Pochi lo sanno, ma la Chiesa ha contribuito a rendere grande il basket americano. Ecco perché
Posté par atempodiblog le 1 avril 2014

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Posté par atempodiblog le 1 avril 2014
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Posté par atempodiblog le 18 mars 2014
Napoli, striscione in onore del Grande Torino
Fonte: Calcio News 24
Ieri a Torino è arrivato il Napoli in trasferta e sul web in queste ore gira una foto che farà piacere ai molti tifosi granata.
ONORE AL TORO – La foto ritrae uno striscione, non gigantesco per la verità, dei tifosi del Napoli che omaggiano e rendono onore al Grande Torino, scomparso appunto dopo la strage di Superga e considerato una delle squadre più forti della storia. Come potete vedere dalla foto qui sotto i tifosi del Napoli hanno scritto: «Chi ama il calcio onora il Grande Toro». Finalmente un gesto da condividere.
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Posté par atempodiblog le 16 février 2014
Basket NBA, Belinelli re del tiro da tre!
L’azzurro vince il concorso individuale nell’All Star Saturday, superando Bradley Beal nello spareggio della finale. “E’ un sogno che si avvera”
Tratto da: TuttoSport
NEW YORK – Se a New Orleans, tre anni fa, Marco Belinelli trovò la nobilità NBA, ora nella stessa città ha trovato la consacrazione, vincendo la gara del tiro da tre dell’All Star Saturday, battendo nello spareggio della finale Bradley Beal per 24-18. In precedenza, Belinelli (capace di riprendersi da un paio di airball) aveva sgominato la concorrenza dei tiratori convocati per l’ovest, cioè Kevin Love, Damian Lillard e Stephen Curry, tre che giocheranno l’All Star Game vero e proprio.
ALBO D’ORO – Dopo essere stato il primo azzurro a vincere una serie di playoff, Belinelli è il primo italiano a vincere un concorso individuale all’All Star Game. “E’ un sogno che si avvera” ha detto il 27enne bolognese dei San Antonio Spurs, che entra in una galleria di vincitori di altissimo livello, con Larry Bird (che vinse le prime tre edizioni), Glen Rice, lo specialista Steve Kerr, Peja Stojakovic, Ray Allen, Dirk Nowitzki, Paul Pierce e, negli ultimi due anni, Kevin Love e Kyrie Irving.
LA GIOIA – «Volevo questo trofeo, ero venuto qui per vincere. Per tutta la mia famiglia che mi ha sostenuto e per i miei compagni. Questo è un momento bellissimo ma i miei obiettivi sono altri: voglio l’anello NBA. Questo successo per me vuol dire tantissimo, mette il mio nome in bella evidenza. E’ troppo presto per capire che cosa significhi davvero questa vittoria, dovrò metabolizzare. Sono nell’albo d’oro insieme a uno come Larry Bird».
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Posté par atempodiblog le 11 février 2014
Follie da social network
Balotelli e il (falso) pianto per razzismo che arriva anche alla Casa Bianca
In Usa se la prendono con Napoli: le lacrime di Super Mario considerate reazione ai cori denigratori
di Michele Farina – Corriere della Sera
Fossero stati soltanto i «Balotelli lovers» turchi del Trabzonspor a perdere la trebisonda per le lacrime di SuperMario («No al razzismo») forse nessuno se ne sarebbe accorto. Ma quando la scritta «Shame #Napoli shame» compare sul profilo Twitter dell’Obama Diary, tra una foto ufficiale della First Lady Michelle e un messaggio ispirato di Barack in persona, allora vuol dire che il pianto di Balo è diventato virale e «politico».
«Vergogna Napoli» scritto su un sito quasi ufficiale vicino alla Casa Bianca, con i tifosi napoletani accusati di aver fatto piangere l’attaccante del Milan con i cori razzisti. Per qualche ora l’altra sera, nel trita (twitta) tutto della Rete, sono volati i commenti più duri. Messaggi contro il razzismo hanno inondato il sito ufficiale della squadra del Napoli. Che è stata costretta a smentire: nessun coro razzista al San Paolo durante la partita. Da Twitter a Facebook, parole di fuoco (inviate anche al giocatore partenopeo Inler) con relativi messaggi di autodifesa (soprattutto) da parte di napoletani indignati. Chi ha fatto partire la bufala sulle «lacrime e il razzismo»? Come spesso accade tra i mille incroci dei social network è difficile risalire il filo della corrente. Ci ha messo del suo l’ex giocatore della Juventus Felipe Melo, oggi al Galatasaray di Istanbul, con questo tweet: «Un peccato vedere Balotelli fischiato negli stadi italiani. Doloroso vederlo triste e in lacrime. Forza Mario sei un campione!».
Se sono stati i turchi a cominciare, come ci è arrivata la storia nell’anticamera della Casa Bianca? È vero che Balotelli è uno degli italiani più conosciuti all’estero (come testimoniava qualche tempo fa la copertina di Time magazine) e che la sfida Napoli-Milan è stata vista in tutto il mondo. Ma chi segue in tempo reale «i dolori del giovane Mario» tra i fedelissimi del presidente Usa? In realtà @TheObamaDiary ha ritwittato un messaggio dell’influente Mona Eltahawy (200 mila follower), giornalista e blogger egiziana con base a New York: «Vergogna Napoli. Non c’è posto per il razzismo nel calcio. Mario Balotelli in lacrime per il dileggio razzista allo stadio San Paolo», così Mona ha commentato un’immagine del giocatore affranto in panchina.
La Eltahawy è un’ascoltata editorialista di politica (appassionata di calcio): nel 2011 al Cairo, dopo essere stata arrestata in piazza Tahrir, è stata rilasciata con le braccia rotte. E ha accusato la polizia di torture. Una blogger battagliera che neanche questa volta batte in ritirata: «Sapete quanto amo Napoli – twitta – Leggete il rapporto su Balotelli e il razzismo redatto dalla Federcalcio italiana». Come dire: se questa volta i tifosi napoletani non c’entrano, il problema esiste.
Sul sito del «Napolista» un tale Diego Pugliese che lavora a Dublino spiega in inglese che «Balotelli ha pianto perché ha giocato male». Alla Casa Bianca qualcuno legge il Napolista? Il suo motto è una frase dell’allenatore Rafa Benitez: «Sin prisa pero sin pausa». Senza fretta ma senza sosta. Un motto che andrebbe bene per Balo e pure per Obama.
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Posté par atempodiblog le 26 novembre 2013
Il cuore di Alessio Cerci
Da ragazzo matto a uomo e campione. Un giocatore diventato grande con la maglia del Toro addosso
di Piero Vietti – Toro.it
Io non ricordo, nella mia più che ventennale esperienza di tifo granata, un altro come Cerci. Non me lo ricordo perché ai tempi del primo Lentini ero troppo piccolo, e a casa mia non si seguiva più di tanto il Toro. Ho la memoria dolorante per Amsterdam, ma non vedevo tutte le partite, né andavo allo stadio. Martin Vasquez, Casagrande e Scifo li ho apprezzati più avanti, rivedendoli. Un altro come Cerci non me lo ricordo perché Asta è stato un’altra cosa, così come Ferrante o Bianchi più tardi, e prima di loro Carbone e Silenzi. Cerci è il giocatore che molti ci invidiano, come non accadeva da tempo. Cerci è il giocatore che quando tocca palla tu sai sempre che qualcosa succederà. Cerci è quel giocatore che finalmente meritavamo. E se quando andrà via qualcuno si ricorderà di dare dei meriti a Ventura, Cerci – questo Cerci – dovrà essere in cima alla lista.
Io non lo so che cosa succederà a fine anno. E’ possibile, forse probabile, che Cerci lascerà il Toro per andare a giocare là dove si vincono campionati e coppe (mi auguro fuori dall’Italia). Non so nemmeno se lui questo già lo sappia. Quello che so è che lui adesso a Torino, e al Toro, sta bene. E non perché me lo abbia raccontato qualcuno, ma perché basta guardarlo, leggere quello scrive sui social network e dice nelle interviste. Mi spiego. Se sei un campione, da te non si pretenderà altro che il massimo impegno, la maglia sudata a fine gara e i colpi che possono fare la differenza. Il resto è di più. Cerci invece ultimamente ha cominciato a dire cose che nessuno gli aveva mai chiesto. In tempi in cui ogni tweet o status di Facebook vengono analizzati dai giornalisti al microscopio come è successo a Balotelli, prudenza vorrebbe che si riducessero al minimo esternazioni che potrebbero essere interpretate in certi modi.
Cerci se ne frega. Esterna. Chiede scusa ai tifosi dopo che ha sbagliato il rigore contro l’Inter, o dice la sua sulla pessima fiction su Meroni scrivendo che “quando i tifosi del Toro mi parlano di Meroni trasmettono davvero molto ma molto di più rispetto al film di stasera. È dai loro racconti che capisco l’affetto che provavano per lui . Ciao Gigi da tutti noi!”. Non ha paura di attaccare la Juve dopo il gol irregolare nel derby (sapendo che questo potrebbe avere ripercussioni) e alla fine della partita con il Catania ha voluto ancora una volta ringraziare i tifosi così: “Grande vittoria quella di oggi. Felice per la squadra e per tutti i tifosi. Un ringraziamento particolare però lo voglio fare alla curva che oggi mi ha dimostrato ancora una volta tutto l’affetto di cui ho bisogno… Peccato per il gol mancato ! Un abbraccio sincero”. Me lo chiedevo in questi giorni: c’è qualcuno che lo obbliga a scrivere certe cose? No. E allora, perché lo fa? Non ha bisogno di intortarci, ci bastano i suoi gol.
La cosa impressionante è che Cerci in questo anno e mezzo in granata è cresciuto davvero, passando da ragazzo immaturo e un po’ matto a campione consapevole dei suoi limiti e quindi sempre più forte perché in grado di superarli. In 15 mesi ha fatto un salto di qualità come solo a chi cresce con questa maglia addosso capitava. Le parole con cui ha commentato l’analisi di Mondonico su questo sito sono le parole di un uomo consapevole del compito che ha in questa squadra e fiero del rapporto con i suoi tifosi e con la storia unica di cui il destino ha voluto che – almeno per un po’ – entrasse a far parte. Io non lo so se a fine anno andrà via. Possibile, forse probabile.
Quel giorno noi granata saremo tutti un po’ più tristi. E i più tristi forse saranno quei bambini che prima della gara con il Catania lo hanno abbracciato e poi tifato da quello spicchio di stadio così bello da far saltare il cuore ogni volta che lo si guardava. Anche se nessuno mi potrà impedire fino all’ultimo di sperare che Cerci rimanga da noi, diventando – in quel modo così granatamente anacronistico – una bandiera e un simbolo per il Toro del futuro. Io non lo so se Cerci stia diventando un cuore granata. So però che con il granata addosso sta diventando uomo e campione. Se continua così, e se noi continueremo a volergli bene e a farlo sentire a casa, quando se ne andrà non saremo soltanto tristi, ma anche un po’ meno soli: sapremo con certezza che nel mondo ci sarà un tifoso granata in più.
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Posté par atempodiblog le 31 octobre 2013
Leo Pettinari
“Sono un mediano fortunato”
Sognava la Serie A, poi i dolori al petto e lo stop dei medici: carriera finita. Un verdetto duro, che però gli salva la vita. «Non mi sento miracolato». Eppure…
di Stefania Grimoldi – Credere
Medjugorje, Malattia, Miracolo. La formula delle 3M, giornalisticamente parlando, è troppo ghiotta per rinunciare a un titolo a effetto. Un po’ come chiedere a un toscano di rinunciare alla battuta dissacrante.
Leonardo Pettinari, pratese di nascita, calciatore di professione fino allo scorso gennaio, dribbla entrambe le tentazioni per raccontare e dare un senso alla sua storia. «Io mi definisco fortunato, miracolato proprio no. Anzi mi dà quasi fastidio quando lo vedo scritto, perché in fondo non è successo nulla». Se nulla si può definire la brusca interruzione di un traguardo professionale come quello di giocare in Serie A per una cardiomiopatia aritmogena, la patologia fatale al bergamasco Piermario Morosini. Ed è qui che il sarcasmo toscano può aiutare, anche di sponda, a rimettere le cose a posto e spiegare senza enfasi. «Qualche amico che non crede me l’ha detto: sei stato a Medjugorje e sei tornato malato. Io sono convinto invece che la prospettiva giusta sia quella opposta: dopo quel pellegrinaggio, il primo della vita in assoluto, la malattia si è rivelata. Sono stato fortunato, punto e basta».
Fortuna, fede, famiglia, un’altra bella formula per spiegare la nuova vita di Leonardo Pettinari. Ma nessuna semplificazione è lecita se a neanche 27 anni scopri di doverti reinventare le giornate, che la routine fatta di allenamenti e partite all’improvviso non c’è più, che la Serie A – annusata per la prima volta nel novembre 2011 con la maglia dell’Atalanta –, resterà per sempre un traguardo messo alle spalle in tutta fretta. «Per fortuna ho avuto più di un anno per abituarmi all’idea e nello stesso periodo mi stavo preparando al Matrimonio con Giusy. La mattina della sospensione, quando l’ho chiamata, lei stava provando l’abito da sposa… Certo, magari all’esterno sembravo sereno, sorridente, poi in casa soffrivo davanti alle partite in televisione».
L’ex centrocampista ha iniziato a percepire che qualcosa non andava nel giugno 2011, pochi giorni dopo la vittoria del campionato di B con l’Atalanta. Dopo una serie di accertamenti, da cui non è emerso nulla di preoccupante, Leonardo è passato al Varese. Quella biancorossa è stata la sua ultima maglia. Ripetuti attacchi di tachicardia l’hanno infatti costretto a un nuovo stop e solo allora la risonanza magnetica ha evidenziato la cicatrice sul ventricolo sinistro per cui gli è stata sospesa l’idoneità. Che non gli è stata restituita nemmeno dopo un ricorso, respinto a gennaio di quest’anno. «Che cosa mi ha aiutato? La mia famiglia mi ha cresciuto con valori solidi, mia mamma mi ha educato alla fede. Senza fanatismi. Sono un credente. Un peccatore, anzi. Perché non sono poi così assiduo nella pratica. Ma mi capita di rifugiarmi nella preghiera e questo mi consola e mi fa stare bene. Non prego solo per chiedere. Per questo riesco a dare un senso positivo alla mia vicenda. La diagnosi del problema al cuore è arrivata pochi mesi dopo il viaggio a Medjugorje che ho fatto nell’ottobre 2011, insieme a Giusy – mia moglie dal giugno 2012 –, i nostri genitori e Simone Tiribocchi, mio compagno all’Atalanta, con la moglie. È stato molto coinvolgente, non solo sotto il profilo religioso. In Bosnia, anche se sono passati vent’anni, si percepiscono ancora forti i segni del conflitto, non si può restare indifferenti».
La storia di Leonardo Pettinari è disseminata di segni, ma lui preferisce leggere solo quelli che gli è possibile comprendere. «No, non mi sono mai chiesto perché Morosini e non io. Sarebbe inutile, una domanda priva di senso. Quando nell’aprile del 2012 lui è morto in campo, con il Livorno, è stato tremendo. Avevamo la stessa età, la sua storia mi assomigliava e io sapevo già dei miei problemi. La sua morte ha costretto tutti a dei controlli più attenti. Non trovo giusto chiedersi di più». Tracciando il disegno del suo futuro, Pettinari lo colora ancora del verde di un campo di calcio. «Ho il patentino Uefa, mi iscriverò al corso allenatori. Amo il mio mondo, vorrei ricominciare con i bambini».
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Posté par atempodiblog le 25 septembre 2013
Bartali vince ancora: Giusto tra le nazioni
di Massimiliano Castellani – Avvenire
C’è voluto del tempo, ma alla fine Gino Bartali è arrivato anche al traguardo di Gerusalemme: lo Yad Vashem lo ha riconosciuto “Giusto tra le nazioni” per aver strappato alla morte gli ebrei perseguitati dal regime nazifascista. «Oh quanta strada nei miei sandali! Quanta ne avrà fatta Bartali…», canta Paolo Conte. In carriera il Ginettaccio si calcola che avesse coperto in sella a una bicicletta la bellezza di «700mila chilometri».
Ma di tutte le «tappe vinte», la meno nota, la più anomala e straordinaria fu quella Firenze-Assisi e ritorno nel capoluogo toscano, che tra l’ottobre del 1943 e il giugno 1944 Bartali corse almeno «una quarantina di volte» per trarre in salvo gli ebrei in clandestinità. Una tappa temeraria, di «trecentottanta chilometri» percorsi a perdifiato in una sola giornata per consegnare nella città di San Francesco documenti di vitale importanza per gli ebrei tenuti nascosti da padre Rufino Niccacci. Nota era la fede di Bartali, la precoce entrata nelle file dell’Azione Cattolica, l’appartenenza ai terziari carmelitani, il legame stretto con papa Pio XII e i contatti tenuti con Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira.
Così come note erano state le gesta eroiche del ciclista per salvare gli ebrei rifugiati nella città di San Francesco, raccontate nel libro dello scrittore e regista Alex Ramati « Assisi underground » (titolo dell’omonimo film). Eppure quella tappa è rimasta a lungo «clandestina» alla storia e per espressa volontà del corridore. Bartali in vita minacciò di «querele» coloro che avessero svelato i particolari del suo coinvolgimento all’operazione «Assisi underground».
Le ragioni del silenzio erano tutte in quel monito di umile trasparenza tramandato dal buon Ginettaccio al figlio Andrea: «Certe cose si fanno e basta. Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come un eroe di guerra… Io mi sono limitato a fare ciò che sapevo fare meglio. Andare in bicicletta». E in sella a quella bicicletta «verde ramarro», maglione di lana e calzoni di flanella per ripararsi dal freddo pungente di quell’autunno gelido di morte, Bartali era pronto al via. Partenza da casa sua, in piazza del Bandino, con prima sosta in via dello Studio alla chiesetta del Collegio Eugeniano: ad attenderlo don Giacomo Meneghello, il segretario del cardinale Elia Dalla Costa, che gli consegnava dei documenti della massima segretezza da portare ad Assisi. Una corsa piena di insidie, cominciata alle 6.30 del mattino dopo aver partecipato alla Messa.
Un tracciato da fare con il cuore in gola, senza destare sospetti, perché i suoi strani viaggi gli erano già costati tre giorni di carcere in via della Scala e il suo nome era da tempo nelle liste nere. «L’Ovra aveva messo una spia fissa a controllare i suoi spostamenti – racconta Paolo Alberati nel suo libro Gino Bartali. Mille diavoli in corpo (Giunti)”. Era stato un giornalista sportivo, Franco Monza, esperto di motori, che aveva cominciato a seguire anche le gare di quello che nell’elenco dei sospettati venne schedato come Bartali Gino, n° 576. Poca roba sul suo conto, visto che la spia riferiva ai suoi superiori: «Un tipo molto strano questo Bartali che ad ogni vittoria ringrazia sempre Dio e la Madonna invece di dedicare il successo al nostro Duce».
L’antifascismo indomito, unito all’amore per il prossimo rendeva ancora più veloce il pedale del fuoriclasse che aveva già vinto due edizioni del Giro d’Italia nel 1936 e nel’37 (poi vincerà il terzo nel ’46). Un «tappone» da portare a termine con il coraggio dell’italiano che è riuscito sfidare e battere i francesi a casa loro conquistando il Tour del 1938 (sarà l’unico ciclista al mondo a rivincere la Grand Boucle a dieci anni di distanza, nel 1948). Ecco le fasi salienti di quella corsa che lo ha reso “Giusto tra le nazioni” Bartali scala con calma il San Donato e va giù ancora lento per il Valdarno.
Taglia la nebbia a Reggello dove nella bottega del calzolaio dei ciclisti Gennaro Cellai, fa rifornimento di informazioni sulle strade da evitare, quelle più battute dalle pattuglie e le camionette fasciste e naziste. Un percorso minato, da compiere nel minor tempo possibile. Per questo accelera nel tratto che da Arezzo imbocca la Statale 71 in direzione di Perugia. Alle 9,50 il campione fa una sosta al bar della stazione di Terontola gestito da Leo Lipparelli. Quel passaggio è studiato apposta con il Lipparelli per consentire la fuga degli antifascisti della zona. Nella gran bolgia che creano i tanti tifosi, quella massa di indesiderati dal regime riesce a imboscarsi sui vagoni e a mettersi in salvo dai controlli della milizia, che si concede la libertà di avvicinare il famoso ciclista per chiedergli il memorabile autografo.
Da qui Bartali riprende spedito: costeggia il Trasimeno e rivede Castiglion del Lago, dove appena qualche mese prima era stato al servizio dell’Aeronautica in qualità di «portalettere» in bicicletta. Comincia a far tardi e non c’è gruppo che insegue più tetro e invisibile di quello che il campione sente a ruota. Ma il fiato lo assiste come sempre e vola sulla piana che da Ponte San Giovanni porta alla basilica di Santa Maria degli Angeli, in uno sprint-record di 21 minuti, alla velocità di 43 km orari (su una bicicletta del peso di quasi 15 chili, il doppio di quelle odierne).
Tempi buoni per rivincere una Milano-Sanremo -due ne vinse in carriera- e lo spirito è lo stesso, con in più la motivazione umanitaria che lo spinge sul podio più alto: all’ora di pranzo è ad Assisi, al convento delle clarisse di San Quirico. Luogo dove neppure i saraceni avevano osato entrare, e invece le due suorine di clausura Eleonora e Alfonsina, tante volte avevano accolto e rifocillato un Bartali sfinito, ma con il cuore gonfio di gioia e d’orgoglio.
Ad Assisi Bartali consegna le carte d’identità da falsificare con la macchina Felix della tipografia di Luigi Brizi, che col figlio Trento dà nuova nazionalità alle persone che padre Rufino nasconde nei conventi di Assisi. Alle 14,30, con i documenti celati nella canna verticale sotto il sellino, Bartali prende la strada di casa, dove arriva alle 19,30 spaccate. Fine della corsa? No, perché avverte che ormai è braccato e decide di andare in fuga per un po’ e mettere a riparo la famiglia. Andrà a Nuvole (vicino a Città di Castello) nella casa dell’amico Nello Capaccioni. Di tutto questo non dirà mai nulla, ma oggi sappiamo bene quanta fatica e quanta strada ha fatto Bartali per salvare uomini, donne e bambini dal tragico olocausto nazifascista.
Per approfondire la figura di Bartali Gino il pio
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Posté par atempodiblog le 29 août 2013
E’ Ribery il miglior giocatore dell’ultima stagione europea. Visibilmente commosso, l’asso del Bayern Monaco ritira il premio da Platini.
Ecco alcune sue parole:
“E’ stato un anno straordinario per noi, credo che il Bayern abbiamo meritato l’ultima Champions. Il Chelsea è un’ottima squadra, cercheremo di fare di tutto per vincere il trofeo”.
Fonte: Tmw
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Posté par atempodiblog le 22 juillet 2013
Papa Francesco e il calcio: la testimonianza di un dirigente della sua “squadra del cuore”
di Radio Vaticana
Atlético San Lorenzo de Almagro
Amante del calcio fin da bambino, Jorge Mario Bergoglio è da sempre tifoso dell’Atletico San Lorenzo, uno dei 5 club di Buenos Aires. Su questa passione calcistica di Papa Francesco, Luca Collodi ha raccolto la testimonianza di José Cáprio, già segretario generale dell’Atletico San Lorenzo de Almagro:
R. – Bueno, la afición del Papa Francisco
Il tifo di Papa Francesco, che per noi è ancora Jorge Bergoglio, è nato tanto tempo fa. Il quartiere Boedo di Buenos Aires, è un quartiere vicino al nostro terreno di gioco. Sin da bambino, Bergoglio ha manifestato il suo amore e il suo interesse per i colori rosso-blu dell’Atletico San Lorenzo de Almagro. Ha fatto parte del club, ha praticato lo sport, anche il rugby, assieme al padre. E’ sempre stato legato al movimento istituzionale e sportivo del nostro San Lorenzo. E’ un fervente tifoso!
D. – Papa Francesco è appassionato ma anche esperto di calcio?
R. – El està al tanto… E’ informato su tutti gli aspetti calcistici. S’intende di calcio, come di tante altre cose. E’ un pastore, quindi sta in contatto con il suo gregge, e qui, in Argentina, tanto gregge si occupa di calcio. Perciò lui conosce e si aggiorna quotidianamente.
Papa Francesco benedice il gagliardetto del Toro
D. – Il Papa si interessa anche di calcio internazionale?
R. – Los argentinos en general… Noi argentini, in generale, siamo molto appassionati di calcio. Seguiamo il calcio italiano, quello spagnolo, vediamo in televisione molti campionati e molte squadre. Quindi, non mi sembrerebbe per niente strano che Papa Francesco fosse informato sul calcio mondiale.
D. – C’è una squadra italiana che segue, in particolare?
R. – No, eso no lo se… Questo non lo so, realmente non lo so. So che era socio e simpatizzante del nostro San Lorenzo e molto partecipe della vita del club. E’ venuto a celebrare una Messa il giorno del centenario del nostro club – un fatto molto importante – però non so se sia tifoso di un’altra squadra, per esempio in Italia.
D. – Il Papa ha la tessera numero 88235N-0 del San Lorenzo e la domenica era sempre in tribuna allo stadio per seguire la partita…
R. – Si, por supuesto… Sì, naturalmente. Lui seguiva sempre le nostre partite, collaborava con noi. Noi abbiamo un’origine salesiana: il nostro club è stato fondato da un prete salesiano, padre Lorenzo Massa, nel 1908. E il cardinale Bergoglio, Papa Francesco, aveva un’affinità importante con l’origine del nostro club, che fu fondato da un prete.
D. – Un grande tifoso del San Lorenzo era il più grande scrittore del mondo del calcio, l’argentino Osvaldo Soriano. Si sono mai incontrati, secondo lei, Osvaldo Soriano e Papa Francesco?
R. – Yo no se si… Non so se si siano incontrati in privato, però sono sicuro che Papa Francesco conoscesse i libri di Soriano, che oltre ad essere un grande scrittore, condivideva l’amore per i colori rosso-blu della nostra maglia.
Una maglia del Toro per il Papa “granata”
D. – In Italia, a Catania, Milano e Roma, giocano molti giocatori argentini. Come in Inghilterra, Francia e Spagna…
R. – En el Catania hemos entendido… Nel Catania, che ha in rosa dieci giocatori argentini, sappiamo che ci sono oggi tre giocatori che sono passati dal San Lorenzo: Papu Gomez, Bergessio e Barrientos, che è nato calcisticamente nel club e ha passato moltissimo tempo con il San Lorenzo.
D. – Il San Lorenzo pensa di venire per una tournèe in Italia e giocare davanti al Papa?
R. – Bueno, con esto que el cardenal Bergoglio… Il fatto che il cardinale Bergoglio sia stato eletto Papa apre opportunità molto importanti e molto belle in un momento così importante per il nostro club, perché sia conosciuto maggiormente a livello mondiale.
D. – Papa Francesco suggerisce alla squadra tattiche particolari da applicare in campo?
R. – El està muy atento… E’ molto attento a tutto quello che riguarda il calcio, è in contatto con tutto questo. Quando si ritirò nel 2003 un grande giocatore argentino, Alberto Acosta, più volte cannoniere come dite voi, del San Lorenzo, parlava spesso con lui della posizione da tenere in campo. Conosce realmente il gioco del calcio.
D. Come ha festeggiato il club alla nomina di Papa Francesco, abbonato e socio dell’Atletico San Lorenzo?
R. – La società, a nome del presidente Matìas Lammens e del segretario generale Marcelo Vazquez, hanno indirizzato un saluto al Papa, “Il Papa del San Lorenzo”, ricordando come il Papa abbia partecipato a momenti importanti per la vita della polisportiva San Lorenzo: dalla celebrazione del Centenario del club all’inaugurazione della cappella dell’Istituzione.
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Posté par atempodiblog le 8 juillet 2013
Da Torre Annunziata al gol nella finale dell’Europeo under 21. La favola di Ciro Immobile continua. Scatto sul filo del fuorigioco, controllo in velocità e pallonetto che beffa De Gea: un gol degno di una finale.
[...] Nell’anno in cui era al Pescara era già una celebrità, durante la festa patronale in onore della Madonna della Neve, gli fu quasi impossibile partecipare ai festeggiamenti ed arrivare nella basilica, per la risonanza che ebbe la sua presenza e per la folla di tifosi che chiedeva una foto o di stringergli la mano ad ogni passo.
Fonte: ReSport
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Posté par atempodiblog le 2 mai 2013
Campioni della Fede
Da Gino Bartali a Paolo Bettini, da felice Gimondi a Eddy Merckx, da Francesco Moser a Vincenzo Torrioni: un filo doppio lega molti protagonisti del ciclismo al cattolicesimo. Perché per muovere una bicicletta le gambe non bastano.
di Alessandro Gnocchi – Il Timone
Quando gli sono stati chiesti lumi sulla lunghezza di questo pezzo, il direttore ha detto senza indugi «Novemila battute, non una di più». Se conoscete un direttore che al numero delle battute aggiunge «non una di meno», passate parola.
Punto a capo, per dire che, di quelle novemila battute, seicentonovanta vanno cedute alla seguente perla firmata Gianni Brera: «Il Redefossi nasceva dal Naviglio. Era un canale di scarico e di protezione insieme, perché lambiva le mura. Oggi è tutto coperto e ci sferraglia sopra il tram di circonvallazione. Ritorna alla luce molti chilometri oltre Porta Romana.
Vi sbocca la fogna, impossibile sognarci. Ma quando nacqui vi si specchiava il cielo. Ed era il mio oceano.
Le donne di corso Lodi vi andavano a lavare i panni e le stoviglie, sgurandole con la sabbia quarzosa. I lavatoi erano fatti con una semplice tavola di pioppo che quattro gambe da panchetto reggevano fissandosi al fondo. Ho in mente una lunga fila di dorsi ricurvi, di sottane rimboccate e di piedi rossi. Ma le donne cantavano ed era assai bello».
Un gioiello così sta bene proprio in questo posto e non altrove per il semplice motivo che il Gioanbrerafucarlo non sta facendo il sentimentale, ma sta parlando di ciclismo. Vedere alla voce Biciletta, addio, gran libro, annata 1964.
Bicicletta, addio suona un po’ come “Addio monti” dei Promessi sposi. È pur vero che Manzoni a Brera non garbava così tanto: gli dava del coniglio perché si era rifugiato nel romanzo storico. Ma, ciò nonostante, ei due addii, si legge lo stesso sentimento di qualcosa che se ne sta andando e chissà, forse, potrebbe tornare, ma solo se lo vorrà Qualcuno che non ha da rendere conto agli uomini. Ovvio quindi che Eberardo Pavesi, classe 1883, protagonista dell’addio breriano, sia stato un ciclista naturaliter religioso cattolico, così come è naturaliter cattolica Lucia Mondella, protagonista dell’addio manzoniano. Magari un po’ malgarbato, Pavesi, ma cattolico. Solo un accidentaccio d’uomo simile, una volta detto addio alla bicicletta, avrebbe potuto fare il direttore sportivo di Gino Bartali. Del Bartali baciapile, si intende. Del Bartali che mandava fuori dai gangheri i comunisti mangiapreti per quanto amava la Madonna e per la sua predilezione per i santi del Carmelo. Vuoi mettere un santino di Santa Teresina nel portafogli incollato alla coscia sudata mentre pedali in salita contro uno di Togliatti in cabina elettorale? E i comunisti mangiapreti, là dove Dio li vedeva e Stalin no, erano costretti a riconoscerlo.
Per tornare a Pavesi, solo uno come lui poteva sopportare un Bartali inginocchiato sui gradini freddi delle chiese a dire le orazioni mandando a ramengo un’ora abbondante di massaggi e di riscaldamento. «Brutt bojon, Gino se te fet?» gli urlava. Chi non comprende il milanese vada a senso perché la traduzione laicizzerebbe irrimediabilmente l’amore per l’uomo inginocchiato e il rispetto per Colui che stava al di là del portone.
Il “brutt bojon” se ne è andato nel 2000 portando indosso il mantello bianco dei Carmelitani Scalzi. Era un terziario dell’ordine di Santa Teresa, di San Giovanni della Croce e di Santa Teresina. E qualcosa della piccola Teresa lo aveva replicato nella sua vita. Lei a girare il mondo dopo morta, testimone di Cristo con il suo corpo senza vita. Lui a girare il mondo ciclisticamente conosciuto, testimone di Cristo con ciò che un vero atleta può esibire senza vergogna, il suo corpo vivo.
Solo i santi e solo i ciclisti possono farlo. Un bacio della reliquia e una pacca sulla schiena, una giaculatoria e un “vai Gino che sei solo”, l’invocazione di una grazia e la domanda di un sorriso.
Quanto è dura la salita del Carmelo, Gino? Si vede che tocca ai toscani rispondere. Paolo Bettini, campione olimpico nel 2004, campione mondiale nel 2006 e 2007, un fratello morto a 42 anni in un incidente di macchina, dice che è dura. È dura come la vita, ma a lui lo aiuta padre Raffaele, un carmelitano che non disdegna di andargli dietro qualche volta in bicicletta. Bettini è venuto su lungo la vecchia Aurelia, dove arriva senza fatica il sale del mare. Non diresti che si possa essere cattolici in questo incrocio di anticlericalismo toscano e di sogno americano che ha per nome La California, una manciata di case buttate giù in qualche maniera poco lontano dai cipressi di Bolgheri alti e schietti. Invece lui è cattolico e dice che gli piace Papa Benedetto XVI, un regolarista come Gimondi.
Già, Felice Gimondi da Sedrina, terra bergamasca all’imbocco della Val Brembana. Terra dura che si sfalda a contatto con il Brembo, là dove il fiume si inserpentisce in giravolte che paiono tornanti del Passo San Marco e liscia i sassi e i rami di castagno che porta verso valle, e li tira bianchi come la veste di un domenicano.
Terra cattolica e, fino a due o tre decenni fa, bastava nascerci per venir su con la vera fede nei polmoni.
Felice ne aveva negli Anni Sessanta e Settanta, quando andava in bicicletta e Brera scriveva che, di profilo, pareva un capo indiano. E ne ha ancora oggi, in un mondo matto dove anche il ciclismo sembra fatto per far perdere la pazienza a un santo.
Dicono che pare ostrogoto, ma, a parlarlo in fretta, il bergamasco sembra quasi latino. Lingua liturgica alla portata di tutti, una giaculatoria un soldo, per dire la fatica lungo la strada, nei campi, in fabbrica. Lingua liturgica buona nei giorni feriali, fin sul sagrato, perché, ai tempi in cui Felice correva per le salite di Sedrina ad aiutare la mamma a portare la posta, in chiesa usava il latino.
Il bergamasco introduceva al mistero e il latino lo celebrava. E il mistero entrava fin nelle ossa. Non si spiega diversamente che Felice, sul palchetto di un Giro d’Italia dei primi Anni Settanta, invece che salutare la mamma e gli amici del Bar Sport, dicesse senza neanche riprendere fiato che per lui, anche quando si arriva primi, in realtà si è sempre secondi perché davanti a tutti c’è Qualcuno di più grande. E all’intervistatore deciso ad avere lumi perché non aveva capito che nel parlato latino-bergamasco di Gimondi Qualcuno aveva la “Q” maiuscola, lui rispose semplicemente «Non so, è un mistero».
Forse, il povero intervistatore, avrà pensato a Eddy Merckx, il fiammingo con gli occhi a mandorla, il Cannibale, l’incubo di un Gimondi che, pure, riuscì a vincere tutto, mondiale compreso. Non ci fosse stato Merckx, chissà quanto sarebbe lungo il suo albo d’oro. Ma Merckx c’era, e anche lui andava ad Ave Maria. Muscoli, testa, cuore e fegato, certo. Ma anche Ave Maria. E ogni vittoria dedicata alla Madonna. 525 corse vinte di cui 426 da professionista. Fate il conto di quanti Rosari ci ha cavato il Cannibale, e tutti fatti con rose di prima scelta, tappe del Giro, del Tour, della Vuelta, Mondiali, Lombardia, Sanremo, Rubaix. Questi sì, che sono Rosari.
Quando cominciava a menare pedate sui pedali, incurvava la schiena, abbassava la testa ed era talmente prostrato che pareva una vecchia inginocchiata all’ultimo banco in chiesa per chiedere una grazia. E lui chi era per non chiedere nulla? Non bastava essere Eddy Merckx per farcela sempre.
Nel 1969, venne squalificato dal Giro per un sospetto di doping dopo la tappa di Savona. Ma aveva bisogno di doping uno così? La tv andò a pescarlo in albergo. Il Cannibale piangeva, steso sul letto, con addosso ancora i pantaloncini da ciclista marchiati Faema e la canottiera. «Mi sono ripreso solo perché ho fede» disse dopo essere tornato il Cannibale.
«Perché ho fede e perché i fiamminghi non cedono».
Non cedono i fiamminghi, non cedono i bergamaschi, non cedono i toscani.
Nessuno cede, quando sa di portare la bandiera della sua terra. Ma è chiaro che non tutti i ciclisti sono fatti così. Quelli che lasciano il segno, però, sono quelli che parlano la lingua della loro terra. Per questo, difficilmente dicono stupidaggini davanti a un microfono spianato.
Francesco Moser, razza trentina e cattolica, ne diede dimostrazione durante uno dei tanti Giri d’Italia in cui battagliava con Giuseppe Saronni. A cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta, la Rai mandò un paraintellettuale, nel senso di intellettuale di apparato, a democratizzare una bestia rustica come la carovana capitanata dal cattolico Vincenzo Torriani. E lui, il paraintellettuale, si diede da fare smontando un linguaggio formato in decenni di fatica, di gioia, di dolore: di sapienza, insomma. Si inventò una neolingua e la propose agli interessati. Perché, chiedeva, continuare a usare il termine “gregario”, così discriminatorio, così razzista? Proviamo ad usare “aiutatore”, che è molto più democratico. Si stenta a credere, ma giuro che è tutto vero.
Per farla corta, Saronni il cittadino quasi milanese e progressista disse che, sì, si poteva fare. Il contadino Moser disse che, no, meglio lasciar perdere, perché si è sempre detto gregario e il gregario deve chiamarsi gregario, altrimenti diventa un’altra cosa. E senza citare Orwell.
I ciclisti, quelli veri, hanno sempre qualcosa di cattolico. Grazie a Dio.
Novemila battute. Fine.
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Posté par atempodiblog le 26 avril 2013
Toro, l’oro è in casa: Darmian miglior incontrista d’Europa
Il terzino, incoronato dalle statistiche, è al top nei primi cinque campionati del vecchio continente
Fonte: ToroNews
Matteo Darmian miglior incontrista d’Europa. Questi i dati emersi da un recente studio statistico di whoscored.com.Il ventitreenne terzino in forza al Toro è risultato il migliore come tackles per partita (5.3) nei cinque principali campionati europei.
GRANDI NUMERI - Darmian è un grande intercettatore, dato che le sue percentuali sono altissime anche in questo ambito: 2.1 (sempre a partita) in 26 presenze. Il dato curioso è che anche nel liberare l’area Darmian risulta uno dei migliori, 4.5 a partita. Il risultato finale di WhoScored è di 7.15 (tutte le statistiche si basano sulle sole gare di campionato).
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Posté par atempodiblog le 21 janvier 2013
Il più grande e il più forte giocatore del Mondo, e forse di tutti i tempi, LIONEL MESSI, dopo un suo GOL spettacolare, mostra senza vergogna l’immagine della Madonna di Medjugorje stampata sulla sua maglietta. Ha affermato il campione: “Ho visitato i luoghi più belli del mondo, ma posso attestare che Medjugorje è il luogo più meraviglioso, il più bello in assoluto e più incantevole che Dio abbia creato su questa terra”.
Fonte: pellegrinaggi.wordpress.com
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Posté par atempodiblog le 13 novembre 2012
Calcio e fede: il nuovo libro di Paolo Brosio.
Mancini e la Premier vinta grazie alla Madonna di Medjugorje.
Il tecnico del Manchester City: « Chi prega è aiutato dal Cielo. Ho già detto a Balotelli che voglio portarlo a Medjugorje e lui mi ha risposto di sì ».
Buffon: « Medjugorje è speciale, qui ho toccato con mano tante cose che mi avevano detto ».
Balbo: « Devo pregare per la mia famiglia, noi siamo molto devoti ».
Il presidente dell’Atalanta, Percassi: « E’ scattata una grande emozione, i veggenti ti trasmettono serenità ».
(Gazzetta dello Sport)
Tratto da: calciomercato.com
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Posté par atempodiblog le 4 novembre 2012
Campione della bicicletta, Bartali fu anche un simbolo dell’Italia cattolica del dopoguerra. Un fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta. I Tour de France e i Giri d’Italia, l’ingresso nell’ordine carmelitano come terziario, la famiglia, la guerra e la ricostruzione. La sua vita sembra un racconto omerico, all’ombra della fede.
di Alessandro Gnocchi – Il Timone
Nel 1935, per chi amava il ciclismo, dire Olmo o Guerra era come evocare gli eroi di Omero. Eppure, nella Milano-Sanremo di quell’anno, un pivello di ventun’anni li aveva mollati sul Berta e viaggiava da solo in testa con due minuti di vantaggio. Allora, Emilio Colombo, della “Gazzetta dello Sport”, fece accelerare la sua macchina, raggiunse il ragazzino e lo intervistò in corsa. In realtà, non gli importava un fico secco di Gino Bartali, che stava andando a vincere il mondiale di primavera. Quel gran marpione voleva solo che il giovanotto toscano perdesse tempo, concentrazione e, con quelli, la Milano-Sanremo: altrimenti, addio tiratura per la “Gazzetta”. Al traguardo, Bartali arrivò quarto dietro Olmo, Guerra e Cipriani. Anche troppo per un gregario.
Nel 1997, sessantadue anni dopo, Gino Bartali ne aveva fatte tante da non essere semplicemente Gino Bartali. Da tempo era divenuto “Bartali” tra virgolette, quello della canzone di Paolo Conte: polaroid di un’Italia in bianco e nero che molti cominciano a rimpiangere. Era il “Bartali” di un Italia in cui, alla morosa che faceva i capricci per andare al cinema, un uomo era nel suo buon diritto spiegandole il senso della vita come recita la ballata contiana: «E tramonta questo giorno in arancione/ e si gonfia di ricordi che non sai/ mi piace restar qui sullo stradone/ impolverato, se tu vuoi andare, vai…/ e vai che io sto qui e aspetto Bartali».
Fu proprio quel “Bartali” che, un giorno di marzo del 1997, due amici portarono a un concerto dell’avvocato cantante. L’incontro tra i due avvenne durante l’intervallo. L’eroe fece due sorrisi al suo Omero e disse: «Senti Conte, la canzone mi piace, ma la fa meglio Jannacci. Eppoi, te lo devo dire, c’è una strofa che non mi garba: cos’è questa storia del na-so triste come una salita? Io a naso non sto male, ma te ti sei visto che nappa ti ritrovi?». Poi girò i tacchi e se ne andò: «Non ho tempo da perdere io. Devo tornare a casa presto, mia moglie ha questo dannato morbo di Amsterdam e non posso lasciarla sola, ha bisogno di me».
Gino e la signora Adriana hanno vissuto insieme più di sessant’anni e, alla fine, è stato lui a mollare per primo. In attesa che glielo portassero via, lei lo ha vegliato seduta su una seggiola nella loro vecchia stanza. Sopra la testata del letto, la Madonna. Verso la finestra, inclinata, una ribaltina, con una lampada accesa e due libri. Sulla parete opposta, una tela ottocentesca. Vicino alla stanza da letto, un piccolo locale adibito a cappelletta, con la statua di Santa Teresa del Bambin Gesù e due immagini di padre Pio. Lui indossava la sua divisa vera, il saio bianco avorio da terziario carmelitano, e teneva nella mano destra un rosario di legno.
La vera storia di Gino Bartali è tutta qui dentro. Potrebbe sembrare niente, però basta agitarla un attimo e diventa una fantasmagoria di petali svolazzanti come quelle bocce di tanti anni fa, che bastava girarle sottosopra per incantarsi davanti alla neve finta intenta a cadere dal cielo.
Basta una piccola scossa, e dal cielo di Bartali viene giù di tutto. Il fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta, i Tour de France e i Giri d’Italia, la polvere appiccicata in faccia come una maschera di bellezza, la voglia di piantar rogne un metro dopo il traguardo, la famiglia, la guerra e la ricostruzione. E poi quel Fausto Coppi che avrebbe preso volentieri a cazzotti se, alla fine, non gli avesse voluto bene come a un fratello.
L’affetto tra due rivali non si può misurare con il metro dei giorni feriali. Un’imprecazione e uno sguardo di sbieco valgono una carezza: e, forse, anche più di una borraccia passata di mano lungo una salita. Quello che divideva vera-mente Coppi da Bartali era l’appartenenza a due universi inconciliabili. In un mondo che si avviava al divismo crocefiggendo la vita di Coppi, Bartali provava la voglia struggente di essere normale.
Fausto andava sui rotocalchi per via della Dama Bianca, e lui si infilava nelle chiese a baciare le reliquie. Fausto diventava suo malgrado il simbolo di un’Italia in via di emancipazione, e lui testimoniava un cattolicesimo pacelliano alla “Bianco Padre che da Roma, ci sei meta, luce e guida”. Fausto dominava un ciclismo quasi scientifico, e lui pigiava sui pedali mischiando furore e giaculatorie.
Ma il problema non era Coppi. Il problema era il mondo che stava cambiando e non certo in meglio. Bartali non si era mai avventurato in profezie sul destino della società perché non era suo compito: ma aveva previsto dove sarebbe finito il ciclismo affamato di record e di soldi.
Era troppo pio per non arrivarci. Però non tutti, nell’ambiente, riuscivano a capire quella specie di Sant’Ignazio in groppa a un cavallo d’acciaio. Non comprendevano che i giudizi azzeccati sulle cose della vita erano frutto della devozione. «Brutt bojon» ringhiava Eberardo Pavesi mentre lui si inginocchiava sul marmo delle cattedrali. «Su de lì Ginetto, fa’ minga el bamba, che così ti freddi i muscoli».
Gianni Brera cominciò a prenderlo male. Non riusciva a mettere insieme il fatto che un uomo potesse essere così materiale e così spirituale allo stesso tempo. Poi si ricredette in una splendida “Lettera a Gino Bartali”: «Da qualche anno, conoscendoti meglio, mi sono fatta la convinzione che tu sia una specie di Bertoldo devoto. Non sei, intendo, il Tartufo ipocrita e astuto che una morale ormai fuori del tempo costringe a irritante doppiezza: quando ti chiamo frate Cipolla, pensando alle margniffate di quel personaggio boccaccesco che tu forse non sai, voglio semplicemente coprire una mia debolezza. Hai avuto molto coraggio nell’esser pio. Questo è il lato più eroico».
Per quanto gli fu dato, e senza volerlo, Bartali rappresentò l’Italia cattolica del dopoguerra. E forse non lo sarebbe stato in modo così convincente se non avesse avuto come contraltare Coppi. Perché quell’Italia era fatta di Kiryeleison, di santini, di devozione, di fede, di processioni, ma anche di dispute in tuta alla mensa della fabbrica o in maniche di camicia al bar. Gli italiani si esaltavano al cospetto di una rivalità che confinava con la guerra. Fra i tavolini dei caffé scorrevano fiumi di aperitivi. Le scommesse simboleggiavano duelli che in altre epoche avrebbero fatto correre sangue. Ma era un modo di stare uniti.
Quando, nel 1948, spararono a Togliatti fu evidente a tutti. La vittoria di Bartali a una tappa del Tour non evitò una rivoluzione che nessuno avrebbe fatto. Però servì a placare animi la cui eccitazione aveva superato la soglia di attenzione. Ancora oggi, vecchi democristiani e vecchi comunisti raccontano di essersi abbracciati improvvisamente alla notizia dell’impresa del loro campione. Forse è vero solo in parte. Ma, a maggior ragione, con quella mezza bugia testimoniano la voglia di appartenere a un’Italia cattolica che non c’è più.
Non è la più grande, ma questa, fra le imprese di Gino il Pio, è la più duratura. Di suo, lui ci aveva messo solo l’ostinazione di guardare in Cielo quando le tentazioni lo avrebbero voluto volentieri con gli occhi puntati in terra. Il resto dipendeva tutto dalla stoffa di cui lo aveva fornito il Buon Dio, un sarto che non sbaglia mai. Se il Padreterno ci avesse ritagliato un’altra forma, ne avrebbe cavato comunque qualche cosa di memorabile. Uno scrittore sul genere di Papini o di Giuliotti. O un predicatore capace di mettere spalle al muro eretici di ogni risma. O un pittore incantato davanti alle vite dei santi. Invece ne ha fatto solo un corridore: forse per rivederlo più in fretta il giorno in cui gli avrebbe detto di tornare a casa.
Scheda biografica
Figlio di Torello e Giulia Sizzi, Gino Bartali nasce a Ponte a Ema, in provincia di Firenze, il 18 luglio del 1914. Ha due sorelle più anziane di lui, Anita e Natalina,e un fratello, Giulio.
A 10 anni, Prima Comunione e iscrizione all’Azione Cattolica: «Dio, famiglia, amici sono stati i cardini della mia vita» dirà sempre. Sposa Adriana Bani il 14 novembre del 1940, da cui avrà tre figli: Andrea, Luigi e Biancamaria.
È morto il 5 maggio del 2000 nella sua casa di Ponte a Ema.
Queste le sue vittorie più importanti:
2 Tour de France (1938, 1948);
3 Giri d’Italia (1936, 1937, 1946);
4 Milano-Sanremo (1939, 1940, 1947, 1950);
3 Giri di Lombardia (1936, 1939, 1940);
2 Giri di Svizzera (1946, 1947);
4 maglie di campione d’Italia (1935, 1937, 1940, 1952);
1 Coppa Bernocchi (1935);
1 Tre Valli Varesine (1938);
1 Giro di Romandia (1949);
1 Giro dei Paesi Baschi (1935).
Tra il 1931 e il 1954 corse 988 gare, ne vinse 184, 45 per distacco.
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