La lezione di Montolivo: una carezza che spiazza gli sciacalli del web

Posté par atempodiblog le 12 octobre 2016

La lezione di Montolivo: una carezza che spiazza gli sciacalli del web
di Roberto De Ponti – Corriere della Sera

La lezione di Montolivo: una carezza che spiazza gli sciacalli del web dans Articoli di Giornali e News Montolivio

«Devi morire». Siamo così abituati al becero coro da stadio, quando il calciatore di turno rimane a terra, da non far più caso a quanto greve (oltre che grave) possa essere un invito a passare a miglior vita rivolto a un giocatore infortunato.

È la forza — si fa per dire — dell’anonimato da curva. Nascondendosi nel branco, è possibile vomitare insulti di ogni genere con la tranquillità vigliacca di rimanere impuniti. In piccolo, quello che capita nella Rete.

Accade che Riccardo Montolivo, calciatore del Milan inspiegabilmente assurto a causa di tutti i mali del calcio italiano, si frantumi un ginocchio giocando in Nazionale, ed è quello stesso Montolivo che nell’ultima amichevole prima del Mondiale 2014 si è fratturato una tibia, giusto per ricordare che il ragazzo non è particolarmente fortunato. Accade che mentre esce dal campo in barella, Montolivo venga «salutato» dai tifosi italiani con fischi («osceni», li definirà a fine partita il capitano azzurro Buffon).

Accade soprattutto che il calciatore, nel suo letto d’ospedale, venga bersagliato via Internet da insulti di ogni genere. E che risponda su Facebook in modo disarmante: «Grazie di cuore a tutte le persone che hanno speso un pensiero per me… tifosi, colleghi, addetti ai lavori. È stato bello, in un momento così faticoso, ricevere così tanti attestati di stima e affetto. E una carezza a tutti quelli che mi hanno augurato la rottura di tibia e perone, la rottura di tutti i legamenti e la morte… con l’augurio che la vita riesca a farvi crescere in educazione e rispetto dell’essere umano». Grande Montolivo. Più limpido di un passaggio filtrante, più essenziale di un gol all’incrocio.

Sappiatelo, fenomeni che nascosti nell’anonimato della Rete insultate, invitate alla morte, spingete al suicidio: una carezza vi seppellirà.

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Lì ricomincia la storia del calcio

Posté par atempodiblog le 1 septembre 2016

Lì ricomincia la storia del calcio dans Citazioni, frasi e pensieri Ricomincia_la_storia_del_calcio

“Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio”.

Jorge Luis Borges

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L’uomo più veloce del mondo è devoto alla Medaglia Miracolosa

Posté par atempodiblog le 17 août 2016

L’uomo più veloce del mondo è devoto alla Medaglia Miracolosa
di Aleteia

L’uomo più veloce del mondo è devoto alla Medaglia Miracolosa dans Articoli di Giornali e News Usain_Bolt_e_Medaglia_Miracolosa

Usain Bolt è attualmente l’uomo più veloce al mondo: per le terze Olimpiadi consecutive (dopo Pechino 2008 e Londra 2012), il 14 di agosto ha ottenuto la medaglia d’oro nei 100 metri. Ma queste tre medaglie d’oro non sono le uniche che porta. L’atleta ne indossa un’altra sempre al collo, conosciuta come Medaglia Miracolosa, frutto delle apparizioni della Madonna a Santa Caterina Labouré.

Usain_Bolt dans Rue du Bac - Medaglia Miracolosa

Bolt appartiene infatti a una famiglia cattolica, confessione minoritaria in Giamaica. Il suo secondo nome, Leo, gli è stato dato in ricordo in un Papa dei primi secoli del cristianesimo. L’atleta è tendenzialmente riservato, ma non nasconde la sua fede: anzi, fa spesso il segno della croce e sui social network ringrazia Dio per i suoi successi (ma anche per le sue sconfitte).

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Olimpiadi. Il “selfie” delle ginnaste riunisce le Coree

Posté par atempodiblog le 17 août 2016

Olimpiadi. Il “selfie” delle ginnaste riunisce le Coree
Continua a suscitare interesse e commenti una delle foto simbolo delle Olimpiadi di Rio, quella del selfie scattato da due atlete coreane, una del Nord e l’altra del Sud, e definito da più parti la “l’icona dell’unità” tra due Paesi nemici da oltre 60 anni.
di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

Olimpiadi. Il “selfie” delle ginnaste riunisce le Coree dans Articoli di Giornali e News Lee_Eun_Ju_e_Hong_Un_Jong

Il gioco di parole viene facile: ciò che il 38.mo parallelo divide, due parallele asimmetriche hanno unito, assieme a qualche migliaio di pixel come un buon selfie impone. La foto che si scattano insieme contente due atlete formalmente “nemiche”, a loro volta immortalate da un fotografo in servizio tra le pedane dell’Arena di Barra a Rio de Janeiro, è l’icona che sgretola nello spazio di un flash gli effetti di tanti proclami guerrafondai e di provocazioni muscolari a colpi di test missilistici ed esercitazioni militari congiunte.

Perché se le prime a non ricordarsi, o forse a ignorarlo di proposito, di doversi comportare come le obbligherebbe il peso di 60 anni di storia e di separazione sono due ragazze, una anzi poco più che ragazzina, allora il mondo ha davvero speranze di futuro migliori di quelle soffocate dal pessimismo allarmato che oggi dilaga.

A ben guardarli, i visi accostati di Lee Eun-ju, sudcoreana, 17 anni, e di Hong Un-jong, 27 anni, nordcoreana e campionessa olimpica, e soprattutto il loro sorriso non di facciata, ci raccontano senza bisogno di acuti commenti che, nel loro caso, né la strategia dell’odio di regime inculcato di padre in figlio né la retorica dello “rogue-State” hanno avuto la forza di avvelenare due ragazze “diversamente coreane” che anzi incontrandosi sotto i cerchi olimpici invece di ignorarsi, come fossero state in divisa invece che in tuta, si sono avvicinate cordiali per stringersi la mano, come si fa tra amici.

E quando la più giovane, ginnasta ancora agli inizi, ha proposto il selfie alla collega celebre e pluridecorata, nessuna delle due deve aver pensato – e il piacere di farsi il selfie lo dimostra – di essersi stretta al fianco della rappresentante di uno “Stato-canaglia” piuttosto che dell’imperialismo occidentale. Più probabilmente, saranno state soprattutto contente di ritrovarsi, da coreane, a difendere in mezzo a dozzine di atlete di tutto il mondo l’onore sportivo del loro Paese, che solo una striscia su un mappamondo e troppo filo spinato e una ostilità continuamente alimentata a freddo si ostina a volere spaccato a metà.

Chissà ora come nei loro Paesi – soprattutto a Pyongyang, si chiedono preoccupati in tanti sui social – verrà presa questa mancanza di aggressività e questa istintiva manifestazione di amicizia tra due nemiche che non sanno di esserlo o non ne vogliono sapere. La speranza è che chi passa il tempo a fare complessi calcoli geopolitici per anticipare a oggi il potere che avrà in futuro si lasci per una volta contagiare dalla levità dei volteggi di cui queste due ragazze sono maestre e riesca a vedere, nella filigrana di una foto bella e “impossibile”, come realmente i giovani, non solo coreani, vorrebbero il loro mondo di domani.

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Belotti, Gallo dal cuore d’oro: «Mia madre non lavora più: è questo il mio gol più bello»

Posté par atempodiblog le 17 août 2016

Andrea Belotti: «Facevo il chierichetto. Vado a Messa»
Serie A, Torino: Belotti, Gallo dal cuore d’oro: «Mia madre non lavora più: è questo il mio gol più bello»
La punta di Mihajlovic: «Ho fame e voglia di arrivare: con Sinisa siamo più offensivi, possiamo fare grandi cose. Ventura? L’azzurro ora devo meritarmelo»
di Paolo Tomaselli – Corriere della Sera

Belotti, Gallo dal cuore d’oro: «Mia madre non lavora più: è questo il mio gol più bello» dans Articoli di Giornali e News

Andrea Belotti è stato il miglior bomber italiano del 2016 con 11 gol, con il Torino di Ventura. Domenica debutta in campionato a San Siro contro il Milan, di cui è stato grande tifoso, soprattutto di Sheva.

Belotti, è lei l’uomo nuovo del nostro calcio?
«Non ho ancora fatto niente di veramente importante, ma sto lavorando per raggiungere tutti gli obiettivi, personali e di squadra. La fame e la voglia di arrivare non mi mancano».

È un perfezionista, dicono.
«Sì. Penso che un giocatore non debba mai porsi dei limiti. L’asticella deve sempre spostarsi più in alto: col lavoro si può raggiungere tutto».

Se avrà il piede caldo come in primavera, le basterà per candidarsi all’azzurro?
«Al debutto col Torino ho fatto fatica. A inizio 2016 ho avuto un boom e ho segnato con continuità. La Nazionale resta un sogno: so che devo dimostrare di meritarmela».

Il nuovo Toro la aiuterà?
«Con l’arrivo di Mihajlovic abbiamo cambiato modo di giocare: siamo più offensivi: possiamo fare grandi cose».

Il suo rapporto col gol?
«Non bisogna mai smettere di segnare, neanche in allenamento: devi creare un rapporto di sangue col gol, tra te stesso e la porta».

Il portiere cos’è per lei?
«Un nemico, che ti può rovinare questo rapporto».

Quale gol rende più felici?
«Di culo o in rovesciata: la gioia è sempre la stessa».

E che sensazione le dà?
«Dentro ti si crea un’energia che vorresti sprigionare per intero, ma non ci riesci. È una sensazione magnifica, come la tranquillità che ti dà: per un attaccante è vita».

Bella soddisfazione a marzo interrompere il record di imbattibilità di Buffon?
«Sì, è stato qualcosa di incredibile. E anche un onore. Anche se quel derby avrei preferito vincerlo».

Perché la chiamano Gallo?
«Perché da piccolo inseguivo i galli nel pollaio di mia zia. E perché il mio amico Juri Gallo mi ha detto di fare questa esultanza per scherzo: ho subito segnato e non ho più smesso di farla».

Infanzia tra oratorio e mance della nonna. Che ricordi ha?
«Andrea era mio nonno, morto sei mesi prima che io nascessi. E con mia nonna, anche per il nome che porto, si è creato un feeling pazzesco. Lei veniva sempre a vedermi e se facevo gol mi dava una mancia o mi portava un salame per festeggiare».

Si aspettava l’esplosione di Dybala, suo ex compagno?
«Sinceramente no. Ha qualità incredibili, ma non pensavo diventasse subito l’uomo simbolo della Juve».

Gli italiani sono più lenti a crescere o li frena il sistema?
«Se non trovi l’allenatore che credi in te, dopo due partite sbagliate ti mettono da parte. È una questione di mentalità. Io per fortuna l’anno scorsa ho trovato Ventura che crede nei giovani e mi ha aspettato».

In cosa l’ha migliorata?
«In tanti piccoli particolari: nel modo di giocare con un compagno, di cercarlo, nel modo di attaccare la porta».

Ventura festeggiava i suoi gol facendo la cresta del Gallo: un bello spettacolo?
«Sì bellissimo. E fa capire il rapporto che abbiamo. Era come se il gol lo avesse fatto lui: ha sempre creduto in me anche quando non segnavo».

L’idolo è Sheva, ma non assomiglia di più a Inzaghi?
«Forse sì, ma Sheva è sempre stato il mio modello: perché segnava in ogni modo ed era sempre un esempio. Sono lontano anni luce da lui, ma con il lavoro duro cerco di assomigliargli un po’ di più».

Oggi chi è il modello?
«Ne studio tanti. Ma soprattutto Aguero, per come si inserisce: la butta sempre dentro».

È religioso?
«Moltissimo. Facevo il chierichetto e quando siamo in ritiro a Torino vado a messa».

Simulare è peccato?
«È brutto. Ed è sempre meglio evitare, per non dare esempi negativi. Dentro l’area però l’attaccante tende a fare il furbo e alla minima situazione cade. Comunque i gol rubati non mi piacciono».

«Se devo spararla grossa sogno il Real». Conferma?
«Sì. Mi piace non avere limiti. Sto facendo tutto il possibile per realizzare i miei sogni».

È diplomato?
«Sono geometra, non si sa mai. E i miei genitori ci tenevano tantissimo».

Cosa fanno i suoi?
«Mio padre lavora in un’azienda tipografica. Mia madre lavorava in un’azienda che produce camice e lei era alla stiratura».

Cosa le hanno insegnato?
«Il valore del sacrificio. E anche quello dell’aiuto al prossimo. L’anno scorso ho voluto fortemente che mia mamma smettesse di lavorare, perché non potevo più vederla così stanca. Se oggi sono così lo devo ai miei genitori. Mi sembrava la cosa giusta da fare».

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Toro-Pro Vercelli, chi si rivede. Il derby torna dal passato

Posté par atempodiblog le 13 août 2016

Toro-Pro Vercelli, chi si rivede. Il derby torna dal passato
Stasera in Coppa Italia di fronte dopo 58 anni. In campo 14 scudetti, ma mai rivali per un titolo
di Gianni Romeo – La Stampa

Toro-Pro Vercelli, chi si rivede. Il derby torna dal passato dans Sport Toro_Pro_Vercelli
Carlo Crippa segna il 4-0 alla Pro Vercelli nel match di andata della sfida di Coppa Italia del 1958 (14 giugno)

L’ultimo gol è come il primo amore, non si scorda mai. L’ultimo gol in partita ufficiale, fra il Torino e la Pro Vercelli, lo segnò Carlo Crippa in Coppa Italia il 6 luglio del 1958, 3-0 per i granata nel glorioso campo Robbiano, oggi Silvio Piola. Lo racconta proprio lui, l’estrosa ala del Toro, veloce, elegante, gran tiro (una rete memorabile su punizione, di destro, con la Juve). «Prendo palla dopo metà campo, uno scatto dei miei, dribblo l’avversario, dal limite sparo un sinistro in diagonale, imparabile. Me lo vedo ancor oggi quel gol, per me era stato importante, perché insieme con Lido Vieri ero il più giovane granata in campo, 19 anni, mi serviva per fare strada. La nostra era una squadra un po’ vecchiotta, la reggevano con esperienza Armano e Bearzot, c’erano Arce, il francese Bonifaci…», racconta Crippa. A difendere la porta della Pro c’era Martino Colombo, che sarebbe poi approdato alla Juve.

Orgoglio e princìpi
È sorprendente il fatto che due club da 7 scudetti a testa, una bella fetta di storia del pallone, uniti da tanta tradizione e separati appena da una sessantina di chilometri di strada, non si siano più incrociati fino a stasera: 58 anni. Sarebbero 8 gli scudetti per il Toro senza quello revocato fra tanti dubbi. Sarebbero 8 anche per la Pro se non ci fosse stato di mezzo il Toro. Qui bisogna risalire a più di un secolo fa, febbraio 1910, quando i granata vinsero 4-2 a Vercelli e costrinsero le «bianche casacche» ormai lanciate verso il terzo titolo consecutivo (poi ne seguirono altri tre) allo spareggio finale con l’Inter. La Pro, decimata di giocatori chiamati alle armi, chiese il rinvio dell’incontro, che la federazione negò. A quei tempi l’orgoglio e i princìpi valevano più di uno scudetto: la Pro protestò civilmente mandando in campo i ragazzini. E perse 10-3.

Mai rivali per un titolo
In campionato due parabole che si erano appena sfiorate, fra la Pro e il Toro. E due genesi diverse. Vercelli s’era inventata uno squadrone tutto italiano grazie al genio di Marcello Bertinetti, olimpionico di sciabola, che aveva riciclato come calciatori molti spadaccini. Il principio della scherma era: primo non farsi infilzare e la Pro divenne famosa per la difesa di ferro e tante vittorie per 1-0. Dopo l’apoteosi degli Anni Dieci del Novecento cominciava il calo, mentre salivano i granata ispirati dagli svizzeri, importatori di calcio oltre che di tessuti. Con il prezioso aiuto di Enrico De Maria, storico collega vercellese, ricordiamo che si sono incontrati 34 volte in serie A i due club, 16 a 15 per i Bianchi e 3 pareggi. Mai un feroce scontro scudetto. Nell’ultimo campionato in comune, 1934/35, due vittorie granata. La Pro non poteva più reggere il confronto con un calcio dove comandava ormai il denaro. Scese in B, poi in C. Coppa Italia nel ’58 e finalmente stasera. Benvenuto, derby piemontese.

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Il Benfica e il grande Eusebio, meglio che una scuola

Posté par atempodiblog le 27 juillet 2016

Il Benfica e il grande Eusebio, meglio che una scuola
di Mauro Berruto – Avvenire

Il Benfica e il grande Eusebio, meglio che una scuola dans Articoli di Giornali e News Museu_Cosme_Dami_o

Questa sera, nel modernissimo impianto che si chiama Estádio da Luz di Lisbona, si celebra una delle tante amichevoli estive che, in questo caso, ha un valore più profondo. Spesso, questi match sono occasioni di marketing o frutto di accordi commerciali, ma Benfica-Torino ha un gusto storico che non è mai banale.

C’è un trofeo in palio: la Eusebio’s Cup, in memoria dello straordinario calciatore nato in Mozambico e diventato bandiera del Benfica al punto da meritare una statua proprio all’ingresso dello Stadio. Questa partita, tuttavia, è soprattutto un omaggio alla memoria di quel maledetto precedente del 3 maggio del 1949, quando il Grande Torino di Valentino Mazzola si era recato a Lisbona per celebrare, in un match amichevole, il capitano biancorosso, Francisco Ferreira. L’ultima partita del Grande Torino: fu, infatti, durante il volo di ritorno che l’aereo su cui i granata viaggiavano si schiantò contro il terrapieno della Basilica di Superga, uccidendo tutti i suoi passeggeri.

Il Benfica, da quel giorno, ha con il Torino una specie di patto (ahimè, di sangue). Se due anni fa, in occasione della finale di Europa League a Torino, moltissimi tifosi del Benfica si recarono in processione a Superga, quel maledetto 4 maggio 1949 migliaia di persone si riunirono spontaneamente di fronte all’Ambasciata d’Italia di Lisbona per manifestare il loro dolore di fronte a quella tragedia. Un’immagine fotografica, testimonianza visiva di quella folla immensa, è custodita nel meraviglioso museo Cosme Damião, all’interno dello Stadio benfiquista.

Nel dicembre 2014 il Cosme Damião è stato premiato quale miglior museo dell’intero Portogallo. Entrarci, in effetti, è un’esperienza inaspettata. Dedicato al fondatore, calciatore e anche primo allenatore del club, ci si potrebbe immaginare la “solita” esposizione di trofei, della polisportiva biancorossa (oltre al calcio, ciclismo, atletica, pallacanestro, pallavolo e tanti altri sport).

In effetti, pochi secondi dopo l’ingresso, uno stormo di coppe quasi stordisce il visitatore, ma poi arrivano le sorprese. Per salire al secondo piano dei 4mila metri quadrati del museo si cammina lungo un “corridoio storico” che conduce il visitatore attraverso le due Guerre Mondiali, il primo uomo sulla Luna, l’assassinio di JFK, la Rivoluzione dei Garofani, la caduta del muro di Berlino, la decodificazione del genoma umano, il premio Nobel a José Saramago, l’addio a Giovanni Paolo II e tantissimi altri grandi eventi di portata planetaria. Il museo intreccia continuamente, in modo colto e raffinato, la storia del Benfica e la storia sociale non solo del Portogallo, ma del resto del mondo.

Una sezione è dedicata alle contaminazioni letterarie, televisive, cinematografiche e teatrali di chi, affrontando questi versanti della narrazione, ha voluto rendere omaggio al club di Lisbona, ai suoi eroi, ai suoi tifosi. Superati alcuni totem multimediali che narrano la storia di tutti gli atleti che hanno indossato la maglia biancorossa (con sezione speciale dedicata ai capitani), arriva l’esperienza più forte: un ologramma di Eusebio esce da una profonda oscurità, interrotta solo dal brillare delle due scarpe e del pallone d’oro vinti in carriera.

Elegante, vestito di bianco, Eusebio si siede e ti racconta, con la sua voce e guardandoti negli occhi, un pezzo della sua storia personale e di quella del Benfica. Pochi metri dopo si trova il tributo a lui dedicato, attraverso una narrazione per immagini, dei tre giorni di lutto nazionale proclamati dopo la sua scomparsa nel gennaio 2014. Vengono i brividi. Insomma, vedere una partita di calcio nell’Estádio da Luz, arrivandoci un paio di ore prima per visitare il museo, è una bella opportunità per riconciliarsi con il valore educativo dello sport, un esempio di come attraverso la passione per il calcio si possano insegnare storia, letteratura, educazione civica. Persino meglio che a scuola: basta volerlo.

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Un allenatore che vince i campionati Europei, perché resta così tranquillo?

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2016

Un allenatore che vince i campionati Europei, perché resta così tranquillo?
Dio è la bussola nella vita di Fernando Santos, tecnico del Portogallo. Ai festeggiamenti lui preferisce la messa e la Bibbia!
di Gelsomino Del Guercio – Aleteia

Un allenatore che vince i campionati Europei, perché resta così tranquillo? dans Articoli di Giornali e News Fernando_Santos

Il ritratto di Fernando Santos, allenatore del Portogallo fresco vincitore degli Europei, non si incrocia spesso su un campo di gioco. All’immagine lui preferisce la sostanza.

Concreto, devoto, abituato a non aver mai nulla regalato da nessuno. Sul campo e nella vita. La messa la domenica mattina, l’amore per la moglie Guillhermina (la stessa di sempre) i due figli Catia e Pedro. L’hobby della pesca con gli amici, la passione per il calcio. Che però «non conta niente se comparato ai veri valori della vita, come la paternità o l’amicizia. Nulla, zero» (Il Fatto Quotidiano, 9 luglio).

CALCIO MAI AL PRIMO POSTO

Di lui dicono che

è un uomo tranquillo, si vede che considera il calcio un gioco semplice, così come fanno tutte le persone pratiche. Gli riesce naturale, forse perché il pallone non lo ha mai messo al primo posto. Non lo ha fatto neanche quando giocava: buon difensore del Benfica, ma ruolo diviso con la conquista di una laurea in ingegneria. Non a caso le prime parole dopo la finale sono state per la moglie, per i figli, per Dio. (La Repubblica, 11 luglio).

MESSA E BIBBIA

Santos non poteva che dedicare la vittoria sul campo alla famiglia ma sopratutto a suo padre «che è a festeggiare con Dio» (www.tsf.pt, 8 luglio).

Per lui «essere cattolici è un impegno forte» Come ha spiegato nel ciclo di incontri su Dio organizzati dalla comunità Cappella Rat a Lisbona la preghiera è la prima cosa che fa quando si sveglia. Ed è seguita dalla lettura di alcuni brani della Bibbia, proclamati nella messa del giorno, a cui cerca di partecipare sia in Portogallo che all’estero (la domenica, invece, non manca mai).

FEDE “TAKE AWAY”

Da bambino non andava “molto d’accordo” con il Signore, il suo rapporto con la fede era di “take away”, un “prendi e porti via”, un ascoltare e poi allontanarsi, ma senza mai trascurare la preghiera, che recitava prima di addormentarsi.

Poi venne il matrimonio in chiesa, il battesimo dei figli ma ancora non sentiva vicino il Signore. Il cambiamento è avvenuto quando ha seguito da vicino il cammino di preparazione di sua figlia che doveva cresimarsi.

In quel periodo, dice Santos, «ho capito che Cristo è vivo in ciascuno di noi», e ha iniziato a leggere la Bibbia. La svolta della sua vita.

LA MARCIA IN PIU’ DI PAPA FRANCESCO

Oggi Santos dice che ha apprezzato molto i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma Francesco «portà in sé qualcosa di grande«, molti cattolici «avevano bisogno di una persona con la sua esperienza» (www.snpcultura.org, 5 dicembre 2015).

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L’anno delle favole

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2016

L’anno delle favole
di Massimiliano Nerozzi – La Stampa

L’anno delle favole dans Sport Portogallo_campione_d_Europa

È davvero l’anno delle favole: dopo il Leicester di Claudio Ranieri, il Portogallo di Fernando Santos e, ieri sera, di Rui Patricio (fenomenale) molto più di Cristiano Ronaldo, azzoppato e fuori in lacrime dopo venti minuti. Da sfavorito, e senza la sua star, ha battuto la Francia che pure era superiore in tutto e giocava nella sua arena. Ripescato come terzo del gruppo F, dietro a Ungheria e Islanda, il Portogallo s’è così ripreso quell’Europeo che la Grecia gli aveva levato nella finale di Lisbona, dodici anni fa. Dal triste fado di quella notte, al fracasso di questa.

La Francia, al contrario, non aveva mai fatto prigionieri, in casa: da Platini (Europeo 1984) a Zidane (Mondiale 1998), il cielo di Parigi era stato sempre nel blu dipinto di «Bleus». Alla fine, oltre che commovente, è stata una vittoria logica e meritata: «les Bleus» hanno giocato timorosi, ancor prima che male, e hanno fallito i colpi vincenti che pure hanno avuto. Perso Ronaldo, Santos ha preparato una partita molto «italiana», sabotando l’avversario e fiondandosi davanti, ogni volta che poteva. Fino al jolly pescato nel supplementare, da Eder. 

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I momenti del “goal”

Posté par atempodiblog le 28 juin 2016

I momenti del “goal” dans Citazioni, frasi e pensieri giorgio_chiellini_graziano_pelle

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”.

Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica.

Pier Paolo Pasolini

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La NBA di Alessandro Gentile

Posté par atempodiblog le 23 juin 2016

La NBA di Alessandro Gentile dans Sport Gentile

Alessandro Gentile diventerà il settimo giocatore italiano nella storia a mettersi alla prova nella NBA, abbandonando le certezze e le comodità italiane (con Milano che potrebbe vincere i prossimi dieci scudetti, se non si suicida) per calarsi in un contesto dove guadagnerà di sicuro più soldi ma dove in sostanza riparte da zero, a quasi 24 anni di età. Lo ha detto abbastanza chiaramente ad Adrian Wojnarowski di The Vertical, andando dritto sugli Houston Rockets che detengono i diritti su di lui e dicendo che nella sua scelta sono decisive le presenze di Mike D’Antoni e di James Harden. Insomma, una conferma a freddo di quanto già a caldo l’azzurro aveva detto dopo il secondo scudetto vinto in carriera. Gentile ha facoltà fino al 10 luglio di rescindere il contratto che lo lega a Milano e la certezza è che in ogni caso lo farà, visto che il presidente dell’Olimpia Proli già da giorni ne parla al passato. Non mancano le offerte da alta Eurolega, a partire dal Barcellona, anche a ingaggio più che raddoppiato (attualmente il figlio di Nando e fratello di Stefano viaggia sul milione netto di euro a stagione), ma il momento giusto per la NBA è indubbiamente questo, si spera con l’aura anche dei Giochi di Rio.

Ma cosa potrebbe realisticamente essere Gentile in una squadra NBA di media levatura (ultima stagione da 41-41, con eliminazione al primo turno nei playoff) come i Rockets, che oltretutto perderanno Dwight Howard, che ha appena rinunciato a una ‘player option’ da 23,2 milioni di dollari? Di base proprio il cambio di Harden, anche se il tiro da fuori è troppo incostante per farne fin da subito un buon attaccante NBA. La struttura fisica invece è proprio quella delle guardie-ali piccole della pallacanestro di oggi, in questo senso l’impatto sarà meno duro che per altri europei: per certi versi i suoi pro e i suoi contro in ottica NBA sono opposti a quelli di un Datome, ma come sempre accade sotto al livello delle superstelle è il contesto a creare le carriere dei singoli.

In una squadra dantoniana pura Gentile, pur avendo meno tiro di mille altri sul mercato, potrebbe essere un ottimo giocatore di transizione e un elemento interessante per sfruttare i mismatch. Ma è soltanto teoria, al momento, non sapendo che tipo di Rockets nasceranno e soprattutto se vorranno usare Gentile, scelto alla numero 53 (da Minnesota, che poi lo girò a Houston) due anni fa, come carne da scambio. Di certo una grande sfida che Gentile ha le qualità per vincere, dove per ‘vincere’ si intende sopravvivere al livello più alto.

di Stefano Olivari – Guerin Sportivo

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Gigi, Nik e Daniel: l’Italia che trionfa in Europa

Posté par atempodiblog le 15 juin 2016

Gigi, Nik e Daniel: l’Italia che trionfa in Europa
di Laura Cristaldi – Basket Italy

Gigi, Nik e Daniel: l'Italia che trionfa in Europa dans Sport Gigi_Nik_e_Daniel

Ettore Messina può sorridere. A meno di tre settimane dall’inizio dell’appuntamento dell’anno con il preolimpico di Torino sa di poter contare con tre giocatori capaci di ritrovare il meglio di se stessi, in una stagione in cui si sono fatti valere sia in Eurolega che nei rispettivi campionati nazionali, che hanno vinto… tutti e tre!

Daniel Hackett con l’Olympiacos Pireo,Nicolò Melli (con la guida di Andrea Trinchieri, un altro italiano in Europa che trionfa) nel Brose Baskets Bamberg e Gigi Datome con il Fenerbahçe. Se in NBA l’anno dei nostri azzurri è stato così così, con il solo Danilo Gallinaricapace di disputare la sua miglior stagione in carriera a livello statistico, anche se sembra che gli infortuni lo frenino sempre sul più bello, e con un anno bruttino per Marco Belinelli e bruttissimo per Andrea Bargnani, invece su questo lato dell’Atlantico ci sono solo sorrisi, gioia e soddisfazione.

Daniel Hackett e Nicolò Melli giocavano insieme l’anno precedente, e, dopo una deludente stagione con l’Olimpia Milano, entrambi avevano preso la difficile decisione di fare le valige per partire verso lidi sconosciuti: lasciare il proprio paese per addentrarsi in campionati diversi, con compagni di squadra nuovi, mentalità differenti, nuova lingua, usi e costumi da imparare. Grecia e Germania, Olympiacos eBrose Baskets: un paese mediterraneo e caldo in una delle squadre più blasonate d’Europa da un lato e l’ordine tedesco di una cittadina di provincia dall’altro. In comune il colore biancorosso delle magliette e l’entusiasmo del pubblico, oltre agli ottimi risultati, con un belle partite in Eurolega, e il titolo nel campionato domestico.

Per Daniel Hackett 32 presenze tra regular-season e Playoff, con una media di 7 punti a partita (49.5% in tiri da due, 35.8% in triple), 2.7 rimbalzi e 2.9 assist; in Eurolega 24 presenze con 8.1 punti e notevoli percentuali di realizzazione (48.1% da due, 39.3% in triple); un’esperienza sicuramente positiva, soprattutto considerando che l’azzurro ha giocato e si è allenato per un anno intero di fianco a un’icona nel suo stesso ruolo di play/guardia come Vassilis Spanoulis, dal quale avrà sicuramente imparato qualcosa.

Per Nicolò Melli una stagione ancora più positiva; si può dire che a Bamberg il promettente giocatore sia proprio esploso: nominato come miglior ala grande della Beko Bundesliga, ha fatto registrare 9 punti a partita, 5.1 rimbalzi e 2.6 assist in 42 presenze tra campionato e Playoff (39 delle quali nel quintetto titolare) con ottime percentuali di realizzazione (56.4% in tiri da due e 42.9% in triple). In Eurolega 23 partite giocate da titolare con 9.2 punti di media (47.5% in tiri da due e 45.3% in triple),6.5 rimbalzi e 2.7 assist. Andrea Trinchieri, uno dei principali artefici di questo miracolo chiamato Brose Baskets, ha saputo tirare fuori il meglio dal giovane reggiano, che si presenterà al ritiro azzurro in forma smagliante, euforico e consapevole dei propri mezzi.

Chiudiamo in crescendo con Luigi Datome. Il capitano della nazionale azzurra, dopo le due deludenti stagioni in NBA, ha trovato l’ambiente ideale agli ordini di un coach tanto esigente quanto vincente come Zeljko Obradovic in una delle squadre più forti d’Europa: il Fenerbahçe di Istanbul. E in Turchia Gigi ha vinto quasi tutto, facendosi valere e convertendosi subito in uno dei beniamini del caldo pubblico locale, che l’hanno acclamato, appoggiato e animato per tutta la stagione, e sono esplosi di gioia con lui quando ha alzato al cielo il trofeo di MVP della finale. In 40 partite disputate in Süper Ligi, Datome ha registrato una media di 11.5 punti (50.9% in tiri da due e un eccellente 51.8% in triple), 4.6 rimbalzi e 1.4 assist.
È mancata la ciliegina sulla torta, quella finale di Eurolega persa all’overtime contro il CSKA Mosca… Comunque anche nella massima competizione continentale l’azzurro si è fatto valere, con 29 presenze, 12.4 punti di media (54.8% in tiri da due e 46.2% in triple), 4.4 rimbalzi e 1.9 assist.
Dopo l’infortunio che gli aveva impedito di disputare l’Eurobasket e questa stagione trionfale di riscatto assoluto, il capitano della nazionale italiana sarà motivato più che mai: le Olimpiadi di Rio de Janeiro sembrano più vicine.

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Higuain da impazzire

Posté par atempodiblog le 15 mai 2016

Higuain

Accade con una rovesciata, sotto la pioggia battente del San Paolo. È una notte di festa per il Napoli. La squadra accede direttamente ai gironi di Champions (4-0 contro il Frosinone) e il suo fuoriclasse, Gonzalo Higuain, firma la tripletta che lo consegna alla storia: il record di Nordahl non è più un’ossessione. Sono 36 gol in un singolo campionato di Serie A, mai nessuno come il Pipita. E l’abbraccio con Sarri è già una figurina da conservare nell’album dei ricordi.

Tratto da: Tuttosport

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Leicester, i momenti-chiave della stagione

Posté par atempodiblog le 3 mai 2016

Leicester, i momenti-chiave della stagione
di Giovanni Del Bianco – Guerin Sportivo

Leicester, i momenti-chiave della stagione dans Sport Leicester_City_campione

Il Verona 1985, la Danimarca 1992, il Kaiserslautern 1998, la Grecia 2004. E il Leicester 2016. La formazione di Claudio Ranieri va ad aggiungersi ai capitoli più sorprendenti del grande romanzo calcistico. Probabilmente, il successo delle Foxes in questa Premier League ha un significato persino superiore agli altri citati. Parliamo di un club storicamente lontano dalle zone di vertice (nel proprio palmarès non figuravano fino a ieri né un campionato né una Fa Cup), di una squadra che lo scorso anno alla trentesima di campionato era in ultima posizione e di un sodalizio capace di lasciarsi alle spalle squadre infinitamente più attrezzate. L’entusiasmo con cui tutto il mondo ha seguito le gesta della formazione inglese è la controprova dell’impresa di questi giocatori, semisconosciuti al grande pubblico fino a un anno fa, osannati oggi. Spesso le squadre piccole che partono lanciate alla lunga cedono il passo al ritorno delle grandi. Il Leicester ha avuto il merito di crederci fino alla fine, ragionando sempre e solo “sulla prossima partita”, senza chiedersi troppo fino a che punto si sarebbe potuto spingere. Così facendo, ha visto avvicinarsi sempre più la scritta del traguardo e ha provato con tutte le sue energie a non arrendersi nello sprint finale, sospinto da un pubblico in visibilio che inizialmente cantava “We are gonna win the league” quasi per scherzo e che alla lunga ha capito di non essere di fronte alla solita rivelazione che prima o poi sarebbe scoppiata. Già, davanti c’era una squadra che stava facendo sul serio, determinata a sfruttare l’irripetibile congiunzione di fattori che vedeva tutte le grandi in crisi o in ristrutturazione. Si è creato un vuoto di potere, con il Chelsea in ritardo sin dalle prime giornate, il Liverpool in fase di allestimento, l’Arsenal eternamente incompiuto, il Manchester City concentrato più sul fronte europeo che su quello domestico e il Manchester United pieno di contraddizioni tattiche e strategiche. In questo “vuoto” si sono inseriti a tutta forza Tottenham e Leicester. E ad entrambe va il merito di aver dato vita a una delle più belle e pazze corse per il titolo. Ripercorriamo la stagione e le tappe fondamentali dei nuovi campioni d’Inghilterra.

LE RIMONTE INIZIALI
Il primo passo di questa pazzesca maratona viene mosso l’8 agosto, alla prima giornata di campionato: al King Power Stadium i padroni di casa battono 4-2 il Sunderland. Vardy, Mahrez (doppietta) e Albrighton calano il poker, prima delle reti di Defoe e Fletcher che addolciscono la sconfitta. Ha inizio così la stagione di una squadra data dai bookmakers 5000-1.
Sette giorni dopo, altra vittoria, questa volta in casa del West Ham, contro una delle migliori squadre della stagione. E poi l’1-1 interno col Tottenham, quando nessuno poteva ancora prevedere che sarebbe stato lo scontro diretto per il titolo: al gol di Alli segnato all’81’ replica Mahrez dopo un minuto. Il pari con gli Spurs inaugura una serie di risultati in rimonta, indici della forza caratteriale del collettivo. Capita anche nell’1-1 esterno col Bournemouth, con la partita rimessa in piedi da un rigore di Vardy a cinque minuti dal termine, e soprattutto nella gara con l’Aston Villa del 13 settembre: Grealish e Gil portano i Villans avanti di due reti, ma nel finale si consuma il prepotente ritorno dei blu di Ranieri: De Laet (ceduto nel mercato di gennaio), Vardy e Dyer ribaltano l’incontro da 0-2 a 3-2. E non è finita: anche nella trasferta contro lo Stoke City, Vardy e soci rimontano due reti di svantaggio, limitandosi però al pareggio. La personalità c’è. La squadra segna molto, ma deve mettere a punto i meccanismi difensivi.

L’AUTUNNO CALDO DI JAMIE VARDY
Alla settima giornata arriva il primo k.o. ed è di quelli pesanti: l’Arsenal si scatena e vince 5-2 al King Power Stadium. Il classico fuoco di paglia di inizio stagione sembra spegnersi, ma non è così: dopo la batosta con i Gunners, il Leicester vince 2-1 in casa del Norwich e dopo la sosta per le nazionali impatta 2-2 a Southampton, rimontando con la doppietta di Vardy l’ennesimo svantaggio di due gol. Il pari ottenuto nel recupero carica l’ambiente e le volpi ottengono quattro successi consecutivi su Crystal Palace (primo cleen sheet della stagione: si festeggia con i giocatori che cucinano la pizza su idea del tecnico), West Bromwich, Watford e Newcastle. Il Leicester si prende la vetta solitaria e la costante è rappresentata dai gol di Jamie Vardy, sul quale la stampa mondiale comincia a puntare gli occhi. Il 29 novembre, l’attaccante entra nella storia: nell’1-1 contro il Manchester United va a segno per l’undicesima partita consecutiva, battendo il record dell’olandese Ruud Van Nistelrooij, che si fermò a dieci, proprio con la maglia dei Red Devils.

L’APPANNAMENTO NATALIZIO
L’agenda di dicembre si presenta fitta di appuntamenti terribili. Dopo il 3-0 allo Swansea (tris di Mahrez), le Foxes attendono a casa loro il Chelsea campione in carica, in piena crisi di risultati: il 2-1 vidimato dai soliti Vardy e Mahrez costa la panchina a José Mourinho, vecchio nemico di Ranieri, ma pronto questa volta a porgere i suoi complimenti al tecnico italiano e ad auguragli di vincere il titolo. Ma per ora, siamo nel campo delle ipotesi remote. Il Leicester vince anche a Goodison Park contro l’Everton, però incappa nel periodo natalizio in una piccola serie di passi falsi. Sette giorni dopo il 3-2 ai Toffees, Morgan e compagni tornano a Liverpool, questa volta per sfidare la compagine di Jürgen Klopp: Benteke rovina il Boxing Day e decide l’incontro. A cavallo tra 2015 e 2016, capitano i due 0-0 contro Manchester City e Bournemouth. Buon risultato il primo, amaro il secondo, anche perché Mahrez spreca un calcio di rigore.

LE IMPRESE CON SPURS, REDS E CITIZENS
Alla ripresa delle ostilità dopo il turno di Coppa d’Inghilterra, il Leicester espugna White Hart Lane con un gol del gigante Robert Huth. È una vittoria pesantissima sull’economia del campionato. Il duello tra i bomber Vardy e Kane finisce senza vincitori né vinti (la punta del Tottenham sarà fermata da una grande parata di Schmeichel), ma i tre punti presi grazie al gol del difensore tedesco restituiscono linfa alla squadra di Ranieri, che alla 20ª giornata aveva perso la testa della classifica a favore dell’Arsenal. L’1-1 contro l’Aston Villa è fonte di delusione, anche perché arriva al cospetto dell’ultima in classifica. Ma dalla 23ª, i blu ritrovano il primato solitario e inanellano una serie di vittorie che fa davvero pensare che il sogno di una intera città possa presto trasformarsi in realtà. Il successo sullo Stoke City, la vendetta sul Liverpool (2-0, altra doppietta di Vardy) e soprattutto il magnifico 3-1 dell’Etihad Stadium rifilato al Manchester City, in quella che è probabilmente la gemma della stagione, mandano un messaggio forte e chiaro al campionato: il Leicester non molla. Quest’ultima partita segna il momento-chiave della stagione: la vittoria sull’undici di Pellegrini porta a cinque i punti di vantaggio sugli Spurs ed estromette i Citizens dalla corsa per il primo posto.

L’ULTIMO K.O.
Il 14 febbraio i nostri eroi cadono in casa dell’Arsenal, unica squadra della stagione capace di prendersi tutti e sei i punti disponibili contro i futuri campioni d’Inghilterra. La sconfitta fa male, perché giunge nel recupero, grazie a un colpo di testa del rientrante Welbeck. Quella dell’Emirates è stata gara di cuore, lotta e sacrificio; inoltre è stata chiusa in inferiorità numerica per via dell’espulsione del terzino destro Danny Simpson. Anche per questo tornare da Londra senza nemmeno un punto provoca disappunto nei tifosi delle volpi, preoccupati di aver assistito a una sconfitta che si sarebbe ripercossa pure sul morale dei loro beniamini. Sarà invece l’ultima della stagione. I ragazzi di Ranieri sanno che un’altra occasione così ghiotta di mettere le mani sul titolo, per un piccolo club come il Leicester, non si presenterà a breve. Dunque, anziché piangersi addosso per la caduta dell’Emirates Stadium, cominciano a pedalare forte per andare a conquistarsi quella fetta di gloria che nella contea del Leicestershire non hanno mai assaggiato neanche lontanamente.
Contro il Norwich il giusto spirito della squadra permette di ritrovare subito ciò era stato perso con l’Arsenal: le volpi vincono infatti con un gol al 90’ di Leonardo Ulloa, attaccante argentino che aveva reso possibile la salvezza nel 2014-15 e che teoricamente avrebbe dovuto giocare titolare anche quest’anno al fianco di Okazaki. L’esplosione di Vardy ha tolto il posto da titolare all’ex punta di San Lorenzo e Almeria, ma questi, un idolo dalle parti del King Power Stadium, ha sempre risposto presente quando è stato chiamato in causa. Lo rivedremo anche nel finale di stagione, contro West Ham e Swansea.
L’1 marzo, il Leicester pareggia in casa contro il West Bromwich nel turno infrasettimanale (reti di Drinkwater e King). Sembra un passo falso, ma il giorno seguente accade l’impensabile: l’Arsenal cade in casa con lo Swansea, il Manchester City viene travolto dal Liverpool, il Tottenham cade ad Upton Park contro il West Ham. Il giro a vuoto si trasforma addirittura in un punto guadagnato.

LA PORTA CHIUSA DI SCHMEICHEL
Dalla ventinovesima giornata, diventa protagonista la retroguardia. Schmeichel mette il lucchetto alla propria porta e la compagine delle Midlands Orientali comincia ad ottenere una serie di vittorie di misura e senza reti al passivo. Prima c’è quella col Watford, bollata da Mahrez (tre punti importantissimi, perché nel frattempo gli Spurs perdono ulteriore terreno nel derby contro l’Arsenal); in seconda battuta l’1-0 sul Newcastle, maturato grazie alla fantastica rovesciata del nipponico Shinji Okazaki; in seguito, l’1-0 al Crystal Palace, ancora con gol di Mahrez; ed infine, l’1-0 al Southampton con il primo centro stagionale del capitano Wes Morgan. Contro il Sunderland decide invece una doppietta di Vardy, tornato al gol dopo un digiuno di sei partite. Sei reti che fruttano quindici punti e difesa imbattuta in cinque match. La vittoria del campionato è a un passo. Espugnato il campo del Sunderland, fanno il giro del mondo le immagini di un commosso Claudio Ranieri, uscito dallo Stadium of Light con gli occhi lucidi.

IL MOMENTO DELLA FESTA
Alla gara contro il West Ham il Leicester si presenta da prima della classe e con un confortante vantaggio di sette punti sul Tottenham. Gli Hammers però giocano un brutto scherzo e fermano le Foxes sul 2-2, al termine di una partita ricca di colpi di scena: sotto per 1-0, nel finale i londinesi pareggiano con Carroll su rigore e sorpassano con Cresswell. Il Leicester trova il pari al 90’ con il bomber di riserva Ulloa, dando ancora una volta dimostrazione di compattezza e ostentando una focosa voglia di lottare fino all’ultimo. Il vantaggio sugli Spurs però si assottiglia a cinque lunghezze e, quel che è peggio, la squadra perde Vardy per due match: espulso contro il West Ham per simulazione, il cannoniere si prende due giornate di squalifica e dovrà saltare le gare con Swansea e Manchester United. Contro i gallesi, la pratica viene sbrigata da Mahrez, Ulloa (doppietta) e Albrighton. Contro i Red Devils, c’è il primo match-point: vincendo all’Old Trafford, la squadra si garantirebbe la vittoria del campionato, altrimenti il discorso verrebbe rinviato alla partita casalinga contro l’Everton in programma il 7 maggio, opppure gufando alla televisione il Tottenham, impegnato nel “monday night” contro il Chelsea. Nel “teatro dei sogni”, la squadra del presidente thailandese Vichai Srivaddhanaprabha ottiene un 1-1 di prestigio ma insufficiente a far partire la festa. Al gol di Martial in apertura, risponde Morgan con un gol di potenza. Si arriva allo storico 2 maggio. I tifosi sono divisi: sperare che vinca il Chelsea o augurarsi di festeggiare sul campo battendo l’Everton nel turno seguente? Viste le scene di giubilo, verrebbe da dire che sia andata bene così. Nel posticipo del lunedì, il Chelsea recupera due gol agli Spurs, fermandoli sul 2-2 in un derby nervosissimo. Il gol di Hazard a sette minuti dalla fine è quello che vale il titolo.
Nei pub e nelle vie di Leicester si fa festa, si ride, si urla, si piange di gioia. Il calcio inglese conosce finalmente un nuovo vincitore (era dal Nottingham Forest 1978 che non compariva un nome inedito nell’albo d’oro). Claudio Ranieri, che clamorosamente non ha assistito al match di Stamford Bridge, in quanto stava rientrando in aereo da una toccata e fuga in Italia (lo aveva detto alla vigilia: «Sarò l’ultima persona a sapere se avremo vinto o no il campionato»), si ritaglia un posto nella “hall of fame” del calcio. Poco importa se nelle passate avventure ha vinto meno di quel che avrebbe dovuto o raccolto meno di quel che ha seminato. Una vittoria del genere vale forse più di una bacheca piena di trofei.

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“Il Torino non c’è più, è bruciato”: scompare la squadra, nasce il Mito

Posté par atempodiblog le 2 mai 2016

“Il Torino non c’è più, è bruciato”: scompare la squadra, nasce il Mito
Il 4 maggio 1949 lo schianto a Superga, la folla si raduna davanti a La Stampa
di Gianni Romeo – La Stampa

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La squadra del Grande Torino si imbarca per Lisbona per partecipare alla partita di addio al calcio del giocatore portoghese Françisco Ferreira, amico di Valentino Mazzola

«Il Torino non c’è più. Scomparso, bruciato, polverizzato…». Sono le prime parole scritte da Vittorio Pozzo su La Stampa del 5 maggio 1949, il breve commento di un uomo schiantato dal dolore. Pozzo nel calcio era stato tutto, allenatore, poi commissario tecnico della Nazionale due volte campione del mondo, da sempre padre putativo della squadra granata e autorevole opinionista della pagina sportiva del quotidiano. «È il solo impavido che ha cuore di prendersi il compito pietoso e orrendo di riconoscere le salme…», scrive Gianni Brera.

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Per descrivere i funerali basta citare poche righe di Carlin, Carlo Bergoglio, grande firma del giornalismo sportivo torinese: «Li abbiamo visti venir giù dallo scalone del Juvarra nell’atrio di Palazzo Madama. E come non mai abbiamo avuto contezza dell’immensità della catastrofe. Interminabile ci è parsa a un certo momento la fila. Davanti veniva Vittorio Pozzo che era il padre di tutti. Dall’alto dello scalone tutti ci segnammo per trenta e una volta. Trentuno anni ci parve quella mezzora». Più di 500mila persone erano schiacciate in piazza Castello, piazza San Carlo, via Roma…

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La tragedia si consuma nel tardo pomeriggio di mercoledì 4 maggio, alle 17,05. L’aereo che riporta a Torino il gruppo dei granata, giocatori, tecnici, giornalisti (Renato Casalbore fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti responsabile sport alla Gazzetta del Popolo, Luigi Cavallero de La Stampa) dopo la partita amichevole giocata a Lisbona si schianta contro il terrapieno della Basilica di Superga. Il G212 è cieco, ingannato dall’altimetro in un giorno di tempesta, il cielo nero come l’inchiostro, il vento a raffiche, l’uragano. È proprio La Stampa a diffondere per prima la notizia, quando non esiste ancora la tivù e i giornali radio arrivano solo di sera. In Galleria San Federico, dal lato che si affaccia su via Bertola, le telescriventi de La Stampa facevano scorrere le notizie più importanti della giornata. Lì appare la parola terribile, tragedia, lì comincia a radunarsi una folla che moltiplica l’urlo per la città.

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Una sola firma
Per giorni e giorni la vicenda occupa la prima pagina, la seconda, la cronaca sportiva. Articoli rigorosi che non indugiano sul colore, sul superfluo. Articoli tutti anonimi, salvo l’eccezione concessa a Vittorio Pozzo, data la statura del personaggio. La Stampa da un anno ha un nuovo direttore, Giulio De Benedetti, che consente a pochi l’onore della firma. Mai comunque nelle pagine di cronaca o di sport, dove si raccontano i fatti e non esistono le interviste. Nel caso del Grande Torino nemmeno la dolce storia di Carla e Virgilio trova posto sulle pagine del giornale. Una bella giovinetta, Carla Bombelli. A 18 anni incontra Virgilio Maroso, lui ne ha 22, è un terzino arrivato in granata dal Veneto, ha il tocco vellutato, l’amore sboccia, a 19 si sposano, a 20 lei è già vedova. «Arrivarono persino due giornalisti da Londra, dalla Bbc, per raccontare la nostra storia, ma sulla Stampa nemmeno la foto delle nozze …», ci disse lei un giorno.
La pagina sportiva nel dopoguerra si saziava di Coppi e Bartali re del ciclismo, di Ascari e Farina assi della nascente Formula 1, del Toro che mandava 10 giocatori in Nazionale, della Juve che stava alzando la testa grazie a un centravanti sedicenne scovato nel Novarese, Giampiero Boniperti. Ma questa è un’altra storia…

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