L’universo in una sola piaga di Gesù

Posté par atempodiblog le 13 mars 2025

L’universo in una sola piaga di Gesù
L’universo intero è in una sola piaga di Gesù, perché una sola sofferenza di Cristo ha ontologicamente la capacità di salvare tutto. Il Cristianesimo è l’unica religione che afferma che nella singolarità vi è la spiegazione di tutto.
di Corrado Gnerre – Radici Cristiane

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San Bonaventura insegnava a Parigi; era molto famoso: le sue lezioni erano seguitissime e molto apprezzate. Un giorno si recò a fargli visita un suo collega, san Tommaso d’Aquino. Questi lo pregò di mostrargli i libri di cui si serviva per i suoi studi. San Bonaventura lo introdusse nella sua celletta e gli mostrò dei libri ordinatissimi che stavano sul suo tavolino. San Tommaso non si accontentò e domandò di vedere altri libri, dai quali sicuramente attingeva la sapienza per i suoi insegnamenti.

Il Santo francescano gli mostrò allora un piccolo oratorio nel quale vi era solo l’immagine del Crocifisso: tutto annerito per i tanti baci che gli dava.

Ecco, padre, il mio miglior libro – disse san Bonaventura indicando il Crocifisso – da qui attingo tutto quello che insegno e scrivo; gettandomi ai piedi di questo Crocifisso, domandando a Lui la luce dei miei dubbi, faccio nelle scienze maggior progresso che leggendo qualsiasi libro”. Poi san Bonaventura concluse: “Vi sono uomini che studiano molto nei libri e concludono poco; mentre i santi diventano grandi sapienti soprattutto perché studiano il Crocifisso”.

Si racconta anche di una giovane aristocratica che chiese di entrare in una comunità religiosa. Per provarne la vocazione, la Superiora le fece un quadro assai duro ed esigente della vita in quella comunità. Le fece vedere il monastero insistendo particolarmente sui luoghi più austeri. La giovane sembrava scoraggiarsi, poi, improvvisamente, domandò alla Superiora: “Troverò un Crocifisso in quella cella in cui dovrò stare molto ristretta e in cui dovrò dormire sopra un pagliericcio? Troverò un Crocifisso in quel refettorio, in cui il cibo sarà molto grossolano? Lo troverò in quel Capitolo, in cui dovrò ricevere tante correzioni?”. La Superiora rispose: “Oh! sì, figlia, il Crocifisso è dappertutto”. “Ebbene, madre – rispose decisa la giovane – io penso che niente mi sarà difficile quando avrò con me un Crocifisso in tutti quei luoghi in cui dovrò sacrificarmi”.

Nella teologia cristiana la sofferenza di Cristo ha un ruolo centrale. Certamente la Passione e la Morte di Gesù non sono la conclusione; la conclusione è la Resurrezione, ma indubbiamente costituiscono il momento apicale del Cristianesimo, il momento più rappresentativo in quanto è la massima espressione dell’amore di Dio verso l’uomo. Non a caso il segno distintivo dei cristiani è, appunto, il segno della Croce.

La parte contiene il tutto
Tutto questo ci permette di fare delle considerazioni su un’unicità del Cristianesimo. Nella teologia salvifica cristiana si afferma che la sofferenza di Cristo ha redento l’universo intero. Tutto è ricapitolato in Cristo. Quando ci poniamo dinanzi ad un oggetto, per osservarlo nella sua interezza, dobbiamo indirizzare lo sguardo verso il centro e poi, eventualmente, ruotare lo sguardo per completarne la visione. E’ una legge dell’ottica. Ugualmente quando si vuole sintetizzare un discorso o un fatto bisogna enuclearne l’essenza. Ebbene, il Cristianesimo afferma che il centro non solo di una vita, non solo della storia di alcuni uomini, non solo di quella di una nazione o di un continente, ma dell’universo intero è nella singola, e circoscritta temporalmente (“sotto Ponzio Pilato” recitiamo nel Credo), sofferenza di Gesù.

Se nel centro s’include la visione di tutto l’oggetto, se nella sintesi si riassume un fatto, allora possiamo dire che nella sofferenza di Cristo vi è l’universo intero. Ma – è noto – tutto ciò che Gesù ha singolarmente fatto ha avuto un valore infinito, perché vissuto e voluto da un soggetto divino. Dunque possiamo dire che già in una sola sofferenza di Cristo vi è l’universo intero. Già in una sola sua piaga. […]

“Dentro le tue piaghe nascondimi”
Una famosa preghiera per il ringraziamento eucaristico (tanto amata da sant’Ignazio di Loyola) dice: “dentro le tue piaghe nascondimiOvvero l’uomo può trovare la sua dimora nelle piaghe di Gesù. […]

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“Ci ha amati”, l’Enciclica del Papa sul Sacro Cuore di Gesù

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2024

“Ci ha amati”, l’Enciclica del Papa sul Sacro Cuore di Gesù
“Dilexit nos”, quarta Enciclica di Francesco, ripercorre tradizione e attualità del pensiero “sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo”, invitando a rinnovare la sua autentica devozione per non dimenticare la tenerezza della fede, la gioia di mettersi al servizio e il fervore della missione: perché il Cuore di Gesù ci spinge ad amare e ci invia ai fratelli
di Alessandro Di Bussolo – Vatican News

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“«Ci ha amati», dice San Paolo riferendosi a Cristo (Rm 8,37), per farci scoprire che da questo amore nulla «potrà mai separarci» (Rm 8,39)”. Inizia così la quarta Enciclica di Papa Francesco, intitolata dall’incipit “Dilexit nos” e dedicata all’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo: “Il suo cuore aperto ci precede e ci aspetta senza condizioni, senza pretendere alcun requisito previo per poterci amare e per offrirci la sua amicizia: Egli ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10). Grazie a Gesù «abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16)” (1).

Freccia dans Viaggi & Vacanze Dilexit-Nos dans Commenti al Vangelo LEGGI QUI IL TESTO INTEGRALE DELL’ENCICLICA

L’amore di Cristo rappresentato nel suo santo Cuore
In una società – scrive il Papa – che vede moltiplicarsi “varie forme di religiosità senza riferimento a un rapporto personale con un Dio d’amore” (87), mentre il cristianesimo spesso dimentica “la tenerezza della fede, la gioia della dedizione al servizio, il fervore della missione da persona a persona” (88), Papa Francesco propone un nuovo approfondimento sull’amore di Cristo rappresentato nel suo santo Cuore e invita a rinnovare la sua autentica devozione ricordando che nel Cuore di Cristo “possiamo trovare tutto il Vangelo” (89): è nel suo Cuore che “riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare” (30).

Il mondo sembra aver perso il cuore
Francesco spiega che incontrando l’amore di Cristo, “diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune”, come invita a fare nelle sue Encicliche sociali Laudato si’ e Fratelli tutti (217). E davanti al Cuore di Cristo, chiede al Signore “di avere ancora una volta compassione di questa terra ferita” e riversi su di lei “i tesori della sua luce e del suo amore”, affinché il mondo, “che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia, possa recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore” (31). Nell’annunciare la preparazione del documento, al termine dell’udienza generale del 5 giugno, il Pontefice aveva chiarito che avrebbe aiutato a meditare sugli aspetti “dell’amore del Signore che possano illuminare il cammino del rinnovamento ecclesiale; ma anche che dicano qualcosa di significativo a un mondo che sembra aver perso il cuore”. E questo mentre sono in corso le celebrazioni per il 350° anniversario della prima manifestazione del Sacro Cuore di Gesù a Santa Margherita Maria Alacoque, nel 1673, che si chiuderanno il 27 giugno 2025.

L’importanza di tornare al cuore
Aperta da una breve introduzione e articolata in cinque capitoli, l’Enciclica sul culto del Sacro Cuore di Gesù raccoglie, come preannunciato a giugno, “le preziose riflessioni di testi magisteriali precedenti e di una lunga storia che risale alle Sacre Scritture, per riproporre oggi, a tutta la Chiesa, questo culto carico di bellezza spirituale”.

Il primo capitolo, “L’importanza del cuore”, spiega perché serva “ritornare al cuore” in un mondo nel quale siamo tentati di “diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato” (2). Lo fa analizzando cosa intendiamo per “cuore”: la Bibbia ce ne parla come di un nucleo “che sta dietro ogni apparenza” (4), luogo dove “non conta ciò che si mostra all’esterno o ciò che si nasconde, lì siamo noi stessi” (6). Al cuore portano le domande che contano: che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, chi sono davanti a Dio (8). Il Papa sottolinea che l’attuale svalutazione del cuore nasce “nel razionalismo greco e precristiano, nell’idealismo postcristiano e nel materialismo”, così che nel grande pensiero filosofico si sono preferiti concetti come quelli di “ragione, volontà o libertà”. E non trovando posto per il cuore, “non è stata sviluppata ampiamente nemmeno l’idea di un centro personale” che può unificare tutto, e cioè l’amore (10). Invece, per il Pontefice, bisogna riconoscere che “io sono il mio cuore, perché esso è ciò che mi distingue, mi configura nella mia identità spirituale e mi mette in comunione con le altre persone” (14).

Il mondo può cambiare a partire dal cuore
È il cuore “che unisce i frammenti” e rende possibile “qualsiasi legame autentico, perché una relazione che non è costruita con il cuore è incapace di superare la frammentazione dell’individualismo” (17). La spiritualità di santi come Ignazio di Loyola (accettare l’amicizia del Signore è una questione di cuore) e san John Henry Newman (il Signore ci salva parlando al nostro cuore dal suo sacro Cuore) ci insegna, scrive Papa Francesco, che “davanti al Cuore di Gesù vivo e presente, la nostra mente, illuminata dallo Spirito, comprende le parole di Gesù” (27). E questo ha conseguenze sociali, perché il mondo può cambiare “a partire dal cuore” (28).

“Gesti e parole d’amore”
Ai gesti e alle parole d’amore di Cristo è dedicato il secondo capitolo. I gesti con i quali ci tratta come amici e mostra che Dio “è vicinanza, compassione e tenerezza”, si vedono negli incontri con la samaritana, con Nicodemo, con la prostituta, con la donna adultera e con il cieco sulla strada (35). Il suo sguardo, che “scruta l’intimo del tuo essere” (39), mostra che Gesù “presta tutta la sua attenzione alle persone, alle loro preoccupazioni, alle loro sofferenze” (40). In modo tale “da ammirare le cose buone che riconosce in noi” come nel centurione, anche se gli altri le ignorano (41). La sua parola d’amore più eloquente è l’essere “inchiodato sulla Croce”, dopo aver pianto per l’amico Lazzaro e aver sofferto nell’Orto degli Ulivi, consapevole della propria morte violenta “per mano di quelli che Lui tanto amava” (46).

Il mistero di un cuore che ha tanto amato
Nel terzo capitolo, “Questo è il cuore che ha tanto amato”, il Pontefice ricorda come la Chiesa riflette e ha riflettuto in passato “sul santo mistero del Cuore del Signore”. Lo fa riferendosi all’Enciclica di Pio XII Haurietis aquas, sulla devozione al Sacro Cuore di Gesù (1956). Chiarisce che “la devozione al Cuore di Cristo non è il culto di un organo separato dalla Persona di Gesù”, perché noi adoriamo “Gesù Cristo intero, il Figlio di Dio fatto uomo, rappresentato in una sua immagine dove è evidenziato il suo cuore” (48). L’immagine del cuore di carne, sottolinea il Papa, ci aiuta a contemplare, nella devozione, che “l’amore del Cuore di Gesù Cristo, non comprende soltanto la carità divina, ma si estende ai sentimenti dell’affetto umano” (61) Il suo Cuore, prosegue Francesco citando Benedetto XVI, il suo contiene un “triplice amore”: quello sensibile del suo cuore fisico “e il suo duplice amore spirituale, l’umano e il divino” (66), in cui troviamo “l’infinito nel finito” (64).

Il Sacro Cuore di Gesù è una sintesi del Vangelo
Le visioni di alcuni santi, particolarmente devoti al Cuore di Cristo – precisa Francesco – “sono stimoli belli che possono motivare e fare molto bene”, ma “non sono qualcosa che i credenti sono obbligati a credere come se fossero la Parola di Dio”. Quindi il Papa ricorda con Pio XII che non si può dire che questo culto “debba la sua origine a rivelazioni private”. Anzi, “la devozione al Cuore di Cristo è essenziale per la nostra vita cristiana in quanto significa l’apertura piena di fede e di adorazione al mistero dell’amore divino e umano del Signore, tanto che possiamo affermare ancora una volta che il Sacro Cuore è una sintesi del Vangelo” (83). Il Pontefice invita poi a rinnovare la devozione al Cuore di Cristo anche per contrastare “nuove manifestazioni di una ‘spiritualità senza carne’ che si moltiplicano nella società” (87). È necessario tornare alla “sintesi incarnata del Vangelo” (90) davanti a “comunità e pastori concentrati solo su attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni ossessive, progetti mondani, riflessioni secolarizzate, su varie proposte presentate come requisiti che a volte si pretende di imporre a tutti” (88).

L’esperienza di un amore “che dà da bere”
Negli ultimi due capitoli, Papa Francesco mette in evidenza i due aspetti che “la devozione al Sacro Cuore dovrebbe tenere uniti per continuare a nutrirci e ad avvicinarci al Vangelo: l’esperienza spirituale personale e l’impegno comunitario e missionario” (91). Nel quarto, “L’amore che dà da bere”, rilegge le Sacre Scritture, e con i primi cristiani, riconosce Cristo e il suo costato aperto in “colui che hanno trafitto” che Dio riferisce a se stesso nella profezia del libro di Zaccaria. Una sorgente aperta per il popolo, per placare la sua sete dell’amore di Dio, “per lavare il peccato e l’impurità” (95). Diversi Padri della Chiesa hanno menzionato “la ferita del costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito”, su tutti Sant’Agostino, che “ha aperto la strada alla devozione al Sacro Cuore come luogo di incontro personale con il Signore” (103).  A poco a poco questo costato ferito, ricorda il Papa “venne assumendo la figura del cuore” (109), ed elenca diverse donne sante che “hanno raccontato esperienze del loro incontro con Cristo, caratterizzato dal riposo nel Cuore del Signore” (110). Tra i devoti dei tempi moderni, l’Enciclica parla prima di tutto di San Francesco di Sales, che raffigura la sua proposta di vita spirituale con “un cuore trafitto da due frecce, racchiuso in una corona di spine” (118)

Le apparizioni a Santa Margherita Maria Alacoque
Sotto l’influsso di questa spiritualità, Santa Margherita Maria Alacoque racconta le apparizioni di Gesù a Paray-le-Monial, tra la fine di dicembre 1673 e il giugno 1675. Il nucleo del messaggio che ci viene trasmesso può essere riassunto in quelle parole che Santa Margherita ha udito: “Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e che nulla ha risparmiato fino ad esaurirsi e a consumarsi per testimoniare loro il suo Amore (121).

Teresa di Lisieux, Ignazio di Loyola e Faustina Kowalska
Di Santa Teresa di Lisieux, il documento ricorda il chiamare Gesù “Colui il cui cuore batteva all’unisono col mio” (134) e le sue lettere alla sorella suor Maria, che aiuta a non concentrare la devozione al Sacro Cuore “su un aspetto doloristico” quello di chi intendeva la riparazione come un “primato dei sacrifici”, ma sulla fiducia “come la migliore offerta, gradita al Cuore di Cristo” (138). Il Pontefice gesuita dedica alcuni passi dell’Enciclica anche al posto del Sacro Cuore nella storia della Compagnia di Gesù, sottolineando che nei suoi Esercizi Spirituali, Sant’Ignazio di Loyola propone all’esercitante “di entrare nel Cuore di Cristo” in un dialogo da cuore a cuore. Nel dicembre 1871, padre Beckx consacrò la Compagnia al Sacro Cuore di Gesù e padre Arrupe lo fece nuovamente nel 1972 (146). Le esperienze di Santa Faustina Kowalska, si ricorda, ripropongono la devozione “con un forte accento sulla vita gloriosa del Risorto e sulla misericordia divina” e motivato da queste, anche San Giovanni Paolo II “ha collegato intimamente la sua riflessione sulla misericordia con la devozione al Cuore di Cristo” (149). Parlando della “devozione della consolazione”, l’Enciclica spiega che davanti ai segni della Passione conservati dal cuore del Risorto, è inevitabile “che il credente desideri rispondere” anche “al dolore che Cristo ha accettato di sopportare per tanto amore” (151). E chiede “che nessuno si faccia beffe delle espressioni di fervore credente del santo popolo fedele di Dio, che nella sua pietà popolare cerca di consolare Cristo” (160). Perché poi “desiderosi di consolarlo, ne usciamo consolati” e “possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione” (162).

La devozione al Cuore di Cristo ci invia ai fratelli
Il quinto e ultimo capitolo “Amore per amore” approfondisce la dimensione comunitaria, sociale e missionaria di ogni autentica devozione al Cuore di Cristo, che, nel momento in cui “ci conduce al Padre, ci invia ai fratelli” (163). Infatti l’amore per i fratelli è il “gesto più grande che possiamo offrirgli per ricambiare amore per amore” (167). Guardando alla storia della spiritualità, il Pontefice ricorda che l’impegno missionario di San Charles de Foucauld lo rese “fratello universale”: “lasciandosi plasmare dal Cuore di Cristo, voleva ospitare nel suo cuore fraterno tutta l’umanità sofferente” (179). Francesco parla poi della “riparazione”, come spiegava San Giovanni Paolo II: “offrendoci insieme al Cuore di Cristo, «sulle rovine accumulate dall’odio e dalla violenza, potrà essere costruita la civiltà dell’amore tanto desiderato, il regno del cuore di Cristo»” (182).

La missione di far innamorare il mondo
L’Enciclica ricorda ancora con San Giovanni Paolo II che “la consacrazione al Cuore di Cristo «è da accostare all’azione missionaria della Chiesa stessa, perché risponde al desiderio del Cuore di Gesù di propagare nel mondo, attraverso le membra del suo Corpo, la sua dedizione totale al Regno». Di conseguenza, attraverso i cristiani, «l’amore sarà riversato nei cuori degli uomini, perché si edifichi il corpo di Cristo che è la Chiesa e si costruisca anche una società di giustizia, pace e fratellanza»” (206). Per evitare il grande rischio, sottolineato da San Paolo VI, che nella missione “si dicano e si facciano molte cose, ma non si riesca a provocare il felice incontro con l’amore di Cristo” (208), servono “missionari innamorati, che si lascino ancora conquistare da Cristo” (209).

La preghiera di Francesco
Il testo si conclude con questa preghiera di Francesco: “Prego il Signore Gesù che dal suo Cuore santo scorrano per tutti noi fiumi di acqua viva per guarire le ferite che ci infliggiamo, per rafforzare la nostra capacità di amare e servire, per spingerci a imparare a camminare insieme verso un mondo giusto, solidale e fraterno. Questo fino a quando celebreremo felicemente uniti il banchetto del Regno celeste. Lì ci sarà Cristo risorto, che armonizzerà tutte le nostre differenze con la luce che sgorga incessantemente dal suo Cuore aperto. Che sia sempre benedetto!” (220).

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La Betlemme di Roma

Posté par atempodiblog le 17 juillet 2024

La Betlemme di Roma
La Porta Santa di Santa Maria Maggiore sarà aperta dal Papa il 1° gennaio 2025. La Basilica sorta per volere di Papa Liberio sul luogo in cui nell’agosto 359 avvenne una nevicata miracolosa custodisce al suo interno le reliquie della Sacra Culla e per questo è conosciuta anche come Sancta Maria ad Praesepem. Capolavoro dell’arte medievale è il presepe di Arnolfo di Cambio, una delle rappresentazioni artistiche più antiche della Natività
di Paolo Ondarza – Vatican News

La Betlemme di Roma dans Apparizioni mariane e santuari Porta-santa

Un evento prodigioso: una nevicata in piena estate a Roma. Proprio come la Madonna aveva rivelato in sogno a Papa Liberio, 36mo Successore di Pietro.

Il perimetro segnato dalla neve
È il 5 agosto 359. Il Colle Esquilino si imbianca. I fiocchi caduti a terra segnano il perimetro su cui edificare un tempio dedicato alla Vergine. È la Basilica di Santa Maria Maggiore, detta “Liberiana”.

“Il tempio originario, certamente non era così. Era una basilica molto più modesta, con una sola navata”, spiega a Vatican News monsignor Ivan Ricupero, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore.

“Tutto il resto è stato aggiunto lungo i secoli. La Basilica infatti è stata riedificata nel 432 con Papa Sisto III. I mosaici dell’arco trionfale ricordano quel momento storico”.

Seconda Betlemme
Con Sisto III la Basilica assunse da subito simbolicamente il carattere di una “Seconda Betlemme”. Al suo interno infatti venne costruito un Oratorio del Presepe, ovvero una riproduzione fedele della grotta in cui nacque Gesù, realizzata con pietre provenienti dalla Terra Santa. Inoltre intorno alla metà del VII secolo, precisamente nel 644 qui giunse il prezioso dono che l’allora Patriarca di Gerusalemme, san Sofronio, fece a Papa Teodoro I, oriundo di Gerusalemme: la reliquia della Sacra Culla o cunabulum.

La preziosa reliquia
All’epoca numerose incursioni persiane avevano devastato molti luoghi legati al ricordo della vita di Cristo. Il futuro santo, monaco e teologo, ardente difensore dell’ortodossia, donò al Pontefice, cinque asticelle in legno di sicomoro provenienti dalla greppia di Betlemme, assieme alle fasce in cui secondo la tradizione fu avvolto il piccolo corpo di Gesù. Si conservano oggi all’interno del prezioso reliquiario in cristallo, ornato da bassorilievi in argento, realizzato da Giuseppe Valadier nei primi anni dell’Ottocento.

È posto nella Confessio fatta decorare con oltre 70 marmi differenti da Pio IX, commemorato da una gigante statua inginocchiata e con lo sguardo verso il mosaico absidale dove è raffigurata l’Incoronazione della Vergine.

La prima Messa della Notte di Natale
Non è dunque un caso se la Basilica Liberiana,  chiamata da secoli Sancta Maria ad Praesepem, sia divenuta meta dei pellegrini “romei” in occasione delle festività natalizie, oltre che oggetto di grande devozione e munificenza da parte di pontefici e sovrani. “Da allora in questa Basilica – prosegue monsignor Ricupero – viene celebrata la Messa della Notte della Vigilia. Pochi sanno che la prima veglia di Natale si è svolta qui. Successivamente questa consuetudine si è trasmessa ed è diventata una tradizione liturgica della Chiesa cattolica in tutto il mondo.

Per secoli la notte del 24 dicembre il Papa veniva qui a presiedere la Messa stazionale e fino a prima dell’emergenza pandemica la reliquia veniva portata in processione lungo le navate al canto del Gloria.  “Dallo scorso anno”, precisa il sacerdote, “abbiamo deciso di esporla nuovamente fuori dalla sua teca, sollevata in alto, in maniera tale che possa essere venerata la notte di Natale e fino al giorno dell’Epifania”.

La traslazione dell’Oratorio del Presepe
L’antico Oratorio del Presepe che originariamente si trovava nella navata destra della Basilica, grazie ad un sofisticato sistema d carrucole ed argani ideato dall’architetto Domenico Fontana, venne traslato al di sotto dell’imponente Tabernacolo in bronzo dorato della monumentale Cappella del Santissimo Sacramento, fatta edificare nel 1590 da Papa Sisto V Peretti in ossequio alle norme del Concilio di Trento.

La prima messa di sant’Ignazio e la visione di san Gaetano da Thiene
Circondato da affreschi dedicati agli antenati di Cristo e alle storie della Vergine, il Pontefice rinascimentale è rappresentato sulla parete sinistra della cappella nel monumento funebre a lui dedicato: in preghiera, con gli occhi diretti all’altare medievale dell’Oratorio del Presepe dove, nelle notti di Natale rispettivamente del 1517 e del 1538, san Gaetano da Thiene ebbe la visione mistica del Bambino Gesù e Sant’Ignazio di Loyola celebrò la sua prima Messa. “Il fondatore della Compagnia di Gesù”, spiega ancora monsignor Ivan Ricupero, “avrebbe voluto celebrarla a Betlemme, ma non riuscì per una serie di contingenze. Sciolse questo voto qui a Santa Maria Maggiore, considerata la Betlemme di Roma”.

Il presepe di Arnolfo
In questo luogo venne collocato quello è considerato il più antico presepe in scultura della storia, realizzato da Arnolfo Di Cambio nel 1289 su commissione del primo Papa francescano Niccolo IV, a meno di settant’anni dalla rappresentazione vivente della Natività voluta da San Francesco a Greccio.

Di questo capolavoro unico dell’arte plastica medievale, ricordato anche da Vasari, sono sopravvissute almeno cinque statue originali in marmo con le figure di san Giuseppe, due Magi Stanti, un Magio orante inginocchiato, le teste del bue e dell’asino, alle quali si aggiunge una Madonna con Bambino, seduta su una roccia, e di dimensioni maggiori: circa un metro di altezza. Controversa l’attribuzione ad Arnolfo di quest’ultima, secondo alcuni studiosi pesantemente rimaneggiata nel Cinquecento. Tracce di pigmento presenti sulla pietra testimoniano come l’originario presepe in pietra, di cui non si conosce il numero esatto di sculture, dovesse essere colorato.

Santa Maria Maggiore verso il Giubileo
Come i pastori richiamati dall’angelo per la nascita del Salvatore, nell’Anno Santo 2025 tanti pellegrini giungeranno nella Basilica Liberiana, la Betlemme d’Occidente.

Percorrendo l’ampio spazio liturgico il loro sguardo sarà attratto da innumerevoli mosaici, dipinti e sculture di grande valore; dalle preziose reliquie del manto della Vergine, della paglia e del panniculum, le fasce che avvolsero il corpo del Bambino Gesù.

La Salus Populi Romani e Matteo Ricci
Infine non potrà mancare una sosta alla Salus Populi Romani, l’icona che la tradizione attribuisce alla mano di San Luca, patrono dei pittori, ma che studi più recenti hanno ricondotto ad un periodo tra il IX e l’XI secolo. “È un’immagine tanto cara alla devozione dei Papi e in particolare di Francesco che qui si reca all’inizio e al termine di ogni suo viaggio apostolico”, commenta monsignor Ricupero. “La devozione è molto diffusa tra i Gesuiti: pochi sanno che Matteo Ricci quando iniziò la sua missione in Cina, ricevette dal Papa una piccola copia dell’icona della Salus che portò con sé”.

Gli esami sulla reliquia
Centrale nella visita giubilare a Santa Maria Maggiore sarà la sosta in preghiera, sotto l’altare maggiore, sulle reliquie della Sacra Culla, il cui valore storico e devozionale è stato avvalorato da recenti studi scientifici.

I pollini prelevati all’interno delle asticelle di sicomoro sono stati ricondotti alla zona geografica di Betlemme e al tempo di Gesù. Una conferma di quanto attestato per secoli, fra gli altri anche da San Girolamo le cui spoglie mortali si conservano proprio a Santa Maria Maggiore.

“I rilievi – ricorda il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche di Santa Maria Maggiore  –  sono stati effettuati nel 2018. L’occasione è stata data dalla decisione di Papa Francesco di donare un frammento delle venerate asticelle alla Custodia di Terra Santa nel novembre 2019″.

La Porta che introduce al mistero dell’Incarnazione
Il Pontefice aprirà la Porta Santa di Santa Maria Maggiore il 1° gennaio 2025, solennità di Maria santissima Madre di Dio. “Già a partire dal 1390 – conclude monsignor Ivan Ricupero – ci sono attestazioni che qui ci fosse una Porta Santa che i fedeli potevano attraversare per ricevere il dono dell’indulgenza. Visitare questa Basilica legata alla Natività è per i pellegrini e i turisti un’opportunità per avvicinarsi al grande mistero dell’Incarnazione”.

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Il legno della Croce alimenta il fuoco dell’Amore

Posté par atempodiblog le 30 juillet 2023

Il legno della Croce alimenta il fuoco dell'Amore dans Citazioni, frasi e pensieri Sant-Ignazio-di-Loyola

Non c’è legno migliore per alimentare il fuoco dell’amore di Dio che il legno della santa Croce, del quale Cristo si servì per quel suo gran sacrificio d’immensa carità! 

Sant’Ignazio di Loyola

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La devozione mariana in sant’Ignazio

Posté par atempodiblog le 30 juillet 2022

La devozione mariana in sant’Ignazio
Quando si pensa a sant’Ignazio di Loyola, la memoria corre subito ai suoi Esercizi spirituali. Poca, invece, è la fama della sua devozione alla Vergine Maria. Eppure, di “tracce mariane”, ne troviamo non poche: come nella vita, così anche nei suoi scritti.
di Antonio Tarallo – La nuova Bussola Quotidiana

La devozione mariana in sant'Ignazio dans Antonio Tarallo Sant-Ignazio-di-Loyola-e-la-Madonna-della-strada

Quando si pensa a Sant’Ignazio di Loyola, la memoria corre subito ai suoi Esercizi spirituali, fonte inesauribile per la meditazione, testo-simbolo della sua avventura terrena. E il termine “avventura” è davvero quello che meglio si addice alla sua biografia: Ignazio, il condottiero spagnolo, che troverà- poi – in Dio l’unico vero duce non solo delle sue battaglie, ma dell’intera sua esistenza. Coraggioso e dal fine intelletto, il fondatore dei Gesuiti – del quale domani ricorre la memoria liturgica – rappresenta uno dei più famosi santi che la Chiesa annovera. Tanti libri su di lui sono stati scritti; tante pagine raccontano di come il militare degli uomini sia diventato uno dei più importanti “militi del Signore”.

Poca, invece, è la fama della sua devozione alla Vergine Maria. Eppure di “tracce mariane”, ne troviamo non poche: come nella vita, così anche nei suoi scritti. Infatti, l’espressione con riferimento a Maria che più frequentemente appare negli Esercizi Spirituali è Madre y Señora nuestra (Madre e Signora nostra): espressione ricca di contenuto teologico e, al contempo, di grande carica emotiva, di “filiale affetto” si potrebbe dire.

E Ignazio provava una devozione del tutto particolare per la Mamma Celeste, per la Signora: proprio a Lei si sentirà legato fin da quella famosa battaglia di Pamplona che gli cambierà la vita, definitivamente. Era il 1521. All’epoca il fondatore gesuita non si chiamava ancora Ignazio ma Iñigo, e non aveva ancora trent’anni. Durante la battaglia fu colpito duramente alla gamba, ma ciò non lo ferì comunque mortalmente. Inizia per lui il periodo della convalescenza, lungo e tortuoso. Nasce così la sua passione per due letture che gli cambieranno l’esistenza: Vita Christi del certosino Ludolfo di Sassonia e Le vite dei santi di Jacopo da Varagine, vescovo di Genova e frate domenicano. E proprio di questo periodo,  nella sua Autobiografia,  troviamo un racconto in cui la Vergine è protagonista: Sant’Ignazio “vide chiaramente un’immagine di nostra Signora con il santo bambino Gesù [e] poté contemplarla a lungo provandone grandissima consolazione”. Questa visione ebbe come effetto una profonda “trasformazione che si era compiuta dentro la sua anima”. Dopo lunghi mesi di lettura e studio, avverrà, poi, il pellegrinaggio al benedettino monastero “de Montserrat”: qui, l’incontro con la Vergine, o meglio, con la “Moreneta”, una scultura di legno (XIII secolo) che raffigura la Vergine. Si narra che proprio di fronte a questa effige, Iñigo deporrà la spada di guerra per imbracciare il Crocifisso dell’Amore. Il passato si chiude per aprirgli la porta di un nuovo cammino: quello verso Dio, verso la carità, verso il Paradiso. La Vergine lo aveva ormai attratto a sé, e Iñigo diventerà Ignazio.

La presenza della Madre di Dio sarà una costante nella sua vita perché anche a Roma, città fondamentale per il cammino personale di Ignazio e di quello della Compagnia da lui fondata, incontra un’altra immagine che rimarrà scolpita nel suo cuore: è la Madonna della Strada che si trovava nella chiesa che all’epoca aveva nome Santa Maria degli Astalli per poi prendere il nome, appunto, di Madonna della Strada.

Annus Domini 1641. Sul soglio di Pietro regna Papa Paolo III, lo stesso pontefice che l’anno prima aveva approvato la Compagnia di Gesù; il Santo Padre consegna la chiesa, abbattuta e ricostruita nel 1569, a Sant’Ignazio di Loyola. Davanti a questa miracolosa immagine si narra – tra l’altro – che furono molti i santi che si fermarono in preghiera: da Pierre Favre a Carlo Borromeo, fino a giungere a Filippo Neri. Ma qual è la storia di questo affresco così delicato, tenero e dolce? La sua storia si intreccia con quella del guerriero di Dio, Ignazio: infatti, quel dipinto, era stato sempre lì, precedentemente alla sua venuta a Roma; infatti, l’effige della Madonna col Bambino in braccio, si trovava in angolo della chiesa di Santa Maria della Strada; e il santo spagnolo si era imbattuto nell’affresco in occasione del suo primo viaggio nella Città Eterna, nel 1540. Il dato più lontano nel tempo riguardante l’edificio sacro al cui interno era stata affrescata l’immagine della Madonna della Strada risale al 1192, anno in cui compare la prima indicazione di una chiesa dal nome Santa Maria de Astariis, appellativo che ritorna anche in un catalogo di chiese romane redatto intorno al 1230; mentre in un codice del 1320 – conservato presso la Biblioteca Nazionale di Torino – si legge che questa chiesetta era retta da un solo sacerdote e al suo interno si facevano seppellire i membri della famiglia romana degli Astalli. Nei documenti successivi, invece, il nome dell’edificio sacro muta in “Santa Maria de scinda” e in  “Santa Maria de stara”, per poi mutarsi nuovamente in “Santa Maria della Strada”. È comunque importante specificare che la superficie dove sorgeva questa chiesa occupava una piccola parte dell’area circoscritta da quelle vie che sono le attuali via degli Astalli, via del Plebiscito e piazza del Gesù. Ciò che vediamo oggi, lo dobbiamo alla decisione del cardinale Alessandro Farnese di costruire – nel 1568 – la Chiesa del Gesù.  E solo nel 1575, l’affresco venne posto nella cappella della nuova chiesa dove i Gesuiti prendevano i voti.

Chi entra, oggi, nella Chiesa del Gesù, non può non rimanerne colpito da questa immagine della Madonna della Strada: rimane affascinato dalla sua grazia, dalla sua bellezza misteriosa. La Vergine è rappresentata a mezzo busto, con in braccio sinistro il Bambino; la mano destra, invece, è aperta, rivolta ai fedeli. Ha il capo coronato circondato dal nimbo; lo sguardo frontale; e tutta la figura è avvolta da un manto color oro. Anche il Bambino ha una luminosa aureola, e presenta la postura del Pantocratore; ha lo sguardo frontale che infonde al fedele una serenità austera; con la sinistra tiene un libro e alza la destra nel gesto della benedizione. Nell’insieme, l’effige mariana sembra evocare la tipologia della Madre mediatrice di Grazia; e, inoltre, con il suo sguardo che penetra nel cuore di ogni fedele, sembra davvero che inviti alla fiducia nel Figlio.

La storia di questa immagine ha visto una tappa fondamentale nel 2006, quando è stata sottoposta a un restauro che ne ha mostrato un nuovo volto, del tutto inedito: infatti, l’immagine si è rivelata di oltre due secoli più antica di quello che si pensava. Il lavoro di restauro ha dissolto secoli di sporcizia, depositi minerali, vernice e sopraverniciatura dalla superficie dell’immagine; e, così, i colori brillanti hanno iniziato a farsi strada, tanto da dare alla luce una nuova Madonna della Strada. Gli esperti che hanno supervisionato il lavoro di restauro, alla fine, hanno concordato sul fatto di datare l’opera al XIII o al XIV secolo.

La Madonna della Strada, nulla di più attuale. Proprio oggi che molti sembrano aver smarrito la via, guardare a questa effige vuol dire non solo entrare nella spiritualità ignaziana, ma anche chiedere alla Vergine la giusta direzione. Ignazio di Loyola, a distanza di secoli, grazie ai suoi scritti, alla sua testimonianza, sembra quasi offrirci il “google map” per trovare l’Infinito di Dio. E le parole della preghiera dedicata alla Madonna della Strada, ci offrono la possibilità di revisionare anche noi il nostro cammino e di guardare al Cielo, così come fece quel guerriero di Dio dal nome Ignazio di Loyola:

“O Maria, Madonna della Strada, accompagnaci sulle vie del mondo tu che hai camminato: sui monti della Giudea, portando, sollecita, Gesù e la sua gioia; sulla strada da Nazareth a Betlemme dove è nato Gesù, il nostro Redentore; sul cammino dell’esilio per proteggere il Figlio dell’Altissimo; sulla via del Calvario per ricevere la maternità della Chiesa. Continua, ti preghiamo, a camminare accanto a tutti noi sulle strade del mondo affinché possiamo vivere e testimoniare il Vangelo di salvezza. Proteggi in particolare quanti hanno la strada come luogo di lavoro, d’impegno, di viaggio e di pellegrinaggio, e che sono alla ricerca dei beni più grandi per una vita degna e benedetta”.

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Quanto i santi si interessino di noi

Posté par atempodiblog le 31 juillet 2019

Quanto i santi si interessino di noi  dans Citazioni, frasi e pensieri Sant-Ignazio-di-Loyola

Giorno di Sant’Ignazio. Ho pregato fervorosamente questo santo, facendogli dei rimproveri: Come può osservarmi e non venirmi in aiuto in questioni tanto importanti, cioè nell’adempimento della volontà di Dio?”.
Ho detto a questo santo: “O nostro Patrono, che sei stato infiammato dal fuoco dell’amore e dello zelo per la maggior gloria di Dio, Ti prego umilmente, aiutami a realizzare i disegni di Dio”.  Questo avveniva durante la Santa Messa.

All’improvviso sul lato sinistro dell’altare ho visto sant’Ignazio con un gran libro in mano, il quale mi ha detto queste parole: “Figlia mia, non sono indifferente alla tua causa. Questa regola si può adattare anche a questa congregazione”. E indicando il libro con la mano, scomparve.
Mi rallegrai enormemente vedendo quanto i santi si interessino di noi e quanto sia stretta l’unione con loro.

Santa Faustina Kowalska

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Il canto che guarisce

Posté par atempodiblog le 5 juin 2015

“La musica si presenta anzitutto come un intervallo fra due silenzi – il silenzio dell’attesa e dell’ascolto, da una parte, e il silenzio degli effetti che può produrre nell’interiorità di chi l’ascolta – non è difficile cogliere come essa stabilisca fra il compositore, l’esecutore e il fruitore una sorta di canale comunicativo, aperto su diversi registri di comunicazione.

Così, la musica può unire coloro che fruiscono insieme dello stesso atto musicale, nel tempo o nello spazio, o più radicalmente si fa ponte fra il cuore della persona toccata dalla musica e la totalità del reale fin nelle sue dimensioni più abissali, quelle che si perdono nel mistero che avvolge ogni cosa”.

di Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto

Il canto che guarisce dans Canti nxvmo8

Il canto che guarisce
di Stefano Chiappalone – Comunità Ambrosiana

Ma il canto! era il canto che mi andava al cuore…” (JRRT)

Nel breve discorso rivolto agli organizzatori del Concerto dei poveri per i poveri – idealmente collegato all’apertura della Cappella Sistina per 150 clochard, avvenuta a marzo – lo scorso 14 maggio, Papa Francesco condensava in poche righe la funzione guaritrice della bellezza.

La musica ha questa capacità di unire le anime e di unirci con il Signore, sempre ci porta… è orizzontale e anche verticale, va in alto, e ci libera delle angosce. Anche la musica triste, pensiamo a quegli adagi lamentosi, anche questa ci aiuta nei momenti di difficoltà”. 

La musica, ma il discorso del Santo Padre è applicabile a qualsiasi forma d’arte, ci guarisce dalle angosce proprio nella misura in cui ci distoglie dall’ “affarismo materiale che sempre ci circonda e ci abbassa, ci toglie la gioia”. E si tratta di una gioia duratura, “non un’allegria divertente di un momento, no: il seme rimarrà lì nelle anime di tutti e farà tanto bene a tutti”. Nel duplice movimento verticale – verso il Signore – e orizzontale – verso i fratelli -, il Papa ci dona anche un criterio di discernimento per distinguere la vera gioia donata dall’arte e non confonderla con un piacere effimero, sulla scia della distinzione tra vera e falsa bellezza già espressa in più occasioni dal predecessore:

una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto” (Benedetto XVI, Incontro con gli artisti, 21 novembre 2009).

A sua volta, il pontefice gesuita aggiunge un ulteriore elemento nel distinguere tra “un’allegria divertente di un momento” e una gioia duratura che “rimarrà lì nelle anime di tutti e farà tanto bene a tutti”, riecheggiando quel discernimento degli spiriti di cui è maestro il suo fondatore Sant’Ignazio di Loyola. Negli Esercizi Spirituali, Ignazio ci invita a riconoscere l’albero dai suoi frutti (cfr Lc 6 ,43 ss), poiché quando c’è vera gioia spirituale, “l’anima continua nel fervore e avverte il favore divino e gli effetti che seguono la consolazione passata”. In altre parole, la gioia che scaturisce dalla vera bellezza si contraddistingue dalla continuità dei suoi effetti, nella misura in cui ci guarisce dal ripiegamento in noi stessi, ci libera dalle nostre gabbie interiori, ridestando l’apertura verso il reale e la meraviglia di far parte di una famiglia “cosmica” che va da Dio al prossimo, passando per l’intera Creazione.

“Voi non l’avete visto, ma quel cavaliere Nero si è fermato proprio qui, e stava strisciando verso noi, quando giunsero le note della canzone. Appena ha sentito le voci è fuggito via” (JRRT)

La funzione guaritrice della bellezza emerge sin dai tempi antichi. Nel primo libro di Samuele, al re Saul viene proposta una “terapia” musicale di fronte ai turbamenti di uno spirito cattivo – e i Padri del Deserto insegnano che lo spirito cattivo non spaventa necessariamente con corna e zampe caprine, ma anche molto più sottilmente attraverso la multiforme minaccia dei pensieri negativi.

Comandi il signor nostro ai ministri che gli stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà, quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio” (1 Sam 16,16). Per Saul trovarono un cantore d’eccezione che sarebbe divenuto il suo successore. “Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1 Sam 16,23).

Sarà per questo che talora nei momenti di sconforto cerchiamo rifugio nella musica – salvo rinchiudersi ancora di più negli auricolari –, o in mezzo al verde, per spegnere le luci e i rumori del quotidiano, e lasciar spazio ai colori della Creazione, al profumo di un prato, alla calma silente di un lago, al cinguettio degli uccelli, allo scroscio dell’acqua, al candore di una cima innevata come neonati piangenti che cercano riposo nell’abbraccio materno. Cerchiamo, in definitiva, di rompere le varie gradazioni di grigio che dominano il nostro mondo e tornare a godere un po’ di quello che doveva essere l’orizzonte quotidiano di tempi andati, certamente carenti di molte comodità materiali (di cui, beninteso, sarebbe assurdo privarci), ma forse meglio di noi attrezzati ad accogliere la vita nel suo inestricabile intreccio di gioie e dolori. Tempi che ci hanno donato non solo castelli e cattedrali, bensì un istinto della bellezza disseminato nelle umili ma splendide casette dei nostri centri storici, in paesaggi incantevoli plasmati dalla sapienza di generazioni di contadini, persino nei corredi cuciti con arte dalle madri per le figlie e dove anche la fatica delle faccende domestiche si trasfigurava nel canto delle lavandaie – avete invece mai visto qualcuno cantare, o almeno sorridere, mentre fa il bucato nelle nostre lavatrici self service a gettoni? Di quel mondo abituato alla lode traspariva un’eco nell’anziana signora che vidi passare un giorno: portava sulla testa con eleganza il suo cesto di vimini e durante il tragitto…cantava! Cantava, come aveva imparato da ragazza, in un’epoca lontana anni luce dalla nostra – benché distante solo poco più di mezzo secolo – e paradossalmente più vicina a quella Palestina di duemila anni fa, in cui una semplice ragazza di Nazareth improvvisava spontaneamente un celebre inno: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore…” (Lc 1,46-47).

…si accorsero improvvisamente che il canto sgorgava spontaneamente dalle loro labbra, quasi fosse più semplice e naturale cantare che parlare” (JRRT)

Al declinare degli inni corrisponde il mutismo delle pietre: all’incanto dei borghi e dei paesaggi – confinati a “riserve turistiche” – si è sostituito il proliferare di “non luoghi” costruiti e abitati da gente che non ha più nulla da cantare forse perché ha smesso anche di sorridere. Archiviato ogni legame trascendente, verso l’alto e verso l’altro, ritrovandosi senza Padre e senza fratelli, prigioniero del proprio individualismo, l’uomo moderno non trova più cetre in grado di scuoterlo dal torpore.

Ma sei capace di gridare quando la tua squadra segna un goal e non sei capace di cantare le lodi al Signore? Di uscire un po’ dal tuo contegno per cantare questo?” chiedeva il Santo Padre, invitando a esaminarci sulla capacità di lodare: “Ma come va la mia preghiera di lode? Io so lodare il Signore? So lodare il Signore o quando prego il Gloria o prego il Sanctus lo faccio soltanto con la bocca e non con tutto il cuore?” (Omelia a S.Marta, 28 gennaio 2014).

L’arte esprime la lode, ma l’uomo moderno ne è divenuto incapace, imprigionato in quell’ “affarismo materiale che sempre ci circonda e ci abbassa, ci toglie la gioia”. Si rende grazie quando si riconosce di aver ricevuto un dono, non quando si concepisce l’intera realtà come qualcosa di interamente prodotto da noi stessi o comunque manipolabile a comando. Si ringrazia per il sole che illumina e scalda, per la pioggia che feconda la terra, per il legno e la pietra, per l’acqua e il fuoco, per il raccolto, per la festa, ma quale lode potranno mai ispirare le colate di cemento e le luci artificiali? Possiamo ancora costruire castelli e cattedrali, colonne e le vetrate, persino le colline, le siepi, ma tutto questo necessita di un solido fondamento, poiché la bellezza ha come fondamento la dimensione festiva della realtà, riflesso di quella primordiale contemplazione di Dio stesso all’atto della Creazione: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn1,29). Non importa quanto grigio invada il nostro orizzonte, né quanto dolore affligga la nostra vita: le generazioni passate non mancavano di contrarietà, tuttavia cantavano e facevano cantare persino la materia, facendo di una piccola chiesetta di campagna uno scrigno di bellezza, vivendo anche le fatiche nella prospettiva di quella festa cosmica che intravediamo tra le pieghe (e le piaghe!) del quotidiano. “Se già non lo fai, prendi l’abitudine di pregare – raccomandava J.R.R.Tolkien a suo figlio che si trovava in guerra –  Io prego molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in Excelsis, il Laudate Dominum; il Laudate Pueri Dominum (a cui sono particolarmente affezionato), uno dei salmi domenicali; e il Magnificat; anche la Litania di Loreto (con la preghiera del Sub tuum presidium). Se nel cuore hai queste preghiere non avrai mai bisogno di altre parole di conforto”.  Per ricominciare a costruire, perché il mondo intorno a noi ricominci a cantare, risvegliandosi dalla tristezza, non occorre cercare lontano: dobbiamo recuperare la cetra nel nostro stesso cuore.

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“Beata Vergine di Montserrat”

Posté par atempodiblog le 27 avril 2015

“Beata Vergine di Montserrat”
Tratto da: Madre di Dio

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Nella Catalogna, a quaranta chilometri da Barcellona, a ridosso di Montserrat, il “monte segato”, sorge il santuario della Beata Vergine che risale all’XI secolo, quando l’abate Oliba eresse sul posto un monastero benedettino. Il paesaggio naturale estremamente austero offre già di per sé un’irresistibile attrattiva alla preghiera e alla riflessione. Infatti Montserrat è una montagna che s’innalza quasi in verticale dalle pianure al centro della Catalogna e presenta la sua mole inconfondibile (lunga circa 10 km e larga 5), di picchi caratteristici di una bellezza originale, in cui i pellegrini ravvisano altrettanti monaci in preghiera.

La statua della Madonna, di colore scuro, detta affettuosamente Morenita (moretta), è un’artistica opera d’intaglio in legno policromo; è seduta su un trono d’argento laminato d’oro e di pietre preziose; ha sulle sue ginocchia il Bambino Gesù che benedice con la mano destra e con la sinistra sostiene il globo terrestre; porta sul capo un diadema e sulla mano destra anch’ella regge un globo, mentre con la sinistra, in un gesto pieno di tenerezza e insieme di rispetto, stringe a sé e protegge il divino Figliolo.

La tradizione vuole che essa sia stata trovata ab immemorabili da alcuni pastori in una grotta della montagna. La primitiva cappella divenne in breve tempo insufficiente a contenere i pellegrini, per cui ne fu costruita una nuova più ampia, in stile romanico, nel 1300; ma, nel secolo XVI, anch’essa fu sostituita da una chiesa di vastissime proporzioni.

Nel Medioevo, i pellegrini di Santiago de Compostela raccontavano lungo il loro cammino i miracoli della Vergine del santuario di Montserrat e il re di Castiglia, Alfonso X il Saggio (1221-1284), consacrò sei delle sue Càntigas de Santa Maria a sei miracoli della Morenita. Nel 1400 il santuario raggiunse il massimo splendore e la sua fama si estese in tutta l’Europa, prima con le  conquiste della corona catalano-aragonese, poi con la dinastia imperiale        spagnola. Dopo la scoperta dell’America, un monaco di Montserrat, Bernardo Boil, delegato del Papa presso Colombo, ne fu il primo missionario nel Nuovo Mondo. Grazie a queste ramificazioni di portata universale, la Vergine Nera di Catalogna è invocata in numerose chiese e cappelle di tutto il mondo.

Tra i tanti illustri personaggi che visitarono questo santuario, ricordiamo sant’Ignazio di Loyola che, cavaliere convertito, venne a Montserrat per deporre la sua spada ai piedi della Vergine, passarvi una veglia d’armi e cominciarvi la sua nuova vita sotto la direzione di don Chanon, confessore nel santuario.

Nel 1811, con la “guerra del Francese”, chiesa e monastero furono completamente distrutti dai soldati di Napoleone; e i monaci furono costretti a fuggire. Durante la guerra civile spagnola (1936-1939), 23 monaci furono massacrati.

Oggi il santuario, ricostruito sontuosamente e attorniato da un vasto complesso di edifici in gran parte adibiti per i pellegrini, è di nuovo conosciuto in tutto il mondo. Secondo le ultime statistiche, ogni anno, pellegrini e turisti superano abbondantemente il milione di presenze.

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«La forza del presepe». Meditare il Natale con Papa Francesco

Posté par atempodiblog le 16 décembre 2014

«La forza del presepe». Meditare il Natale con Papa Francesco
Tratto da: La Civiltà Cattolica (Quaderno N°3947 del 06/12/2014, pag.417-422)

Presepe e Dio lontano dans Anticristo Presepe


«Ci avviciniamo al presepe, dove albeggia “una grande luce” (Mt 4,16) […], una luce nascosta nel silenzio di Nazaret e nella pace notturna di Betlemme; eppure presto si manifesterà a tutte le genti (Is 60,1-3; Mt 2,2-9) e ai discepoli (Mt 17,12; Lc 2,32). È la luce del mondo (Gv 8,12; 9,5; 12,46), la luce in cui dobbiamo camminare per esserne figli (Gv 12,36)». Queste sono le parole con le quali iniziava una meditazione dell’allora p. Jorge Mario Bergoglio su Dio visto come luce, raccolta nel volume Nel cuore di ogni padre (Milano, Rizzoli, 2014, p. 159).
«Ci avviciniamo»: come per Ignazio di Loyola, così per Papa Francesco meditare non significa solamente «considerare» o «ragionare», ma soprattutto farsi presenti alla scena del mistero, essere testimoni anche grazie all’immaginazione. Se non si vede la scena della Natività, non si vede la luce. E se la luce non si vede, essa diventa un puro contenuto intellettuale, incapace di toccare il cuore e la sensibilità. Bisogna vivere quella che Papa Francesco ha definito la «teologia del “come se”» (ivi, 199), propria di sant’Ignazio, quella che ci fa entrare nella tensione della presenza: «come se fossi presente». In questo modo possiamo davvero sentirci nel presepe. Questo ci sembra un invito valido per il Natale: proviamo a entrare nella scena del mistero della Natività, sperimentiamo la pace notturna di Betlemme e il silenzio che domina la notte.

Botti di Capodanno, l'appello dei medici degli ospedali: “E' una tradizione negativa e pericolosa” dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale

La «luce nascosta». Facciamo «come se» fossimo lì presenti, nella grotta di Betlemme. Quale luce vediamo? La luce abbagliante di un sole invitto che splende accecando con la sua gloria e imponendo adorazione per il solo fatto di risplendere come un faro?

No, vediamo la luce del Signore che è «luce nascosta», scrive Bergoglio; che è kindly light, «luce gentile», gli farebbe eco il beato John Henry Newman. Non è luce accecante, abbagliante, ma luce che si approssima, come la luce di una fiaccola che aiuta nel cammino. La luce, per Bergoglio, non suscita innanzitutto una contemplazione statica, ma apre il cammino. «Camminate mentre avete la luce», scrive l’evangelista Giovanni (12,35). Ecco allora che la «forza del presepe» consiste nell’innescare un processo, nell’iniziare un cammino.

Per Bergoglio, dunque, il mistero del Natale è intimamente dinamico: sveglia la coscienza intorpidita, riscuote l’animo e ci mette in partenza da pellegrini che credono con la fede salda di chi non svende la propria coscienza. Questo percorso, avverte, diventa autentico soltanto quando non rimane intrappolato nel chiacchiericcio alienante. Il mondo della «chiacchiera» nuoce al silenzio del cammino nella Notte santa (cfr J. M. Bergoglio, La forza del presepe. Parole sul Natale, Bologna, Emi, 2014, 23-34). «La strada che il presepe ci prospetta è diversa da quella vagheggiata dalla nostra ambizione» (ivi, 48). 

In questo cammino raccolto si diventa «figli della luce». P. Bergoglio scriveva che la luce «ci trasforma non soltanto avvolgendoci da fuori, ma cambiandoci il cuore, i desideri, l’amore (At 22,6.9.11.13; 9,3; 12,7)» (Id., Nel cuore di ogni padre…, cit., 159). Essere figli significa essere generati e rigenerati da questa luce: essa ci cambia persino i desideri, riorienta la nostra direzione di vita.

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I «figli della luce». Chi è in grado di essere generato dalla luce? «A ricevere questa luce sono i semplici, i fedeli: i pastori, i magi, Elisabetta, Zaccaria, Simeone, Anna, Giuseppe, Maria. Vengono tutti convocati dalla luce, nell’apparente penombra, nella mediocrità di una vita comune» (ivi, 160). È come se qui ci venisse detto: se credi di vivere sotto i riflettori, di vivere una vita illuminata dal successo o da una verità avvertita come possesso, la luce nascosta del Natale non potrà toccarti. «Davanti al presepe si sgretolano tante delle nostre cose che forse brillavano molto, oppure che credevamo importanti, solide! Ma a volte quel luccichio, quell’importanza e quella solidità non hanno alcun altro fondamento se non il pantano delle nostre ambizioni, che crollano davanti a colui che non ha esitato ad annullarsi fino alla morte e morte di croce» (Id., La forza del presepe…, cit., 48).

Solo la «classe media della santità», per citare Joseph Malègue, scrittore tanto caro a Papa Francesco, è in grado di farsi raggiungere da questa luce che rigenera. È davanti «alla semplicità, quasi quotidiana, del presepe» che si fa esperienza della gloria. Chi preferisce la «luce convenzionale» che ha imparato a usare da sempre, non sa aprire la porta al Signore che bussa (cfr Id., Nel cuore di ogni padre…, cit., 160). Davanti al «bambino che piange» prende corpo e forma l’immagine apocalittica del Signore che viene. Sono dunque «i semplici, i giusti, a comprendere che colui che è venuto a calcare la terra fu “la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto, perché tu li amavi” (Sal 44,4)» (ivi, 161).

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Una luce che risveglia. E allora ecco — prosegue Bergoglio in una meditazione sulla vocazione —, proprio «così, come siamo, con la nostra vita quotidiana, le nostre lealtà e i nostri peccati, le nostre aspirazioni e le nostre tentazioni, ci conviene avvicinarci al presepe di Gesù nel desiderio che la sua grazia ci tocchi e ci aiuti a continuare a crescere nel suo servizio. E, come schiavi indegni, rinnoviamo la nostra speranza contemplando come in mezzo alla senescenza della famiglia umana ci sia stato dato un bambino. La nostra carità apostolica potrà irrobustirsi davanti alla solitudine di una vergine, più feconda di chiunque altro, e al suo calore materno. E se guardiamo all’uomo che si assume il peso di colui che non ha generato, san Giuseppe, troveremo incoraggiamento ad avere più fede nella nostra peculiare paternità religiosa» (ivi, 254 s).

Essere dunque nella «compagnia di Gesù» significa innanzitutto proprio questo: essere come siamo, leali e peccatori, sapendo che «quel bambino sarà il nostro salvatore» (ivi, 252). E così assumerci le nostre responsabilità generative nei confronti del mondo che abbiamo intorno.

Il nostro compito, dunque, meditando come se fossimo presenti al presepe, è di svegliarci alla luce gentile del Signore che nasce, e imparare a camminare nel mondo. Sperimentare «l’infinita soavità e dolcezza della divinità» (Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 124) non ci deve spingere a «fare la tenda» nel presepe, ma a metterci in cammino, a crescere con Gesù che cresce e non resta bambino nella grotta. «È ancora il Natale — prosegue Bergoglio — a suggerirci l’inizio di una vita nuova in ciascuno di noi, con tutta la speranza di una crescita che vi è connessa: “È tempo di svegliarvi”, ci ricorda san Paolo (Rm 12,11). Pensiamo qualche volta al mistero per cui due dei quattro evangelisti fanno partire la loro “Buona notizia” con l’incarnazione e il Natale del Signore? E al fatto che uno di loro, Luca, insista tanto sul mistero che “il Bambino cresceva”, come successivamente dirà — negli Atti degli Apostoli — che la Chiesa cresceva? […] Conserviamo ancora la speranza con cui l’abbiamo intrapresa [la vita religiosa e apostolica] allora? O forse l’abbiamo riposta, come facciamo con le cose che vediamo di tanto in tanto finché si scordano? Abbiamo la preoccupazione di “crescere” giorno dopo giorno nel servizio del Signore, di rinnovare il nostro cuore, di mantenerci in “formazione permanente”?» (J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre…, cit., 253).

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Lo sguardo vigile di Giuseppe. Contemplare il presepe stando lì come se si fosse presenti significa anche comprendere ciò che accade. Guardiamo a ciò che ha fatto Giuseppe: si è assunto «il peso di colui che non ha generato» (ivi, 255). Non è una definizione comune del patriarca, del padre putativo di Gesù. Eppure è chiaramente una definizione chiave. Bergoglio intuisce che la generatività di Giuseppe consiste proprio nella sua capacità di allevare un figlio non generato da lui, di aver accolto sostanzialmente una realtà non uscita né dal proprio corpo né dalla propria mente. Si è fatto carico del disegno di Dio, portandone il peso.

«Riassumendo — afferma il Papa —, si direbbe che a Giuseppe sia stato detto qualcosa del genere: ricevi la missione di Dio, lasciati guidare da Dio, abbraccia la difficoltà, per salvare il Salvatore. Giuseppe salva la buona fama di Maria, la stirpe di Gesù, l’integrità del bambino, il suo radicamento in terra d’Israele, ma al tempo stesso è stato il primo che Dio ha salvato da una coscienza di giustizia non aperta ai disegni di Dio, da un piano di vita isolato, da una vita, forse senza tante tribolazioni, senza però il conforto di tenere Dio tra le braccia» (ivi, 269).

Facendosi tenere in braccio da Giuseppe, Dio lo ha salvato «da una coscienza di giustizia non aperta ai disegni di Dio». Questa frase ci fa riflettere. A volte i credenti pretendono di avere una chiara e distinta consapevolezza di ciò che è giusto, attribuendo senza umiltà a Dio l’origine del loro senso di giustizia. In realtà, ci dice Bergoglio, solamente tenere in braccio Dio, cioè avere con lui un’esperienza intima, può aprire il nostro cuore ai suoi disegni, senza farli coincidere forzatamente con i nostri. Solo un’esperienza mistica della verità fatta persona — e non di una dottrina o di una legge o di una idea — può permetterci di dischiudere la nostra mente alla giustizia di Dio senza sentircene padroni. «Lo sguardo vigile di san Giuseppe» (ivi, 274) è quello del custode che intuisce di dover allevare e «salvare il Salvatore» della sua stessa vita.

Per Papa Francesco, anche noi, come Giuseppe e Maria, dobbiamo farci carico della speranza evangelica, accoglierla tra le nostre mani e consegnarla a tutto il popolo, specialmente nei tempi difficili e di crisi. Il mistero da contemplare è anche un impegno da vivere a favore di tutti. Non ci spinge solo all’interiorità, ma a farci carico della vita della gente, specialmente delle parti più deboli della società: lavorando, pregando, lottando, non incrociando mai le braccia, accostandoci alle persone di fronte alle quali vengono chiuse le porte, per aprirne loro delle altre, sostenendo gli anziani sofferenti e assimilando la loro saggezza, crescendo i bambini…

Scriveva il Papa in un’altra sua meditazione natalizia: «Nella lotta quotidiana, nella battaglia del momento e nella guerra del tempo, dobbiamo soffrire, e ciò richiede quest’atteggiamento di pazienza e costanza, di resistenza. Non siamo soli e apparteniamo a una famiglia. In seno a quella famiglia troviamo la dottrina, la sicurezza, l’affetto fecondo» (Id., La forza del presepe…, cit., 21 s).

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In una periferia dell’Impero. Da quanto si è detto si comprende perché le considerazioni natalizie di Jorge Mario Bergoglio non hanno nulla di «ideale» e fiabesco, ma sono sempre estremamente realistiche. La tenerezza della Natività coincide con «la forza del presepe»: non richiama mondi infantili e filastrocche. Per il Papa, Betlemme è il luogo di un servizio molto concreto, dove Maria, Giuseppe e tutti noi che contempliamo siamo chiamati a servire Dio e ad accudirlo nelle persone che ci stanno accanto, nello spazio ordinario e a volte ristretto delle cose di tutti i giorni. È molto caro al Papa il motto gesuitico: «Questo è divino: non lasciarsi costringere da ciò che è grande e tuttavia lasciarsi contenere da ciò che è piccolo» (Id., Nel cuore di ogni padre…, cit., 85). La radice di questo motto è proprio il Figlio del Dio di cui non si può pensare nulla di maggiore, che si è fatto piccolo bambino. Nell’orizzonte del Regno di Dio l’infinitesimale può essere infinitamente grande e l’immensità può essere una gabbia. Sembra un paradosso, ma non per Dio che si è fatto carne. Il grande progetto si realizza nel gesto minimo, nel piccolo passo: Dio è nascosto in ciò che è piccolo e in ciò che sta crescendo, anche se noi non siamo in grado di vederlo.

Un’ultima considerazione: nel corso degli anni, la contemplazione del Natale e la «forza del presepe» hanno molto affinato la sensibilità di Papa Francesco e lo hanno portato a comprendere che Dio, centro dell’universo e Signore della storia, si è fatto bambino in silenzio, illuminato da una «luce nascosta» in una periferia dell’Impero. Egli si manifesta a poveri pastori che vivono e sperimentano la periferia della vita. Proprio il significato profondo del Natale lo spingerà a considerare che gli eventi davvero centrali non avvengono mai al «centro», ma nelle periferie, siano esse geografiche o esistenziali.

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Contemplazione: la Natività

Posté par atempodiblog le 16 décembre 2014

Contemplazione: la Natività
Tratto dagli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio

Contemplazione: la Natività dans Fede, morale e teologia Nativit

La solita preghiera preparatoria.

[111] Il primo preludio è il soggetto della contemplazione: nostra Signora, che era incinta di quasi nove mesi, seduta in groppa a un’asina (come si può piamente pensare), san Giuseppe e una domestica partirono da Nazaret conducendo con sé un bue, per andare a Betlemme a pagare il tributo che Cesare aveva imposto a tutte quelle regioni [264].

[112] Il secondo preludio è la composizione vedendo il luogo: qui sarà vedere con l’immaginazione la strada da Nazaret a Betlemme, considerando quanto è lunga e larga, e se corre in pianura o per valli o per alture; così pure vedere la grotta della natività, osservando se è grande o piccola, bassa o alta, e che cosa contiene.

[113] Il terzo preludio sarà lo stesso della contemplazione precedente e si farà allo stesso modo.

[114] Primo punto: vedo le persone, cioè nostra Signora, san Giuseppe, la domestica e il bambino Gesù appena nato; mi faccio come un piccolo e indegno servitorello guardandoli, contemplandoli e servendoli nelle loro necessità, come se mi trovassi lì presente, con tutto il rispetto e la riverenza possibili. Infine rifletterò su me stesso per ricavare qualche frutto.

[115] Secondo punto: osservo, noto e contemplo quello che dicono; e, riflettendo su me stesso, cerco di ricavare qualche frutto.

[116] Terzo punto: osservo e considero quello che fanno; per esempio, camminano e si danno da fare perché il Signore nasca in un’estrema povertà, per poi morire sulla croce, dopo aver tanto sofferto la fame e la sete, gli insulti e le offese: e tutto questo per me; infine, riflettendo,cerco di ricavare qualche frutto spirituale.

[117] Colloquio. Alla fine farò un colloquio, come nella contemplazione precedente, e dirò un Padre nostro.

Divisore dans San Francesco di Sales

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La santa indifferenza

Posté par atempodiblog le 31 juillet 2014

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Per discernere lo spirito buono dallo spirito cattivo possiamo fare riferimento alla dottrina di sant’Ignazio di Loyola che, nei sui Esercizi Spirituali, ribadisce che per sostenere la propria vita spirituale è necessaria una grande purezza di cuore, che sant’Ignazio chiama “indifferenza”, ovvero la predisposizione alla massima disponibilità nei confronti della volontà di Dio. Con questa apertura di cuore, senza avere già nel cuore inclinazioni e desideri da assecondare si possono discernere le ispirazioni: se lo spirito di Dio a parlare, potrà dapprima chiedere qualcosa di duro e faticoso, ma lascerà una profonda pace nell’anima; se invece è lo spirito cattivo ad agire, ecco che prima presenterà qualcosa di seducente e accattivante per lasciare poi profonda insoddisfazione e inquietudine. Purezza di cuore, libertà dai desideri, santa indifferenza. Ma anche una profonda umiltà, poiché l’onnipotenza di Dio si manifesta laddove trova la miseria e la nullità dell’uomo in quanto Dio fa grazie agli umili. Allora, in questo quadro di umiltà e di distacco, di rinuncia interiore alla propria fame di mondo, allora si che si riesce a discernere lo spirito buono dalla spirito cattivo.

Tratto da: L’ora di Satana (L’attacco del Male al mondo contemporaneo) di Padre Livio Fanzaga con Diego Manetti, Ed. Piemme

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Il Papa con due santi in Paradiso. Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita”

Posté par atempodiblog le 10 juillet 2013

Il Papa con due santi in Paradiso
Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita”
La duttilità di spirito propria ai gesuiti, “scioltezza la chiamava il cardinal Martini. La povertà “baluardo di tutte le altre virtù”.
L’intreccio delle spiritualità ignaziana e francescana, il paradigma ancora attuale della dispusta sui “Riti cinesi”.
Ignazio ha voluto che i gesuiti fossero orientati a “en todo amar y servir” e rinunciassero alle dignità ecclesiastiche.
Francesco è nome impensabile per chi doveva reggere la barca di Pietro: quel nome non evocava capacità di governo e di potere.
di Andrea Monda – Il Foglio
Tratto da: sanfrancesco.org

Il Papa con due santi in Paradiso. Intervista incrociata a due dotti figli di Francesco e Ignazio sul “francescano in talare da gesuita” dans Andrea Monda c81l

“Chiàmati Adriano, sarai riformatore, anzi chiamati Clemente XV, così ti vendichi di Clemente XIV che sciolse la Compagnia di Gesù”. Non sappiamo quale cardinale avesse suggerito scherzosamente il nome di Clemente a Jorge Mario Bergoglio, ma forse non aveva in grande simpatia i francescani, visto che Clemente XIV era seguace del Poverello d’Assisi, e invece il nome scelto alla fine dal primo Papa gesuita è stato proprio quello di Francesco. Di questo Papa anfibio, metà gesuita e metà francescano, parliamo con due esponenti di rilievo dei due ordini, professori di teologia nei luoghi di maggiore livello scientifico rispettivamente dei gesuiti, la Pontificia Università Gregoriana, dove padre Sandro Barlone insegna Teologia dogmatica, e dei francescani, l’Istituto Teologico di Assisi dove fra Guglielmo Spirito è docente di Teologia spirituale.

Volto e look molto simile allo Sean Connery del “Nome della rosa”, fra Guglielmo Spirito non solo è francescano (del ramo dei Conventuali, ad Assisi), ma anche italoargentino, proprio come Bergoglio, anzi vicino di casa, come rivendica con un pizzico di orgoglio e quel dolce accento sudamericano che ormai tutto il mondo ha cominciato ad apprezzare dal 13 marzo scorso: “La casa dei suoi genitori è nel quartiere di Flores, a pochi minuti di macchina dalla casa dei miei, nel quartiere di Belgrano”. Così spiega perché nessun Papa aveva mai osato chiamarsi Francesco: “I figli di san Francesco hanno dato alla chiesa cinque papi (e perfino un antipapa, Alessandro V nel ’400) e cioè Niccolò IV (+1292), Sisto IV (+1484), Giulio II (+1513), Sisto V (+1590) e infine Clemente XIV (+1774), tutti e cinque dell’ordine dei Frati minori detti Conventuali, il ramo più antico, gemello dell’ordine dei Predicatori, o domenicani. Personalmente ritengo che il nome Francesco fosse semplicemente impensabile per chi doveva reggere la barca di Pietro: quel nome non evocava di certo le capacità di governo (lui si dimise dalla guida dell’ordine, la cui evoluzione non riusciva a gestire) e tantomeno di potere, nemmeno spirituale. Francesco non fu un organizzatore, un fondatore capace di organizzare i suoi, quanto lo furono san Benedetto, san Domenico o sant’Ignazio, tutt’altro, il suo splendido carisma è decisamente altrove. Dovette arrivare san Bonaventura a integrare quanto mancava, a riorganizzare, e così non per caso è chiamato il Secondo fondatore. Si potrebbe quasi dire che a volte più che un ‘ordine’ quello francescano è un ‘contrordine’ o un ‘disordine’… Ignazio in questo è, oso dire, quasi l’opposto: la Compagnia è ottimamente funzionante fin dall’inizio”. Padre Sandro Barlone lo incontriamo dove insegna, un luogo in cui, fa notare, le storie dei due ordini s’intrecciano: “L’Università Gregoriana, retta dai gesuiti, rientra nel territorio della parrocchia dei SS. Apostoli, retta dai francescani Conventuali, nella cui Basilica è sepolto Clemente XIV, il Papa conventuale che il 13 luglio 1773 soppresse la Compagnia di Gesù” e ci spiega perché, prima ancora del tabù del nome Francesco, il suo confratello Bergoglio ne ha distrutto un altro, quello del primo Papa gesuita della storia. “La Compagnia di Gesù si è distinta per un compito specifico: la difesa e la propagazione della fede sotto la guida del Romano Pontefice. Un servizio esplicitato dal quarto voto di obbedienza al Papa emesso dai professi, il che vuol dire andare, senza indugio, in ogni parte del mondo, al cenno del Romano Pontefice e mette i gesuiti a servizio del bene universale della chiesa di cui solo il Papa possiede la visione esatta, ma li mantiene anche costantemente in uno stato di mobilità: truppe leggere da inviare dove sorge un bisogno della chiesa, allora come ora e di fatto li taglia fuori dalla possibilità che si possa pensare ad essi per compiti diversi, ad esempio le nomine episcopali che li sedentarizzerebbero e che porterebbero a “scremare” la Compagnia dei suoi uomini migliori. Per questo sant’Ignazio ha voluto che i gesuiti professi fossero più orientati a servire “en todo amar y servir”, senza divenire servili, e rinunciassero, per voto, alle dignità ecclesiastiche sia fuori che dentro la Compagnia, a meno che non vi fosse un ordine esplicito e indubbio da  parte del Papa. Questo spiega perché attualmente vi siano vescovi e cardinali anche tra i gesuiti ma dice anche perché non vi siano stati, sino a Francesco, papi provenienti dalla Compagnia di Gesù”.

Padre Barlone è sorpreso, ma non troppo, dalla scelta del gesuita Bergoglio di chiamarsi Francesco: “Nomen omen”. Il nome di Francesco evoca immediatamente un dato rapporto con Dio, con la realtà, con il prossimo. Forse dovremmo inquadrare questo evento nella duttilità e nella libertà di spirito propria ai gesuiti, “scioltezza” la chiamava il cardinale Martini. E’ singolare, difatti, che il nome Francesco lo abbia assunto un gesuita e non uno dei cinque papi francescani che pure vi sono stati nella storia. Al di là della fantasia di chi ignora la storia della Compagnia o presume di conoscerla solo per il ricorso a stereotipi di maniera, vi è un reale influsso della figura di san Francesco nella vicenda spirituale di Ignazio sin dai suoi inizi: “E se io facessi ciò che ha fatto san Francesco?… San Francesco ha fatto quest’altro: ebbene, devo farlo anch’io”, leggiamo nella sua ‘Autobiografia’. Influsso, questo, che si registra sul posto che la povertà riveste nella vita di sant’Ignazio e, più tardi, nella stessa vita dell’ordine, che definisce nelle Costituzioni la povertà “baluardo di tutte le altre virtù”. Influsso che raggiunge la sua nota più autentica nell’amore personale a Cristo e nella conformazione alla sua persona, mete a cui mira la dinamica degli ‘Esercizi Spirituali’ e si riflette, pure, nello stesso rapporto con il creato a cui Papa Francesco fa sovente riferimento. Il Principio e Fondamento degli Esercizi che parla delle creature come doni di Dio, e, soprattutto, la Meditazione per ottenere l’amore spirituale, che parla della presenza di Dio in tutte le realtà, sono testi poi tanto distanti dal ‘Cantico delle creature’?”.

Chiedere a entrambi qualcosa sui rapporti a volte anche molto tesi tra gesuiti e francescani è come entrare in un libro di storia che frate Spirito e padre Barlone conoscono perfettamente. Spirito: “Non c’è mai stata una vera e propria ‘guerra’ tra francescani e gesuiti, solo alcune scaramucce: la rivalità ‘storica’ è stata piuttosto tra i domenicani e i gesuiti (come nel Medioevo tra domenicani e francescani), perché entrambi gareggiavano nelle università e poi, nel Seicento, si sono trovati anche coinvolti in dispute teologiche di scuola, quasi di scuderia. Anzi, francescani e gesuiti erano ‘alleati’ contro i domenicani, nella polemica teologica a favore dell’Immacolata Concezione di Maria nel Cinquecento, Seicento e Settecento. Perfino del terzo Generale della Compagnia, san Francesco Borgia (+1572), si diceva che fosse ‘un francescano in talare da gesuita’: quindi la scelta e lo stile di Bergoglio hanno un illustre precedente tra gli stessi santi gesuiti. La sventurata soppressione della Compagnia nel 1773 sotto Clemente XIV, un frate minore conventuale, Gian Vincenzo Ganganelli, non fu dovuta a nessuna avversione da parte del Pontefice o dei francescani, bensì agli intrighi e alle feroci pressioni dei governi massonici in Europa, che vedevano nei gesuiti una barriera ai loro disegni di egemonia incontrastata. La sparizione delle favolose Reducciones tra i guaraní ne fu un frutto amaro, che invano i francescani tentarono di addolcire. Noi siamo tutti vittime della chiacchiera, del luogo comune, per cui si dividono, con l’accetta, i gesuiti – i ‘colti’ – e i francescani – i ‘semplici’ -, ma non è così, ovviamente. Ad esempio, al Concilio di Trento c’erano più teologi francescani che domenicani, i confratelli di san Tommaso. La semplice verità è che in ogni ordine esiste la massima ‘varietà’, non tutti i frati sono come quelli di ‘Marcelino Pan y Vino’, basti pensare a Sisto V, costruttore della Roma barocca, a san Giovanni da Capestrano (+1456) condottiero della crociata contro i turchi, o al cappuccino Joseph du Tremblay (+1638), chiamato ‘l’eminenza grigia di Richelieu’ o anche a san Pio da Pietrelcina, il quale non era certo un ‘tenerone’, e nemmeno san Massimiliano Kolbe”. Padre Barlone ci tiene a ricordare che, “guerra” no, ma un contrasto tra gesuiti e francescani ci fu: tra il Seicento e il Settecento in Cina e in India: “Nel 1582 arriva in Cina il gesuita Matteo Ricci che si impegna nello studio della lingua e della cultura cinese di cui divenne tanto esperto da poter confrontarsi con successo con gli intellettuali confuciani di cui adottò anche la foggia dell’abbigliamento. La linea seguita da Ricci e poi dai suoi successori fu quella di una saggia inculturazione: i gesuiti erano d’origine straniera ma si presentavano come partecipi della cultura cinese e così il cristianesimo non veniva visto come qualcosa di straniero, di barbaro. Per un popolo come i cinesi che ritenevano di essere il ‘centro’ del mondo la cosa era fondamentale. I gesuiti speravano in tal modo di convertire la Cina nel suo insieme partendo dalla classe dirigente. Il loro atteggiamento però scatenò quello che è passato alla storia come la ‘Controversia dei riti cinesi’. Secondo Ricci i riti in onore di Confucio e degli antenati – che ogni buon cinese doveva espletare – erano solo dei ‘riti civili’ e non ‘idolatri’ e per questo potevano essere eseguiti anche dopo la conversione alla fede cristiana. Ma i francescani e con loro i domenicani– forse perché più in contatto con le religioni popolari – affermavano che tali riti erano ‘idolatri’ e perciò bisognava proibirli a tutti i convertiti sostenendo in tutti i modi la loro proibizione per chi si convertiva al cristianesimo. La questione dei ‘Riti cinesi’ fu rimessa al giudizio del Pontefice che alla fine di una vicenda tortuosa nel 1747 condannò senza appello i ‘Riti cinesi’ e prescrisse a tutti i missionari operanti in Cina un impegno esplicito a non tollerarli. Il tentativo di presentare il cristianesimo in veste cinese così fallì, la decisione ebbe la dolorosa conseguenza di allontanare l’interesse del mondo intellettuale e del potere imperiale dal cristianesimo. I missionari continuarono nella loro opera ma furono espulsi e ostacolati dalle autorità e soprattutto furono visti come estranei in una civiltà tanto orgogliosa di se stessa. Come si sa, la Santa Sede è poi ritornata sulla complicata controversia nel 1939 con Pio XII che, ribaltando le decisioni precedenti ammise la possibilità, a certe condizioni, e la liceità dei ‘Riti cinesi’. Ormai, però, la Cina aveva voltato pagina. E la stessa vicenda, mutatis mutandis, la si ebbe anche in India”.

Parla con passione padre Barlone, ci si rende conto che in gioco non è solo il prestigio del passato, tranquillamente riconosciuto anche da frate Spirito, ma è la situazione presente della chiesa nel suo dialogo con il mondo e l’obiettivo della sua riflessione è la critica che ancora oggi si fa a certi atteggiamenti della Compagnia di Gesù colpevole per alcuni di annacquare il cristianesimo nell’adeguarsi ai “riti” del mondo, con il rischio però, magari da riconoscere con il senno del poi, di perderlo del tutto, come allora fu per la Cina e l’India. La questione aperta è l’immediato futuro, da vivere nella luce di questo neonato pontificato. Per padre Barlone in Papa Francesco si coglie la spiritualità della Compagnia, nella quale confluiscono anche altre spiritualità, come la povertà francescana, l’obbedienza di Cassiano, di san Benedetto ma anche francescana. Cita la famosa locuzione “perinde ac cadaver” con la quale si suole sintetizzare lo stile dell’obbedienza del gesuita alla volontà dei superiori, che però, dice, prima che dei gesuiti è anch’essa di san Francesco e, prima ancora, tipica della sequela cristiana, dell’essere compagni di Gesù (cum panis = mangiare lo stesso pane), così come esplicitato negli Esercizi nella cosiddetta “chiamata del re”. Non c’è in Bergoglio, secondo padre Barlone, quel vago buonismo o il populismo di cui alcuni parlano magari preoccupati o al contrario entusiasti, c’è invece il linguaggio della kenosi, della missione alle periferie (il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare…), c’è in fondo la semplice logica dell’Incarnazione. E’ davvero sorprendente sentire giornalisti, che ignorano la teologia e fondamentalmente il cristianesimo, stupirsi che il Papa parli in modo semplice e alludere a una certa debolezza teologica delle sue omelie quando invece il Papa è prima di tutto un pastore: un discepolo di Cristo fatto pastore e modello del gregge, chiamato a guidare la chiesa confermando i suoi fratelli nella fede, non necessariamente facendo lezioni in stile accademico. Bene inteso, può anche farle, conclude Barlone, ma per questioni più formali o di dottrina ha già i suoi organi: la curia, le congregazioni romane, il teologo della casa pontificia e le sue università, che sono, per l’appunto, università pontificie.

Frate Spirito per dipingere il futuro fa riferimento a un episodio del 2010, l’ultimo incontro personale con l’allora vescovo di Buenos Aires: “In un grande raduno internazionale dei francescani conventuali a Pilar lo invitammo a presiedere l’Eucaristia. Bergoglio guidò 60 km circa per raggiungerci e io, come segretario dell’Assemblea, lo accolsi e lo accompagnai in una cappella, dedicata a san Giuseppe, con una grande statua del santo che porta per mano il Figlio. Eravamo da soli e il cardinale si inchinò davanti alla statua, come fece sul balcone, il giorno dell’elezione, e posò la sua mano su quella di Giuseppe, che serra quella di Gesù. Per un paio di minuti rimase in preghiera, e io vedevo le tre mani intrecciate, formando un tutt’uno. Rimasi sorpreso e deliziato, per la spontaneità e la estrema confidenza e fiducia che il gesto svelava. Poi mi disse, ‘sono pronto, andiamo’, e andò a rivestirsi. La stessa croce pettorale che porta ancora, gli stessi modi miti, dimessi, familiari. Durante l’omelia sono rimasto sorpreso di come parlasse di san Francesco, presentandolo come ‘paradigma della vita cristiana’ tout-court, e pensai ‘quanto è gentile nell’adattarsi all’udienza, parlando ai frati come se fosse uno di loro’… adesso mi accorgo che parlava piuttosto ex abundantia cordis, parlava davvero come un ‘francescano’! E così sarà, lui rimarrà uguale a se stesso, non a caso ha scelto il 19 marzo, festa di san Giuseppe, per cominciare il suo pontificato; forse sarà un secondo san Francesco Borgia, ‘un francescano in talare da gesuita’, con in più la freschezza tipica della fede iberoamericana; quel buon senso della fede che dà l’istinto delle cose di Dio, in accordo con il discernimento degli spiriti, che è uno dei grandi doni che la chiesa ricevette tramite gli ‘Esercizi Spirituali’ di sant’Ignazio. Così il continente sudamericano è stato evangelizzato da francescani, gesuiti e domenicani e così credo che adesso il genio latino americano, ancora giovane di ‘soli’ 500 anni, confluirà nel ministero fresco e spontaneo del Papa. Tutta la mite e profonda sapienza di Benedetto XVI, nella cui scia Bergoglio s’inserisce con il suo modo personale, credo che adesso sarà resa ancora più accessibile a chiunque. Forse un piccolo cambiamento da quando era arcivescovo di Buenos Aires: lo vedo più radioso, più espansivo, più solare di prima, insomma, ancora più gesuiticamente francescano!”.

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Discernere la propria vocazione

Posté par atempodiblog le 29 avril 2012

Trascrizione dall’originale audio di una telefonata, in diretta su Radio Maria, ad una Catechesi Giovanile di Padre Livio Fanzaga del 17 ottobre 2003

Discernere la propria vocazione dans Discernimento vocazionale Discernimento-Preghiera

Ascoltatore: Ciao a tutti e ciao Livio,
volevo farle una domanda perché per me è importante la sua opinione. Siccome in questo periodo sono in un momento di crisi, io ho 35 anni, faccio un lavoro del quale sono molto contento e del quale sono molto contenti grazie a Dio, però sento nel mio cuore che Gesù mi chiama a vivere la mia vita a una vita religiosa, possibilmente nell’ordine di San Giovanni di Dio, un ordine ospedaliero, e siccome sono molto, così, provato, tante difficoltà, tanti dubbi… a volte ho anche la paura che queste siano solamente le mie illusioni. Siccome lei ha scritto un libro sul discernimento spirituale che io, purtroppo, ancora non ho potuto acquistare, siccome in questo periodo sono così provato… ecco, desideravo chiederle come posso discernere con serenità la voce di Gesù…

Risposta di Padre Livio: […] il discernimento della propria vocazione è una cosa che approfondiremo a suo tempo, comunque è duplice ed è necessario in ambedue i livelli: il primo discernimento lo si fa uno nel proprio cuore, cioè, voglio dire attenzione che per quanto riguarda la propria vocazione – io tra l’altro su questo argomento parlo in base anche a quella che è la mia esperienza di vita, anche io ho avuto una vocazione – però prima di tutto uno deve sentire dentro di sé la chiamata di Dio, perché questo è fondamentale. E’ bensì vero che il Santo Padre a suo tempo ha detto “chiamate i giovani”, è bensì vero che alcuni movimenti, per es. i neocatecumenali, chiamano i giovani, però questa chiamata esteriore ha effetto sul soggetto perché il soggetto sente una chiamata interiore. Quindi il primo discernimento è sempre personale, perciò al nostro amico di Palermo dico tu nella preghiera – questo è quello che spiego in lungo e in largo nel mio libro tra l’altro dedico un capitolo a Sant’Ignazio proprio che è il maestro del discernimento spirituale nella preghiera – dove tu devi far tacere però le tue voglie o le tue paure perché per ascoltare la voce di Dio, dice Sant’Ignazio di Loyola, devi aver l’indifferenza cioè l’indifferenza vuol dire qualsiasi cosa Dio mi chiede la faccio; allora devi far tacere i tuoi desideri. I desideri umani, ma anche le tue paure e le tue angosce in modo tale che nel cuore risuoni la voce di Dio che senti che è la voce di Dio. Io sento, per esempio, che mi piace fare il sacerdote, che mi piace fare il missionario, mi piace dedicarmi ai giovani, ma la sentivo come qualcosa che è lì nel cuore e se manca questa verifica nella preghiera, a mio parere, si rischia che poi c’è tutta una sovrastruttura… ma manca la radice, quello è il punto chiave fondamentale: perché la chiamata di Dio è prima di tutto nel cuore e siccome tu, giustamente, dici è un illusione… allora bisogna verificare nel tempo la presenza di questa voce di Dio, di questa inclinazione di Dio, perché Dio parla al cuore con la voce dello Spirito Santo con le illuminazioni e con i suggerimenti, con i gemiti, insomma queste cose qui e se non si sperimentano non  si possono esprimere. Ecco per un po’ di tempo devi verificare se è stato un momento solo che hai avuto questa inclinazione o è una cosa che senti nel cuore, che parlando con Gesù senti che Gesù vuole questa cosa da te come ha detto il Santo Padre ieri. Ieri il Santo Padre ha fatto il discernimento spirituale nel migliore dei modi perché lui lo fa sempre in una lunga preghiera. Ieri il Santo Padre ha detto “Gesù mi chiede di continuare”, ma quello il Papa lo ha detto non soltanto nel magistero infallibile, ma lo ha detto con una certezza interiore di una persona che prega; una persona che prega non si sbaglia su queste cose. Il perché Gesù chieda al Papa di continuare lasciandolo in questa sofferenza lo sa Dio, ma noi siamo qua non a giudicare, siamo a qui a capire cosa Dio vuol dirci. Il nostro problema vero non è quello di sapere quanto dura il Papa, chi sarà il prossimo Papa, come sarà il Conclave… queste sono chiacchiere da imbecilli. Il problema è di sapere cosa sta dicendo Dio alla Chiesa attraverso la sofferenza del Santo Padre. Cosa sta dicendo Dio alla Chiesa in questo momento. Forse lo capiremo più avanti cosa sta dicendo Dio. Ieri il Papa ci ha insegnato cos’è il discernimento spirituale, una cosa meravigliosa. Per me che ho scritto questo libro il discernimento spirituale è stata una cosa che mi ha dato una gioia indescrivibile. Ho visto un discernimento su una cosa difficilissima davanti a tutti. “Gesù mi chiede di continuare” ha detto, per arrivare a questa certezza non è che uno arriva in cinque minuti, ma arriva attraverso un processo magari di tempo. Così tu attraverso un processo di tempo che può essere di una settimana, due settimane, un mese, un anno… questa voce ti cresce nel cuore e crescendoti nel cuore ti dà gioia. Ti lascia in pace. Ne sei convinto si radica in te. Dopodiché, figliolo caro, questo è il primo passo che nessuno può fare al tuo posto. Dopodiché parli con la Chiesa e cerchi un direttore spirituale, uno di quell’ordine. Parli e loro ti aiuteranno nel tuo discernimento. Valuteranno le tue capacità, le tue inclinazioni. E’ il momento del discernimento della Chiesa, ma prima ci deve essere il tuo. Se manca il tuo non c’è niente da fare.

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