Kamil Glik e la forza della fede

Posté par atempodiblog le 31 janvier 2015

Kamil Glik e la forza della fede

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Mai il Toro aveva avuto un capitano straniero, ma Glik sta stupendo tutti dopo le infelici parentesi di Palermo e Bari.
La forza gli arriva anche dalla sua fede, espressa direttamente sulla fascia con una citazione di Papa Giovanni Paolo II: «Come al tempo delle lance e delle spade, così anche oggi, nell’era dei missili, a uccidere, prima delle armi, è il cuore dell’uomo». Ogni riferimento ai fatti di Parigi non sembra casuale e questo rende Glik ancora più speciale.

di Gianluca Oddenino – La Stampa

Documentario realizzato dalla Federazione polacca sul capitano del Toro:

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L’oratorio è un luogo dove si prega, ma anche dove si sta insieme nella gioia

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2015

“Sono molto credente e la domenica vado a Messa”. (Matteo Darmian a Tuttosport)

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Darmian è il “Don Matteo” del calcio italiano
Fonte: Carlo Nesti a Radio Vaticana

Tratto da: Tmw

«Per chi conosce Darmian, – dice Carlo Nesti al Direttore della Radio Vaticana Italia, Luca Collodi –– e il suo nome Matteo, è stato facile trasformarlo nel ‘Don Matteo’ del calcio. Ma, al di là delle etichette, è proprio nelle sue parole, che emerge la cultura dell’oratorio:

Frequentare l’oratorio era come stare in cortile. Ce l’avevo proprio dietro casa, e c’era tutto quello che può servire per crescere bene: divertimento, sport, amicizie, valori. E parlo anche dell’onestà, della lealtà, del saper stare con gli altri, mica solo quelli della religione cristiana, che pure sento. In due parole: all’oratorio ti insegnano a vivere, anzi, ti educano a vivere. Io credo di essere il Matteo, che sono, anche perché ho passato la mia adolescenza all’oratorio di Rescaldina”.

Ricordo che Papa Francesco, nell’incontro con i ragazzi del CSI, disse: Non c’è vero oratorio, senza attività sportiva”. E ricordo che già prima, sia Papa Giovanni Paolo II, sia Papa Benedetto XVI avevano molto a cuore lo sport, come sistema per avvicinare i giovani all’etica e al Vangelo».

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Seppi-Paris: è orgoglio italiano

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2015

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La giornata sportiva azzurra brilla per i due grandi successi di italiani: nella notte è arrivato il trionfo di Andreas Seppi agli Australian Open. L’altoatesino ha clamorosamente eliminato Roger Federer al terzo turno del primo grande slam della stagione. Quattro set tiratissimi (6-4, 7-6, 4-6, 7-6) per una vittoria storica: dal 2007 nessun italiano era riuscito a battere King Roger. [...]

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L’altro grande italiano di oggi è Dominik Paris che in 1.09.99 ha vinto il supergigante di cdm di Kitzbuehel, gara di apertura della 75 edizione delle storiche gare dell’Hahnenkamm.

Tratto da: Tutti convocati

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Gomis, il ragazzo della Porta accanto

Posté par atempodiblog le 4 janvier 2015

Gomis, il ragazzo della Porta accanto
Alfred: “Sì, sono cattolico”
di Ivo Romano – Avvenire

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Generazione Balotelli, o giù di lì. Italiano d’importazione, almeno a metà. Doppio passaporto, natali del Senegal, formazione italiana. L’azzurro già vestito, ma senza promessa di eterna fedeltà. Le porte sono aperte, per tutte le chiamate: Italia o Senegal che sia. Figlio della nuova Italia, finalmente multietnica: uno dei tanti, ormai. Alfred Gomis, un nuovo italiano, frutto di immigrazione e integrazione.

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Ventunenne, secondo di quattro fratelli, tre dei quali portieri (per il quarto, ancora troppo piccolo, si vedrà), sulle orme di papà Charles, che tra i pali giocava in Senegal, prima di fare le valigie e partire per l’Italia. Cuneo, la città d’adozione. Il Torino, la loro culla: parentesi comune, quella tra i ragazzi granata. Ora Alfred gioca nell’Avellino, Lys (il più grande) nel Trapani, Maurice negli Allievi del Torino.

Si sente più italiano o senegalese?
«L’Italia è casa mia, il Senegal le mie radici. Sono arrivato qui che avevo 3 anni, in Italia ho fatto le scuole, sono cresciuto, sono maturato. In Senegal, ci sono le mie radici, che non ho ancora approfondito, ma prima o poi porrò rimedio: ci sono tornato solo una volta, quando avevo 8 anni, ma lo farò ancora, appena ne avrò l’occasione».

In cosa si sente italiano e in cosa senegalese?
«Come dicevo, mi sento profondamente italiano. Del Senegal mi piace la cucina, ma solo se ai fornelli c’è mia mamma (sorride)».

Cosa fanno i suoi genitori?
«Mio padre ha smesso di lavorare: faceva un mestiere duro, appena diventati professionisti noi figli abbiamo deciso di occuparci dei nostri genitori. Mamma lavora all’ospedale di Cuneo: non ha voluto lasciare, perché è un impegno che va al di là del lavoro, ha a che fare col sociale».

A un senegalese, cosa direbbe dell’Italia?
«Che è un bellissimo Paese, che però non sa apprezzarsi e farsi apprezzare. Ha un’infinità di bellezze, naturali e storiche, quasi sempre inespresse e poco valorizzate».

È un Paese razzista, come qualcuno pensa?
«Gli ignoranti ci sono, come ovunque: ma non è un Paese razzista».

Domenica scorsa è stato bersaglio di insulti razzisti da parte dei tifosi del Brescia: era successo altre volte?
«Ne ricordo uno, quando avevo 8 anni, ma l’Italia non c’entra. Giocavamo contro i ragazzini del Monaco, qualcuno mi insultò per il colore della pelle. Ignoranza più che razzismo: la Francia come l’America è piena di africani, gente che ha dato un grande contributo alla storia di quel Paese, insultare un africano non può essere che frutto di ignoranza».

Okaka ha dichiarato: essere di colore mi ha creato problemi in carriera. A lei?
«Un po’ sì, ma non per questioni razziali. È un fatto di pregiudizi: i portieri africani non sono ritenuti affidabili. L’aspetto assurdo è che anche gli addetti ai lavori sono vittime di questo pregiudizio. Perché io sono africano, ma calcisticamente di scuola italiana, da quel punto di vista non c’entro nulla col mio Paese d’origine».

Sa che l’idolo di Buffon è un portiere africano come N’Kono?
«Sì, lo so».

È anche il suo idolo?
«No, perché troppo lontano nel tempo. Sono cresciuto ammirando Schmeichel, ma pure Kahn, che era brutto a vedersi quanto efficace. Ora il migliore è Neuer, che incarna la perfezione del portiere moderno».

E il suo giocatore senegalese preferito?
«Diouf, bravissimo e pazzo (ride)».

Ha già giocato in azzurro, nelle nazionali giovanili: se la chiamasse il Senegal?
«Risponderei: presente».

Il suo obiettivo sportivo?
«Difficile dirlo: può essere la serie A, la Champions League, il Mondiale. Ma può darsi che la mia dimensione resti la Serie B. Solo il tempo dirà a cosa potrò aspirare».

Una squadra in cui le piacerebbe giocare?
«Sarebbe bello tornare al Torino, che è stata la mia casa da ragazzino. Poi, ho un debole per l’Arsenal, per quella maglia, per il progetto che porta avanti, lavorando con i giovani, sempre con lo stesso allenatore. È club di fascino, un vero mito. In più ci ha giocato Vieira, che ha origini del Senegal e per il Senegal ha fatto tanto in termini di progetti benefici».

La continuità tecnica, una chimera per il calcio italiano?
«Qui si vuole tutto e subito, quando le cose non vanno si cambia, per volere del club o per pressioni dei tifosi. Ferguson al Manchester è rimasto una vita, creando davvero una famiglia: ho letto la sua biografia, la consiglio».

Legge molto?
«Sì, ma non solo di sport.  [...]».

Ora cosa vorrebbe leggere?
«Una biografia di Muhammad Alì: lo conosco come atleta, non come uomo. Ma sono curioso, perché so quel che è stato capace di fare».

Sul suo profilo Facebook c’è una frase di Nelson Mandela [...]: è lui il suo esempio di vita?
«Sì, è stato un uomo eccezionale, capace di perseguire i suoi obiettivi restando sempre sereno, nonostante tutto quel che ha subito, senza mai cercare vendetta, ma solo pacificazione, e dimostrando che se si vuole si può sconfiggere tutto. Io non ce l’avrei fatta: questione di carattere».

Si riconosce più in altri?
«Forse in Malcom X, che è stato più estremo».

Cosa pensa di Balotelli?
«Non è uno stupido, come certa gente pensa. Mi spiace solo che non riesca a incanalare in senso positivo la sua grande esposizione mediatica».

È religioso?
«Sì, cattolico».

È sempre così aperto e disponibile?
«I miei genitori me lo hanno insegnato: tutte le persone insegnano qualcosa. Dialogo e apertura sono fondamentali».

Ma il suo ruolo le impone la solitudine: che sensazioni si provano?
«Ho imparato a liberare la mente quando sono in porta: me lo ha insegnato Angelo Bellucci, il primo vero allenatore dei portieri che ho avuto».

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Pallone Azzurro 2014: vincono Darmian, Rosucci, Lima e Corosiniti

Posté par atempodiblog le 1 janvier 2015

Pallone Azzurro 2014: vincono Darmian, Rosucci, Lima e Corosiniti

Vincono il “Pallone Azzurro 2014”: Matteo Darmian (25 anni, Nazionale Maschile), Martina Rosucci (22 anni, Nazionale Femminile), Gabriel Lima (27 anni, Capitano Nazionale Futsal) e Francesco Corosiniti (30 anni, Capitano Nazionale Beach Soccer).

L’elezione dei quattro azzurri migliori dell’anno appena trascorso si è svoltata nel mese di dicembe in due fasi – una preliminare e una finale – votate complessivamente da quasi 100.000 utenti unici.

Le due precedenti edizioni dedicate esclusivamente alla Nazionale Maschile erano state vinte da Gianluigi Buffon (2013) e Andrea Pirlo (2012).

Tratto da: Vivo Azzurro FIGC

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Real Madrid, tifosi in rivolta: “Non toglieteci la croce”

Posté par atempodiblog le 4 décembre 2014

Real Madrid, tifosi in rivolta: “Non toglieteci la croce”
di Gian Antonio Orighi – La Stampa

Real Madrid, tifosi in rivolta: “Non toglieteci la croce” dans Articoli di Giornali e News e0lts5

No allo stemma del Real Madrid senza croce. Enraizados (Radicati), un gruppo cattolico, sta raccogliendo le firme contro l’accordo tra i Meregues e la banca di Abu Dhabi Nbad (sponsor della squadra spagnola) che prevede il lancio negli Emirati Arabi Uniti di una credit card con lo scudo del club, ma senza il simbolo della cristianità. La ragione della cancellazione? Non ferire i fedeli di Allah. In una settimana, gli osservanti hanno già raccolto 2 mila adesioni, mentre sul web si è scatenata la polemica. «Toglieranno anche la corona per sostituirla con un turbante?»; «Cambieranno il nome di Ronaldo, Cristiano, in Musulmano?», attaccano i tifosi del Bernabeu.

Il Real Madrid, fondato nel 1902, è nato senza croce. Ma nel 1920 il re Alfonso XIII, grande fan dei Merengues (Meringhe, così soprannominati per il dolce che ha lo stesso colore delle magliette del club), concesse il titolo onorifico di Real alla squadra, che da allora esibisce nello stemma la corona borbonica, che culmina con una croce. La II Repubblica, proclamata nel 1931 dopo la cacciata di re Alfonso XIII, l’abolì insieme alla corona. Il dittatore Franco, cattolicissimo e grande ammiratore del club, le restaurò nel ’41. Da allora, la croce aveva sempre svettato senza polemiche, anche con giocatori maomettani come Benzema. «So che ogni partita si vive lì con speciale emozione e che il vincolo con gli Emirati Arabi Uniti è sempre più forte – ha commentato Florentino Pérez, presidente del Real, sulle cui magliette non a caso c’è la pubblicità della linea aerea degli Emirates -. Vogliamo che il Real Madrid continui a conquistare il cuore dei suoi fan. E desidero che questa alleanza di 3 stagioni possa trasformarsi in qualcosa di permanente». Pérez sogna un parco tematico dei Merengues ad Abu Dhabi, il Real Madrid Resort Island (hotel di lusso, installazioni sportive e campo da calcio in riva al mare), un investimento da 1 miliardo di dollari al momento fermo, ma che Nbad ha promesso di riattivare (utile annuo stimato di 50-60 milioni).

Enraizados, però, snobba i petrodollari. E sul suo sito attacca: «Il Real Madrid usa uno stemma differente a seconda di dove va. Se gioca in Europa, la corona ha la croce. Se invece lo fa negli Emirati, non ce l’ha. Insomma, sono più importanti i soldi che la storia del club». E ancora: «Chiediamo a Pérez di rettificare. Questa decisione significa disprezzare i cristiani perseguitati nel mondo, le radici cristiane dell’Europa». Ma un precedente già esiste: nelle magliette del Barcellona vendute nei Paesi Arabi è sparita la croce di San Giorgio dallo scudo. E vanno a ruba.

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Bruno Peres: “A gloria è de Deus”…

Posté par atempodiblog le 30 novembre 2014

“A gloria è de Deus”, la gloria è di Dio. La frase (e la storia) l’ha scritta Bruno Peres
Torino, Bruno Peres: gol alla Bale nel derby con la Juve. Arriva dal Santos e…
di Ivan Palumbo – La gazzetta dello sport

Bruno Peres: “A gloria è de Deus”... dans Articoli di Giornali e News 2eowrdl
Bruno Peres, 24 anni, esulta dopo il gol alla Juve. LaPresse
L’esterno granata sulla scelta del numero 33: “Si dice siano gli anni di Cristo. Devo tutto a Gesú, sono un giocatore devoto a Cristo. Ho scelto questo numero in suo onore”.

Lo spettacolare coast-to-coast del brasiliano ha messo fine a un digiuno di 12 anni dei granata contro i bianconeri: costato 2 milioni, è in ritiro dal primo giorno ma è stato tesserato solo l’1 settembre. Fuori dalla lista dell’Europa League, ma in A ha sempre giocato titolare da quando ha preso il posto di Molinaro.

“A gloria è de Deus”, la gloria è di Dio. La frase (e la storia) l’ha scritta Bruno Peres: l’ha mostrata al mondo dopo una corsa di 78 metri che è già nella leggenda. Juventus-Torino, minuto 22: un ragazzo di 24 anni, semisconosciuto, prende palla al limite della sua area di rigore, aggira Pogba che lo molla subito, poi parte sulla destra e affronta Evra, lo salta con facilità, Vidal prova a raddoppiare ma nel momento stesso in cui si avvicina ci ripensa, quasi magicamente sballottato dalla forza centrifuga dell’avversario. A Bruno Peres resta da firmare l’ultimo capolavoro: dopo 11 secondi col turbo azionato, entra in area e fa partire un destro pazzesco, la palla sbatte sul palo e si infila in rete. È l’1-1. È la magia del calcio. “Io ho la propensione a questo tipo di azione. Mi hanno dato spazio e ne ho approfittato, per fortuna è andata bene”, ha spiegato lui all’intervallo. “Lo dedico a mia moglie e ai tifosi del Torino, spero siano contenti”. Per un’ora e un quarto, prima della beffarda doccia gelata di Pirlo, lo sono stati senz’altro: era da 12 anni che i granata non facevano gol nel derby, forse è valso la pena aspettare.

Magie  —  Gol così ne abbiamo già visti. Nicola Berti al Bayern Monaco (1988), George Weah al Verona (1996), Gareth Bale al Barcellona (primavera 2014). Poi però lo segna Bruno Peres e l’estasi è raddoppiata dall’effetto sorpresa. Semisconosciuto, dicevamo, forse facendogli un torto. Tutto sommato giocava nel Santos, non una squadra qualsiasi e gol capolavoro ne aveva già fatti in Brasile tra un sinistro all’incrocio (sì, sa calciare con entrambi i piedi) e uno slalom da urlo. Il Toro lo voleva già a gennaio, poi non se ne fece nulla.

Tormento  —  Il destino ha vestito comunque di granata Bruno Peres. Si presenta il 30 giugno all’Hotel Boston di via Massena, a Torino, per il ritiro anticipato. C’è l’Europa League, la squadra di Ventura è la prima della A a radunarsi. Peccato che per Bruno Peres l’Europa tanto sognata resta un miraggio. Le pratiche legate allo status di comunitario di Sanchez Miño costringono il Toro a tesserare il brasiliano soltanto l’1 settembre, ultimo giorno di mercato. E il giorno dopo Ventura lo esclude dalla lista dell’Europa League. Forse non era convinto neppure lui, non avendolo mai visto in partite ufficiali. Poi, però, Peres esordisce col Verona alla terza giornata: 21 minuti, uno spezzone. Alla gara successiva è titolare e da allora lo è sempre con Molinaro in panchina e Darmian dirottato a sinistra: 10 partite consecutive, una sola sostituzione, media voto Gazzetta 6,10 destinata a impennarsi dopo il coast-to-coast. Chi è Bruno Peres? Da oggi nessuno lo chiederà più.

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Baronchelli: «La vittoria più bella è la conversione»

Posté par atempodiblog le 29 septembre 2014

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«La vittoria più bella per me è stata la conversione». Se a dirlo è un ex campione di ciclismo che di vittorie se ne intende perché nella sua carriera da professionista ha colto ben novanta successi, allora gli si deve credere. Gianbattista Baronchelli, «Tista» per gli amici, Gibì per i tifosi, classe 1953, uno dei corridori italiani che ha dominato gli anni ’70 e ’80, oggi vive ad Arzago d’Adda, un paesino della provincia di Bergamo al confine con quelle di Cremona e Milano, dove gestisce un piccolo negozio di biciclette insieme al suo inseparabile fratello Gaetano. È qui che si è ritirato alla fine della carriera di professionista ed è qui che lo incontro, il sapore del vecchio negozio di bici dove trovi il “maestro” di ciclismo più che il venditore.

Sulla bici ha percorso centinaia di migliaia di chilometri, ha percorso strade di tutto il mondo, ma solo da pochi anni ha trovato la strada giusta: «E quando si trova la strada giusta bisogna non perderla più, si riesce a vedere tutto nella giusta dimensione, non si dà più importanza a cose che in realtà sono secondarie». Anche il successo nello sport, che pure ha indirizzato la sua vita.

Settimo di nove figli, una famiglia di contadini, papà e zii grande appassionati di ciclismo, Tista ha cominciato a correre in bici a 15 anni seguendo suo fratello Gaetano, di un anno più vecchio. «All’inizio era un gioco, poi è diventata una professione», dice Tista. Infatti, i due fratelli fanno subito vedere di avere un talento naturale e quando arrivano fra i dilettanti fanno parlare di loro. Nel 1973, al mondiale di Barcellona, quello che tra i professionisti vede trionfare Felice Gimondi, Gaetano arriva settimo tra i dilettanti, primo degli italiani. E nello stesso anno Gianbattista vince il Giro d’Italia e il Tour de L’Avenir (il Giro di Francia dei dilettanti), una vera impresa che, insieme alle tante altre vittorie ottenute, lo lancia tra i professionisti a 21 anni.

Erano gli anni in cui il belga Eddy Merckx, “il cannibale”, era il dominatore assoluto, da Baronchelli ci si aspettava una “risposta” italiana. «Quando ero ragazzo io tifavo per Merckx, poi dopo pochi anni mi sono trovato a combattere con lui». E nel 1974, primo anno da professionista nella squadra della Scic, per un pelo Tista non riesce a mangiarsi “il cannibale”. Al Giro d’Italia, disputato da grande protagonista sorprendendo tutti, nel penultimo tappone dolomitico sulle Tre Cime di Lavaredo stacca Merckx e sembra poter conquistare la maglia rosa, ma Merckx resiste mantenendo un vantaggio in classifica di appena 12 secondi. Un’inezia, e il giorno dopo pur attaccando, Baronchelli non riesce a replicare l’impresa, e Merckx finisce il giro con quel niente di vantaggio. Nella stessa stagione il belga vincerà anche Tour e Mondiale a ulteriore dimostrazione dell’impresa compiuta da Baronchelli al Giro.

Un inizio da professionista che fa presagire imprese ancora più grandi: «Ma quando tutti ti aspettano, le cose si fanno più difficili. L’impatto con il professionismo è stato duro, tra i dilettanti mi ero molto divertito ma lì da professionista ti ritrovi solo». Solo con suo fratello Gaetano, che da professionista si dedica tutto a far da gregario al fratello più giovane. A frenarlo anche una grave infezione al fegato nel 1975, poi anche il grande risultato che non arriva: «Quando per 4-5 anni non vinci subentra anche un blocco di testa. Fino al 1978 puntavo ai grandi giri, perché ero un fondista, andavo bene dappertutto e recuperavo più in fretta degli altri. Poi però la grande vittoria non arrivava, allora mi sono trasformato e ho puntato alle corse in linea».

Ed ecco le vittorie: due volte il Giro di Lombardia, l’Henninger-Turm, sei volte consecutive il Giro dell’Appennino, Il Giro di Toscana, del Lazio, dell’Emilia e tante altre. Saranno novanta, alla fine della carriera, ma da lui – inutile negarlo – viste le premesse ci si aspettava di più. Infortuni, il carattere schivo, tutto il contrario di un arrivista. Ha avuto anche la sfortuna di trovarsi davanti dei mostri sacri del ciclismo, tra i più grandi campioni di ogni epoca: non solo Merckx, anche il francese Bernard Hinault, che gli sbarrò la strada al mondiale del 1980. Circuito di Sallanches, in Francia: uno dei percorsi più duri di sempre, 270 km con salita che arrivava al 14% di pendenza, una gara tremenda. Dei 107 corridori alla partenza, alla fine ne arriveranno appena 15, un solo italiano: Baronchelli resta con Hinault fino all’ultimo giro, quando il francese molla anche l’italiano che, complice anche un salto di catena, arriva secondo al traguardo con un minuto di ritardo; il terzo, lo spagnolo Martìn, arriva con quasi 5 minuti. 

Una gara fantastica, quella di Baronchelli, ma ancora una volta un grandissimo gli nega la vittoria. E sarà un po’ questa anche la maledizione che accompagnerà Tista: «Ancora oggi, quando mi invitano alle feste mi presentano come il perdente – mi dice sorridendo un po’ amaro -: non dicono mai Baronchelli che ha vinto questo e quello, ma Baronchelli che ha perso il Giro, ha perso il Mondiale, non è proprio il massimo». E non è neanche giusto per tutto quello che ha fatto. Rimpianti? «Tornando indietro farei anche scelte diverse, ma le cose sono andate così, dovevano andare così: bisogna accettare il verdetto». 

E quando ha smesso di correre è tornato al suo paese, non per delusione ma per scelta. «Della vita di corridore a me ha sempre pesato molto essere continuamente in giro per il mondo, non mi piace, la sera voglio tornare a casa, c’è la famiglia. Restare nel mondo delle corse avrebbe significato essere in giro più di prima, allora basta». Decisione già presa con largo anticipo: dal 1982, sempre con Gaetano, avevano già messo su questo negozio di bici, nel 1989 inizia a lavorarci anche Tista, che nel frattempo si era sposato nel 1987 e nel 1988 aveva avuto la prima figlia (alla fine saranno tre): «Io i miei figli li ho visti nascere tutti, queste sono le cose belle della vita. Vincere le corse, sì è bello, ma la vita è più grande, c’è di più».

C’è di più, ma allora Tista non aveva ancora dato un nome a quel “più”, solo recentemente ha capito. «È successo quando è scomparsa la mia mamma, tre anni e mezzo fa. Lei aveva una grande fede, tutte le mattine andava a messa a piedi. E sicuramente lei ha pregato tanto per la conversione dei suoi figli, e le sue preghiere sono state esaudite».

Prima non eri cattolico? «Ero un cattolico come tanti, marginale. Sai, l’educazione di andare a messa l’abbiamo avuta ed è già una bella cosa, ma la conversione è un’altra cosa». Prima è stato Gaetano, sembra che il suo compito sia aprire la strada a Tista: «Mio fratello già da anni si era convertito, attraverso la malattia di sua moglie, molto spesso si arriva sulla giusta strada per queste vie».

Poi il periodo buio è arrivato anche per Tista («Sbagliare strada è facilissimo, seguire le vie facili è comodo, ma ti porta alla morte») e quando la mamma se ne è andata a 90 anni, è scattato qualcosa: «Dal momento che è morta, mi sono sintonizzato su Radio Maria, e da lì è cresciuta giorno per giorno». Alla radio Tista sentiva parlare di Medjugorje, magari sapeva già di queste apparizioni ma ora la cosa diventava interessante, lo interpellava. «Mia madre era morta in aprile, quell’estate mentre ero in vacanza con la famiglia in Sardegna ho comprato un libriccino su Medjugorje, mi si è aperto il cuore. Poi a settembre ho cominciato a seguire mio fratello agli incontri del Rinnovamento nello Spirito: sono incontri molto belli, si vede davvero che c’è un sacco di gente che ha bisogno». 

Sei anche stato a Medjugorje? «Ci sono stato con il pensiero e con lo spirito, prima o poi ci andrò di persona: con mia moglie, quando sarà pronta. Ma non è un problema, il Signore è dappertutto, io sono già arrivato a Cristo attraverso la Madonna». E del resto la Madonna gli è comunque vicina: «Siamo fortunati, abbiamo il santuario di Caravaggio vicinissimo, da casa in tre minuti ci arrivo».

Con la conversione cambia tutto: «Arriva quando deve arrivare, il sì lo devi dire tu e il bello è proprio questo: la tua libertà, sei tu che dici sì. E la vita diventa un’altra, la cosa più importante è ringraziare il Signore per quello che hai, è lui che te l’ha dato. E quando le cose non vanno è perché deve andare così, per forza. Bisogna capirlo, è un cammino». Che Tista augura a tutti, a cominciare da moglie e figli: «Sono cattolici sì, come lo ero io, ma è difficile capire se non ti arriva la grazia». Tista non vuole convincere: «Le parole lasciano il tempo che trovano, l’importante è l’esempio». E l’esempio è chiaro: «Mi piace leggere il Vangelo tutti i giorni, è più facile seguire la strada. Per me la cosa più importante accaduta nella vita è la fede, tutto il resto è in secondo piano. Quando devi prendere le decisioni, devi sempre pregare e basta. E il Signore ti dà quel che è giusto che tu abbia». Pregare, appunto. E attendere, come la mamma ha pregato e atteso per Gaetano e Tista.

di Riccardo Cascioli – La nuova Bussola Quotidiana

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Belinelli e La Compagnia dell’Anello

Posté par atempodiblog le 16 juin 2014

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Il persicetano Marco Belinelli è il primo italiano a vincere un titolo Nba, il più importante campionato al mondo di basket.  Il confronto decisivo tra San Antonio Spurs, dove gioca Belinelli, e Miami Heat si è concluso 104 a 87.                

Nella notte tra domenica 15 e lunedì 16 giugno si è giocata a San Antonio, in Texas, l’ultima gara delle finali playoff Nba (National Basketball Association), la lega professionistica di basket degli Stati Uniti e del Canada. Gli Spurs, dove gioca Belinelli, hanno battuto gli Heat 104 a 87, portando la serie sul definivo 4-1 e vincendo il titolo Nba. Questa è la seconda vittoria da record in pochi mesi per Belinelli, che a febbraio ha vinto il Three-Point Contest, la gara dei tiri da tre punti nell’ambito dell’All-Star Game.

Per il prossimo settembre, in accordo con amici e familiari di Marco, è in programma una grande festa a Persiceto per celebrare i suoi tanti successi.

Tratto da: Comune di San Giovanni in Persiceto

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L’Italia può vantare un tifoso d’eccezione: Kobe Bryant

Posté par atempodiblog le 16 juin 2014

Kobe Bryant soffre e tifa per l’Italia
La superstar dell’NBA scatenata su Twitter durante la sfida fra gli Azzurri e l’Inghilterra.

L'Italia può vantare un tifoso d'eccezione: Kobe Bryant dans Sport 2ia3fbr

L’Italia può vantare un tifoso d’eccezione.
A sostenere gli Azzurri ai Mondiali c’è infatti anche Kobe Bryant, superstar dell’NBA.

“ITALIA!!!!! #ForzaItalia” ha cinguettato all’inizio della sfida con l’Inghilterra il cestista, nato a Philadelphia ma in Italia al seguito del padre Joe dai 6 a i 13 anni.

A entusiasmare ‘Black Mamba’, stella dei Los Angeles Lakers, è stato soprattuto Mario Balotelli.

“Dovrebbe essere 2-1! Bella prova @FinallyMario #ForzaAzzurri”, ha scritto dopo il pallonetto su Hart di ‘SuperMario’ salvato solo sulla linea da Jagielka.

Poi l’esplosione di gioia al momento del gol del centravanti. “Ballooo!!! E adesso la difesa deve mantenere #ForzaAzzurri”.

Tratto da: Sportal

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Gioco e vita, di Joseph Ratzinger

Posté par atempodiblog le 12 juin 2014

Ripropongo questa riflessione dell’allora Card. Ratzinger sul calcio
Gioco e vita
di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI
da Cercate le cose di lassù, Paoline 1986
Fonte: Tracce

Gioco e vita, di Joseph Ratzinger  dans Riflessioni 2450y8n

Regolarmente ogni quattro anni il campionato mondiale di calcio si dimostra un evento che affascina centinaia di milioni di persone. Nessun altro avvenimento sulla terra può avere un effetto altrettanto vasto, il che dimostra che questa manifestazione sportiva tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità e viene da chiedersi su cosa si fondi tutto questo potere di un gioco. Il pessimista dirà che è come nell’antica Roma. La parola d’ordine della massa era: panem et circenses, pane e circo. Il pane e il gioco sarebbero dunque i contenuti vitali di una società decadente che non ha altri obiettivi più elevati. Ma se anche si accettasse questa spiegazione, essa non sarebbe assolutamente sufficiente. Ci si dovrebbe chiedere ancora: in cosa risiede il fascino di un gioco che assume la stessa importanza del pane? Si potrebbe rispondere, facendo ancora riferimento alla Roma antica, che la richiesta di pane e gioco era in realtà l’espressione del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata. Perché è questo che s’intende in ultima analisi con il gioco: un’azione completamente libera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impiega e occupa tutte le forze dell’uomo. In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello.

Così il gioco va oltre la vita quotidiana. Ma, soprattutto nel bambino, ha anche il carattere di esercitazione alla vita. Simboleggia la vita stessa e la anticipa, per così dire, in una maniera liberamente strutturata. A me sembra che il fascino del calcio stia essenzialmente nel fatto che esso collega questi due aspetti in una forma molto convincente. Costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere con l’allenamento, la padronanza di sé; con la padronanza, la superiorità e con la superiorità, la libertà. Inoltre gli insegna soprattutto un disciplinato affiatamento: in quanto gioco di squadra costringe all’inserimento del singolo nella squadra. Unisce i giocatori con un obiettivo comune; il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto. Inoltre, insegna una leale rivalità, dove la regola comune, cui ci si assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione.

Infine, la libertà del gioco, se questo si svolge correttamente, annulla la serietà della rivalità. Assistendovi, gli uomini si identificano con il gioco e con i giocatori, e partecipano quindi personalmente all’affiatamento e alla rivalità, alla serietà e alla libertà: i giocatori diventano un simbolo della propria vita; il che si ripercuote a sua volta su di loro: essi sanno che gli uomini rappresentano in loro se stessi e si sentono confermati. Naturalmente tutto ciò può essere inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il gioco da gioco a industria, e crea un mondo fittizio di dimensioni spaventose. Ma neppure questo mondo fittizio potrebbe esistere senza l’aspetto positivo che è alla base del gioco: l’esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del paradiso perduto. In entrambi i casi si tratta però di cercare una disciplina della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, la rivalità e l’intesa nell’obbedienza alla regola. Forse, riflettendo su queste cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina, che insegna l’affiatamento e la rivalità leale, l’indipendenza del successo esteriore e dell’arbitrio, e diviene appunto, così, veramente libera. Il gioco, una vita. Se andiamo in profondità, il fenomeno di un mondo appassionato di calcio può darci di più che un po’ di divertimento.

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Mondiale 2014. Zeman: “Insigne, Immobile e Verratti vi stupiranno”

Posté par atempodiblog le 9 juin 2014

Mondiale 2014. Zeman: “Insigne, Immobile e Verratti vi stupiranno”
Il boemo li lanciò nel Pescara che conquistò la A: “Immobile è un bomber nato, Insigne al tiro è tra i più bravi che ho avuto, Verratti sa giocare”

di Andrea Di Caro – La Gazzetta dello Sport

Mondiale 2014. Zeman: “Insigne, Immobile e Verratti vi stupiranno” dans Sport 290u1dc

“Lò, Marcolino e Ciruzzo a papà… Tutti in Brasile. Che grande soddisfazione. Sono molto felice per i miei ragazzi. Farò il tifo per loro”. Li chiama così, Zdenek Zeman, i suoi ragazzi, con i nomignoli affettuosi che aveva dato loro nella stagione dei miracoli di due anni fa a Pescara quando, ventenni, li guidò a una promozione storica lanciandoli nel grande calcio. Insigne, Verratti e Immobile: i baby terribili di zemanlandia versione abruzzese si sono presi tre dei 23 posti disponibili per il Mondiale e rendono omaggio al vecchio Maestro. “Senza di lui non sarei qui”. “Mi ha insegnato la cultura del lavoro”. “Quanta fatica, ma poi ti fa volare”. Ci sono gli scudetti e le coppe in bacheca e quelli che un allenatore si porta nel cuore, come aver plasmato giocatori che se non avessero incontrato lui, chissà… Zeman si schermisce, evita gli eccessi e la melassa, non deborda in complimenti, però si sente dalla voce che è felice davvero: “Ci tengo a dire una cosa, non sono solo tre bravi a giocare a pallone, sono anche tre bravi ragazzi. Seri, generosi, disponibili. Mi hanno dato tanto e spero di aver dato anch’io loro qualcosa”.

Beh Zeman, più di qualcosa a sentire cosa dicono di lei in ogni intervista.
“Fa piacere che si ricordano ancora del loro vecchio allenatore. Ci sentiamo ogni tanto. Una telefonata o un sms dopo qualche bel risultato. L’ultimo che ho sentito è stato Insigne”.

Anche l’ultimo a staccare il biglietto per i Mondiali. Sul fotofinish ha superato Destro e Rossi.
“Sono contento che abbia convinto Prandelli a portarlo nonostante la grande concorrenza, ma lo stesso discorso vale anche per Ciro e Marco”.

Riavvolgiamo il nastro dei ricordi. La prima volta che vide Insigne?
“A Viareggio. Giocava nella Primavera del Napoli, ma non faceva l’attaccante…”.

Sei mesi con la Cavese in Prima Divisione: 10 spezzoni e zero gol. Poi con Zeman 33 partite e 19 gol in Prima divisione col Foggia e l’anno dopo 37 partite e 18 gol a Pescara in B.
“Si è dimenticato i gol in Coppa Italia e la marea di assist. Lui segna e fa segnare”.

Anche se a Napoli in due anni la vena si è un pò ridotta: solo 8 reti in 73 partite di campionato.
“Per me può fare tanti gol e assist anche in Serie A. Ha 18-20 reti nei piedi. Per segnare e servire assist però dipende anche da dove parti. Sono contento che Prandelli lo abbia inserito tra gli attaccanti…”.

Qualità e ruolo ideale?
“E’ un attaccante esterno. Fisicamente, anche se piccolo, ha grande resistenza e velocità. Nell’uno contro uno e nella preparazione al tiro è tra i più bravi che io abbia avuto”.

Da Lò a Ciruzzo… Prima di lei Immobile fece un anno in B tra Siena e Grosseto: 20 partite due gol. Poi a Pescara 37 partite e 28 gol. Via da Zeman solo 5 reti in 33 partite col Genoa. Quest’anno l’esplosione in A: capocannoniere.
“Quando l’ho visto a Pescara gli ho detto: tu sarai il nostro bomber. Fece solo 28 gol, ma poteva farne uno a partita. A Genova non giocava prima punta. Una volta tornato centravanti ha fatto vedere quanto vale. Ciro è un generoso, lascia tutto sul campo, lotta, calcia senza paura”.

E soprattutto la calcia dentro. Tanto da aver convinto il Dortmund a prenderlo.
“Mi spiace per il calcio italiano. E’ un brutto segnale quando i giovani migliori vanno via. Ma per lui sarà una bella esperienza: potrà giocare e crescere, non solo finanziariamente, imparando nuove cose a livello tecnico e tattico. Ha le spalle larghe e la voglia di arrivare. Farà bene”.

Come ha fatto bene Verrattì nel Psg. Sostiene che lei l’ha costruito nella testa e nel fisico.
“Durante la preparazione a Pescara ebbe dei problemi. Però ha imparato a stringere i denti. Arrivava per ultimo ma non si è mai fermato. All’inizio giocava poco perché non era fisicamente pronto. Poi è entrato e il resto è venuto da sé. Perché Verratti sa giocare…”.

Sa giocare in tutti i ruoli? In Nazionale c’è Pirlo…
“Per me Marco è un regista. Ma nell’ultima amichevole ha cominciato alto, poi basso, poi a sinistra. E per me è stato il migliore dei nostri. Ripeto due parole: sa giocare”.

Immobile, Verratti, Insigne. Tra i tanti zemaniani finiti in Azzurro sono loro il suo fiore all’occhiello?
“Sono il fiore all’occhiello di oggi, perché ci sono anche tanti fiori di ieri… Mi inorgoglì la chiamata dal Foggia di Signori e Baiano. E non mi dimentico Totti, Di Biagio, Tommasi, Negro, Favalli, Nesta, Fuser… Questi ultimi tre sono i fratelli piccoli di una bella nidiata”.

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IL PIANTO DI CERCI/ Se anche un pallone ci ricorda che siamo creature finite

Posté par atempodiblog le 20 mai 2014

IL PIANTO DI CERCI/ Se anche un pallone ci ricorda che siamo creature finite dans Articoli di Giornali e News actx1x

«Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state» (Guido Gozzano). La vita ha il sapore dell’incompiutezza. Ci giochiamo una partita, infatti, c’entra poco con la favola dell’“impegnati e ce la farai”.

Io non so come abbia fatto lui a dormire l’altra notte, se già io ho fatto fatica. Dopo che gli è accaduto un fatto che, d’accordo, non sarà il primo e non sarà l’ultimo, ma proprio per questo, anzi, in altri tempi ci avrebbero raccontato un mito, perché un attimo ha svelato la tragica incompiutezza dell’esistenza. Parlo di Alessio Cerci. Sì, il calciatore del Torino e della nazionale. Ce lo scriverei io, un mito. Se fossi almeno Gramellini, o meglio ancora Euripide. Esiste già il mito di Circe; da oggi, perché no?, ci sarà quello di Cerci.

Ultimo secondo dell’ultimo minuto dell’ultima giornata del campionato di calcio. Sul 2-2 il Toro vedeva sfumare, rassegnatamente, la possibilità di qualificarsi per l’Europa League. Per un punto soltanto. Ma l’imprevedibile accade. L’arbitro fischia un rigore, al 93’. Cioè il destino mette Cerci sul dischetto del rigore. Gli offre, ormai inattesa, l’occasione dell’anno. Un attimo dopo l’arbitro avrebbe fischiato la fine. Del campionato. E il Toro allora sì, giustamente premiato, ci sarebbe andato, in Europa.

Forse non è chiaro, per chi non segue il calcio e per chi lo sottovaluta. Quel rigore era sì un duello fra un attaccante e un portiere. Ma non era solo quello. La realtà non era appena una persona davanti a una palla. C’era un’intera stagione da chiudere in gloria. C’erano vent’anni di astinenza europea di una squadra (epica). Erano due. Ma c’era un po’ d’Italia a guardarli. E nei suoi piedi, che erano solo suoi, tremendamente soltanto suoi, c’era un popolo intero, quello granata. E vent’anni, di fallimenti e di tradimenti, di cadute e di false partenze. Erano Achab e la balena bianca. Era il kairòs (che, per i meno esperti di greco antico, non è lo storpiamento del cognome presidenziale Cairo).

Ma il rigore, l’eroe, l’ha sbagliato. E dopo è scoppiato a piangere. L’avrà fatto per dieci minuti. Sono andati ad abbracciarlo i compagni. E poi sono andati gli avversari. Pepito Rossi. E Montella. E lui inconsolabile. Non l’hanno fermato le pacche sulle spalle, né forse le sagge parole del dopopartita. Perché in quelle lacrime c’era un anno buttato al vento. C’era lo schianto dell’aereo a Superga 65 anni fa, la tragedia in agguato tra i fiori di cinque scudetti consecutivi e di undici campioni in nazionale. C’erano, mischiate, le lacrime di Baggio vent’anni fa in America, e quelle di Sara Errani, poche ore prima a Roma, tradita dai muscoli nel bel mezzo della finale a casa sua: e quando le ricapita?

C’era il «male di vivere» di Montale. Che io ho sempre intuito a partire da due versi di un’altra poesia: «Ma nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case». Chi risponde a quel pianto? di quel bambino che ha perso quella palla? Alessio Cerci, domenica sera, era un bambino. Di un metro e ottanta, e velocissimo come Achille. Ma un bambino. Finché non capiremo lo strazio di quel pianto, non capiremo Montale. E dovremo chiudere i licei. Ma se guarderemo quel pianto, torneremo a scrivere opere d’arte, perché le tragedie si inoltrano nel tragico dell’esistenza. Nell’ingiusto, nell’incompiuto, nell’ineluttabile. Nel«cavallo stramazzato», nel «rivo strozzato», nel rigore sbagliato.

Le tragedie non sono questione di libri: nascono fuori, nell’attimo in cui l’uomo è messo di fronte non appena a un portiere, ma al destino. Che si compie, inevitabile. E non sarà il bel tweet del gemello Immobile a ridargli quella palla sul dischetto. Perché ha ragione De Gregori a sentenziare che «non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore»: un giocatore no, ma un fatto sì, va giudicato. Non va attenuato, perché noi non siamo al mondo per consolarci: «perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga?» si domandava Leopardi. Né serve svicolare dal dolore, proiettandoci ottimisticamente in una palingenesi futura: “Si rifarà ai Mondiali”. Ma un successo ai Mondiali – che gli auguriamo, che ci auguriamo – non ripaga quel pianto. Perché un dolore non si toglie con una gioia, come un figlio vivo non compensa un figlio perso.

La ferita dell’eroe Alessio Cerci è quella dell’uomo che scopre che non basta essere bravo, né gli basta impegnarsi, ma che sente cos’è un fatto, l’evento da cui non si torna indietro, così diverso da ogni discorso (ne era certo il torinese Pavese: «nelle cose pensate manca sempre l’inevitabilità»).

Intanto la scuola, negli stessi giorni, sembra un’oasi protetta, senza sangue, senza lacrime definitive, dove tutti i fatti sono rimediabili. L’assenza programmata, l’interrogazione pilotata, la giustifica al momento giusto, l’interrogazione andata male con tanto di, immediato, “quando posso recuperare?”. Come se Cerci potesse chiedere: “posso tirarlo di nuovo, il rigore?”; oppure: “dài, arbitro, un altro quarto d’ora”.

Guardare le lacrime, senza annacquarle di consolazioni né scioglierle nel domani, ci fa sprofondare in un dolore antico: quello degli eroi che perdono e degli dèi che non si commuovono. I greci in quel rigore ci avrebbero visto chissà quali lotte nell’Olimpo: Giunone a maledire e Apollo a colpire a tradimento. E avevano ragione. Chi tifa Toro lo sa, come chi tifava Troia.

Liberi tutti di consolarti, e solo tu di rimanere inconsolabile. Piangi pure, Alessio: perché non è roba da uomini, stare di fronte a quelle lacrime: è roba da dèi. Da cieli che piovono lacrime. O almeno, come accadeva un tempo, da uomini tramortiti: «e tu, onore di pianti, Ettore, avrai». «Onore di pianti», non di pacche sulle spalle o di applausi. Chi paga, insomma, il pianto di Cerci, a cui fugge il pallone sul portiere?

di Valerio Capasa – Il Sussidiario.net

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Ultimo stadio

Posté par atempodiblog le 4 mai 2014

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Nella finale della coppa calcistica nazionale ogni Paese offre uno specchio di sé. Anche noi, modestamente. Si comincia con un simpatico assalto degli ultrà della Roma a quelli napoletani. Non importa che la partita sia Napoli-Fiorentina e i romanisti non c’entrino nulla. La finale di Coppa Italia è una sorta di convegno dove delegazioni di violenti provenienti da ogni bar sport della penisola si danno appuntamento fuori dallo stadio per regolare i conti in sospeso: laziali contro romanisti, romanisti contro napoletani, pare addirittura napoletani contro veronesi. Al culmine della battaglia, una brigata di teste di cuoio giallorosse tende un agguato ai marines partenopei, o viceversa: dall’immane scontro di cervelli scaturisce un parapiglia. Da qui in poi i contorni della vicenda diventano ancora più sfocati. L’unica certezza è che qualcuno estrae una pistola e spara. Riassumendo: un agguato per le strade e l’assolo di un pistolero. Non a Tripoli o a Beirut, dove al massimo può succedere di imbattersi in Dell’Utri, ma nel cuore di Roma, capitale di un sedicente Stato occidentale. Sul selciato restano vari feriti, uno dei quali messo malissimo. Gli altri travolgono lo sparatore e ne fanno poltiglia da pronto soccorso.

Dopo essersi espressa fuori dallo stadio, la cultura sportiva degli italioti si trasferisce all’interno e assume la forma di due valentuomini appollaiati sopra una balaustra, uno dei quali indossa una maglietta che inneggia all’assassino del poliziotto catanese Raciti, a cui un ultrà tirò addosso un lavandino. I due pensatori si presentano come i capipopolo della tifoseria napoletana. Pare che senza il loro meditato assenso non si possa disputare la partita. I desideri degli altri settantamila dello stadio e dei milioni davanti alla tv non contano ovviamente nulla. Solo i pendagli da curva hanno il monopolio della minaccia fisica e verbale. Marek Hamsik, il capitano del Napoli che un destino milionario ma bizzarro ha condotto dalla natia Slovacchia a questi climi molto meno temperati, si attarda a parlamentare con gli ambasciatori ultrà e, quando ormai si sta consumando la vergogna di una resa ai violenti in diretta televisiva, in un eccesso di magnanimità i capibastone concedono alle squadre e all’Italia intera il permesso di giocare.

Con un’ora di ritardo tutto è pronto per la cerimonia dell’inno nazionale ispirata al modello americano del Superbowl, con una cantante, Alessandra Amoroso, che intona «Fratelli d’Italia» al microfono. Ma i fratelli riuniti allo stadio fischiano l’esecuzione fin dalle prime note e ha un bel sgolarsi Matteo Renzi in tribuna: quando i fischi non bastano più, a soffocare la musica arriva il sostegno di qualche bombetta carta, una delle quali manda un vigile del fuoco all’ospedale.

Ora che gli agguati, gli spari, i ricatti, i fischi e i petardi sono finiti, la finale di Coppa Italia può persino cominciare. L’Italia, quella è già finita da un pezzo. Naufragata in un profluvio di parole, proclami e decreti che servono a coprire la mancata applicazione delle leggi. Perché se un hooligan inglese o spagnolo si azzardasse a fare anche un decimo delle cose che vi abbiamo sommariamente raccontato passerebbe il resto della sua giovinezza in carcere, meglio ancora a compiere qualche lavoro socialmente utile. Come del resto chiunque di noi, se commettesse quegli stessi reati lontano dallo stadio, ormai ridotto a porto franco della bestialità tribale travestita da «onore e rispetto» non si sa di chi, certo non degli altri e tantomeno di se stessi. I bambini inquadrati sugli spalti dell’Olimpico avevano sguardi impauriti e severi: un verdetto di sconfitta per tutti.

di Massimo Gramellini – La Stampa

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Benvenuti in casa Immobile. La storia di Ciro, il ragazzo torrese che contende a Tevez e Higuain il titolo di cannoniere

Posté par atempodiblog le 30 avril 2014

Benvenuti in casa Immobile. La storia di Ciro, il ragazzo torrese che contende a Tevez e Higuain il titolo di cannoniere
Fonte: Il Mattino
Tratto da: IamNaples.it

Immobile

Torre Annunziata. La signora Michela Immobile varcò la porta dell’alloggio che il figlio condivideva con altri della sua età, a Torino, si voltò verso il suo ragazzino e gli disse: «Ma che ci fai qui?! Torna a casa da noi». Ciro la guardò quasi sbalordito. Diciotto anni compiuti da pochi mesi e il sogno di diventare un calciatore a portata di mano. «Mammà, ma tu hai capito dove sono arrivato? Io sto alla Juve e diventerò un grande cannoniere». Era fiero, Ciro, di quella tracolla su cui c’era scritto Juventus. L’aveva conquistata a furia di gol segnati nel Sorrento, dai mini allievi ai giovanissimi e ancor prima tra i campetti dell’Oplonti e quello dei salesiani nella Basilica della Madonna della Neve. Significava che ci stava riuscendo, e che forse un giorno avrebbe fatto sul serio il calciatore. Non gli ha mai pesato quella borsa. Anche se dentro c’erano tante cose: la tuta e i sogni, le scarpe con i tacchetti e le promesse, la maglietta e i calzettoni, le aspettative e le ambizioni, i calzoncini e le illusioni di un ragazzo venuto dal Sud. Da Torre Annunziata, per l’esattezza. All’ombra di quel Vesuvio che qualcuno troppo spesso invoca a sproposito.

Cuore di mamma
In una mattinata col sole e un vento che soffia freddo neppure fosse novembre, la signora Michela sorride e non rimpiange quella frase. «Anche adesso lo vorrei più vicino a me, il mio “seccatiello”». Cuore di mamma. È un gigante da 1,85 cm per 78 chili eppure per la mamma è ancora gracilino come era da piccolo. «Non mangiava mai, quasi se ne scordava. Forse adesso è un po’ più grosso. Una delle cose che gli dico su Whatsapp: “hai mangiato?”. Quando viene qui, l’eccezione per la mia parmigiana di melanzana la fa sempre. Per farmi contenta». Michela racconta Ciro, il ragazzino torrese che contende a Higuain e Tevez la corona dei marcatori della serie A. Ma nei suoi racconti c’è tutta la famiglia Immobile. Al suo fianco, nel bar di proprietà dell’ex stella locale, Tonino Barbera, covo di amici e fans del bomber del Torino, c’è Antonio, il padre di Ciro. Ex bomber pure lui. Di Eccellenza. Ma erano altri tempi: «Lavoravo all’Avis di Castellammare, aggiustavo i treni per le Ferrovie e non sono mai riuscito ad allenarmi come avrei voluto. Sapevo, però, che sarebbe stato bello arrivare in alto». Già, bello, ma duro. Uno su dodicimila ce la fa, dicono le statistiche. Uno di questi è Ciro. «Non è vero, lui deve mantenere i piedi per terra. È il capocannoniere? Va ai Mondiali? Gli ho detto: ”non cambia nulla, devi continuare a lavorare tutti i giorni”. Come quando era al Sorrento e al Torre Annunziata ’88». È proprio vero. Per capire perché uno diventa un campione, bisogna andare a fondo nella sue radici. Antonio ha 53 anni ma sembra il fratello leggermente più grande di Ciro: «Non sono capace di dargli consigli. Lo guardo e penso: è proprio bravo». Il percorso di Immobile è fatto di nostalgia, sradicamento e anche di solitudine. E così che si cresce, lontano dalla gonna di mamma. «Ne ha fatti di provini: il primo al Milan, nel 2000. Aveva 10 anni: Pierino Prati mi disse che era bravo, che l’avrebbero preso se avesse avuto la residenza lì. Non se ne fece nulla», sospira ancora Antonio. Poi arrivarono l’Empoli e la Salernitana ma per gli Immobile la soluzione migliore era mandarlo al Sorrento.

A Sorrento
«L’Inter esitò: Beppe Baresi lo vide ma fu sincero perché loro puntavano su Destro e Balotelli». E allora andò in Costiera. «Il presidente Castellano gli fece l’abbonamento per la Circumvesuviana e ogni giorno, finiva la scuola, si faceva un panino e andava ad allenarsi lì. Non credo abbia mai saltato un allenamento», dice papà Ciro. «Gli allenamenti mai, ma la scuola sì», sbotta (adesso) divertita mamma Michela. «Scuole media alla Manzoni e poi alle superiori alla Marconi. Volevo prendesse il diploma di perito tecnico. Lo minacciavo: se non porti bei voti, niente pallone. Poi da Torino trovò il coraggio di mandarmi un sms: “So di deluderti, ma proprio non riesco a studiare ed allenarmi. Lascio la scuola”. Ci rimasi malissimo». L’altro fratello, Luigi, si è invece laureato in Ingegneria. «110 e lode, nello studio è lui il mio capocannoniere». Il «ciuffo biondo che fa impazzire il mondo» come lo ribattezzarono i tifosi del Pescara (dove ha lasciato in dote 38 gol e una promozione) si è fermato qualche metro prima. Michela e Antonio raccontano Ciro alternando le voci e senza mai accavallarsi. «A cinque anni e mezzo lo portiamo ai Primi Calci del Torre Annunziata ’88, al Circolo Oplonti. Era l’unico modo per evitare che mi sfasciasse casa: metteva Luigi in porta e lui calciava. Quanti danni. E poi era sempre davanti alla tv a vedere i cartoni animati: un giorno mise la cassetta di Robin Hood per 8 ore di seguito. Era come sotto ipnosi». Nella sua vita non ha mai incontrato uno Sceriffo di Nottingham («ha solo tanti amici»), ma una Marianna sì: Jessica che lo ha reso papà di Michela. «Lo stesso nome mio. Perché a queste cose ci teniamo…» dice con orgoglio la signora. Si sposeranno il 23 maggio a Chieti. Non hanno ancora prenotato il viaggio di nozze, perché a giugno Ciro sogna di fare un altro viaggio: «Ma anche se non andrà in Brasile deve essere fiero di tutto quello che ha fatto», spiegano i genitori.

Alla Juve
Un balzo all’indietro. Autunno 1996. Si comincia con il provino al Torre Annunziata ’88 del presidente Vincenzo Carotenuto. I primi istruttori sono Angelo Izzo e Gennaro Roscigno che dopo una settimana lo inseriscono nella squadra di quelli più grandi. Un classico. Lui, classe ’90, sempre a far gol nelle formazioni ’88 o ’89. Torino è nel suo destino: prima la Juve ora i granata che lo hanno preso in comproprietà. Nel mezzo, un giro d’Italia: prima a Siena poi a Pescara e Genova. Sempre in prestito. La Torino delle chiavi a stella nelle mani di metalmeccanici sapienti, ma anche la Torino delle pizzerie napoletane veraci come «Gennaro Esposito», è lì nel suo destino. «Ciro Ferrara si fece consigliare da Filardi, l’ex difensore del Napoli che era osservatore in Campania dei bianconeri. C’era anche la Sampdoria che spingeva per averlo ma la Juve fece prima di tutti». Per il papà, un giorno radioso. Per la mamma invece… «Scoppiai in lacrime, più lontano di così non poteva andare». Il Sorrento incassò circa 70mila euro. Giuseppe Borrello e Guglielmo Ricciardi sono i suoi due scopritori proprio al Sorrento. «Quando lo vidi giocare la prima volta, nel 1999, non era una prima punta. Ma aveva una caratteristica: tirava da ogni parte del campo e segnava. Sempre. La Juve giocò d’anticipo, anche se faticai un po’ a convincere Filardi», ricorda Borrello.

In serie A
Debutto in serie A a 18 anni (contro il Bologna) prendendo il posto di Del Piero. «Un segno del destino: aveva quattro anni quando si fece una foto con Alex che era a Napoli con la nazionale militare – dice papà Antonio – Ma non c’era solo Del Piero nel suo cuore: anche Trezeguet e Quagliarella». Tutti juventini. «Fabio a ogni gol gli manda un sms… è un gioco tra i due. Ma lui nel cuore ha anche il Napoli e il Savoia. Anzi, prima il Savoia. Credo che a fine carriera verrà qui a giocare». Alla sua cittadina resta assai legato, tant’è che qualche mese fa regalò magliette e palloni ai ragazzi del campetto alle spalle della Basilica della Madonna della Neve. «Un predestinato. Aveva 8 anni e scommise 5 mila lire con due miei amici Lello Autieri e Franco Lancella che avrebbe colpito tre volte la traverse su cinque tiri. Vinse Ciro», racconta ancora il papà. Antonio ha 10 fratelli: Michele, Raffaele e Pasquale giocavano come lui a calcio. Un altro, Franco è stato presidente del Savoia, alla fine degli anni ’70. Gli Immobile sono conosciuti con un soprannome a Torre Annunziata: i Donnapereta. Tutta colpa di quel vezzo che aveva nonno Luigi di prendersi gioco di tutti con una «pernacchia ascellare». Michela e Antonio non nascondono i rimproveri: «Non ci piace quella camminata a guappo… non lo fa apposta, ma deve smetterla di dondolarsi quando cammina». D’accordo. Non si può avere tutto nella vita.

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