Il Torino della memoria

Posté par atempodiblog le 4 mai 2009

Superga, 4 maggio 1949. L’inspiegabile sopravvivenza di una squadra morta troppe volte per morire davvero

 

Ross come ’l sangh/ fòrt come ’l Barbera/ veuj ricordete adess, me grand Turin. […] T’has vinciù ’l mond/ a vint ani ’t ses mòrt./ Me Turin grand/ me Turin fòrt. (Rosso come il sangue, forte come il Barbera, voglio ricordarti adesso, mio grande Torino. Hai vinto il mondo, a vent’anni sei morto. Mio Torino grande, mio Torino forte). Giovanni Arpino, “Me grand Turin”.
Il Torino della memoria dans Articoli di Giornali e News grandetorino
Sessant’anni sono troppi
per permettersi il lusso della nostalgia. Sessant’anni sono troppo pochi perché la storia possa relegarli a qualche pagina iniziale dei manuali del calcio o a un riquadro con la dicitura “accadde oggi”. Sessant’anni sono tutto, per il paese che li amava, per la città che non li ha dimenticati. Eppure sessant’anni sono niente per chi non li ha mai visti vivi.

 

Sotto la pioggia di un pomeriggio del 1949 la squadra più forte del mondo abbandonò la scena della sua storia ed entrò di schianto nella sua eternità. Erano le 17.03 del 4 maggio, quando la torre di controllo dell’aeroporto di Torino cominciò a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava: il pilota dell’aereo che riportava a casa i giocatori del Torino non rispondeva più alla radio. Le nubi basse, inconsuete per la stagione, addormentavano la città da qualche ora, quando si udì l’esplosione. L’impatto avvenne alla base del muro posteriore della basilica di Superga, sulla collina da cui la Madonna guarda i torinesi. Il boato fu tremendo, le fiamme immediate. In un istante impercettibile ed eterno, il destino si portò via tutti i giocatori del Grande Torino. Loro, che non avrebbero dovuto andarsene via mai. Loro, che forse se ne andarono al momento giusto, giovani come gli eroi cari agli dei. Avevano appena messo al sicuro il loro quinto scudetto consecutivo, pareggiando 0-0 a Milano contro l’Inter, e il presidente Ferruccio Novo aveva permesso loro di andare a giocare una partita di beneficenza in Portogallo, per festeggiare l’addio al calcio di Ferreira, capitano del Benfica. Per un’ironia della sorte tutta granata, il Torino aveva perso 3-2 quell’ultima, insignificante partita. Dopo aver vinto tutto. “Arriviamo” avevano detto per telefono a mogli e fidanzate prima di partire. “Addio”, avrebbero risposto in lacrime loro il giorno dopo. La moglie di Gabetto, l’attaccante famoso per le sue rovesciate e la brillantina in testa, era stata la prima a saperlo. Dopo il botto a Superga aveva telefonato all’aeroporto. “Dove sono?”, aveva sussurrato all’apparecchio. “Sono morti tutti”, aveva risposto un filo di voce dall’altra parte. Con loro tutto l’equipaggio, alcuni dirigenti e tre giornalisti, Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, e Luigi Cavallero.

L’abbraccio, commosso e piemontese nei modi, glielo diedero in seicentomila pochi giorni dopo, ai funerali di stato. A riconoscere i corpi, carbonizzati e sfigurati, era stato Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale italiana, ma eminenza grigia del presidente Novo nella costruzione di quella squadra che, insieme con Coppi e Bartali nel ciclismo, aveva ridato speranza a un paese intero dopo la devastazione della guerra, mondiale e civile. Perché così come le due ruote, il pallone giocato dalle maglie granata del Grande Torino, faceva sognare gli italiani. Tutti tifavano quei colori, comunque simpatizzavano per essi, tutti sapevano a memoria la filastrocca, Bacigalupo – Ballarin – Maroso – Grezar – Rigamonti – Castigliano – Menti – Loik – Gabetto – Mazzola – Ossola. Anche chi il calcio mai lo aveva seguito. Chi li ha visti dal vivo e oggi lo racconta dice di una squadra senza individualità spaventose, senza fenomeni, ma che era un blocco unico, insormontabile. Capace di non perdere una partita in casa per quattro anni di fila, capace di vincere uno scudetto con sedici punti di vantaggio sulla seconda segnando 125 gol, capace di vincere partite anche 10-0 (ad Alessandria, quando il granata Grezar segnò un gol stoppando di petto un rinvio del portiere avversario, Diamante, e ricalciando in porta al volo, da centrocampo), capace di essere “l’evento” da andare a vedere, l’esempio da imitare.

Chi muore giovane in modo tragico diventa Grande per forza, eppure loro erano Grandi già in vita, come se un Omero moderno ne avesse già tracciato il destino, drammatico e poetico insieme, prima che lo facessero le nubi basse su Torino quel 4 maggio del 1949. “Era un calcio diverso – racconta Franco Ossola – figlio dell’ala destra di quel Torino, nato pochi mesi dopo lo schianto, una vita passata a cercare e raccontare le gesta del padre mai incontrato e dei suoi compagni – ma ciò che faceva grandi quegli uomini era, oltre allo strapotere tecnico e fisico, la loro forza morale: in un momento di crisi di identità come quello del Dopoguerra fu un coagulo importantissimo per gli italiani. Rappresentavano una serie di valori che il popolo aveva come dimenticato, perso per strada: la dignità, l’onore, la fierezza. La gente si riconosceva nei suoi campioni, che erano persone normali: li incontravi per strada, al bar, alcuni di loro avevano dei negozi in centro dove lavoravano”.

Il racconto del Grande Torino non è però il rimpianto per un mondo che non c’è più, o il pugno chiuso contro il cielo plumbeo che ha portato via gli eroi, neppure una nostalgia pelosa per un passato che non può tornare. Non può essere così perché quel passato non se n’è mai andato. “Quando chiedo a chiunque che cosa facesse quel pomeriggio del 4 maggio – continua Ossola – non ce n’è uno che non lo ricordi nitidamente”. Oggi però, forse, una tragedia del genere non sarebbe sentita in quel modo, non ne nascerebbe una leggenda come per quella squadra. “Di sicuro no – dice Giampaolo Ormezzano, storico giornalista sportivo e tifoso del Torino – ci sarebbe subito qualcuno pronto a tirare fuori qualche gossip, qualche porcata fatta da questo o quel calciatore”. Forse è questo che dà “fastidio” del Grande Torino, continua: “Erano troppo puri – sorride – Tutto ciò che non c’era di ‘giusto’ è stato cancellato da quella morte epica, quasi omerica. Quella squadra è diventata un simbolo di perfezione. Invece erano persone come tutti, un undici che magari oggi non vincerebbe nemmeno lo scudetto”. Ma allora li vinceva. “Era una forza terrena, operaia, molto piemontese – prosegue Ormezzano – messi insieme in modo geniale dal presidente Ferruccio Novo”.

Nessuno come il Grande Torino, però, aveva il senso costante dell’utilità, il senso della squadra; e della rappresentanza: Coppi e Bartali erano l’Italia che vinceva il Tour, loro erano l’Italia. Anche nel vero senso della parola: arrivarono a indossare la maglia azzurra dieci giocatori su undici, una volta. Era contro l’Ungheria. Vittoria per 3-2. L’unico intruso, il portiere: Sentimenti IV, estremo difensore della Juventus. Bacigalupo, il portiere granata, era ancora troppo giovane ma, come si dice oggi, “già nel giro”. Cercando tra i resti dell’aereo, in mezzo alle lamiere fuse e alle scarpe sparse sulla collina, trovarono il portafogli di “Baciga”. Dentro, ben custodita, una foto col “nemico” bianconero. Non è un caso che l’unica maglia di club presente al museo del calcio di Coverciano, tra le decine di casacche azzurre, è quella granata con il 10 di Valentino Mazzola, il capitano. Lui, poi, era un discorso a parte. Quando decideva che non ce n’era più per nessuno, non ce n’era più per nessuno. Se il Toro era sotto, anche di due o tre gol, a un certo punto si tirava su le maniche. Dagli spalti, in mezzo alla folla, Bolmida suonava la carica con la sua tromba. In un quarto d’ora il risultato era ribaltato. Il 30 maggio del 1948, per esempio, la Lazio conduceva per 3-0. In pochi minuti fu 4-3. Il famoso quarto d’ora granata.

Il loro stadio, poi. Al Filadelfia, così si chiamava, la recinzione era a un metro dal terreno di gioco, e quel grido “Toro! Toro!” risuonava nelle orecchie per novanta minuti. La fossa dei leoni, la chiamavano. In quel campo, quando poi negli anni ci si spostò a giocare al Comunale, il Torino ha cresciuto generazioni di ragazzi, uomini e calciatori. Facendo loro respirare quell’aria, facendo toccare quegli spogliatoi. “Al Filadelfia c’erano muri che sembravano persone, e persone che erano come muri”, dirà anni dopo Walter Novellino, cresciuto nel vivaio e andato a far fortuna altrove. Alberto Manassero, che di Torino scrive su Tuttosport da dieci anni, conosce tanti giocatori passati dal “Fila”, e dice che “per molti di loro è bastato crescere lì per innamorarsi di quella maglia”. Magari non hanno mai giocato in prima squadra, come Giancarlo Camolese, l’attuale allenatore del Torino che ha giocato solo in Coppa Italia, o sono andati a vincere tutto con altri colori (è il caso, tra i tanti, di Diego Fuser), ma il granata ce l’hanno dentro, addosso. Poi, da un giorno all’altro, il Filadelfia non c’è stato più. In una città dove le Belle arti non fanno toccare nemmeno i marciapiedi, si è misteriosamente trovato il permesso per abbattere quel testimone imponente e silenzioso della gloria del Grande Torino. “Per ricostruirlo subito”, promisero allora politici e dirigenti. Son passati dodici anni, e se non fosse per l’amore dei tifosi, anche le poche pietre rimaste in piedi sarebbero soffocate dalle erbacce. E mentre in pochi giorni si trovano i soldi per rifare lo stadio alla Juventus, l’amministrazione (del tifoso Sergio Chiamparino) continua a trovare ostacoli burocratici per impedire che si ricostruisca almeno un campo d’allenamento. Ci sono luoghi, nella storia delle persone, senza i quali uno non è più lo stesso. Se distruggi la memoria di un uomo, hai distrutto l’uomo. Per il Torino il Filadelfia è la stessa cosa. In troppi hanno capito che su quel tasto ci si fa pubblicità gratis e si vincono elezioni. Come un mantra, ciclicamente esce fuori qualcuno con un progetto pronto, una cordata già all’opera, un sogno da realizzare. Sistematicamente non succede nulla.

Ma il tifoso del Toro è morto troppe volte per morire davvero, è diventato troppo cinico per esserlo sul serio. Ha imparato che il calcio è una cosa seria, perché c’entra con la vita, dato che c’entra con la morte; e come ogni 4 maggio, anche quest’anno un popolo intero sarà lì, su quel campo, e a Superga, a ricordare perché quando si parla della prima squadra di Torino non si parla solo di calcio. C’è una storia, un’appartenenza strana dietro, inspiegabile a chi non si inerpica su per la collina del disastro e non va a visitare quella lapide, i nomi incisi sopra che nessun brutto tempo cancellerà. Quei nomi sono incisi sulle ossa di ogni torinista, e di ogni torinese che quel pomeriggio di sessant’anni fa c’era. Quando si parla del Grande Torino non c’è sfottò che tenga. E’ poesia, quella, epica, trionfo e tragedia. Mica solo calcio. Ogni tifoso del Torino ha visto giocare il Grande Torino. Anche se non era ancora nato. Sembra insensato, ma è così. Non è un rimpianto, il commemorare gli eroi di Superga, perché non puoi rimpiangere ciò che non hai visto. E’ l’orgogliosa coscienza di appartenere a una storia che nessuna Champions League potrà eguagliare, mai. Sessant’anni sono troppi per vivere solo di un’idea.

Sessant’anni sono troppo pochi perché tutti i disastri (societari e non) che da quel 4 maggio hanno attraversato la storia del Torino potessero uccidere quel popolo. Forse il Toro non c’è più. Forse il fallimento di tre ani fa e quello che ne è venuto dopo hanno come narcotizzato una storia unica nel mondo (nessuna squadra di calcio ha così tanti libri, film e documentari dedicati), certo il “calcio moderno”, in cui il tifoso granata si trova a proprio agio come un pallone sgonfio in cima a un albero, vorrebbe normalizzare la leggenda. Eppure ogni 4 maggio sono migliaia le persone che salgono su alla basilica, che prendono messa insieme ai giocatori e ai vecchi campioni, che portano un fiore o una preghiera agli Invincibili. Arrivati sul piazzale di Superga, quello che guarda Torino, è normale fare il giro, andare a vedere dove tutto è incominciato. Se uno chiude gli occhi, sente l’acqua sui vestiti, la nebbia nei polmoni; poi, alle spalle, il rombo imponente e fatale. Di colpo è schianto, crollo, fuoco, motori. Poi silenzio. Solo pioggia a rimbalzare sul metallo piegato. La domenica successiva, in campo scesero i ragazzi delle giovanili, i volti rigati di lacrime. Dagli spalti, la tromba di Bolmida e quel coro: “Toro! Toro!”, che continua ancora oggi. Non sono scomparsi, i Campioni. Sono andati a vincere tutto da un’altra parte. Per sempre.

di Piero Vietti – IL FOGLIO.it

Publié dans Articoli di Giornali e News, Piero Vietti, Sport | Pas de Commentaire »

Lo stadio? Se lo conosci, lo eviti.

Posté par atempodiblog le 20 avril 2009

Lo stadio? Se lo conosci, lo eviti.
di Gigi Garanzini

Da anni non metto piede in uno stadio. Da una serata a San Siro in cui l’accoglienza della curva interista alla coppia Totti-Cassano fu tale che ad un certo punto semplicemente me ne andai. Sarei felice di sapere che qualcuno l’altra sera a Torino ha fatto altrettanto. Mica per altro: per rispetto di se stessi, per non dover condividere lo stesso spazio, lo stesso ambiente, lo stesso (presunto) spettacolo con gente ripugnante.
Quello che lo stadio Olimpico – a proposito – ha vomitato addosso a Balotelli va al di là di qualsiasi dialettica tifoidea. Che quello provoca, che gli schiaffi se li tira, che il ratto di Ibra, che lo scudetto di cartone, che ne abbiamo 29, che sapete solo rubare. Normale dialettica tifoidea, per l’appunto, non più becera di quella coltivata ormai in ogni angolo del paese. Ma è andata talmente al di là sabato sera, la curva juventina ( e non solo la curva), che a qualcuno è persino tornata in mente una regola, codificata dall’Uefa, che prevede in casi di particolare aberrazione la pura e semplice sospensione della partita.
La Juve si è scusata, per iscritto. Un bel passo avanti rispetto a un anno fa, quando scriveva in Fgci per denunciare una congiura arbitrale. Anche un bel gesto, si capisce, forse ancor più apprezzabile fosse arrivato a caldo, di getto: non quando si è cominciato a parlare di squalifica del campo.
Ma sono dettagli. Quello che conta è la prevenzione: E il mio slogan, dopo mezzo secolo di calcio gustato dal vivo, è diventato: se li conosci (gli stadi, e i loro frequentatori) li eviti.

Publié dans Riflessioni, Sport | Pas de Commentaire »

Mino Favini

Posté par atempodiblog le 16 avril 2009

Per molti calciatori è lui il vero “special one”. Quarant’anni passati a sfornare campioni che sono innanzitutto uomini. Vita e pensiero di un mister che i talenti non li scopre, li educa
di Enzo Manes – Tempi

Il responsabile delle giovanili dell’Atalanta che ha riempito l’Italia dei suoi allievi. Prandelli, Borgonovo e Zambrotta, per esempio

Mino Favini dans Sport favini

«Ho iniziato al settore giovanile del Como nel ’68. Proprio nell’anno che si voleva rovesciare il mondo, che si voleva buttare via l’autorità, i genitori, tutto. Invece io mi sono messo a tirare su ragazzi scommettendo sull’importanza dell’educazione nel calcio. Ma allora mica lo sapevo che ci avrei speso la vita in quel lavoro lì». Mino Favini, classe 1935, è uno “special one” che non viene da Setúbal. L’ha chiamato apposta così Cesare Prandelli, che ora fa il mister a Firenze ma si è forgiato sulla panchina delle giovanili bergamasche. Brianzolo di Meda, solido e vivo come il legno che viene piallato dalle sue parti per diventare mobile invidiato, Favini, dopo vent’anni trascorsi in riva al Lario, ne ha passati ormai altrettanti a seminare con la stessa soddisfazione all’Atalanta. Nella sua testa un chiodo fisso dove sta appeso un quadro che raffigura una grande passione legata alla disciplina sportiva: «La riuscita calcistica e della persona devono andare di pari passo. Bisogna tenerci ai ragazzi, preoccuparsi della loro maturazione in un rapporto serio e di fiducia. Perché si sa che non tutti ce la fanno a diventare calciatori professionisti, ma tutti devono farcela a diventare uomini. Se non succede così, per me è una sconfitta».
L’ufficio di Favini è nel cuore del Centro Bortolotti, quartier generale dell’Atalanta bergamasca calcio in quel di Verdellino, territorio tipico della Bassa orobica. Sulla scrivania l’immancabile quotidiano sportivo e fogli a go-go zeppi di geroglifici che solo lui riesce a interpretare. Alle spalle e sulle pareti tracce di memoria tra trofei e fotografie incorniciate come meritano. «Le coppe sono importanti, certo, però quando alzo gli occhi e vedo davanti a me le foto delle mie squadre, bè, è un piacere straordinario», dice a Tempi un signore che fa ancora i suoi bei chilometri («perché continuo a vivere nella mia Meda con mia moglie che ho conosciuto quando giocavo a Brescia. Sua sorella ha sposato Eugenio Bersellini, grande allenatore») e che lavora sette giorni su sette («il sabato e la domenica sempre, magari mi prendo una pausa solo il lunedì pomeriggio. Sa, qui ci sono tante cose da fare, tanti ragazzi da seguire con affetto»). Il settore giovanile dell’Atalanta viene innervato ogni anno di 2 milioni e 800 mila euro. Comprende undici squadre, dalla scuola calcio per i pulcini fino alla Primavera, cioè all’anticamera della squadra dei vari Doni, Cigarini, Ferreira Pinto e Floccari. In tutto fanno 230 ragazzi, un plotone di calciatori che desidera arrivare lontano, molto lontano. Tutti i santi giorni 12 pulmini della società vanno a prenderli e li riportano nei loro paesi. «Per quelli che vengono da altre regioni, ovvero una ventina di ragazzi, abbiamo creato “La casa del giovane”, quello che io chiamo un paese all’interno della città di Bergamo. In sintonia con le famiglie li seguiamo passo per passo e prima di tutto nel loro cammino scolastico. Di là ho le pagelle del primo quadrimestre insieme alle schede aggiornate con tutti i voti».
Non mancano gli 8 in campionato e i 4 in matematica, «ma ci sono pure medie eccellenti sia in campo e sia sui banchi», spiega il supermister. «Quelli che vanno male a scuola provano a dirci che “con lo studio ho chiuso”. Noi che non intendiamo lasciarli da soli di fronte alle prime difficoltà che incontrano li sosteniamo e spesso questa attenzione veramente personale li fa ricredere. Poi è chiaro che ci sono ragazzi che non riescono proprio nello studio. In quel caso, se sono giocatori interessanti, non è che li mandiamo via, però diciamo loro con chiarezza che il pezzo di carta è sempre il pezzo di carta».
Anche Mino Favini è stato un ragazzo, un piccolo calciatore che sarebbe diventato poi un professionista in serie B e anche per tre anni in A con i colori nerazzurri dell’Atalanta. Ed è stato uno studente che al quarto anno di ragioneria è uscito bocciato a giugno. «Sono andato dai miei genitori e ho spiegato loro che non volevo più andare a scuola ma trovarmi un lavoro e giocare a pallone. Al momento non mi hanno risposto. Il mattino successivo ho trovato davanti alle scale la borsa del calcio con mia mamma che mi diceva: “Oggi vengo anch’io per dire al tuo allenatore che smetti col calcio perché non vuoi più studiare”. Naturalmente ho continuato a giocare e l’anno successivo ho preso il diploma di ragioniere». I genitori sono un cruccio per Mino Favini. Perché vedono nei loro figli solo il Maradona della Val Brembana, lo Zidane della Val Seriana, il Kakà di Bergamo alta, tanto per dire l’assurdo. «Gli montano la testa a quei poveri figlioli. Poi è dura per noi ridare alle cose il loro giusto valore. Di tornare con i piedi per terra spesso i ragazzi non ne vogliono sapere. E così si comportano male, con i compagni, con l’allenatore, con i responsabili».

Il coraggio di Stefano
Mister Favini racconta di quella volta che non ha fatto andare un suo giocatore nella nazionale under 17. La madre, anziché sostenere la sua decisione, gli ha urlato a brutto muso che lui doveva occuparsi solo del calciatore e basta. «Così mi sono trovato contro, oltre che il ragazzo, pure la famiglia. Dal punto di vista educativo così non va. Dentro un rapporto dobbiamo comunque far valere delle regole di comportamento, altrimenti è un disastro». E quanto lo infastidiscono quei papà e quelle mamme che strepitano dalle gradinate durante le partite, che in fondo non sono la finale di Champions League. «Bisogna tapparsi le orecchie per non sentirli. Sono degli assatanati, dei professionisti della maleducazione. Il guaio è che i ragazzi che giocano sentono tutto e di tutto. Il mio consiglio? Cari genitori, se non ce la fate a contenervi statevene a casa che è meglio e soprattutto è più sano per i vostri figlioli. Ma questo è un invito che cade spesso nel vuoto». Lui, il Favini, ha escogitato il sistema perfetto per mettersi al riparo dalla pratica dello strillo sguaiato. Quando le squadre giovanili giocano in casa le osserva da dietro una finestra della palestrina che si colloca a pochi metri dal campo di gioco. Lì non lo disturba proprio nessuno. E può osservare bene e magari capire se in campo può sbocciare un nuovo talento, un giocatore per la serie A.
Quanti ne ha lanciati questo giovanotto di 73 anni. A Como un tale Zambrotta, campione del mondo. E un tale Stefano Borgonovo. «Lo sa che dal Seregno doveva finire al Milan? Invece suo papà mi disse che preferiva mandarlo al Como perché si sarebbe allenato sui campi di Orsenigo, un paese molto più vicino a casa sua. Ogni tanto vado a trovarlo lo Stefano. Sono contento che sia riuscito a superare l’ostacolo, la tentazione di chiudersi del tutto agli altri. Ha avuto un coraggio incredibile. Ed ha una famiglia d’oro». Quanti campioni ha lanciato Favini a Bergamo. Basta guardare all’under 21, dove in porta c’è un certo Consigli, di formazione calcistica bergamasca. E alla nazionale di Lippi. «Montolivo, Pazzini, Motta: grandi giocatori e ragazzi a posto, educati, che non mi hanno mai creato alcun problema. Mi chiamano spesso. Mi raccontano. Mi trattano come se il tempo non fosse mai passato. E io sono contento che sia andata così».

Procuratori troppo famelici
Non vuole saperne di procuratori e di società che saccheggiano ragazzini sventolando profumati assegni anche di 80 mila euro. «Non è possibile quel continuo viavai di personaggi che hanno in mente solo il denaro. Non voglio generalizzare, però la categoria è abitata da molti individui col pelo sullo stomaco. Di recente ben cinque procuratori si sono presentati a casa di un ragazzetto di 13 anni prospettandogli chissà quale mecca del calcio. E purtroppo non sempre i genitori riescono a comprendere la gravità di quelle avance, il terribile inganno umano». E ricorda di tre “furti” clamorosi sopportati dalla sua Atalanta. Samuele Dalla Bona, finito al Chelsea ad appena 16 anni; tre anni fa il portiere Vito Mannone, adesso all’Arsenal, dove fa il terzo portiere; e due anni orsono Marco Sala, un ragazzo del ’91, sempre alla corte dei Gunners. «Non è giusto che una società che investe sul settore giovanile veda scappare alcuni suoi gioielli prima che possano essere messi a regolare contratto. Con Dalla Bona, che è stato il primo della lista, mi sono arrabbiato moltissimo. Poi abbiamo fatto pace, mi ha detto che avevo ragione io, che quel passaggio era stato davvero prematuro».
Sono le 15 è il tempo del campo. Oggi è in programma una gara di campionato fra gli allievi regionali di Atalanta e Como, il passato e il presente di Mino Favini. Il terreno è tirato a lucido. Lui, il responsabile del settore giovanile, sparisce di colpo prima che l’arbitro fischi l’inizio. Ne scorgiamo la visiera del cappello che sbuca da una finestra sottolineata da sbarre amichevoli. Se ne starà lì per tutta la gara. Dove, chissà, avrà forse inquadrato qualche talento in nuce. Qualche campioncino in erba da sfornare a tempo debito. Sfornare, già. Un verbo che al Favini è familiare. Dal sapore antico, dal profumo genuino. «I miei avevano una panetteria a Meda, in via Cristoforo Colombo. Anch’io in bottega ho imparato a fare il pane. La mia michetta poi era qualcosa di invidiabile. Semplice e buona». Una michetta ben cotta. Educata.

Publié dans Sport | 1 Commentaire »

Ciao direttore!

Posté par atempodiblog le 22 février 2009

Ciao direttore! dans Sport cannavo rosanr2 dans Sport

Publié dans Sport | Pas de Commentaire »

Lewis Hamilton campione del mondo

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2008

Lewis Hamilton campione del mondo dans Sport hamiltonff5

L’epilogo più giusto
di Carlo Genta – Il Sole 24 ORE

Alla fine tocca giustamente all’inglesino. Solo contro il mondo. E chi dice che non l’ha meritato è un bugiardo o un morto di tifo. Stavolta non gli salta il nervo: Lewis Hamilton parte come chi guida tra i cristalli. E poi si lascia portare dalla corrente della corsa. Fino al più folle finale che si possa immaginare, con il sorpasso di Vettel, Lewis che perde, Massa che vince la corsa e per 30″ anche il mondiale. Poi Glock s’arrende e Hamilton piange, stavolta di gioia dopo che già aveva pronte ben altre lacrime. È quanto gli basta per raccogliere quel che gli spetta. In mattinata Gordon Brown, premier inglese forse mosso a pietà da quello che pareva diventato un clima anche vagamente intimidatorio, si era scomodato per ricordargli il supporto britannico. Dal Medio Oriente, ha dichiarato che «tutti gli inglesi stanno appoggiando incondizionatamente il giovane pilota della McLaren». Magari proprio tutti no. Già abbiamo ricordato come Bernie Ecclestone sia nato ad Ipswich… Noi avremmo voluto invece una telecamera fissa dentro ai box, perché lì si leggeva la corsa più che sulla pista. Sulle facce sconvolte dalla tensione e dall’apnea. Facce anche bellissime, come quella della fidanzatina di Lewis, ridotte a statue senza respiro. Chi vuol essere sportivo, anche se ferito, ci mancherebbe perché così fa ancora più male, deve ammettere che giustizia è fatta. Anche perché da due stagioni il mondiale è sporcato da spazzatura di varia natura, dalle storie di spie, ad « arbitraggi » che non fanno onore a nessuno. Ha vinto il più forte e il più costante, un ragazzo giovane come nessun altro campione del mondo, con dei limiti caratteriali da limare col tempo, ma con stoffa da vendere. Non come l’ultimo iridato britannico, quel broccaccio di Damon Hill. Vincere un mondiale non vuol necessariamente dire essere grandi piloti, purtroppo.

Alla Ferrari si apre invece l’inverno degli interrogativi. Deve essere così. Abbiamo, hanno ripetuto per tutta la stagione che quella rossa era la macchina più forte e alla fine la festa la fa Ron Dennis. Il conto non può tornare. E il titolo costruttori vinto non può bastare. Lo scorso anno, al netto degli interventi « arbitrali », alla McLaren hanno perso un titolo all’ultima curva mettendo due galli (Alonso e Hamilton) nello stesso recinto a beccarsi via punti. Lo stesso continua a fare la Ferrari, con i due galli che non sono però dello stesso livello. Non finiremo mai di dire che Felipe è stato bravissimo e che più di così sarebbe stato disonesto domandargli. Raikkonen invece è partito ancora brillo della vittoria, poi s’è fatto prendere dalla spocchia, rifiutando a parole e in cuor suo (basta leggere le gare) il ruolo di spalla quando era ormai chiaro che, al di là della matematica, al titolo non sarebbe mai arrivato. Eppure gli è stato allungato il contratto. Una politica che convince poco. Noi possiamo permetterci di esser chiari saltando politichese e giri di parole: Raikkonen e Massa non sono i due più forti piloti in circolazione. Dovendo scegliere per cattiveria e freddezza punteremmo a malincuore sull’antipatico finlandese, mettendogli però vicino una seconda guida utile nello sviluppo quanto poco ingombrante. Potendo scegliere faremmo di tutto, a costo di stracciare contratti e andare alla guerra con Briatore, per andare a prendere il pilota più forte che c’è: Fernando Alonso. A quel punto, ma con gerarchie chiare e condivise fin dalla prima curva della stagione, sarebbe bello lasciargli accanto Felipe che può essere la più forte delle seconde guide. L’impressione è che Massa la sua grande occasione se la sia vista sciogliere tra le lacrime dalla pioggia di Interlagos.

Publié dans Sport | Pas de Commentaire »

La squadra che ha inventato il calcio

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

« Qui è iniziata la storia ». In viaggio con la squadra che ha creato il calcio 
di Giuseppe De Bellis – Il Giornale (2007)

La squadra che ha inventato il calcio dans Sport calcioxj6

L’ora del tè, più o meno. Il campo là, a vista: erba verde, un po’ alta, fitta, perfetta per il cricket. Però la pioggia, maledetta: Sheffield non era ancora triste come oggi. Grigia sì, il 24 ottobre. Nuvole. Allora la noia. William, Nathaniel e Thomas: «Dovremmo trovare qualcosa da fare per divertirci in inverno, quando il cricket si ferma». Sulla poltrona di fronte alla finestra, sotto la pioggia, col tè bollente. Il football fu quella cosa lì: l’antinoia. Ne avevano sentito parlare, William, Nathaniel e Thomas. L’avevano visto, pure: la palla presa a calci, due pali, un punteggio. Pioggia, sole, vento, neve: sull’erba il pallone rotola sempre. This is football. Il calcio moderno, eccolo. Esisteva il gioco, non una squadra. Si faceva così: scapoli e ammogliati, oppure misti, gruppi di amici, la terza E del liceo, contro la terza B dell’altro liceo.

Quel giorno no: Sheffield Football Club, la prima squadra della storia. Maglie, pantaloncini, calzettoni. Berretto, pure: all’epoca era obbligatorio. Undici ragazzi: Thomas Ward si defilò, troppo preso dal resto. Rimase proprietario della sede del Club: una depandance di casa sua, quella del tè e della noia, quella di quel pomeriggio di pioggia. Da soli, Nathaniel Creswick e William Prest, andarono a chiamare i ragazzi che avevano visto giocare sui prati della città: «Vuoi venire? Abbiamo formato una squadra di calcio». Uno alla volta ne presero una ventina. Li misero in campo, a scannarsi. Perché il football allora era un’appendice del rugby. Con le punizioni, però: non si poteva trattenere un avversario, non si poteva sgambettare, non si poteva toccare il pallone con le mani. Sheffield inventò un codice, l’alba di un regolamento. Sulle porte arrivarono le traverse, i giocatori erano limitati a undici per squadra, il pallone non doveva superare i due chili. Poi il corner, che non se ne poteva più di battere con le mani anche quando il portiere salvava un gol. Cambridge aveva già cominciato, nove anni prima, a scrivere i punti chiave del calcio diventati poi le tavole uniche del pallone dal 1863. Sheffield contro Cambridge: per un secolo e mezzo hanno litigato per stabilire chi sia stata la casa del pallone. Si sono divise i meriti: a una la legge, all’altra gli uomini. Quella squadra, allora. Quella squadra che la prima volta in trasferta andò a giocare addirittura a Londra. E perse. Però fece esordire un’altra regola: la partita doveva durare novanta minuti, divisa in due tempi da quarantacinque. Quella squadra che adesso ha 150 anni e che s’è ostinata a rimanere incredibimente uguale: in città è arrivato lo United, poi il Wednesday. Si sono presi la gloria: promozioni, coppe d’Inghilterra, scudetti. First division e pure la Premiership. Lo Sheffield Football Club gioca nella Premier Division della Northern Counties East League. È la nona divisione inglese, una terza categoria italiana. Dilettanti. Di più: amatori. E però con lo store ufficiale, col sito internet, con la maglia griffata Nike. Con uno scudetto sulla divisa: Ordine del merito della Fifa. C’è solo un’altra squadra al mondo ad averlo: è il Real Madrid.

Furbi quelli dello Sheffield Fc: fanno finta di fare i poveri per diventare ricchi. Allora giocano l’amichevole con i Glasgow Rangers e col Manchester United. Venti sterline a testa l’ingresso. «Sono partite uniche. Sono la nostra leggenda e la leggenda del calcio: i 150 anni del club più antico del mondo». Richard Tims è il Nathaniel Creswick contemporaneo. Faccia tosta. S’è comprato la storia nel 1999, in prospettiva. «Nel 2007 volevo essere io il presidente». Ora c’è. Sua la baracca, suo il campo: è la prima volta che l’Fc ne ha uno vero. Prima ha vagato per quelli della zona, alla ricerca di un posto, di uno spogliatoio, di una doccia. L’ha trovato a Dronfield, poco più in là dalle ciminiere di Sheffield, dall’acciaio che cola e fuma, dal paesaggio alla Full Monty. Lontano dallo stadio dello United, lontano dallo stadio del Wednesday, lontani dai tornelli e dagli steward, dalle telecamere, dal satellite e dal cavo.

Cinquecento posti a sedere, gli altri in piedi, please. Il campo si chiama Coach & Horses Ground: alle panchine si accede passando attraverso un pub. Una pinta per la vita, un’altra per la gloria. Ora gli hanno dato un altro nome: Bright Finance Stadium. Questione di sponsor, ovviamente. Soldi anche qui. Soldi sempre. Ne approfitta pure la storia, quando ci sono. Qui non succede sempre, neppure quando arriva uno che sa giocare, quando cresce, quando qualcuno lo viene a vedere e vuole comprarselo. Come Sam Sodje. Oggi gioca nel Reading, Premier League. A Sheffield passò nel 2000, solo per un anno. Lo chiese il Stevenage Borough e lo pagò sull’unghia: quattro palloni e ventidue divise da gioco. Bianco-rosse: maglietta, pantaloncini, calzettoni. Arrivarono sporchi.

Publié dans Sport | Pas de Commentaire »

Una L ‘tricolore’ per il Pocho

Posté par atempodiblog le 16 octobre 2008

Una L 'tricolore' per il Pocho dans Cucina e dintorni pizzaxr2

Ripieno a forma di ‘L’ con all’ interno ricotta, mozzarella di bufala, salame e peperoncino. Sono alcuni degli ingredienti che caratterizzano la pizza ‘Ezequiel Lavezzi’, ultimo lavoro del maestro pizzaiolo Salvatore Urzitelli, titolare della pizzeria ‘Addò Guaglione’ di via Consalvo a Napoli. La pizza, dedicata al ‘Pocho’, è ricoperta per una parte da crema ai quattro formaggi con zucchine, prosciutto cotto e mozzarella, per un’altra da pomodori e mozzarella e sull’ultima da salsicce e friarielli: si tratta di una sorta di tricolore con l’augurio che l’asso argentino, così come fatto dal suo connazionale Diego Armando Maradona, regali ai napoletani il tricolore. «Ho deciso di dedicare una pizza a Lavezzi – ha sottolineato Urzitelli – perché da tifoso spero che ci regali al più presto lo scudetto. Come ingredienti ho utilizzato i prodotti tipici della nostra terra. In più ho aggiunto il peperoncino poichè il ‘Pocho’ è piccante nelle sue giocate».

L’IDEA - «Dopo la pizza al Pallone d’Oro di Cannavaro e a quella dei campioni del Mondo -ha detto al corrieredellosport.it- ho deciso di crearne una per il nostro mito Lavezzi. L’ho fatta al forma di L e i clienti possono sceglierla con tre gusti diversi». Una pizza appena sfornata dunque ma chissà se il profumino è giunto già dalle parti del campione argentino: «Non so se lo ha saputo. Qualcuno glielo dirà ma io lo invito ufficialmente ad assaggiarla visto che è l’unico che non l’ha ancora fatto».

Fonte: corrieredellosport.it

Publié dans Cucina e dintorni, Sport | Pas de Commentaire »

Un processo di 5 minuti

Posté par atempodiblog le 23 septembre 2008

Liberi e felici i due fermati per il caos Roma-Napoli
Patteggiamento e pena sospesa. Il legale: « Ma che ha fatto? »

Treni distrutti e coltelli
un processo di 5 minuti

di CARLO BONINI – repubblica.it


ROMA - Danilo Durevole, ultras da San Giorgio a Cremano, cui lo hanno detto per telefono, pare non volesse crederci. Da non stare nella pelle. Alle 9 e mezza del mattino, nell’aula 7 della quarta sezione penale del tribunale ordinario di Roma, giudice monocratico Maria Bonaventura, lo Stato salda il primo « conto » (si fa per dire) con la domenica della vergogna. 31 agosto, Roma-Napoli. Ventiquattro ore di normale devastazione. E fanno 4 mesi e 10 giorni di reclusione, 800 euro di multa. Sospensione condizionale della pena. Danilo, libero già la mattina del 1 settembre, libero resterà.Per liquidare una storia che, non più tardi di dieci giorni fa, aveva messo a rumore Governo, opposizione, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, sono sufficienti quindici minuti di orologio. Danilo non c’è. Se ne è rimasto a Napoli, perché la prima regola, in ogni processo ultras, è « buttarsi contumace ». Far dimenticare la propria faccia a chi ti dovrà giudicare e confidare nel tempo che, nel calcio, è medicina miracolosa, capace di annebbiare la rabbia e la paura. Alessandro Cacciotti, l’avvocato che difende Durevole, confabula con il pubblico ministero. Chino sul codice, somma e sottrae con perizia contabile. Quando si raddrizza per interloquire, appare soddisfatto. « Patteggiamo », dice. Il giudice chiede: « In che misura? ». « Mesi 3 di reclusione, 600 euro di multa. Pena sospesa ». « Mi sembra un po’ pochino, avvocato, non crede? ». Cacciotti appare sconcertato: « Mi scusi, signor giudice, in fondo il mio cliente che ha fatto? ».

Già, in fondo, Danilo Durevole ha avuto soltanto la sfortuna di essere uno dei due soli tifosi napoletani arrestati quel giorno. Se ne stava tranquillo in curva nord con « una torcia esplosiva in mano ». Era arrivato da Napoli su un treno sequestrato in partenza e devastato lungo il tragitto (500 mila euro di danni). Dalla stazione Termini aveva raggiunto l’Olimpico su un convoglio speciale dell’Atac da cui, lungo un tragitto di poco più di 4 chilometri, erano state lanciate appena 41 bombe carta. Aveva soltanto menato mani e piedi con chi lo ha arrestato. Allarga le braccia Cacciotti, in un crescendo di enfatica incredulità.

« Una vicenda come al solito amplificata dai media. Il ragazzo è incensurato e in fondo risponde solo del possesso di un petardo e di resistenza alla polizia. Normale, quando si viene fermati in uno stadio ». Il giudice lo interrompe: « Il contesto in cui si sono svolti i fatti è particolare. Provi a riformulare la richiesta, avvocato ». Cacciotti riformula: « Potrei arrivare a mesi 4 e giorni 10″. Il giudice: « Quattro mesi e mezzo, direi ». Cacciotti: « No, giudice, 4 mesi e 10 giorni che per altro è perfettamente divisibile con le imputazioni. Guardi, facciamolo insieme. Pena base, mesi 9 di reclusione. Ridotta per le attenuanti generiche a mesi 6. Aumentata per il secondo capo di imputazione a mesi 6 e giorni 15 oltre a 1.200 euro di multa. In forza del rito, ridotta a mesi 4 e giorni 10 di reclusione più 800 euro di multa. E naturalmente sospensione condizionale della pena ». Il pm annuisce distratto. Cinque minuti di camera di consiglio. Quattro mesi e 10 giorni siano. Pena sospesa.
Toccherebbe ora al suo compare, Diego De Martino. L’altro sfortunato. Quando lo hanno arrestato all’Olimpico, le mani le aveva impegnate entrambe. Una bomba carta nella sinistra. Un coltello a serramanico nella destra. Anche lui, libero, ha pensato bene di non affacciarsi in aula. Anche lui è difeso da Cacciotti. Meglio, da Cacciotti e Lorenzo Contucci, l’avvocato degli ultras, il professionista che ha legato la sua immagine all’omicidio di Gabriele Sandri (è l’avvocato della famiglia). Rispetto a Durevole, De Martino naviga in acque più agitate. Non fosse altro, perché ha precedenti per rapina e un Daspo di 3 anni scaduto pochi giorni prima di Roma-Napoli.

Ma Contucci non si perde d’animo. Sussurra all’orecchio del collega la trovata. « Signor giudice – argomenta Cacciotti – per De Martino chiediamo il rito abbreviato (prevede una riduzione di un terzo della pena, ndr) ma, preliminarmente, chiediamo una perizia sul coltello che la polizia dice di avergli sequestrato per verificare se effettivamente siano presenti impronte digitali dell’imputato. Vede, signor giudice, De Martino non ha avuto difficoltà ad ammettere le sue responsabilità. Ma il coltello, proprio no. Lui dice di non averlo mai avuto. E’ una questione di giustizia ».

La perizia sul coltello equivale a sostenere che la polizia ha mentito nel suo rapporto di fermo. Il giudice la concede e rinvia il processo « agli esiti dell’esame peritale ». Sul fondo dell’aula, i due poliziotti del reparto celere che hanno arrestato De Martino hanno la faccia di pietra. Uno di loro, Gianluca Salvatori, incrocia l’avvocato Contucci. « Ma non vi vergognate? », dice.

Publié dans Articoli di Giornali e News, Sport | Pas de Commentaire »

Intervista-verità a Ivano Fanini

Posté par atempodiblog le 23 septembre 2008

Pantani, la provetta scambiata e il dopato che vincerà il Mondiale di Varese

Intervista-verità a Ivano Fanini, presidente dell’Amore & Vita: “I big hanno lasciato la Vuelta una settimana prima per assumere epo in tranquillità” – “Riccò? Da squalifica a vita” – “Tutti i miei ragazzi morti miseramente”

di Paolo Ziliani – paoloziliani.it

Non usa giri di parole Ivano Fanini, 57 anni, presidente del team ciclistico «Amore & Vita-McDonald’s», parlando dell’aria pesantissima che si respira in gruppo a 5 giorni dalla gara clou dei professionisti ai Mondiali di Varese.

Fanini, che Mondiali saranno?

«Se alla Rai facessero le cose per bene, domenica, al momento della premiazione della prova iridata su strada dei professionisti, dovrebbero mandare una didascalia che dica: “Corridore Tizio, medaglia d’oro, dopato; corridore Caio, medaglia d’argento, dopato; corridore Sempronio, medaglia di bronzo, dopato”».

Le sue sono accuse molto gravi.

«Lo so, ma accadrà quello che avviene da anni nei Giri d’Italia, di Spagna e di Francia: vincerà un corridore che si dopa, altrimenti non ce la farebbe, e batterà un corridore che si dopa e un altro che si dopa. E se le “cure” saranno state fatte in modo “intelligente”, l’antidoping non diventerà un problema».

Si spieghi meglio.

«Ha visto cos’è successo nell’ultima settimana della Vuelta? Tutti i big che puntano a vincere il Mondiale e i loro gregari sono tornati a casa senza un motivo giustificato. Ho chiesto al mio direttore sportivo, Pierino Gavazzi, che è stato tre volte campione d’Italia e ha vinto una Sanremo, come mai succede questo: e mi ha risposto che i corridori tornano per fare quello che in gergo viene chiamato il “rifornimento”, cioè per assumere epo al riparo da occhi indiscreti. È quello che i corridori chiamano “la cura”. La fanno tutti, il big che deve vincere e il gregario che deve aiutare a vincere. Unica avvertenza: sospenderla qualche giorno prima della corsa per non lasciare tracce il giorno fatidico».

Qualcuno però ogni tanto viene beccato.

«Poca roba. Nella rete generalmente finiscono i giovani, come Riccò e Sella. Dopo i tanti casi di doping in cui era stato coinvolto da dilettante, Riccò avrebbe già meritato di essere squalificato a vita. In quanto a Sella, fino a un anno fa era un corridore normale. Di colpo, al Giro 2008, è diventato un fenomeno: e anche nel suo caso la spiegazione ha il nome della nuova epo, il Cera. Anche lui in un certo senso paga l’inesperienza. Errori così non li commette certo un Piepoli, la lunga ombra di Riccò. Che la sua squadra ha licenziato lo stesso perché nessuno ormai si fida più di uno come lui».

Riccò cacciato dal Tour ha fatto rivivere i fantasmi di Pantani, spedito a casa in maglia rosa a Madonna di Campiglio il 5 giugno del 1999.

«È vero. Ma nessuno sa che anche l’anno prima, al Giro del ’98, quello da lui vinto trionfalmente, Pantani avrebbe dovuto essere mandato a casa. Invece al posto suo fu cacciato Forconi, un gregario. Che il giorno dopo, visto che era un mio ex corridore, era stato con me 6 anni all’Amore & Vita, venne a trovarmi in ufficio e mi raccontò tutto. “Hanno fatto uno scambio di provette e hanno mandato a casa me, che alla Mercatone sono l’unico ad avere i valori bassi”, mi disse. Riccardo era un modesto gregario, uno da 20-30 milioni di lire l’anno. Beh, dopo quell’episodio, e quella squalifica, si è costruito una villa sulle colline di Empoli: e si è fatto una posizione. Oggi collabora con Beppe Martinelli, il direttore sportivo di allora, ed è il team manager della Vangi, un club di dilettanti assai quotato».

Abbiamo parlato di Riccò, Sella, Piepoli, ma fra i corridori squalificati in casi diversi ci sono stati anche Basso, Di Luca, Petacchi…

«È una situazione senza ritorno. Un anno fa, al Giro, dopo il tappone dello Zoncolan vennero sottoposti a un controllo a sorpresa Di Luca, Riccò, Simoni e Mazzoleni: i 4 italiani meglio piazzati in classifica. Ebbene, tutti e 4 fecero la pipì degli angeli: in pratica mostrarono il profilo ormonale di un bambino di 7 anni. Una cosa da ridere. Nonostante questo, credo che Di Luca continui a intrattenere rapporti col medico super-squalificato Santuccione; e il massaggiatore di Riccò è sempre Pregnolato, che seguiva Pantani e fu incastrato nella retata dei Nas a Sanremo, nel Giro del 2001, con un sacco di robaccia in valigia, quindi venne squalificato. Per non parlare di Basso, che è stato coinvolto nell’Operación Puerto, ha raccontato un sacco di balle e adesso è pronto al rientro, bello come il sole».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Squalificare a vita l’atleta trovato positivo. Ed estendere automaticamente la squalifica al team manager, o direttore sportivo, perché alle verginelle tradite dal loro pupillo non crede più nessuno. Due anni fa, dopo i pasticci combinati dai suoi corridori, la Milram ha licenziato in tronco il d.s. Stanga – che sapeva tutto – e ha fatto bene. E mi chiedo: che cosa ci sta a fare ancora nel ciclismo uno come Bjarne Rijs? Uno che ha imbrogliato tutta la vita, che ha vinto un Tour da dopato e che dopo gli scempi commessi da d.s. è ancora lì, sull’ammiraglia, e ha appena vinto il Tour de France con Sastre, che sul podio a Parigi ha avuto l’impudenza di ringraziare Manolo Saiz, ossia il principale artefice del doping nel ciclismo assieme ai medici Ferrari e Santuccione».

Lei è il presidente dell’Amore & Vita-McDonald’s e da molti anni si sta battendo a spada tratta contro il doping. Perché lo fa?

«Fino al ’98 sono stato un dirigente come un altro, ho fatto come tutti. Le mie squadre hanno vinto una quindicina di tappe, tra Giro e Vuelta, con corridori che si dopavano. Poi ho cominciato a vedere ragazzi che stavano male, ho cominciato a contare i morti, e mi sono ribellato. Vuole sapere quanti miei ex ragazzi sono morti negli ultimi anni? Sei. E ben tre nelle ultime tre stagioni: Galletti, Cox e Fois. Galletti l’avevo ingaggiato a 30 anni a patto che non toccasse più il doping e si era rilanciato al punto da diventare un fido gregario di Cipollini. È morto in gara due anni fa. Cox, sudafricano, aveva talento e a 23 anni era passato alla Barloworld: a 28 anni è morto nel suo Paese, abbandonato da tutti, dopo un’inutile operazione in Francia per problemi vascolari dovuti all’assunzione di sostanze proibite. Fois è stato l’ultimo, circa 6 mesi fa: è morto con la maglia dell’Amore & Vita nell’armadio. Come ho fatto spesso con tanti corridori in difficoltà, l’avevo ingaggiato per ridargli una ragione di vita, per toglierlo dalla strada. Si stava riprendendo. Non ce l’ho fatta».

Ma i telecronisti e gli inviati, quando Riccò vince «alla Pantani», si perdono in peana.

«Sanno tutto ma tacciono. E quando succede il fattaccio fingono di stracciarsi le vesti. La parola d’ordine è “business & spettacolo”: il resto non conta. E la salute dei corridori meno che mai. Un dramma, perché molti di questi ragazzi, quando subiscono lunghe squalifiche o smettono di correre, passano dal doping alla cocaina o ad altre tossicodipendenze. Com’è successo a Pantani, a Jiménez e a Fois: che purtroppo oggi non ci sono più».

Publié dans Articoli di Giornali e News, Sport | Pas de Commentaire »

Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2008

Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati:
vedere la classifica è stress

Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati dans Articoli di Giornali e News sereni03gcm5

Spero che Il papà di Giovanna, il nuovo bellissimo film di Pupi Avati, arrivi presto sugli schermi della Gran Bretagna e spero che lo vadano a vedere tutti i dirigenti del football inglese che ieri hanno abolito risultati e classifiche dei campionati dei bambini di 7 e 8 anni (in alcune zone, anche di quelli di 9, 10 e 11 anni). Il film potrebbe essere un provvidenziale antidoto alla sciagurata illusione di preservare i piccoli dal trauma della sconfitta, dall’onta dell’ultimo posto, perfino dall’istinto della competizione.
Perché questo è il movente ultimo dei dirigenti del calcio inglese: proteggere i bambini, evitare che fra loro qualcuno emerga come più bravo e quindi qualcun altro, inevitabilmente, come meno bravo; soprattutto, poi, evitare la gogna mediatica della classifica appesa all’ingresso degli spogliatoi o magari – orrore – pubblicata sul settimanale locale. Resta il gioco, restano i gol, restano i più forti e i più scarsi, perché la realtà non la si può eliminare. La si può però nascondere. Non basta più ovattarla con De Coubertain, addolcirla con un complimento, ripararla con un giocattolo. No: la realtà, quando è sgradevole, bisogna occultarla, negarla.
La partita senza risultato e il campionato senza classifica sono l’ultimo anello di una catena che parte da lontano, dal vietato sgridare del dottor Spock all’abolizione dei cartelloni murali con i voti di scuola a fine anno. Così come il bocciato non deve essere traumatizzato dal vedere il proprio nome in quella che ormai viene considerata una lista di proscrizione, il baby inglese non deve provare l’umiliazione neppure di un secondo posto.
Va detto che tra le motivazioni addotte dalla federazione calcistica inglese ce n’è una non peregrina, che si rifà all’ormai straripante e prepotente presenza dei genitori alle partite di calcio dei bambini. Chiunque abbia figli che giocano sa di che cosa parlo. Fino a una ventina di anni fa ai campionati di pulcini, primi calci e giovanissimi il genitore era una presenza rara e persino preziosa: serviva a dare una mano, anzi un volante e quattro ruote, ad allenatori e accompagnatori indaffarati a organizzare le trasferte. Sugli spalti non si sentiva gridare un «bravo», né un batter di mani. Oggi papà, mamme, zie e nonni si costituiscono in tifo organizzato: cominciano incitando; poi passano all’insulto all’arbitro; quindi a quel pirla dell’allenatore che non capisce che mio figlio non può giocare sulla fascia; infine la rissa con i genitori dell’altra squadra: sta’ zitto, che c. vuoi, ti faccio un c. così, ci vediamo fuori.
Ma non è con l’abolizione del risultato e della classifica che si risolve il problema. Intanto perché i genitori-ultras ai bordi del campo se ne fregheranno del mancato verbale: continueranno a seguire la partita e a contare i gol. E poi non è anestetizzando i bambini che si placano i furori e le frustrazioni degli adulti. Si puniscano loro, piuttosto: si impedisca ai genitori scalmanati di seguire i figlioli al campo.
I bambini poi, anche quando perdono, soffrono molto meno di quanto soffriamo noi per loro. Prima ancora di rientrare negli spogliatoi, per il bimbo la sconfitta è digerita, il gol in fuorigioco dimenticato, il fallo accettato come facente parte della realtà di una partita.

Eppure è nel malinteso tentativo di tutelarlo da un trauma che la federazione inglese – e chissà quanti altri tra poco – vogliono privarlo dell’aspetto più sano del gioco. La competizione non è – non deve essere, almeno – occasione per prevaricare e per irridere. Ma per sperimentare se stessi sì; per provare fatica, per capire che ogni traguardo va meritato, per fare esperienza della gioia di una vittoria e della delusione di una sconfitta. Perché di questo i bambini dovranno poi vivere: fatica, merito, gioia, delusioni, vittorie e sconfitte.
Come Il papà di Giovanna trucca i risultati degli esami di maturità per procurare un fidanzato alla figlia bruttina, i dirigenti del football inglese truccano anzi addirittura annullano le classifiche per evitare uno scacco ai bambini meno bravi. Come Il papà di Giovanna, vogliono tenere i bimbi sotto una campana di vetro, nell’illusione di preservarli dalle prime avvisaglie dell’asprezza della vita. Ma come Il papà di Giovanna produrranno disastri. I bambini sono abbastanza intelligenti per capire, e una sconfitta tenuta nascosta fa più male di una sconfitta accettata.
Questo dovremmo capire noi che siamo un po’ tutti papà di Giovanna: dovremmo capire che i nostri figli sono più forti di quanto noi immaginiamo.

di Michele Brambilla – Il Giornale

Publié dans Articoli di Giornali e News, Michele Brambilla, Sport | Pas de Commentaire »

Striscioni anti-Napoli tifoso risarcito dall’Inter

Posté par atempodiblog le 6 août 2008

 Striscioni anti-Napoli tifoso risarcito dall’Inter dans Articoli di Giornali e News naplesrg6

L’Inter è stata condannata a pagare 1.500 euro a un tifoso del Napoli come risarcimento del «danno esistenziale» subito per gli striscioni esposti a San Siro contro i napoletani durante il match del 6 ottobre dello scorso anno. Lo ha stabilito una sentenza del giudice di pace della prima sezione di Napoli, Antonio Marzano. Il tifoso azzurro – G.D.B., difeso dall’avvocato Raffaele Di Monda – si era rivolto al giudice raccontando di aver lasciato lo stadio di San Siro «indignato e profondamente colpito da striscioni denigratori, esposti nel secondo anello della curva nord, occupata dagli ultrà interisti, nei confronti dei napoletani». Sugli alcuni di questi striscioni, si legge nell’esposto presentato al giudice di pace, gli ultrà nerazzurri avevano tra l’altro scritto «Napoli fogna d’Italia», «Ciao colerosi», «Partenopei tubercolosi», «Infami». Senza dire poi dei numerosi e continui cori razzisti e offensivi urlati all’indirizzo dei napoletani. Il giudice di pace, ha commentato l’avvocato Di Monda, ha riconosciuto nella fattispecie un «danno esistenziale», condannando quindi la società nerazzurra per «responsabilità oggettiva». L’azione legale è stata vinta in primo grado nonostante l’opposizione degli avvocati dell’Inter, i quali ne chiedevano la cancellazione per incompetenza territoriale.

Fonte: Il Mattino

Publié dans Articoli di Giornali e News, Sport | Pas de Commentaire »

Spagna campione d’Europa

Posté par atempodiblog le 30 juin 2008

Torres piega la Germania  
Tratto da:
La Gazzetta dello Sport

A Vienna, la nazionale allenata da Aragones conquista il secondo Europeo della sua storia battendo 1-0 i tedeschi in finale. Decide un guizzo dell’attaccante del Liverpool al 33′ del primo tempo. Le furie rosse chiudono il torneo senza sconfitte e fanno festa dopo 44 anni

Spagna campione d'Europa dans Articoli di Giornali e News torresmn8
Fernando Torres esulta: è suo il gol che ha risolto la partita. Ansa

Publié dans Articoli di Giornali e News, Sport | Pas de Commentaire »

Italia, che peccato!

Posté par atempodiblog le 23 juin 2008

Fuori ai rigori con la Spagna

Europeo: azzurri battuti 4-2 (0-0 al 120′). Dal dischetto errori di De Rossi e Di Natale

Italia, che peccato! dans Articoli di Giornali e News 0k2vxn2r346x212yq8

La festa dei tifosi spagnoli. Reuters

VIENNA (Austria), 22 giugno 2008 – L’avventura è finita. La Spagna ci batte 4-2 ai rigori e ci caccia dagli Europei. La magia di Berlino svanisce in una notte torrida viennese. Dopo 120′ senza gol, sbagliano dal dischetto De Rossi e Di Natale, mentre Buffon illude parando il tiro di Guiza. La Nazionale volta pagina; i campioni del mondo escono di scena.

CONFERME – Donadoni schiera il modulo di Zurigo contro la Francia. Ma nel 4-3-1-2 le varianti sono a centrocampo, dove la Nazionale paga l’assenza di Pirlo e Gattuso. Il c.t. corregge con Aquilani dal primo minuto: il romanista a destra, De Rossi al centro e Ambrosini a sinistra. Poi dà ancora fiducia a Perrotta, trequartista alle spalle di Toni e Cassano. Conferma tutto anche Aragones: 4-4-2, con il solito centrocampo a quattro con Iniesta a destra e Senna appena dietro la linea.

SPAGNA LANCIATA – Gli azzurri partono alti e accennano al pressing che la Spagna limita subito. A ritmo lento, gli iberici ruminano gioco orizzontalmente, ma danno un’impronta più evidente alla partita. Al 9′ Silva si accentra e libera un sinistro deviato e poi bloccato da Buffon. Nulla di trascendentale, ma prova evidente che è la Spagna a tenere in mano le redini del gioco. Dell’Italia il più ispirato appare Cassano. Il blucerchiato nel breve non ha rivali, ma ha poco appoggio, finendo vittima del raddoppio.

SOFFRIAMO - Al 18′ si vede Torres; imbeccato da Iniesta penetra in area dalla sinistra, ma alza la mira. Sono segnali a cui l’Italia dovrebbe dare peso. Su quel corridoio gli spagnoli godono di libertà: Aquilani è troppo leggero e sente il peso della responsabilità. Al 19′ ecco l’Italia. Il cross di Ambrosini dalla sinistra viene girato debolmente di testa da Perrotta; nessun problema per Casillas. Al 23′ è ancora Ambrosini a spingere sull’acceleratore, ma sbaglia a scodellare subito per Toni, evidentemente attardato. Al gol si avvicina però la Spagna. Con Villa al 25′: punizione tesa in mezzo a una selva di gambe, parata a terra da Buffon.

CASSANO CI PROVA – L’Italia sembra uscire dalla gabbia, ma manca l’uomo d’ordine e Perrotta fatica nel suo compito. Va meglio la Spagna che con Silva al 32′ impegna ancora Buffon. Ma la cosa bella la fa Cassano al 36′ su tocco di Ambrosini; il cross del barese per Toni è perfetto, ma il bomber non salta: occasione gettata al vento. La replica fa paura: al 38′ Silva dal limite sfiora il palo alla destra di Buffon. La Spagna gioca meglio. Fatichiamo a centrocampo, dove De Rossi e Ambrosini sono costretti a lavorare per tre, limitando così le sortite sulle fasce di Zambrotta e Grosso.

MAGO CHIELLINI – Silva mette subito la firma all’inizio della ripresa, ma Chiellini gli dice di no con una chiusura da marpione. Il ragazzo della Juve fa gli straordinari e deve alzare la voce perché non filtriamo. Al 10′ Torres gabba Panucci e mette dentro: ci pensa ancora Chiellini a metterci una pezza. Sembriamo vicini alla capitolazione. Al 13′ Camoranesi entra per Perrotta. Ne avevamo bisogno come il pane, ed è proprio lui al 16′ a far gridare al gol, evitato da uno strepitoso Casillas con il piede sinistro. La Spagna, con Fabregas e Cazorla (fuori Xavi e Iniesta) fa più possesso palla, ma ci siamo anche noi.

PIU’ SQUADRA – Camoranesi ha dato ordine ed equilibrio. Al 29′ Di Natale rileva Cassano, ma la Spagna torna a comandare. Al 35′ Buffon respinge con una violenta punizione di Senna. Al 36′ è invece il palo a salvarci, perché a Buffon sfugge la palla sul nuovo bolide del brasiliano. Noi ci proviamo ancora con Toni, ma a Luca mancano centimetri. E al 38′ l’impeto dell’inguardabile bomber toglie a Grosso la palla-gol per eccellenza sul cross di Di Natale. Esce Torres ed entra Guiza e gli ultimi minuti sono di furore. Ed è Zambrotta a salvare la patria al 93′ anticipando Villa.

BRIVIDI - Supplementari ed è subito thrilling, perché al 3′ Villa conclude a lato d’un soffio. Ma al 5′ per due volte ci avviciniamo al gol: prima Marchena anticipa Toni, poi Di Natale sfiora di testa. E ci mangiamo le mani, perché a conti fatti le occasioni più nitide sono le nostre. Lunghe e disfatte, le squadre si affidano a istinto e passione. Ma tocca anche a Del Piero, dentro per Aquilani al 108′. Loro ci provano di più; Buffon salva su Villa: soffriamo troppo e al 120′ Cazorla sciupa a lato il diagonale che consegna la sfida ai rigori. E questa volta la Spagna non fallisce.

di Gaetano de Stefano – gazzetta.it

Publié dans Articoli di Giornali e News, Sport | Pas de Commentaire »

Trionfo della Roma

Posté par atempodiblog le 25 mai 2008

Coppa Italia, trionfo della Roma
La Sensi: Noi Campioni d’Italia

Inter battuta 2-1 in finale all’Olimpico: i giallorossi si aggiudicano per la nona volta il trofeo. Decidono Mexes e Perrotta, gol nerazzurro di Pelè. L’ad: «Come uno scudetto». Totti alza la Coppa con la maglia speciale col numero 9: «Vittoria bellissima». Spalletti: «Dedicata al presidente e ai tifosi».

di Pasquale Salvione - Corriere dello Sport

Trionfo della Roma dans Articoli di Giornali e News romacampionejm2

ROMA, 24 maggio – La Coppa Italia l’ha alzata al cielo Francesco Totti davanti al presidente della Repubblica Napolitano. Una maglia bianca addosso con dietro il numero 9 grande (tante le volte che l’ha vinta la squadra giallorossa) e la data di oggi, 24 maggio 2008. Una maglia che indossavano anche tutti i suoi compagni per festeggiare in un Olimpico in delirio. La Roma ha avuto ragione dell’Inter prendendosi la rivincita sei giorni dopo aver dovuto arrendersi nella corsa scudetto. Un successo che Rosella Sensi, alla fine della partita paragona al tricolore e dedica a una persona speciale: «Questa coppa è per il presidente Franco Sensi, è meritata quanto lo scudetto. Una grande vittoria strameritata come tante altre che non sono arrivate. I campioni d’Italia siamo noi».

DECISIVI MEXES E PERROTTA – A decidere l’ennesima puntata della sfida infinita fra le due squadre sono stati Mexes (stupenda girata di destro ) e Perrotta (tocco facile dopo un bel triangolo con Vucinic), al termine di un match aperto, pieno di emozioni e in dubbio fino all’ultimo. Soprattutto perché l’Inter, che aveva subito il tremendo uno-due a cavallo fra primo e secondo tempo, ha reagito bene e, grazie alle mosse di Mancini, ha trovato in Pelè (entrato al posto di Stankovic) un trascinatore (e non solo per il gol). I nerazzurri, dopo aver accorciato le distanze, hanno sfiorato anche il clamoroso pareggio, con uno stupendo colpo di testa di Burdisso che ha centrato in pieno il palo. Ma il forcing nerazzurro non ha portato altri frutti: è finita con la Roma a festeggiare in campo. Mentre Totti e De Rossi alzavano la Coppa sotto la Curva Sud, Vucinic correva per il campo con l’automobilina del soccorso medico. E’ la serata della rivincita giallorossa.

LA GIOIA DI TOTTI - «Quest’anno abbiamo trovato una squadra un pò più forte di noi, un poco…». Francesco Totti rende omaggio all’Inter vincitrice del campionato ed insieme promette rivincite durante la festa. «Vincere la coppa in casa dà una grande soddisfazione – ha aggiunto Totti ai microfoni Rai – il nostro pubblico se lo merita. Cosa significa? La continuità della nostra competitività».

LA DEDICA DI SPALLETTI - Felice per la vittoria ovviamente anche Luciano Spalletti: «Per noi è una grande soddisfazione - ha detto ai microfoni di Roma Channel - Questa coppa la dedichiamo a Franco Sensi e a tutti i tifosi. I campioni d’Italia? Sono quelli dell’Inter, noi siamo secondi ma non perdenti, lo dicono i numeri di vittorie fatte in tutto il campionato».

LA FELICITA’ DEI PROTAGONISTI - «Ci siamo tolti una grande soddisfazione», dicono sorridendo a fine partita i match winner Philippe Mexes e Simone Perrotta. «Ho fatto il primo gol del campionato e l’ultimo della stagione – dice il difensore francese – Daremo ancora di più il prossimo anno, vogliamo vincere altri trofei». La curva sud canta ‘I campioni d’Italia siamo noi’, Perrotta è d’accordo in parte: «Virtualmente forse lo siamo, ma non sulla carta. Stasera però ci siamo tolti una bella soddisfazione. Abbiamo fatto una stagione strepitosa, meritavamo questa coppa. Questa è stata una stagione che ricorderemo per molto tempo. A momenti lo sbaglio quel gol… sono stato fortunato». Felicità anche nelle parole di Cassetti: «Abbiamo vinto contro i campioni d’Italia vuol dire che ce la possiamo giocare alla pari». Lo segue Aquilani: «Vincere questa Coppa dà una doppia soddisfazione perchè abbiamo battuto i campioni d’Italia». Chiude Vucinic: «È fantastico vincere qui speriamo di continuare a farlo».

ROMA-INTER 2-1
ROMA (4-2-3-1): Doni; Cassetti, Juan, Mexes, Tonetto; De Rossi, Pizarro; Giuly (21′ st Cicinho), Aquilani (46′ st Panucci), Perrotta (28′ st Brighi); Vucinic. A disp. Curci, Antunes, Mancini, Esposito. All. Spalletti
INTER (4-1-4-1): Toldo; Maicon, Burdisso, Chivu, Maxwell; J. Zanetti (45′ st Crespo); Balotelli, Vieira, Stankovic (1′ st Pelè), Cesar (17′ st Jimenez); Suazo. A disp. Julio Cesar, Fatic, Maniche, Solari. All. Mancini
Arbitro: Morganti di Ascoli Piceno
Marcatori: 36′ pt Mexes (R), 9′ st Perrotta (R), 15′ st Pelè (I)
Note: ammoniti Perrotta, Vieira, Vucinic, Burdisso, Pelè. Recupero 1′ pt, 6′ st. Spettatori 45 mila circa.

Publié dans Articoli di Giornali e News, Sport | Pas de Commentaire »

Inter campione d’Italia e gli altri verdetti

Posté par atempodiblog le 19 mai 2008

Torna Ibrahimovic e l’Inter è campione d’Italia. Fiorentina in Champions
di Lara Vecchio – Il Sole 24 ORE

Inter campione d'Italia e gli altri verdetti dans Articoli di Giornali e News interlg0

Il terzo per gli almanacchi. Il secondo per i protagonisti. Il primo, vero, questo sì, per i tifosi che non si sono mai davvero accontentati né del frutto del peccato altrui, né dell’impresa monca della scorsa stagione sulla quale pesava la falsa partenza o addirittura la latitanza delle contendenti storiche. Del trionfo di ieri si è detto tutto, troppo, e a tratti, giocando d’anticipo, a sproposito; oggi è il giorno di rendere onore ai campioni d’Italia, perché i detrattori, o i « gufi » (come li hanno definiti i neo scudettati) non hanno più nulla a cui aggrapparsi. E col senno di poi, aver rischiato di perderlo rocambolescamente non è una colpa, ma solo l’ingrediente segreto per rendere più gustoso il boccone. Il 16° scudetto dell’Inter è quello che straccia via, una volta per tutte, senza se e senza ma, l’etichetta dell’eterna incompiuta. È quello catartico che scrolla di dosso la frustrazione. È quello che i protagonisti si godranno solo dopo aver realizzato appieno. Ieri sera, paradossalmente, sono mancati i tempi tecnici. Come se non bastasse giocarsi tutto all’ultima giornata, a fine primo tempo il tricolore stava chiuso nella cassaforte del Massimino, a Catania, mentre Mancini e compagnia, al Tardini di Parma, rientravano in campo per la ripresa ostentando sicurezza, ma traditi dallo sguardo smarrito dell’ animale braccato. Certo, dopo aver respirato l’odore pungente della paura, quello della festa è così inebriante che arriva al cervello, ti toglie il respiro, annebbia immagini, riflessioni e pensieri. Per recuperare la visione d’insieme c’è tempo. Per ora bastano i flash. Il primo abbaglia e stordisce: arriva da Catania e, come nei film, in un istante, ti passa davanti una vita. Perché per la prima in volta in stagione, dopo 8′ dell’ultimo atto, l’Inter si trova a rincorrere senza averne attitudine e abitudine. Il gol di Vucinic, che illumina la faccia giallorossa della luna e prende a picconate il fortino della scaramanzia costruito ad hoc dal popolo romanista e dagli uomini di Spalletti, disegna rughe profonde sui volti nerazzurri e annichilisce i tifosi interisti infiltrati al Tardini, quelli che attendono fuori, quelli radunati sotto
la Madonnina. Il secondo, nell’intervallo, è un segreto che per sempre sarà custodito dai muri del Tardini. Le parole di Mancini, quelle di Moratti , o solo uno sguardo, chissà. Fatto sta che nel diluvio di Parma, i flash successivi sciolgono il ghiaccio e scaldano il cuore. È il 6′ della ripresa e, quando Ibrahimovic si alza dalla panchina, la Roma è campione d’Italia. Lo svedese, in undici minuti, spinge l’altalena dell’Inter così forte da rispedirla in paradiso. E rotto il digiuno con uno splendido gol (controllo, dribblig e gran destro), si assicura i titoli a nove colonne marchiando a fuoco lo scudetto con un sinistro al volo. Gli ultimi, sono quelli dei fotografi, che immortalano l’urlo liberatorio di Roberto Mancini fradicio come un pulcino, il mucchio nerazzurro in mezzo al campo e le lacrime gialloblù di un Parma che lascia la serie A dopo 18 anni. Speculari le immagini che giungono dalla Sicilia, dove si spengono i sorrisi di una Roma tenace e straordinaria, vinta dalla spossatezza di un’estenuante rincorsa, raggiunta dal gol salvezza del Catania che, a catena, condanna alla serie B l’Empoli, pur vittorioso sul già retrocesso Livorno. Mai, negli ultimi anni, un’ultima giornata era stata così decisiva e così gravida di verdetti:in testa, in coda, in mezzo. Milan e Fiorentina non sono state da meno. Nella lotta per la Champions League è successa un po’ la stessa cosa. Fiorentina avanti per tutto il campionato, raggiunta e superata da uno sprint milanista a un passo dal traguardo, aggredita al primo cedimento mentre tentava invano di smaltire la delusione dell’eliminazione in Coppa Uefa, capace però di piazzare la zampata finale per riprendersi meritatamente un posto tenuto in caldo per quasi tutta la stagione. La splendida rovesciata di Osvaldo, che vale la vittoria sul Toro, vanifica il 4-1 del Milan sull’Udinese. Giornata nera per il Milan e i suoi tifosi, costretti a beccare le briciole tenendo stretta la qualificazione in Coppa Uefa, ma soprattutto a sfollare alla svelta San Siro per cedere il palcoscenico alla festa dei cugini. Davvero pochi, ieri, i campi neutrali. Una scampagnata tra Cagliari e Reggina, già in vacanza: finisce 2-2, come Siena-Palermo, altra sfilata di fine stagione.
La Lazio all’Olimpico vince sul Napoli ma i risultati più interessanti sono, per ovvie ragioni, quelli che appaiono sul tabellone. Riflettori puntati invece su Atalanta-Genoa, con uno spettatore più interessato di altri: Alessandro Del Piero. In vetta alla classifica cannonieri con 21 gol, dopo la doppietta nella gara di sabato con la Sampdoria, Pinturicchio attendeva la consacrazione via telecomando. Il digiuno di Marco Borriello, che si ferma a quota 19, toglie l’ultimo alibi a Donadoni che, di fronte al capocannoniere del campionato, si trova con le spalle al muro.

Tutti i verdetti:
85 Inter, campione d’Italia con accesso diretto in Champions League
82 Roma, in Champions League accesso diretto 72 Juventus, 66 Fiorentina, in Champions League (preliminari);
64 Milan, 60 Sampdoria, 57 Udinese, in Coppa Uefa;
50 Napoli; 48 Genoa, Atalanta; 47 Palermo; 46 Lazio; 44 Siena; 42 Cagliari; 40 Torino Reggina; 37 Catania
36 Empoli, 34 Parma, 30 Livorno (serie B)

Publié dans Articoli di Giornali e News, Sport | Pas de Commentaire »

1...45678
 

Neturei Karta - נ... |
eternelle jardin |
SOS: Ecoute, partage.... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Cehl Meeah
| le monde selon Darwicha
| La sainte Vierge Marie Livr...