La storia incredibile di Nadia Nadim, la dottoressa del calcio che ha segnato a San Siro
Posté par atempodiblog le 11 décembre 2024
La storia incredibile di Nadia Nadim, la dottoressa del calcio che ha segnato a San Siro
Fuggita a 11 anni dall’Afghanistan, con la mamma e le sorelle, dopo l’assassinio del padre per mano dei Talebani, ha scoperto il calcio in un campo profughi in Danimarca e non è finita lì
di Elisa Chiari – Famiglia Cristiana
C’è chi dice che la vita di Nadia Nadim, l’attaccante del Milan che dal 10 dicembre 2024, è la prima calciatrice straniera a segnare una rete a San Siro, sembra un romanzo o un film. Ma chi lo fa dimentica che spesso la realtà ha più fantasia di ogni arte e di ogni letteratura. La storia da 250 reti nel calcio femminile di questa donna tosta, che non disdegna di mostrarsi su Instagram in mille vesti, sportive e da sera, e anche da sposa quando nell’agosto scorso ha sposato in Turchia il fidanzato storico Idrees, è cominciata nel 1988, da secondogenita di una famiglia di cinque figlie femmine.
Nadia aveva sette anni quando i Talebani hanno preso il potere e ristretto la sua vita di bambina. Ne aveva 11, quando il padre, generale dell’esercito considerato espressione dell’esiliato governo di Burhanuddin Rabbani, è stato ucciso dai Talebani. In quel momento la madre ha preso il coraggio della disperazione ha venduto tutti gli averi di casa per partire con cinque bambine alla ricerca di un posto di mondo meno pericoloso in cui vivere, nell’immaginario c’era Londra, dove già c’era un pezzo di famiglia. Il destino ha deciso diversamente: attraverso il Pakistan, con passaporti falsi rimediati a Islamabad, sono arrivate fino all’Europa. Nelle tappe del viaggio anche Milano, quattro giorni in quello che nei suoi racconti di questi anni Nadia ha raccontato come uno scantinato freddo, buio e molto sporco. Di lì in clandestinità dentro un camion che si credeva diretto in Inghilterra e invece è approdato a Renders in Danimarca, dove prima di qualunque altra cosa hanno dovuto chiedere a un passante: “Dove siamo?”. Per poi approdare al primo posto di polizia a fare domanda di asilo. Una domanda accolta in tempi relativamente brevi e cominciata con l’umanità di un agente che a cinque bambine sedute ad aspettare la mamma che esponeva le sue ragioni alla Polizia, ha chiesto a gesti toccandosi la pancia: “avete fame?” e ha rimediato loro qualcosa da mangiare. Un ricordo capace di fissarsi nella mente di una bambina che ancora non aveva un posto nel mondo e di indirizzare in lei un desiderio ancora senza forma di fare qualcosa per aiutare gli altri.
Il calcio a quel tempo non era neanche nei calcoli: nessuna di quelle bambine aveva mai visto una ragazza giocare a pallone. È successo per la prima volta dietro la rete di un campo profughi danese, dove Nadia e la mamma e le sorelle sono state per qualche anno. Quel campo di calcio, in cui Nadia e le due sorelle più grandi sono entrate quasi per caso, è diventato presto l’emblema della libertà: dopo cinque anni in cui era stato loro vietato di uscire, di andare a scuola, di fare sport di fare qualunque cosa, passare la mattina a studiare la lingua del Paese che le aveva accolte e il pomeriggio a giocare, un gioco creduto da maschi, con le altre bambine rifugiate, significava un modo diverso di vedere la vita e cominciare a pensarsi in un mondo nuovo.
Una volta uscita dal campo profughi, e arrivata in una piccola vera casa, Nadia ha cominciato a giocare con una società di Skørping vicino a dove vivevano. Ma presto con la scoperta del talento è arrivata la proposta di una squadra di livello superiore l’Aalborg. Significava bicicletta, treno, autobus, ore di viaggio dopo la scuola. La madre non voleva saperne: dovete studiare, se non studiate vi perderete, il calcio non è un lavoro e poi non abbiamo i soldi. In una parola tutto il campionario di ragionevolezza che metterebbe davanti una madre sola con cinque figlie in un paese straniero. La società si offrì di pagare il viaggio rimuovendo il primo ostacolo, Nadia fece il resto mantenendo la promessa di portare a casa sempre i voti migliori. Era partita da una sequela di “non puoi”, a trasgredire i quali si rischiava la vita, nella sua nuova aveva deciso che avrebbe rimosso da sola gli ostacoli che erano solo questione di organizzazione e di buona volontà.
Questo ha fatto sì che oggi Nadia Nadim sia una stella del calcio femminile, la prima naturalizzata a far parte della Nazionale di calcio danese, che ha giocato nel Paris Saint Germain, nel Machester City e ora nel Milan, mettendo insieme oltre 250 reti.
All’università di Aarhus in Danimarca si è laureata in medicina, utilizzando il periodo in cui ha giocato negli Stati Uniti per studiare durante la stagione di gioco e concentrare i tirocini nella pausa dal campionato, più lunga che in Europa: c’è voluto più tempo del normale: un semestre all’anno invece di due, ma anche in questo Nadia ha mantenuto la promessa fatta alla madre e risposto a chi le diceva: “Non ce la farai mai”. Ripete di aver scelto la medicina in ossequio a quel desiderio di tornare un giorno utile a qualcuno.
La visibilità che ottiene sul campo da calcio le serve anche per promuovere nel mondo l’importanza dello sport e dell’istruzione per le bambine e i bambini dei Paesi più poveri. Quando le chiedono della parità nel calcio risponde: «Non sono femminista, ma umanista, nel senso che mi interessano le persone, e realista: so che non arriveremo facilmente alla parità con i maschi nel calcio ma possiamo crescere molto». E intanto si batte perché nessun bambino e nessuna bambina nel mondo davanti all’aula di una scuola o a un campo di calcio si senta sentire dire: «Non puoi». Al momento la sua residenza è la Danimarca, è lì che ha comprato la prima casa alla sua mamma, scomparsa nel 2022 investita da un camion. Ha detto che se mai tornerà in Afghanistan sarà come chirurga. Vuol dire che il mondo, quel mondo, deve fare ancora un pezzo di strada.
Publié dans Articoli di Giornali e News, Riflessioni, Sport, Stile di vita | Pas de Commentaire »