Come Gianni Di Marzio scoprì Maradona

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2012

«Era arrabbiato, ma fece tre gol in 10 minuti. Così Maradona mi convinse»
di Emmanuele Michela -Tempi

L’ex-tecnico del Napoli Gianni Di Marzio racconta di quanto nel 1978 scoprì il Pibe de Oro in Argentina: «Lo vidi, andai negli spogliatoi e lo feci firmare subito»

Come Gianni Di Marzio scoprì Maradona dans Sport maradonaegiannidimarzio

«Lo vidi giocare 10 minuti. E mi bastarono a convincermi che sarebbe diventato un campione». La voce di Gianni Di Marzio è ancora carica di entusiasmo nel raccontare di quanto accadde nell’estate del ’78. Poco tempo gli bastò per capire che chi aveva davanti era un ragazzo di soli 18 anni destinato a diventare il più forte di sempre, Diego Armando Maradona. Di campioni poi Di Marzio ne ha visti tanti, ma quelle giornate argentine sono ancora nette nella sua testa: all’epoca era tecnico del Napoli, e fece di tutto per portare il ragazzo in Italia già nel 1978. Ma la storia andrà diversamente, e Maradona riuscirà ad arrivare in Campania solo 6 anni dopo. Ora Di Marzio fa consulente di mercato per il Qpr, e a Tempi.it racconta che cosa lo stupì di quel ragazzo «coi capelli lunghi e bassino», di cui [il 30 ottobre] ricorreva il 52esimo compleanno.

Lei è passato alla storia come il tecnico che scoprì Maradona. Ci vuole raccontare di quell’incontro col Pibe de Oro?
Era il 1978, e andai in Argentina a seguire i Mondiali insieme a Trapattoni e Radice. Ero all’albergo Don Carlos di Buenos Aires, dove continuava a tempestarmi di telefonate in albergo un certo Settimio Aloisio: era un signore calabrese, di Aiello Jonico, diventato presidente della sezione calcio della polisportiva Argentinos Junior. Era tifosissimo del Catanzaro, squadra che due anni prima avevo portato in Serie A da tecnico. Cercava di rintracciarmi per sottoporre alla mia attenzione questo giovane giocatore che, secondo lui, era un fenomeno. Io all’inizio ero un po’ restio, poi però cedetti e andai a vedere questo ragazzo. Mi feci accompagnare da Angelo Pesciaroli, giornalista del Corriere dello Sport, e andammo a questo campo. Maradona però non si presentò: era ancora arrabbiato con Menotti, ct della nazionale argentina, che lo aveva inserito nella lista dei 40 per il Mondiale ma non dei definitivi 22. Già allora mi colpì perché aveva grande personalità. Con Aloisio lasciammo quindi Pesciaroli al campo, e andammo direttamente a Villa Fiorito, la casa del ragazzo, per convincerlo a venire: non mi fece una buona impressione con quei capelli lunghi, un po’ bassino, vestito così. Però alla fine Maradona arrivò al campo, e iniziò la partita. Mi colpì subito, così già dopo dieci minuti di gioco mi alzai e andai negli spogliatoi, d’accordo con Aloisio. Dovevo stare attento a Pesciaroli, il giornalista: all’epoca collaborava con la Lazio, quindi avevo paura me lo potessero rubare. A lui dissi che dovevo andare alla toilette. Maradona uscì dal campo, e Aloisio si impegnò a dare al Napoli questo giocatore per una cifra di 300mila dollari, 270 milioni di lire. Fu l’inizio: alla sera andammo a cena insieme, e nei giorni successivi che rimasi in Argentina Maradona era in giro con me. Però non voglio prendermi alcuna paternità di aver scoperto questo giocatore: mi sono sempre ritenuto un tecnico più di uno scout. Non avevo da acquisire alcun merito su questa vicenda.

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Cosa la colpì di quel ragazzino? Maradona aveva solo 18 anni.
In 10 minuti aveva fatto tre gol. Uno palla al centro, dribbling su 3-4 giocatori e staffilata perfetta nel sette. Il secondo una sforbiciata perfetta di sinistro su corner, il terzo una punizione precisa dal limite. Che cosa c’era da vedere di più?

Perché Maradona arrivò solo 6 anni più tardi al Napoli?
Quando tornai in Italia tentai di convincere il presidente Ferlaino a prenderlo. Ma lui non volle, non si fidava. Anche qualche giornalista era diffidente: Domenico Carratelli scrisse che avevo avuto la “presunzione” di aver scoperto un “Mariconda”. Quell’articolo lo tenni per anni, e quando poi Maradona divenne un grande giocatore inviai a Carratelli quella pagina di giornale. Lui continuava a rifiutarmi la raccomandata, e solo dopo che gliela feci avere a mano dichiarò pubblicamente di aver sbagliato e di vergognarsi per aver detto quelle cose su Maradona. Qualche mese dopo ci fu poi la rivincita della finale Mondiale tra Argentina e Olanda, a Berna. Anche il giocatore fu convocato, e io andai a trovarlo: gli portai la maglia del Napoli in regalo, ma non c’era nulla da fare. Ferlaino non si convinceva. Alla fine Maradona arrivò sei anni dopo, grazie anche ad Antonio Juliano, che era mio giocatore al Napoli del ’78. Si ricordava di quanto gli avevo detto su Diego, e di me si fidava ciecamente. Così andò a Barcellona ad acquistare il giocatore, che nel frattempo era arrivato in Europa. Ricordo ancora l’intervista che Maradona fece alla Rai sull’aereo per Napoli: diceva di aver scelto gli Azzurri perché glieli aveva consigliati Di Marzio, e che lui voleva già arrivare nel ’78.

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Che rapporto avevate voi due? Vi sentite ancora?
Più di una volta ci siamo incontrati durante gli anni successivi. A gennaio vado in Argentina a vedere il Sudamericano Under 20, quindi spero di incontrarlo lì. Non siamo in contatto, però lo rintraccio di sicuro. Non mi è mai piaciuto durante questi anni rompergli le scatole: Maradona ha sempre avuto intorno la “corte dei miracoli”, gente che gli procurava donne, droga, lo vendevano ai ristoranti… Io non volevo che lui pensasse che io fossi parte di questa compagnia, così non l’ho mai disturbato.

Maradona è stato un campione unico, quasi di sicuro il più grande di sempre. Qualcuno vede in Messi il suo erede. È d’accordo?
Messi è un fuoriclasse, Maradona è un dio. Non c’è sfida. Se Maradona avesse avuto intorno dei buoni consiglieri e non la “corte dei miracoli” probabilmente sarebbe stato in grado di giocare ancora oggi. Glielo dico con molto dispiacere e rabbia.

Ultima domanda. Ieri circolava la voce che il Blackburn volesse offrire la panchina a Maradona. Lei conosce bene il mercato inglese. C’è da credere a queste voci o meno?
Onestamente credo proprio di no. Maradona ormai ha un prezzo, e mi lascia un po’ perplesso una trattativa simile. Certo, mi farebbe grande piacere se tornasse in Europa. Ma non credo vada ad allenare il Blackburn.

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Oro nella canoa: cerco di essere un buon cristiano

Posté par atempodiblog le 14 septembre 2012

Oro nella canoa: cerco di essere un buon cristiano dans Sport

“Nel 2007, feci un incidente molto grave con la moto dove mi ruppi la schiena. Ho perso delle opportunità e stavo perdendo il mio primo sogno olimpico. Lì ho avuto la forza di continuare, di stringere i denti nonostante il dolore nei cento giorni dopo l’incidente per affrontare le prime gare per entrare nella squadra nazionale. In quel momento, se non avessi avuto la fede, non penso sarei riuscito ad andare avanti, perché solo con la preghiera sono riuscito a sopportare il dolore che i medicinali non mi facevano passare. Ho sempre avuto la sicurezza che con il lavoro che ho fatto, con la mia mentalità, sarei potuto ritornare ad essere un grandissimo atleta.
[...] Cerco di essere cristiano nei limiti che la mia carriera sportiva mi permette. Giriamo tanto per il mondo, ed è difficile trovare sempre una chiesa cristiana, cattolica quando sei in Cina, in Australia o da qualche altra parte nel mondo. Però insomma, nel mio piccolo, cerco di essere un buon cristiano praticando la fede e leggendo il Vangelo”.

Daniele Molmenti, oro nella canoa - Olimpiadi Londra 2012
Fonte: News.va

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Donne che emozionano

Posté par atempodiblog le 11 août 2012

Donne che emozionano dans Sport

Il giorno 14 dei Giochi regala straordinarie imprese di donne, che emozionano con grandi imprese o gare sfortunate, ma che entrano comunque nel cuore degli  spettatori. L’etiope Meseret Defar vince in volata i 5000 metri e poi estrae un’immagine della Madonna, che bacia più volte.

Fonte Gazzetta dello Sport

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Schwarzer da eroe a criminale

Posté par atempodiblog le 9 août 2012

Schwarzer da eroe a criminale
di Isacco Tacconi
Fonte: CampariedeMaistre

Schwarzer da eroe a criminale dans Articoli di Giornali e News

Stiamo assistendo a una vera e propria esecuzione pubblica vecchio stile. Il patibolo è stato approntato, i boia, i media e i giornali hanno già inferto il primo colpo di scure. “Fango sull’Italia; disonore e vergogna; capitolo buio dello sport”, così le televisioni hanno apostrofato questo deplorevole evento, che io definirei nient’altro che un classico esempio di“debolezza umana”, dalla quale non sono esenti nemmeno i campioni olimpici né le stelle dello sport. Stiamo parlando di Alex Schwazer, il giovane altoatesino di 27 anni campione olimpico nei giochi di Pechino nella 50 km di marcia, diventato in poche ore l’emblema della disonestà sportiva a livello internazionale per aver fatto uso di Epo.

Tra lo scuotimento generale di teste, si sprecano i giudizi e le condanne che sanno molto di giustizia sommaria, quella che a noi italiani piace molto elargire a piene mani. Dalle cattedre dei nostri baretti dello sport, i soliti “indignados” non aspettano altro che trovare un capro espiatorio per alienare da sé stessi la debolezza umana che inevitabilmente ci sta attaccata alle calcagna, e che piuttosto farci meditare sui nostri limiti, e magari (la dico grossa) farci provare un briciolo di misericordia, diviene l’ennesima occasione per sentirci migliori del disgraziato di turno. Ora deve pagare! Deve morire! E una tempesta mediatica si sta ora abbattendo con tutta la sua furia su questo poveretto, abbandonato dal CONI, subito allontanato dall’Arma dei Carabinieri, isolato da ogni istituzione, che non si è affatto curata di lui nel momento di bisogno. Dichiara Josef Schwazer, padre di Alex, che «psicologicamente non reggeva più. Si era chiuso in se stesso. Si allenava da solo. Spero di poter rimediare agli errori che ho fatto con lui». «Per Alex – ha aggiunto – oggi non è il giorno più brutto, il peggiore è quello che verrà». Pare proprio che il giovane campione stesse attraversando un momento difficile, provenisse da un anno di depressione, caricato di una fortissima ansia da prestazione, causata dalle immense aspettative che gli erano state gettate sulle spalle. Lo stesso Petrucci nella sua dichiarazione ha detto «era una delle poche speranze della nostra atletica […] Era una delle poche medaglie che potevamo vincere a Londra. Facevamo affidamento su di lui».

Ma la domanda ora è: quale coscienza hanno questi signori e maestri dell’onestà? Come si può fare uno scarica barile di tali dimensioni? Ora tutti gettano la responsabilità su di lui, alzano le mani tirandosene fuori. Oltre alla già grande delusione che questo giovane ha provato per il suo che, non lo mettiamo in dubbio, è stato un errore madornale, e di una certa gravità, non credo sia necessario gonfiarlo più del dovuto. O forse lo si vuole spingere alla disperazione? Come l’allora campione del ciclismo Marco Pantani? Fino a quando era sul podio osannato dalle folle, e incensato dai giornalisti sportivi e cinque minuti dopo schifato come il peggiore degli assassini per un problema di droga, in primis da questi maledetti media, che riescono a velocità interstellare a distruggere non solo la carriera di uno sportivo ma la vita di un uomo che già deve combattere con i propri gravi errori.

Pare infatti che il già citato presidente del CONI, Gianni Petrucci, non sia nuovo a questo tipo di dinamiche. Infatti, dopo l’oro europeo di pattinaggio sul ghiaccio conquistato a Sheffield da Carolina Kostner (casualmente fidanzata di Alex Schwazer), chiamò l’azzurra per farle i complimenti e di fronte al nuovo successo ha voluto scherzare un pò, anche per dimenticare le polemiche dopo i Giochi di Vancouver in cui la Kostner aveva perso la competizione di pattinaggio sotto lo sdegno di tutti e la delusione generale del CONI che “su di lei aveva puntato tutto”. Si cavalca l’onda del successo degli sportivi, ma si è pronti ad abbandonarli in pasto ai leoni se sbagliano e ci fanno fare figuracce. Dov’è l’etica sportiva?

Stessa storia, stessa dinamica, cambia soltanto che l’errore non è stato fatto nella competizione ma fuori dai campi sportivi. Dov’era il Coni e la Fidal prima che intervenisse con un controllo a sorpresa l’agenzia mondiale antidoping? Perché Schwazer non è stato seguito, controllato, assistito come avrebbe dovuto? Come lo ha gestito la federazione, sulla quale, soprattutto negli anni di preparazione alle olimpiadi, il Coni dovrebbe vigilare?

Ed ora Petrucci autoincensandosi, pretenderebbe porsi a modello delle altre federazioni sportive nazionali per come il CONI ha gestito la spiacevole sorpresa? E’ il colmo!

Il mondo è impietoso, non c’è misericordia né redenzione nello sport, o meglio in questa concezione moderna dello sport, in cui viene accantonata l’umanità per costruire un immagine semidivina di un eroe che non può sbagliare, non deve sbagliare: perfino lo sport ha bisogno di essere risanato dalla Misericordia di Dio.

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Doping Schwazer, il racconto di papà Josef: è anche colpa mia
Il Sussidiario.net

“Le responsabilità sono mie, perchè se si vede un figlio, che durante tutto l’anno è stato male, si deve capire e si deve cercare di parlargli”. “L’ultima volta che è partito da qui – ci racconta davanti alla casa di famiglia con una voce rotta dal pianto – era distrutto. Forse l’ha fatto per non deludere gli altri. E’ stata al 100% la prima volta che ha fatto uso di queste sostanze”. “Per fortuna – dice suo padre – ha fatto solo questo. Si è liberato. Così non poteva andare avanti. Spero che adesso possa condurre una vita normale”. Secondo Josef Schwazer, suo figlio “psicologicamente non reggeva più. Si era chiuso in se stesso. Si allenava da solo. Spero di poter rimediare agli errori che ho fatto con lui. Ripeto, la colpa è mia. Nei momenti difficili serve un padre che riesca a stare vicino a un figlio. Per questo chiedo perdono ad Alex. Tireremo avanti”

Per leggere l’articolo completo:  iconarrowti7 OLIMPIADI LONDRA 2012/ Doping Schwazer, il racconto di papà Josef: è anche colpa mia

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Dopo Buffon anche Messi in visita a Medjugorje

Posté par atempodiblog le 25 juillet 2012

Dopo Buffon anche Messi in visita a Medjugorje
Il campione argentino, che ha rinunciato all’amichevole di oggi fra Barcellona e Amburgo per un infortunio muscolare, ha visitato il santuario meta di migliaia di pellegrini cattolici

Dopo Buffon anche Messi in visita a Medjugorje dans Medjugorje

Lionel Messi, il fuoriclasse argentino del Barcellona, è giunto oggi a Medjugorje, la località mariana nel sud della Bosnia-Erzegovina, meta di migliaia di pellegrini cattolici, molti dei quali provenienti anche dall’Italia. Come hanno riferito i media locali, Messi è atterrato con un velivolo privato a Dubrovnik, sulla costa adriatica della Croazia, raggiungendo poi Medjugorie in auto. A causa di un infortunio muscolare, Messi ha rinunciato all’amichevole in programma oggi fra Barcellona e Amburgo, per celebrare i 125 anni del club tedesco. Nei mesi scorsi a Medjugorje si erano recati nel santuario anche il ct del Manchester City, Roberto Mancini, e – poco dopo la fine dell’Europeo di calcio di Polonia e Ucraina – anche il portiere della Nazionale azzurra, Gianluigi Buffon.

Fonte: Corriere dello Sport

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Jeremy Lin, il nuovo fenomeno dell’Nba ha gli occhi a mandorla e un’incrollabile fede in Dio

Posté par atempodiblog le 20 février 2012

Jeremy Lin, il nuovo fenomeno dell’Nba ha gli occhi a mandorla e un’incrollabile fede in Dio
In cinque gare ufficiali ha fatto innamorare i tifosi dei New York Knicks. Era il 4 febbraio quando coach D’Antoni, esasperato dalle sconfitte e dagli infortuni, manda in squadra questo sconosciuto ragazzo cinese, mai entrato in campo. E Lin ricambia la cortesia con 25 punti, 5 rimbalzi e 7 assist.
di Daniele Ciacci – Tempi

Jeremy Lin, il nuovo fenomeno dell'Nba ha gli occhi a mandorla e un'incrollabile fede in Dio dans Sport

« Linsanity » è l’ultima malattia che sta contagiando gli appassionati di basket d’oltreoceano. In particolare a New York, dove la passione per il nuovo beniamino Jeremy Lin sta risollevando il brand dei Knicks, pesantemente in rosso sia sul bilancio che in classifica. La storia del giovane playmaker dagli occhi a mandorla è la realizzazione del sogno americano. Ora, in Cina, se lo contendono tutti. Cai Qi, capo del partito comunista della provincia di Zheijiang, ne rivendica le origini dal paesino di Jiaxing, dove risiedeva la nonna materna di Jeremy. Ma in patria si tace su un piccolo particolare: Lin è cristiano praticante. Un ragazzo che solo ieri era la riserva della riserva della riserva e adesso dice: «È un miracolo di Dio». Ma andiamo con ordine.

Mike D’Antoni, l’allenatore dei New York Knicks, gestisce una squadra che fa pena. Non tanto per gli interpreti, ma perché manca un playmaker, quello che sposta la palla da una lunetta all’altra e illumina i compagni con passaggi smarcanti. Toney Douglas è mediocre, Mike Bibby non si regge sulle gambe, Imam Shumpert è una guardia riciclata a pivot e non funziona. Il coach italo-americano rispolvera Baron Davis sperando in un suo exploit da vecchio campione, ma lo blocca il colpo della strega. Non ne entra una giusta. Per disperazione lo scorso 4 febbraio contro i New Jersey Nets è costretto a far giocare un giovane chink – così vengono chiamati gli asiatici in America, con un tantino di spocchia – fresco di partitelle in terza divisione. Il « giovanotto » di un metro e 91 centimetri è Jeremy Lin. Nato a Palo Alto ventitré anni fa da madre cinese e padre taiwanese, entrambi alti 1 metro e 68 centimetri. L’altezza viene tutta dal bisnonno paterno. Ma non è solo quello il suo lascito. L’avo Chen Weiji fu il primo cristiano della stirpe dei Lin. Convertito da missionari protestanti americani nei primi del 900, educa i figli a una religione lontana ma affascinante. Tanto che negli anni ’40 la nonna di Jeremy, per fuggire dalla persecuzione comunista, sbarca a Taiwan, dove i genitori di Lin si incontrano. Da lì la coppia parte per gli Usa per scappare dai conflitti tra l’isola e la terraferma cinese.

Jeremy cresce in California. Il padre lo inizia alla pallacanestro portandolo sul parquet della Young Men’s Christian Association di Palo Alto. Lo sport gli piace, così decide di giocarsi una chance importante in qualche college che disponibile a dare sussidi agli atleti. Ma nessuno vuole un asiatico: la figura di Yao Ming – celebre cestista di 2 metri e 26 – pesa come un macigno. Se poteva venire qualcosa di buono dalla Cina, era già successo. Lin viene accettato ad Harvard che, pur essendo un’università di pregio della Ivy League, a livello sportivo vale pochissimo. Dopo la laurea in Economia finisce nei Golden State Warrios, per cui tifava da ragazzino, ma gioca pochi minuti, finendo spesso nelle squadre minori della società per farsi le ossa. Poi, complici gli infortuni della squadra di D’Antoni, sbarca senza contratto tra le fila dei Knicks.

E torniamo al 4 febbraio, quando un illuminato Mike D’Antoni lo fa entrare in campo. Lui lo ripaga con 25 punti, 5 rimbalzi e 7 assist, riportando i Knicks alla vittoria e salvando il posto al coach. Lo squattrinato panchinaro, che dormiva a casa del fratello – futuro dentista – su un divano sfondato, diventa una star. È l’inizio di una serie di sei vittorie dei Knicks. Il record personale di Lin è contro i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant che, prima della sfida, fa la voce grossa: «Chi cazzo è ‘sto ragazzo? Butta dentro triple su triple? Ha una media di 28.8 punti a partita come me? No!». E la Linderella (da « Cinderella », Cenerentola del basketball) lo punisce segnando 38 punti. Ma è la partita contro i Toronto Raptors che consacra la leggenda. Guarda caso, un tiro da fuori area di Lin regala ai Knicks l’ennesima vittoria – 90 a 87 –  e un record assoluto. Jeremy Lin è il giocatore che ha segnato di più nelle prime 5 partite da titolare. E adesso, lo aspetta lo All Star Game di Orlando. D’Antoni ringrazia con una frase a effetto: «È stata una fortuna iniziare la stagione così male. Grazie Lin».

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Gioco e vita

Posté par atempodiblog le 21 juillet 2010

Gioco e vita, di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI
da Cercate le cose di lassù, Paoline 1986
Fonte: Tracce

Gioco e vita dans Fede, morale e teologia Immobile

Regolarmente ogni quattro anni il campionato mondiale di calcio si dimostra un evento che affascina centinaia di milioni di persone. Nessun altro avvenimento sulla terra può avere un effetto altrettanto vasto, il che dimostra che questa manifestazione sportiva tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità e viene da chiedersi su cosa si fondi tutto questo potere di un gioco. Il pessimista dirà che è come nell’antica Roma. La parola d’ordine della massa era: panem et circenses, pane e circo. Il pane e il gioco sarebbero dunque i contenuti vitali di una società decadente che non ha altri obiettivi più elevati. Ma se anche si accettasse questa spiegazione, essa non sarebbe assolutamente sufficiente. Ci si dovrebbe chiedere ancora: in cosa risiede il fascino di un gioco che assume la stessa importanza del pane? Si potrebbe rispondere, facendo ancora riferimento alla Roma antica, che la richiesta di pane e gioco era in realtà l’espressione del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata. Perché è questo che s’intende in ultima analisi con il gioco: un’azione completamente libera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impiega e occupa tutte le forze dell’uomo. In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello.

Così il gioco va oltre la vita quotidiana. Ma, soprattutto nel bambino, ha anche il carattere di esercitazione alla vita. Simboleggia la vita stessa e la anticipa, per così dire, in una maniera liberamente strutturata. A me sembra che il fascino del calcio stia essenzialmente nel fatto che esso collega questi due aspetti in una forma molto convincente. Costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere con l’allenamento, la padronanza di sé; con la padronanza, la superiorità e con la superiorità, la libertà. Inoltre gli insegna soprattutto un disciplinato affiatamento: in quanto gioco di squadra costringe all’inserimento del singolo nella squadra. Unisce i giocatori con un obiettivo comune; il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto. Inoltre, insegna una leale rivalità, dove la regola comune, cui ci si assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione.

Infine, la libertà del gioco, se questo si svolge correttamente, annulla la serietà della rivalità. Assistendovi, gli uomini si identificano con il gioco e con i giocatori, e partecipano quindi personalmente all’affiatamento e alla rivalità, alla serietà e alla libertà: i giocatori diventano un simbolo della propria vita; il che si ripercuote a sua volta su di loro: essi sanno che gli uomini rappresentano in loro se stessi e si sentono confermati. Naturalmente tutto ciò può essere inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il gioco da gioco a industria, e crea un mondo fittizio di dimensioni spaventose. Ma neppure questo mondo fittizio potrebbe esistere senza l’aspetto positivo che è alla base del gioco: l’esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del paradiso perduto.
In entrambi i casi si tratta però di cercare una disciplina della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, la rivalità e l’intesa nell’obbedienza alla regola. Forse, riflettendo su queste cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina, che insegna l’affiatamento e la rivalità leale, l’indipendenza del successo esteriore e dell’arbitrio, e diviene appunto, così, veramente libera. Il gioco, una vita. Se andiamo in profondità, il fenomeno di un mondo appassionato di calcio può darci di più che un po’ di divertimento.

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Roberto Baggio

Posté par atempodiblog le 21 septembre 2009

Roberto Baggio dans Sport baggioz

Il 21 settembre 1989, esattamente 20 anni fa, Gianni Brera scrisse su La Repubblica:

BAGGIO 7,5: mi ricorda Peppin Meazza: non credo si possa fare elogio più alto di un giovane attaccante al giorno d’ oggi! Ha segnato due gol ed ha inventato tre palle-gol per i compagni (due trasformate e una sballata da Baresi).

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Qualche giorno prima di quel match tra Italia e Bulgaria (4-0 per gli azzurri), il 17 settembre, l’ex Pallone d’oro realizzò un gran goal (con la maglia della Fiorentina) al Napoli.Image de prévisualisation YouTube

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Zoff e vent’anni senza Scirea

Posté par atempodiblog le 9 septembre 2009

Zoff e vent’anni senza Scirea
“Mi manca il suo silenzio”

Il 3 settembre 1989 un incidente stradale tolse la vita a uno dei più grandi difensori di tutti i tempo. Il ricordo dell’amico e compagno di squadra alla Juve e in nazionale: “Quell’inutile viaggio in Polonia
di MAURIZIO CROSETTI – la Repubblica.it

Zoff e vent’anni senza Scirea dans Sport scirea
Scirea con Zoff e Trapattoni

TORINO - Zoff, sono già vent’anni.”Tornavamo da Verona in pullman, la Juve aveva vinto 4-1, il casellante disse che era successo qualcosa a Scirea, io risposi è impossibile, a quest’ora sarà già a casa che dorme”.

Invece era morto su una strada polacca.
“Allenavo la Juve, Gaetano era il mio vice. Era andato a vedere i nostri avversari di Coppa, lui non era convinto che fosse necessario, nemmeno io lo ero, ma Boniperti aveva insistito ed era giusto così. Il destino è invisibile”.

Chi era Gaetano Scirea? Cos’era?
“Un uomo. Era il suo stile. Non la forma, lo stile. Era serenità, chiarezza e pulizia. Era convincente anche quando si arrabbiava così di rado, non perdeva mai il controllo. Una persona sempre misurata e tranquilla. Diceva solo cose autentiche, ponderate”.

Ricorda quando lo conobbe?
“Arrivava dall’Atalanta, un ragazzone taciturno, buonissimo. All’inizio mi sembrava troppo perfetto per essere vero: a volte i timidi appaiono meglio di quello che sono, vale anche per me. Invece era così sincero e puro, senza sovrastrutture. Aveva il pudore delle parole, così raro sempre e di più adesso, in mezzo a questo boato”.

In campo, inarrivabile.
“Perché era sempre lui, era la sua continuazione. Dicono che in partita ti trasformi: fesserie, in partita sei tu e basta. E conta l’istinto, lì non esiste il freno dell’intelligenza, viene fuori il profondo. E il profondo di Scirea era Scirea”.
Mai un’espulsione, eppure giocava in difesa.
“Gli bastavano la classe e la pulizia del gioco. Mai visto uno così elegante, con la testa così alta. E la purezza del tocco era purezza morale. Questi sono uomini importanti, che magari non segnano un’epoca perché non gridano. Ma quanta ricchezza”.

Eravate sempre insieme: chissà che silenzi.
“Invece parlavamo tanto, anche se per capirci non c’era bisogno di dire cose. Ci assomigliavamo, però lui era incomparabilmente migliore di me: io non sono così buono, né accomodante. Dividevamo la stanza d’albergo nella Juve e in nazionale, leggevamo, giocavamo a carte, robe semplici. Tra noi c’era una goliardia da ragazzini. Gaetano non era un musone, amava gli scherzi, ci stava, anche se era così delicato”.

Come visse il tumultuoso mundial ’82?
“La nostra camera la chiamavano “la Svizzera”, era stato Tardelli a inventare il nome perché cercava rifugio da noi nelle sue notti insonni”.

Gaetano voleva fare l’allenatore: ci sarebbe riuscito?
“Sì, perché era intelligente e convincente. In campo, un leader senza bisogno di urlare e sapeva farsi seguire. Aveva carattere, si era diplomato alle magistrali giocando e studiando anche di notte. Al calcio italiano è molto mancato uno come lui: forse, per carattere non avrebbe avuto troppe prime pagine ma non sarebbe cambiato, non l’avrebbero mai cambiato. Neppure in questo ambiente, dove fa notizia solo il rumore”.

Cosa accadde, dopo la vittoria di Madrid?
“Ero rimasto allo stadio più degli altri per le interviste e tornai in albergo non con le guardie del corpo, come succede oggi, ma sul furgoncino del magazziniere. Gaetano mi aspettava. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all’ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti”.

Cosa ricorda della sera in cui morì?
“Rientrando da Verona, eravamo andati a cena dalle parti di Ponte sull’Oglio. I cellulari non esistevano. Arrivati a Torino, il casellante ci disse quella cosa, non volevo crederci. Il pullman raggiunse lo stadio, dove avevamo lasciato le auto. Era pieno di giornalisti. Diedi un calcio fortissimo alla fiancata”.

Dino Zoff, lei pensa spesso al suo amico?
“Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L’esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio”.

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5 luglio 1984, Napoli abbraccia Maradona

Posté par atempodiblog le 5 juillet 2009

 5 luglio 1984, Napoli abbraccia Maradona dans Sport diego

« Buona sera Napoli » cosi 25 anni fa Diego Armando Maradona salutò gli oltre 60.000 tifosi azzurri accorsi al San Paolo in un pomeriggio di caldo afoso per assistere alla presentazione di quello che nei successivi 7 anni vissuti con la maglia del Napoli è diventò l’idolo indiscusso del Napoli e della città. Il Club azzurro dell’era Maradona ha vinto 2 scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana. Oggi a distanza di 25 anni i tifosi del Napoli vivono ancora con il ricordo di quei giorni e con la speranza che prima o poi la squadra possa tornare ai fasti di quell’epoca.

Fonte: Redazione NapoliSoccer.NET

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Barça sul tetto d’Europa

Posté par atempodiblog le 27 mai 2009

Barça sul tetto d'Europa dans Sport messis
Immagine: Afp – Gazzetta.it

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Il Torino della memoria

Posté par atempodiblog le 4 mai 2009

Superga, 4 maggio 1949. L’inspiegabile sopravvivenza di una squadra morta troppe volte per morire davvero

 

Ross come ’l sangh/ fòrt come ’l Barbera/ veuj ricordete adess, me grand Turin. […] T’has vinciù ’l mond/ a vint ani ’t ses mòrt./ Me Turin grand/ me Turin fòrt. (Rosso come il sangue, forte come il Barbera, voglio ricordarti adesso, mio grande Torino. Hai vinto il mondo, a vent’anni sei morto. Mio Torino grande, mio Torino forte). Giovanni Arpino, “Me grand Turin”.
Il Torino della memoria dans Articoli di Giornali e News grandetorino
Sessant’anni sono troppi
per permettersi il lusso della nostalgia. Sessant’anni sono troppo pochi perché la storia possa relegarli a qualche pagina iniziale dei manuali del calcio o a un riquadro con la dicitura “accadde oggi”. Sessant’anni sono tutto, per il paese che li amava, per la città che non li ha dimenticati. Eppure sessant’anni sono niente per chi non li ha mai visti vivi.

 

Sotto la pioggia di un pomeriggio del 1949 la squadra più forte del mondo abbandonò la scena della sua storia ed entrò di schianto nella sua eternità. Erano le 17.03 del 4 maggio, quando la torre di controllo dell’aeroporto di Torino cominciò a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava: il pilota dell’aereo che riportava a casa i giocatori del Torino non rispondeva più alla radio. Le nubi basse, inconsuete per la stagione, addormentavano la città da qualche ora, quando si udì l’esplosione. L’impatto avvenne alla base del muro posteriore della basilica di Superga, sulla collina da cui la Madonna guarda i torinesi. Il boato fu tremendo, le fiamme immediate. In un istante impercettibile ed eterno, il destino si portò via tutti i giocatori del Grande Torino. Loro, che non avrebbero dovuto andarsene via mai. Loro, che forse se ne andarono al momento giusto, giovani come gli eroi cari agli dei. Avevano appena messo al sicuro il loro quinto scudetto consecutivo, pareggiando 0-0 a Milano contro l’Inter, e il presidente Ferruccio Novo aveva permesso loro di andare a giocare una partita di beneficenza in Portogallo, per festeggiare l’addio al calcio di Ferreira, capitano del Benfica. Per un’ironia della sorte tutta granata, il Torino aveva perso 3-2 quell’ultima, insignificante partita. Dopo aver vinto tutto. “Arriviamo” avevano detto per telefono a mogli e fidanzate prima di partire. “Addio”, avrebbero risposto in lacrime loro il giorno dopo. La moglie di Gabetto, l’attaccante famoso per le sue rovesciate e la brillantina in testa, era stata la prima a saperlo. Dopo il botto a Superga aveva telefonato all’aeroporto. “Dove sono?”, aveva sussurrato all’apparecchio. “Sono morti tutti”, aveva risposto un filo di voce dall’altra parte. Con loro tutto l’equipaggio, alcuni dirigenti e tre giornalisti, Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, e Luigi Cavallero.

L’abbraccio, commosso e piemontese nei modi, glielo diedero in seicentomila pochi giorni dopo, ai funerali di stato. A riconoscere i corpi, carbonizzati e sfigurati, era stato Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale italiana, ma eminenza grigia del presidente Novo nella costruzione di quella squadra che, insieme con Coppi e Bartali nel ciclismo, aveva ridato speranza a un paese intero dopo la devastazione della guerra, mondiale e civile. Perché così come le due ruote, il pallone giocato dalle maglie granata del Grande Torino, faceva sognare gli italiani. Tutti tifavano quei colori, comunque simpatizzavano per essi, tutti sapevano a memoria la filastrocca, Bacigalupo – Ballarin – Maroso – Grezar – Rigamonti – Castigliano – Menti – Loik – Gabetto – Mazzola – Ossola. Anche chi il calcio mai lo aveva seguito. Chi li ha visti dal vivo e oggi lo racconta dice di una squadra senza individualità spaventose, senza fenomeni, ma che era un blocco unico, insormontabile. Capace di non perdere una partita in casa per quattro anni di fila, capace di vincere uno scudetto con sedici punti di vantaggio sulla seconda segnando 125 gol, capace di vincere partite anche 10-0 (ad Alessandria, quando il granata Grezar segnò un gol stoppando di petto un rinvio del portiere avversario, Diamante, e ricalciando in porta al volo, da centrocampo), capace di essere “l’evento” da andare a vedere, l’esempio da imitare.

Chi muore giovane in modo tragico diventa Grande per forza, eppure loro erano Grandi già in vita, come se un Omero moderno ne avesse già tracciato il destino, drammatico e poetico insieme, prima che lo facessero le nubi basse su Torino quel 4 maggio del 1949. “Era un calcio diverso – racconta Franco Ossola – figlio dell’ala destra di quel Torino, nato pochi mesi dopo lo schianto, una vita passata a cercare e raccontare le gesta del padre mai incontrato e dei suoi compagni – ma ciò che faceva grandi quegli uomini era, oltre allo strapotere tecnico e fisico, la loro forza morale: in un momento di crisi di identità come quello del Dopoguerra fu un coagulo importantissimo per gli italiani. Rappresentavano una serie di valori che il popolo aveva come dimenticato, perso per strada: la dignità, l’onore, la fierezza. La gente si riconosceva nei suoi campioni, che erano persone normali: li incontravi per strada, al bar, alcuni di loro avevano dei negozi in centro dove lavoravano”.

Il racconto del Grande Torino non è però il rimpianto per un mondo che non c’è più, o il pugno chiuso contro il cielo plumbeo che ha portato via gli eroi, neppure una nostalgia pelosa per un passato che non può tornare. Non può essere così perché quel passato non se n’è mai andato. “Quando chiedo a chiunque che cosa facesse quel pomeriggio del 4 maggio – continua Ossola – non ce n’è uno che non lo ricordi nitidamente”. Oggi però, forse, una tragedia del genere non sarebbe sentita in quel modo, non ne nascerebbe una leggenda come per quella squadra. “Di sicuro no – dice Giampaolo Ormezzano, storico giornalista sportivo e tifoso del Torino – ci sarebbe subito qualcuno pronto a tirare fuori qualche gossip, qualche porcata fatta da questo o quel calciatore”. Forse è questo che dà “fastidio” del Grande Torino, continua: “Erano troppo puri – sorride – Tutto ciò che non c’era di ‘giusto’ è stato cancellato da quella morte epica, quasi omerica. Quella squadra è diventata un simbolo di perfezione. Invece erano persone come tutti, un undici che magari oggi non vincerebbe nemmeno lo scudetto”. Ma allora li vinceva. “Era una forza terrena, operaia, molto piemontese – prosegue Ormezzano – messi insieme in modo geniale dal presidente Ferruccio Novo”.

Nessuno come il Grande Torino, però, aveva il senso costante dell’utilità, il senso della squadra; e della rappresentanza: Coppi e Bartali erano l’Italia che vinceva il Tour, loro erano l’Italia. Anche nel vero senso della parola: arrivarono a indossare la maglia azzurra dieci giocatori su undici, una volta. Era contro l’Ungheria. Vittoria per 3-2. L’unico intruso, il portiere: Sentimenti IV, estremo difensore della Juventus. Bacigalupo, il portiere granata, era ancora troppo giovane ma, come si dice oggi, “già nel giro”. Cercando tra i resti dell’aereo, in mezzo alle lamiere fuse e alle scarpe sparse sulla collina, trovarono il portafogli di “Baciga”. Dentro, ben custodita, una foto col “nemico” bianconero. Non è un caso che l’unica maglia di club presente al museo del calcio di Coverciano, tra le decine di casacche azzurre, è quella granata con il 10 di Valentino Mazzola, il capitano. Lui, poi, era un discorso a parte. Quando decideva che non ce n’era più per nessuno, non ce n’era più per nessuno. Se il Toro era sotto, anche di due o tre gol, a un certo punto si tirava su le maniche. Dagli spalti, in mezzo alla folla, Bolmida suonava la carica con la sua tromba. In un quarto d’ora il risultato era ribaltato. Il 30 maggio del 1948, per esempio, la Lazio conduceva per 3-0. In pochi minuti fu 4-3. Il famoso quarto d’ora granata.

Il loro stadio, poi. Al Filadelfia, così si chiamava, la recinzione era a un metro dal terreno di gioco, e quel grido “Toro! Toro!” risuonava nelle orecchie per novanta minuti. La fossa dei leoni, la chiamavano. In quel campo, quando poi negli anni ci si spostò a giocare al Comunale, il Torino ha cresciuto generazioni di ragazzi, uomini e calciatori. Facendo loro respirare quell’aria, facendo toccare quegli spogliatoi. “Al Filadelfia c’erano muri che sembravano persone, e persone che erano come muri”, dirà anni dopo Walter Novellino, cresciuto nel vivaio e andato a far fortuna altrove. Alberto Manassero, che di Torino scrive su Tuttosport da dieci anni, conosce tanti giocatori passati dal “Fila”, e dice che “per molti di loro è bastato crescere lì per innamorarsi di quella maglia”. Magari non hanno mai giocato in prima squadra, come Giancarlo Camolese, l’attuale allenatore del Torino che ha giocato solo in Coppa Italia, o sono andati a vincere tutto con altri colori (è il caso, tra i tanti, di Diego Fuser), ma il granata ce l’hanno dentro, addosso. Poi, da un giorno all’altro, il Filadelfia non c’è stato più. In una città dove le Belle arti non fanno toccare nemmeno i marciapiedi, si è misteriosamente trovato il permesso per abbattere quel testimone imponente e silenzioso della gloria del Grande Torino. “Per ricostruirlo subito”, promisero allora politici e dirigenti. Son passati dodici anni, e se non fosse per l’amore dei tifosi, anche le poche pietre rimaste in piedi sarebbero soffocate dalle erbacce. E mentre in pochi giorni si trovano i soldi per rifare lo stadio alla Juventus, l’amministrazione (del tifoso Sergio Chiamparino) continua a trovare ostacoli burocratici per impedire che si ricostruisca almeno un campo d’allenamento. Ci sono luoghi, nella storia delle persone, senza i quali uno non è più lo stesso. Se distruggi la memoria di un uomo, hai distrutto l’uomo. Per il Torino il Filadelfia è la stessa cosa. In troppi hanno capito che su quel tasto ci si fa pubblicità gratis e si vincono elezioni. Come un mantra, ciclicamente esce fuori qualcuno con un progetto pronto, una cordata già all’opera, un sogno da realizzare. Sistematicamente non succede nulla.

Ma il tifoso del Toro è morto troppe volte per morire davvero, è diventato troppo cinico per esserlo sul serio. Ha imparato che il calcio è una cosa seria, perché c’entra con la vita, dato che c’entra con la morte; e come ogni 4 maggio, anche quest’anno un popolo intero sarà lì, su quel campo, e a Superga, a ricordare perché quando si parla della prima squadra di Torino non si parla solo di calcio. C’è una storia, un’appartenenza strana dietro, inspiegabile a chi non si inerpica su per la collina del disastro e non va a visitare quella lapide, i nomi incisi sopra che nessun brutto tempo cancellerà. Quei nomi sono incisi sulle ossa di ogni torinista, e di ogni torinese che quel pomeriggio di sessant’anni fa c’era. Quando si parla del Grande Torino non c’è sfottò che tenga. E’ poesia, quella, epica, trionfo e tragedia. Mica solo calcio. Ogni tifoso del Torino ha visto giocare il Grande Torino. Anche se non era ancora nato. Sembra insensato, ma è così. Non è un rimpianto, il commemorare gli eroi di Superga, perché non puoi rimpiangere ciò che non hai visto. E’ l’orgogliosa coscienza di appartenere a una storia che nessuna Champions League potrà eguagliare, mai. Sessant’anni sono troppi per vivere solo di un’idea.

Sessant’anni sono troppo pochi perché tutti i disastri (societari e non) che da quel 4 maggio hanno attraversato la storia del Torino potessero uccidere quel popolo. Forse il Toro non c’è più. Forse il fallimento di tre ani fa e quello che ne è venuto dopo hanno come narcotizzato una storia unica nel mondo (nessuna squadra di calcio ha così tanti libri, film e documentari dedicati), certo il “calcio moderno”, in cui il tifoso granata si trova a proprio agio come un pallone sgonfio in cima a un albero, vorrebbe normalizzare la leggenda. Eppure ogni 4 maggio sono migliaia le persone che salgono su alla basilica, che prendono messa insieme ai giocatori e ai vecchi campioni, che portano un fiore o una preghiera agli Invincibili. Arrivati sul piazzale di Superga, quello che guarda Torino, è normale fare il giro, andare a vedere dove tutto è incominciato. Se uno chiude gli occhi, sente l’acqua sui vestiti, la nebbia nei polmoni; poi, alle spalle, il rombo imponente e fatale. Di colpo è schianto, crollo, fuoco, motori. Poi silenzio. Solo pioggia a rimbalzare sul metallo piegato. La domenica successiva, in campo scesero i ragazzi delle giovanili, i volti rigati di lacrime. Dagli spalti, la tromba di Bolmida e quel coro: “Toro! Toro!”, che continua ancora oggi. Non sono scomparsi, i Campioni. Sono andati a vincere tutto da un’altra parte. Per sempre.

di Piero Vietti – IL FOGLIO.it

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Lo stadio? Se lo conosci, lo eviti.

Posté par atempodiblog le 20 avril 2009

Lo stadio? Se lo conosci, lo eviti.
di Gigi Garanzini

Da anni non metto piede in uno stadio. Da una serata a San Siro in cui l’accoglienza della curva interista alla coppia Totti-Cassano fu tale che ad un certo punto semplicemente me ne andai. Sarei felice di sapere che qualcuno l’altra sera a Torino ha fatto altrettanto. Mica per altro: per rispetto di se stessi, per non dover condividere lo stesso spazio, lo stesso ambiente, lo stesso (presunto) spettacolo con gente ripugnante.
Quello che lo stadio Olimpico – a proposito – ha vomitato addosso a Balotelli va al di là di qualsiasi dialettica tifoidea. Che quello provoca, che gli schiaffi se li tira, che il ratto di Ibra, che lo scudetto di cartone, che ne abbiamo 29, che sapete solo rubare. Normale dialettica tifoidea, per l’appunto, non più becera di quella coltivata ormai in ogni angolo del paese. Ma è andata talmente al di là sabato sera, la curva juventina ( e non solo la curva), che a qualcuno è persino tornata in mente una regola, codificata dall’Uefa, che prevede in casi di particolare aberrazione la pura e semplice sospensione della partita.
La Juve si è scusata, per iscritto. Un bel passo avanti rispetto a un anno fa, quando scriveva in Fgci per denunciare una congiura arbitrale. Anche un bel gesto, si capisce, forse ancor più apprezzabile fosse arrivato a caldo, di getto: non quando si è cominciato a parlare di squalifica del campo.
Ma sono dettagli. Quello che conta è la prevenzione: E il mio slogan, dopo mezzo secolo di calcio gustato dal vivo, è diventato: se li conosci (gli stadi, e i loro frequentatori) li eviti.

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Mino Favini

Posté par atempodiblog le 16 avril 2009

Per molti calciatori è lui il vero “special one”. Quarant’anni passati a sfornare campioni che sono innanzitutto uomini. Vita e pensiero di un mister che i talenti non li scopre, li educa
di Enzo Manes – Tempi

Il responsabile delle giovanili dell’Atalanta che ha riempito l’Italia dei suoi allievi. Prandelli, Borgonovo e Zambrotta, per esempio

Mino Favini dans Sport favini

«Ho iniziato al settore giovanile del Como nel ’68. Proprio nell’anno che si voleva rovesciare il mondo, che si voleva buttare via l’autorità, i genitori, tutto. Invece io mi sono messo a tirare su ragazzi scommettendo sull’importanza dell’educazione nel calcio. Ma allora mica lo sapevo che ci avrei speso la vita in quel lavoro lì». Mino Favini, classe 1935, è uno “special one” che non viene da Setúbal. L’ha chiamato apposta così Cesare Prandelli, che ora fa il mister a Firenze ma si è forgiato sulla panchina delle giovanili bergamasche. Brianzolo di Meda, solido e vivo come il legno che viene piallato dalle sue parti per diventare mobile invidiato, Favini, dopo vent’anni trascorsi in riva al Lario, ne ha passati ormai altrettanti a seminare con la stessa soddisfazione all’Atalanta. Nella sua testa un chiodo fisso dove sta appeso un quadro che raffigura una grande passione legata alla disciplina sportiva: «La riuscita calcistica e della persona devono andare di pari passo. Bisogna tenerci ai ragazzi, preoccuparsi della loro maturazione in un rapporto serio e di fiducia. Perché si sa che non tutti ce la fanno a diventare calciatori professionisti, ma tutti devono farcela a diventare uomini. Se non succede così, per me è una sconfitta».
L’ufficio di Favini è nel cuore del Centro Bortolotti, quartier generale dell’Atalanta bergamasca calcio in quel di Verdellino, territorio tipico della Bassa orobica. Sulla scrivania l’immancabile quotidiano sportivo e fogli a go-go zeppi di geroglifici che solo lui riesce a interpretare. Alle spalle e sulle pareti tracce di memoria tra trofei e fotografie incorniciate come meritano. «Le coppe sono importanti, certo, però quando alzo gli occhi e vedo davanti a me le foto delle mie squadre, bè, è un piacere straordinario», dice a Tempi un signore che fa ancora i suoi bei chilometri («perché continuo a vivere nella mia Meda con mia moglie che ho conosciuto quando giocavo a Brescia. Sua sorella ha sposato Eugenio Bersellini, grande allenatore») e che lavora sette giorni su sette («il sabato e la domenica sempre, magari mi prendo una pausa solo il lunedì pomeriggio. Sa, qui ci sono tante cose da fare, tanti ragazzi da seguire con affetto»). Il settore giovanile dell’Atalanta viene innervato ogni anno di 2 milioni e 800 mila euro. Comprende undici squadre, dalla scuola calcio per i pulcini fino alla Primavera, cioè all’anticamera della squadra dei vari Doni, Cigarini, Ferreira Pinto e Floccari. In tutto fanno 230 ragazzi, un plotone di calciatori che desidera arrivare lontano, molto lontano. Tutti i santi giorni 12 pulmini della società vanno a prenderli e li riportano nei loro paesi. «Per quelli che vengono da altre regioni, ovvero una ventina di ragazzi, abbiamo creato “La casa del giovane”, quello che io chiamo un paese all’interno della città di Bergamo. In sintonia con le famiglie li seguiamo passo per passo e prima di tutto nel loro cammino scolastico. Di là ho le pagelle del primo quadrimestre insieme alle schede aggiornate con tutti i voti».
Non mancano gli 8 in campionato e i 4 in matematica, «ma ci sono pure medie eccellenti sia in campo e sia sui banchi», spiega il supermister. «Quelli che vanno male a scuola provano a dirci che “con lo studio ho chiuso”. Noi che non intendiamo lasciarli da soli di fronte alle prime difficoltà che incontrano li sosteniamo e spesso questa attenzione veramente personale li fa ricredere. Poi è chiaro che ci sono ragazzi che non riescono proprio nello studio. In quel caso, se sono giocatori interessanti, non è che li mandiamo via, però diciamo loro con chiarezza che il pezzo di carta è sempre il pezzo di carta».
Anche Mino Favini è stato un ragazzo, un piccolo calciatore che sarebbe diventato poi un professionista in serie B e anche per tre anni in A con i colori nerazzurri dell’Atalanta. Ed è stato uno studente che al quarto anno di ragioneria è uscito bocciato a giugno. «Sono andato dai miei genitori e ho spiegato loro che non volevo più andare a scuola ma trovarmi un lavoro e giocare a pallone. Al momento non mi hanno risposto. Il mattino successivo ho trovato davanti alle scale la borsa del calcio con mia mamma che mi diceva: “Oggi vengo anch’io per dire al tuo allenatore che smetti col calcio perché non vuoi più studiare”. Naturalmente ho continuato a giocare e l’anno successivo ho preso il diploma di ragioniere». I genitori sono un cruccio per Mino Favini. Perché vedono nei loro figli solo il Maradona della Val Brembana, lo Zidane della Val Seriana, il Kakà di Bergamo alta, tanto per dire l’assurdo. «Gli montano la testa a quei poveri figlioli. Poi è dura per noi ridare alle cose il loro giusto valore. Di tornare con i piedi per terra spesso i ragazzi non ne vogliono sapere. E così si comportano male, con i compagni, con l’allenatore, con i responsabili».

Il coraggio di Stefano
Mister Favini racconta di quella volta che non ha fatto andare un suo giocatore nella nazionale under 17. La madre, anziché sostenere la sua decisione, gli ha urlato a brutto muso che lui doveva occuparsi solo del calciatore e basta. «Così mi sono trovato contro, oltre che il ragazzo, pure la famiglia. Dal punto di vista educativo così non va. Dentro un rapporto dobbiamo comunque far valere delle regole di comportamento, altrimenti è un disastro». E quanto lo infastidiscono quei papà e quelle mamme che strepitano dalle gradinate durante le partite, che in fondo non sono la finale di Champions League. «Bisogna tapparsi le orecchie per non sentirli. Sono degli assatanati, dei professionisti della maleducazione. Il guaio è che i ragazzi che giocano sentono tutto e di tutto. Il mio consiglio? Cari genitori, se non ce la fate a contenervi statevene a casa che è meglio e soprattutto è più sano per i vostri figlioli. Ma questo è un invito che cade spesso nel vuoto». Lui, il Favini, ha escogitato il sistema perfetto per mettersi al riparo dalla pratica dello strillo sguaiato. Quando le squadre giovanili giocano in casa le osserva da dietro una finestra della palestrina che si colloca a pochi metri dal campo di gioco. Lì non lo disturba proprio nessuno. E può osservare bene e magari capire se in campo può sbocciare un nuovo talento, un giocatore per la serie A.
Quanti ne ha lanciati questo giovanotto di 73 anni. A Como un tale Zambrotta, campione del mondo. E un tale Stefano Borgonovo. «Lo sa che dal Seregno doveva finire al Milan? Invece suo papà mi disse che preferiva mandarlo al Como perché si sarebbe allenato sui campi di Orsenigo, un paese molto più vicino a casa sua. Ogni tanto vado a trovarlo lo Stefano. Sono contento che sia riuscito a superare l’ostacolo, la tentazione di chiudersi del tutto agli altri. Ha avuto un coraggio incredibile. Ed ha una famiglia d’oro». Quanti campioni ha lanciato Favini a Bergamo. Basta guardare all’under 21, dove in porta c’è un certo Consigli, di formazione calcistica bergamasca. E alla nazionale di Lippi. «Montolivo, Pazzini, Motta: grandi giocatori e ragazzi a posto, educati, che non mi hanno mai creato alcun problema. Mi chiamano spesso. Mi raccontano. Mi trattano come se il tempo non fosse mai passato. E io sono contento che sia andata così».

Procuratori troppo famelici
Non vuole saperne di procuratori e di società che saccheggiano ragazzini sventolando profumati assegni anche di 80 mila euro. «Non è possibile quel continuo viavai di personaggi che hanno in mente solo il denaro. Non voglio generalizzare, però la categoria è abitata da molti individui col pelo sullo stomaco. Di recente ben cinque procuratori si sono presentati a casa di un ragazzetto di 13 anni prospettandogli chissà quale mecca del calcio. E purtroppo non sempre i genitori riescono a comprendere la gravità di quelle avance, il terribile inganno umano». E ricorda di tre “furti” clamorosi sopportati dalla sua Atalanta. Samuele Dalla Bona, finito al Chelsea ad appena 16 anni; tre anni fa il portiere Vito Mannone, adesso all’Arsenal, dove fa il terzo portiere; e due anni orsono Marco Sala, un ragazzo del ’91, sempre alla corte dei Gunners. «Non è giusto che una società che investe sul settore giovanile veda scappare alcuni suoi gioielli prima che possano essere messi a regolare contratto. Con Dalla Bona, che è stato il primo della lista, mi sono arrabbiato moltissimo. Poi abbiamo fatto pace, mi ha detto che avevo ragione io, che quel passaggio era stato davvero prematuro».
Sono le 15 è il tempo del campo. Oggi è in programma una gara di campionato fra gli allievi regionali di Atalanta e Como, il passato e il presente di Mino Favini. Il terreno è tirato a lucido. Lui, il responsabile del settore giovanile, sparisce di colpo prima che l’arbitro fischi l’inizio. Ne scorgiamo la visiera del cappello che sbuca da una finestra sottolineata da sbarre amichevoli. Se ne starà lì per tutta la gara. Dove, chissà, avrà forse inquadrato qualche talento in nuce. Qualche campioncino in erba da sfornare a tempo debito. Sfornare, già. Un verbo che al Favini è familiare. Dal sapore antico, dal profumo genuino. «I miei avevano una panetteria a Meda, in via Cristoforo Colombo. Anch’io in bottega ho imparato a fare il pane. La mia michetta poi era qualcosa di invidiabile. Semplice e buona». Una michetta ben cotta. Educata.

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Ciao direttore!

Posté par atempodiblog le 22 février 2009

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