nella memoria le parole con cui i soldati ricordano i loro caduti: erano giovani, la loro vita non ritorna più».

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La lapide di Superga

Nei poveri brandelli di carne il vecchio Vittorio Pozzo, chino sotto il peso del dolore, cerca a uno a uno i visi dei suoi ragazzi chiamandoli sommessamente come per l’appello di un’ultima partita. Tocca a lui, l’ex commissario della nazionale, riconoscere i cadaveri. Maroso lo individua dalla cravatta, l’unica cosa che di lui sia rimasta. Indro Montanelli, sul « Corriere della Sera », li saluta con un articolo intitolato: « Nel grande stadio dell’aldilà Mazzola passa a Gabetto ». Ai funerali seguiranno le bare in trecentomila. Con loro, idealmente, ci sono gli occhi rossi dei ragazzi d’Italia. Sul colle di Superga viene murata una lapide che li ricorda e tramanda la leggenda della squadra che non perdeva mai. Per molti anni sarà mèta di pellegrinaggi. Ma il tempo passa, i ricordi sbiadiscono e le visite si fanno sempre più rare. Forse perché il 1949 è lontano o forse perché il calcio, oggi, è un’altra cosa.

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Il calcio degli OGM

Posté par atempodiblog le 1 octobre 2007

Il goal della Juventus è irregolare ma diventa valido perché questa è l’interpretazione odierna della norma.
Il guardalinee, quando un giocatore è in evidente fuorigioco come Trezeguet, è tenuto a sbandierare perché è una situazione irregolare; a quel punto, nel calcio geneticamente modificato anche nello spirito con cui viene arbitrato, se Dellafiore passa volontariamente la palla all’indietro riqualifica il bomber francese ma se il difensore granata tocca involontariamente il pallone all’indietro non si è più in presenza di una riqualificazione della posizione del calciatore precedentemente in fuorigioco. A volte ci vorrebbe un po’ di buon senso.

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Come Kakà

Posté par atempodiblog le 8 septembre 2007

Bisogna vivere nella fede e nella grazia di Dio, come ci insegna Kakà (ed è tutto dire) che dopo aver vinto la Champions’ League ha alzato al Cielo una preghiera a Dio e una maglietta con la scritta:I belong to Jesus” (Io appartengo a Gesù). Sui laccetti delle scarpe si era fatto scrivere “cosa farebbe Gesù in questo momento?”. Kakà è nel mondo ma si preserva dal male. Dovremmo domandarci con Kakà: se morissi in questo momento sarei in grazia di Dio oppure no? Bisogna fare la ‘fatica’ del cuore di rinunciare al male (anche se dovesse occerrervi tanto tempo). Il calciatore brasiliano con quel gesto ci ha invitato ad alzare gli occhi al Cielo: raggiungere Dio è il fine della nostra vita, quindi Dio deve essere al primo posto. Bisona guardare all’eternità: una persona può vivere anche 120 anni ma preferirebbe essere felice nel tempo o nell’eternità che quando saranno passati miliardi e miliardi e miliardi e miliardi e miliardi di anni sarà solo l’inizio?

Come Kakà dans Riflessioni Kak

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