La potenza dei simboli

Posté par atempodiblog le 7 avril 2020

La potenza dei simboli
Non è indispensabile credere per capire perché, di fronte alla forza della natura maligna, a una catastrofe, a un’epidemia, gli esseri umani di tutti i tempi si siano sempre raccolti intorno a un rito religioso
di Antonio Polito – Corriere della Sera

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Ha suscitato scandalo la proposta di Salvini di riaprire le chiese a Pasqua. Non altrettanto scandalo aveva suscitato l’idea di Renzi di riaprire le librerie, né quella della Confindustria di tenere aperte le imprese. Il leader della Lega mescola certo con troppa superficialità il profano della politica con il sacro della preghiera. E le esigenze di distanziamento sociale rendono evidentemente impossibile ciò che chiede. Ma le reazioni che ha ricevuto, quasi sdegnate, fanno riflettere. La paradossale verità è che oggi cultura e industria ci appaiono strumenti di rinascita e riscatto più idonei della religione. Il processo di secolarizzazione, anche nel Paese più cattolico d’Europa, ha ormai espunto la fede dal dibattito pubblico, come se fosse un sentimento privato, rispettato sì, ma in definitiva inutile al corpo sociale.

Invece il sacro è sempre stato un formidabile strumento di tenuta e coesione delle società umane, e forse è addirittura nato per questo scopo. Émile Durkheim, il fondatore della sociologia, definiva la religione «una cosa eminentemente sociale», il modo con cui le comunità degli uomini, attraverso credenze e riti, costruivano la propria rappresentazione collettiva.

Non è dunque neanche indispensabile credere per capire perché, di fronte alla forza della natura maligna, a una catastrofe, a un’epidemia, gli esseri umani di tutti i tempi si siano sempre raccolti intorno a un rito religioso, in preda al timore di Dio e sperando nel suo aiuto. Il caso, o forse la Provvidenza, ci mettono oggi proprio davanti agli occhi la potente forza simbolica del sacro. La settimana santa e i suoi riti accompagnano infatti con una singolare corrispondenza cronologica le vicende della pandemia. La Quaresima era cominciata insieme con la quarantena: il governo chiuse Codogno tre giorni prima del Mercoledì delle Ceneri. Possiamo sperare allora che la fine di questo periodo di penitenza annunci anche l’inizio della fine della nostra Passione, e che si apra la settimana decisiva per la discesa della famigerata curva? E si può immaginare una metafora più calzante della Resurrezione per il nostro disperato bisogno di un nuovo inizio? Prima ancora di Cristo, ci pensavano del resto le feste pagane a celebrare, a questo punto dell’anno, il rito primaverile della rinascita della terra; e la Pasqua ebraica ricorda anch’essa una liberazione: quella del popolo di Dio dalla prigionia in Egitto.

I miti e i riti servono agli uomini. Anche ai contemporanei, di solito così sicuri di sé ma oggi all’improvviso sconvolti dalla scoperta di non essere invincibili, di dover convivere sulla Terra con specie molto più antiche ed efficienti nel combattere la battaglia per la sopravvivenza, come i virus. Dunque teniamo pure le chiese chiuse, se non si può prendere la comunione con la mascherina e scambiarsi il segno della pace durante la messa. Ma ricordiamo anche che questa è forse la prima volta dall’editto di Costantino che in Italia si celebrerà la Pasqua a porte chiuse. Seguiremo la Via Crucis in streaming, invece che nelle mille processioni popolari del Venerdì Santo. Pregheremo magari «in bagno o in cucina», come ci suggerisce Fiorello. Ma ci basta sentire ogni giorno il suono delle campane, di nuovo riconoscibile nel silenzio assordante delle nostre città, per capire che non sarà la stessa cosa, perché «ecclesia» vuol dire comunità.

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Piacenza ai confessori: la misericordia non si ferma

Posté par atempodiblog le 4 avril 2020

Piacenza ai confessori: la misericordia non si ferma
Lettera tratta da: Vatican News

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Lettera del cardinale Penitenziere in occasione della Pasqua: nell’emergenza provocata dalla pandemia,“Dio non si distanzia

La misericordia non si ferma. È questo il leitmotiv della lettera che il cardinale Mauro Piacenza ha inviato ai penitenzieri e confessori in occasione della Pasqua.

La riflessione del penitenziere maggiore prende le mosse dalle difficoltà che l’emergenza pandemia provoca anche nella vita delle comunità cristiane, con le attuali restrizioni in atto in moltissimi Paesi per arginare la propagazione del contagio. Ma, sottolinea appunto il cardinale, «la misericordia non si ferma e Dio non si distanzia». Infatti, sottolinea, il distanziamento sociale «richiesto per motivi sanitari, pur necessario», non può, «né deve mai tradursi in distanziamento ecclesiale».

Il cardinale ricorda in proposito che, qualora fosse impossibile «la celebrazione ordinaria del sacramento», i confessori sono chiamati «a pregare, a consolare, a presentare le anime alla divina misericordia», adempiendo al loro «ruolo sacerdotale di intercessori». In questi momenti più che mai, infatti, tutti hanno «bisogno della prossimità e della “carezza” di Gesù».

Il porporato sottolinea lo sforzo di quanti, in questi tempi di epidemia, si impegnano a rendere più creativa la pastorale per cercare di farsi prossimi al «popolo loro affidato, dando testimonianza di fede, di coraggio, di paternità». La misericordia si rende concreta anche nei «piccoli gesti di tenerezza e di amore compiuti verso i più poveri», in particolare «verso i morenti nelle corsie d’ospedale, verso gli operatori sanitari, verso chi è solo ed impaurito, verso chi non ha una casa nella quale trascorrere il tempo della quarantena o chi non riesce ad avere il necessario per sopravvivere».

Tutto ciò è vivificato dal sacrificio della messa, seppure «celebrata senza la presenza fisica del popolo, dalla quale scaturisce ogni grazia per la Chiesa e per il mondo». Grazie alla Croce, sottolinea il porporato, è donata a tutti gli uomini «la possibilità della salvezza e della riconciliazione». In tal senso, nonostante le attuali drammatiche circostanze, si è chiamati a riscoprire ciò che è essenziale nel ministero sacerdotale: «l’opera di Cristo più che la nostra, l’attuazione sacramentale della salvezza, di cui siamo ministri, cioè servi».

Scaturisce da qui quella misericordia che «non si ferma nella celebrazione della sacra liturgia» ma diventa «carità vissuta, che tende la mano amica a quanti soffrono e nel ministero sacerdotale è offerta del perdono di Dio». In questo senso, la misericordia si esprime anche «nella riscoperta dei valori per i quali vale la pena vivere e morire, nella riscoperta del silenzio, della adorazione e della preghiera, nella riscoperta della prossimità dell’altro e, soprattutto, di Dio». Non viene arrestata nemmeno dalla morte: infatti, anche chi è stato chiamato all’eternità «è raggiunto dalla preghiera di suffragio nella certezza pasquale che con la morte non si spezzano i rapporti ma si trasformano, rafforzati, nella comunione dei santi».

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Sabato Santo: preghiera in diretta social e tv davanti alla Sindone

Posté par atempodiblog le 4 avril 2020

Sabato Santo: preghiera in diretta social e tv davanti alla Sindone
L’annuncio in diretta streaming dall’arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, monsignor Cesare Nosiglia che presiederà la liturgia. Nella nostra intervista il presule spiega: “sarà molto di più di un’ostensione, staremo in silenzio con il Signore
di Gabriella Ceraso – Vatican News

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Laddove il sacro Telo è custodito, nella cappella della Cattedrale di Torino, visitata dal Papa nel giugno del 2015, Sabato Santo alle 17, l’Arcivesco di Torino vescovo di Susa, monsignor Cesare Nosiglia, guiderà una liturgia di preghiera e contemplazione, trasmessa sia in diretta televisiva sia sui canali e le piattaforme social. Al termine della diretta tv, sui social il dialogo e la riflessione continueranno con l’intervento di esperti e voci di “testimoni” del momento che stiamo vivendo.

“Cari amici sparsi in tutto il mondo, vi attendo sabato per elevare a Dio attraverso la contemplazione della Sindone una corale preghiera insieme al suo figlio Gesù nostro fratello e salvatore. Sì, la Sindone lo ripete al nostro cuore sempre: più forte è l’amore”. Così monsignor Nosiglia nell’annuncio fatto oggi in diretta streaming, in cui, ha precisato di aver raccolto le migliaia di richieste a lui giunte da persone di ogni fascia di età, di poter pregare davanti alla Sindone per “impetrare da Cristo morto e risorto – che il Sacro Telo ci presenta in un modo così vero e concreto – la grazia di vincere il male come ha fatto lui, confidando nella bontà e misericordia di Dio”.

La passione e la morte di Gesù, per amore
“Grazie alla televisione e ai social – ha detto il presule – questo tempo di contemplazione renderà disponibile a tutti, nel mondo intero, l’immagine del Sacro Telo, che ci ricorda la passione e morte del Signore, ma che apre anche il nostro cuore alla fede nella sua risurrezione.

L’annuncio pasquale che la Sindone ci porta a vivere è “Più forte è l’amore » e questo – ha sottolineato ancora monsignor Nosiglia – ci riempie il cuore di riconoscenza e di fede. “Sì, l’amore con cui Gesù ci ha donato la sua vita e che celebriamo durante la Settimana Santa è più forte di ogni sofferenza, di ogni malattia, di ogni contagio, di ogni prova e scoraggiamento. Niente e nessuno potrà mai separarci da questo amore, perché esso è fedele per sempre e ci unisce a lui con un vincolo indissolubile.

Avere fiducia e speranza
Il ricordo infine di quanto Papa Francesco ha scritto nel suo messaggio per l’ostensione del 2013 cioè che nella Sindone “è lui che ci guarda per farci comprendere quale grande amore ha avuto per noi, liberandoci dal peccato e dalla morte invitandoci ad avere fiducia, a “non perdere la speranza, la forza dell’amore di Dio e del Risorto vince tutto.

Molto più che un’ostensione, “staremo con Gesù
Nell’intervista rilasciata a Luca Collodi, il presule, subito dopo il suo annuncio, precisa che la Liturgia in programma sarà un ringraziamento a Gesù per il dono della Sua vita e anche una richiesta di aiuto per quanto viviamo tragicamente. Emblematica – spiega – la scelta del Sabato Santo perchè la Sindone rappresenta anche quella speciale giornata di silenzio e meditazione sul mistero della morte e in attesa delle resurrezione. “Vogliamo – dice – introdurci così, già nella veglia pasquale.

Nella seconda parte del collegamento dalla Cappella torinese, sabato, si potrà assistere al dibattito tra esperti: il presule spiega, nella nostra intervista, che sarà lasciato spazio a chi vive in prima persona il dramma attuale e non solo nella difficoltà ma anche nella dimensione della speranza e della fede: voci di medici e operatori pastorali, famiglie, anziani e tanti messaggi di solidarietà.

Sarà dunque una sorta di specile ostensione? In realtà conclude il presule sarà “molto meglio in quanto la Sindone la potremo vedere da vicino e quelle immagini “andranno nel cuore e nelle tristezze di tanta gente che ci seguirà. Sarà uno stare col Signore nel giorno in cui attendiamo la sua Resurrezizone.

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Comastri: Giovanni Paolo II trasformò la sua croce in amore

Posté par atempodiblog le 2 avril 2020

Comastri: Giovanni Paolo II trasformò la sua croce in amore
Intervista con il cardinale Angelo Comastri, vicario del Papa per la Città del Vaticano, sulla testimonianza di San Giovanni Paolo II, nel 15.mo della morte, il 2 aprile del 2005
di Alessandro Gisotti – Vatican News

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Sono passati 15 anni dalla morte di Karol Wojtyla, come ricordato da Papa Francesco all’udienza generale di oggi. Indimenticabili i giorni che segnarono il passaggio alla Casa del Padre di San Giovanni Paolo II, dopo una lunga malattia vissuta con una testimonianza cristiana che attrasse non solo i credenti ma anche persone lontane dalla Chiesa. Proprio sull’insegnamento che il Papa polacco può darci oggi, in un momento di grande sofferenza globale a causa della pandemia, si sofferma il cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa per lo Stato della Città del Vaticano, in questa intervista con i media vaticani.

Cardinale Angelo Comastri, il 2 aprile di 15 anni fa, dopo una lunga malattia vissuta offrendo una straordinaria testimonianza, moriva San Giovanni Paolo II. Cosa ci offre oggi, in un contesto drammatico come quello che stiamo vivendo a causa dell’emergenza Coronavirus, la vita e l’esempio di Karol Wojtyla?
Il dilagare dell’epidemia, la crescita dei contagiati e il bollettino quotidiano del numero dei morti ha trovato impreparata la società e ha messo in luce il vuoto spirituale di molte persone. Il giornalista Indro Montanelli, poco prima di morire, uscì con questa considerazione lucida e onesta: “Se debbo chiudere gli occhi senza sapere da dove vengo e dove vado e che cosa sono venuto a fare su questa terra, valeva la pena che aprissi gli occhi? La mia è una dichiarazione di fallimento! ». Queste parole di Montanelli fotografano la situazione di una parte dell’attuale società. Anche per questo, l’epidemia spaventa: perché in tanta gente si è spenta la fede. Giovanni Paolo II era un credente, un credente convinto, un credente coerente e la fede illuminava il cammino della sua vita.

Nonostante molte sofferenze vissute e la lunga malattia, Karol Wojtyla dava sempre la sensazione a chi lo incontrava di essere un uomo in pace e pieno di gioia…
Giovanni Paolo II sapeva che la vita è una veloce corsa verso la Grande Festa: la Festa dell’abbraccio con Dio, l’Infinitamente Felice. Ma dobbiamo prepararci all’incontro, dobbiamo purificarci per essere pronti all’incontro, dobbiamo togliere le riserve di orgoglio e di egoismo che tutti abbiamo, per poter abbracciare Colui che è Amore senza ombre. Giovanni Paolo II viveva la sofferenza con questo spirito: e, anche nei momenti più duri (come il momento dell’attentato) non ha mai perso la serenità. Perché? Perché aveva sempre davanti la meta della vita. Oggi molti non credono più nella meta della vita. Per questo motivo vivono il dolore con disperazione: perché non vedono al di là del dolore.

Giovanni Paolo II ha sempre trovato nelle esperienze di sofferenza, di dolore, una dimensione di speranza, di speciale occasione di incontro con il Signore. Ricordiamo su tutto la Lettera Apostolica “Salvifici Doloris”. Una sua riflessione su questo particolare carisma del Papa polacco?
Il dolore indubbiamente fa paura a tutti, ma quando è illuminato dalla fede diventa una potatura dell’egoismo, delle banalità e delle frivolezze. Di più. Noi cristiani viviamo il dolore in comunione con Gesù Crocifisso: aggrappati a Lui, noi riempiamo il dolore con l’Amore e lo trasformiamo in una forza che contesta e vince l’egoismo ancora presente nel mondo. Giovanni Paolo II è stato un vero maestro del dolore redento dall’Amore e trasformato in antidoto dell’egoismo e in redenzione dell’egoismo umano. Ciò è possibile soltanto aprendo il cuore a Gesù: soltanto con Lui si capisce il dolore e si valorizza il dolore.

Quest’anno a causa dell’emergenza attuale, vivremo una Pasqua “inedita” per rispettare le disposizioni di contrasto al contagio. Anche l’ultima Pasqua di Giovanni Paolo II fu segnata dalla malattia, dall’isolamento. Eppure ne abbiamo tutti un ricordo indelebile. Quale insegnamento possiamo trarre da quell’ultima Pasqua di Papa Wojtyla guardando a quello che succede oggi?
Tutti ricordiamo l’ultimo Venerdì Santo di Giovanni Paolo II. Indimenticabile è la scena che abbiamo visto in televisione: il Papa, ormai privo di forze, teneva il Crocifisso con le sue mani e lo guardava con stringente amore e si intuiva che diceva: “Gesù, anch’io sono in croce come te, ma insieme a te aspetto la Risurrezione”. I santi sono vissuti tutti così. Mi limito a ricordare Benedetta Bianchi Porro, divenuta cieca e sorda e paralizzata a motivo di una grave malattia e morta serenamente il 24 gennaio 1964. Poco tempo prima, ebbe la forza di dettare una meravigliosa lettera per un giovane handicappato e disperato di nome Natalino. Ecco cosa uscì dal cuore di Benedetta: “Caro Natalino, ho 26 anni come te. Il letto ormai è la mia dimora. Da alcuni mesi sono anche cieca, ma non sono disperata, perché io so che in fondo alla via Gesù mi aspetta. Caro Natalino, la vita è una veloce passerella: non costruiamo la casa sulla passerella, ma attraversiamola tenendo stretta la mano di Gesù per arrivare in Patria”. Giovanni Paolo II era su questa lunghezza d’onda.

In questo periodo segnato dalla pandemia, ogni giorno in diretta streaming su Vatican News e sui media che lo ritrasmettono, tantissime persone si uniscono in preghiera alla recita dell’Angelus e del Rosario. Viene naturale pensare a Giovanni Paolo II legato a Maria fin dallo stemma episcopale…
Sì, Giovanni Paolo II aveva voluto sul suo stemma come motto queste parole: Totus Tuus Maria. Perché? La Madonna è stata vicina a Gesù nel momento della Crocifissione e ha creduto che quello era il momento della vittoria di Dio sulla cattiveria umana. Come? Attraverso l’Amore che è la Forza Onnipotente di Dio. E Maria, poco prima che Gesù consumasse il Suo Sacrificio di Amore sulla Croce, ha sentito le parole impegnative che Gesù le ha rivolto: “Donna, ecco tuo figlio!”. Cioè: “Non pensare a me, ma pensa agli altri, aiutali a trasformare il dolore in amore, aiutali a credere che la bontà è la forza che vince la cattiveria”. Maria da quel momento si preoccupa di noi e quando ci lasciamo guidare da lei siamo in mani sicure. Giovanni Paolo II ci credeva, si è fidato di Maria e con Maria ha trasformato il dolore in occasione di amore.

C’è da ultimo un aneddoto, una parola che Giovanni Paolo II le ha rivolto e che a 15 anni di distanza vuole condividere anche come segno di speranza per tante persone nel mondo, che soffrono, che hanno amato e continuano ad amare Karol Wojtyla?
Nel marzo 2003, Giovanni Paolo II m’invitò a predicare gli Esercizi Spirituali alla Curia Romana. Anche lui partecipò a quel corso di Esercizi Spirituali con esemplare raccoglimento. Al termine degli Esercizi, mi ricevette con tanta bontà e mi disse: “Ho pensato di regalarle una croce come la mia”. Io giocai sul doppio senso della parola e dissi a Giovanni Paolo II: “Padre Santo è difficile che mi possa dare una croce come la sua…”. Giovanni Paolo II sorrise e mi disse: “No… la croce è questa”, e mi indicò una croce pettorale che voleva donarmi. E poi aggiunse: “Anche lei avrà la sua croce: la trasformi in amoreQuesta è la saggezza che illumina la vita”. Non ho più dimenticato questo meraviglioso consiglio che mi ha dato un Santo.

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La catechesi e la bellezza di Dio

Posté par atempodiblog le 16 février 2020

La catechesi e la bellezza di Dio
+ Bruno Forte Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto

La catechesi e la bellezza di Dio dans Fede, morale e teologia Maria-e-il-Bambin-Ges
Madonna del Latte, XVIII sec., Santa Maria Maggiore, Vasto

Messaggio per la Quaresima e la Pasqua 2020

Dedico questo messaggio per la Quaresima 2020 alla catechesi, attività che impegna tutte le nostre comunità parrocchiali e che raggiunge la quasi totalità dei nostri ragazzi, in un contesto profondamente diverso rispetto anche a pochi anni fa, perché tante sono le sfide nuove (basti pensare all’oceano rappresentato dalla “rete” e alla sua presa sui giovani), mentre non pochi tendono ancora a fare catechesi come se nulla fosse cambiato. Ne consegue spesso una difficoltà comunicativa, dovuta anche alla notevole diversità di linguaggi fra chi fa catechesi e i ragazzi cui essa è rivolta, non senza una certa frustrazione per alcuni catechisti. Essere catechisti, però, è bello e può dare tanta gioia, perché vuol dire generare ed educare alla fede molti ragazzi, che potranno ricordare per la vita quanto sapremo loro trasmettere della bellezza di Dio e dell’amicizia con Gesù. Perciò vale la pena riflettere e verificarci insieme su questo compito, arduo e significativo. Risponderò a poche domande essenziali, confidando nello sviluppo e nell’approfondimento che i catechisti potranno fare dei vari punti con l’aiuto dei loro parroci e dell’Ufficio Catechistico Diocesano. Aiuti tutti noi in questo impegno la Vergine Maria, che come Madre tenerissima diede al Figlio, divino bambino, il latte per la crescita umana e quello prezioso della conoscenza delle Scritture…

1. Che cos’è la catechesi? La catechesi è l’azione con cui la Chiesa attua l’iniziazione alla fede e l’educazione ad essa dei battezzati, introducendoli alla celebrazione dei divini misteri e all’esperienza dell’amore di Dio in Gesù Cristo, per illuminare così e interpretare alla luce della rivelazione la loro vita e la storia. Rivolta a chi ha già ricevuto il primo annuncio della fede, la catechesi promuove e alimenta i cammini di iniziazione, crescita e maturazione nella fede. Come il suo stesso nome indica (il verbo greco “katechéin” vuol dire “risuonare”, “far risuonare”) la catechesi fa risuonare la Parola di Dio in coloro che hanno già accolto la fede, hanno cominciato il loro cammino di continua conversione al Signore e intendono approfondirlo. Scopo della catechesi è, dunque, formare i credenti ad ascoltare e vivere il Vangelo di Gesù, per esprimerlo sempre più nella testimonianza della fede, della speranza e della carità. In quanto educazione alla vita in Cristo e nella Chiesa, la catechesi riguarda tutte le dimensioni dell’esistenza, dall’adesione personale al Dio vivente all’accoglienza sempre più consapevole e fruttuosa dei contenuti della rivelazione. Essa ha la sua fonte nella Parola di Dio, trasmessa attraverso la vita e la voce della Chiesa e suscitatrice della fede, poiché «la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). Attraverso la Parola di Dio è lo Spirito Santo a insegnare, rendendo possibile l’incontro con il Signore Gesù.
Ci chiediamo allora: l’idea e la pratica della catechesi che ci sforziamo di vivere corrispondono a ciò che la catechesi è chiamata ad essere secondo l’insegnamento della Chiesa?

2. Quali sono le fonti della catechesi? Se è alla Parola di Dio che la catechesi si alimenta, un ruolo peculiare nella fedele trasmissione e interpretazione di essa lo riveste il magistero della Chiesa, sotto la cui guida, «il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte» (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 12). La liturgia è parimenti una fonte essenziale della catechesi, non soltanto per i contenuti che offre, ma anche e in modo peculiare per l’esperienza del Mistero che fa vivere: «La catechesi è intrinsecamente collegata con tutta l’azione liturgica e sacramentale, perché è nei sacramenti e, soprattutto, nell’Eucaristia che Gesù Cristo agisce in pienezza per la trasformazione degli uomini» (Giovanni Paolo II, Catechesi Tradendae 23). Far prendere coscienza della ricchezza offerta nelle azioni liturgiche è compito della “mistagogia”, che è il cammino catechetico vissuto a partire dall’esperienza degli eventi sacramentali e dell’azione della Grazia divina in essi, per fare propri i doni ricevuti e trarne pieno frutto per la vita. Con la Parola di Dio e il Magistero ecclesiale, possono essere fonte feconda di catechesi gli esempi, le vite e gli scritti dei santi e dei martiri di ogni lingua e popolo. La teologia porta a sua volta un contributo importante al cammino catechetico mediante l’intelligenza critica dei contenuti della fede, approfonditi e ordinati sistematicamente. Anche la “via della bellezza”, attraverso tutte le possibili espressioni artistiche ispirate dalla fede, costituisce un prezioso accesso al dono del Padre fatto nel suo Figlio, “il bel pastore” (Gv 10,11), sotto l’azione dello Spirito Consolatore: si pensi all’incidenza catechetica dell’arte cristiana, sia figurativa, che letteraria o musicale.
Attingiamo i contenuti della nostra catechesi alla Parola di Dio, trasmessa e interpretata dal magistero della Chiesa, sotto la guida dei pastori e con l’aiuto di esperti biblisti, teologi e catecheti? Facciamo tesoro del nugolo di testimoni e di testimonianze che ci viene dalla storia della fede attraverso i secoli?

3. Quali i contenuti centrali della catechesi? Al centro di ogni itinerario di catechesi ci sono la persona e il messaggio di Gesù Cristo, principi unificatori e totalizzanti della vita dei credenti. Si può dire che «lo scopo definitivo della catechesi è di mettere non solo in contatto, ma in comunione, in intimità con Gesù Cristo: egli solo può condurre all’amore del Padre nello Spirito e può farci partecipare alla vita della santa Trinità» (Catechesi tradendae 5). La comunione con Cristo è il centro della vita cristiana e, di conseguenza, il centro dell’azione catechistica. La conoscenza credente del mistero di Cristo conduce alla confessione di fede nella Trinità Santa, unico Dio, che è Amore (1 Gv 4, 8.16), nell’unità del Padre, fonte dell’amore, del Figlio, che riceve e ricambia l’amore, e dello Spirito Santo, amore personale, donato e ricevuto nella reciprocità della relazione fra il Padre e il Figlio nella Trinità divina, unico Dio, eterno Amore. Chi per il primo annuncio accoglie Gesù Cristo e lo riconosce come Signore, inizia un processo, aiutato dalla catechesi, teso a sfociare nella confessione esplicita della Trinità. Sull’esempio di quanto ha fatto Gesù al fine di formare i suoi discepoli, la catechesi intende condurre alla conoscenza e alla pratica della fede rivelata in Cristo, insegnando a pregare e a celebrare i divini misteri, formando all’imitazione del Signore, mite e umile di cuore, e iniziando i discepoli alla vita di comunione con Lui e tra loro e alla missione verso l’intera famiglia umana. L’attenzione ai destinatari della catechesi esige poi che la presentazione del messaggio sia adattata alle diverse fasi della loro crescita.
È la nostra catechesi attenta a trasmettere fedelmente tutti i contenuti fondamentali della fede della Chiesa necessari alla salvezza offertaci in Gesù Cristo? È tale da adattarsi alle diverse fasi della crescita dei ragazzi cui ci rivolgiamo?

4. Per una formazione integrale del cristiano. La catechesi può definirsi, dunque, come «una formazione cristiana integrale, aperta a tutte le componenti della vita cristiana. In virtù della sua stessa dinamica interna, la fede esige di essere conosciuta, celebrata, vissuta e fatta preghiera. La catechesi deve coltivare ciascuna di queste dimensioni. La fede, però, si vive nella comunità cristiana e si annuncia nella missione: è una fede condivisa e annunciata. Pure queste dimensioni devono essere favorite dalla catechesi» (Benedetto XVI, Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, 17). In questa prospettiva si comprende l’importanza del coinvolgimento della famiglia nella catechesi dei figli, in quanto essa è chiamata ad essere per loro la prima scuola di umanità, di socialità, di vita ecclesiale e di fede: una catechesi rivolta alle famiglie per meglio responsabilizzarle nell’educazione cristiana dei figli appare quanto mai necessaria, anche se tante difficoltà si riscontrano nei tentativi di realizzarla adeguatamente. Non sarà mai abbastanza sottolineato il fatto che «l’approfondimento nella conoscenza della fede illumina cristianamente l’esistenza umana, alimenta la vita di fede e abilita altresì a rendere ragione di essa nel mondo. La consegna del simbolo, compendio della Scrittura e della fede della Chiesa, esprime la realizzazione di questo compito» (Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi, 15 agosto 1997, 85). È quanto ci sforziamo di vivere nella nostra Chiesa diocesana attraverso l’opera generosa di tanti catechisti, impegnati nella trasmissione della fede: a significare questo sforzo veramente corale celebriamo la giornata della “traditio Symboli”, in cui il Vescovo a nome di tutta la comunità ecclesiale consegna ai cresimandi dell’anno il Simbolo degli Apostoli, confessione di fede “breve e grande”, come la definiva Sant’Agostino.
Ci chiediamo allora: viene vissuta fra noi la catechesi come formazione integrale alla vita cristiana in tutti gli aspetti che essa comporta, a partire dalla professione di fede accolta e confessata nella tradizione apostolica della Chiesa, testimoniata dalla comunità cristiana nel suo insieme?

5. L’impegno del catechista nella comunità tutta evangelizzante. Condurre alla conoscenza della fede non è un’operazione solo mentale: essa implica la testimonianza e il coinvolgimento personale del catechista, perché è solo credendo e amando che fede e carità possono essere trasmesse agli altri, specie a coloro che sono impegnati nel percorso catechetico. Sant’Agostino nel De catechizandis rudibus (Catechesi dei principianti) afferma: “Non c’è invito più grande ad amare che prevenire nell’amore” (4,7: “Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando”). È amando che si insegna ad amare, è credendo e sperando che si comunicano la fede e la speranza. Per questo chi vive il servizio della catechesi deve essere anzitutto una persona dalla fede viva, nutrita di preghiera e attiva nella carità, che parla prima con l’eloquenza della vita e poi con le parole e si forma con impegno e dedizione al compito da svolgere, preparandosi con lo studio e la preghiera agli incontri di catechesi, vivendo un’intensa vita ecclesiale nella fedeltà a Cristo, alla Chiesa e ai suoi pastori, e camminando insieme con tutto il popolo di Dio, nell’apertura al respiro cattolico della comunione ecclesiale. Risulta, poi, di fondamentale importanza che i catechisti abbiano a cuore la comunione fra loro, superando rivalità, tensioni, gelosie, che possono essere sempre in agguato. La responsabilità di tutta la comunità cristiana in ordine alla catechesi va continuamente richiamata ed educata, per far sì che quanto in essa viene appreso dai ragazzi possa essere sperimentato nell’accoglienza di comunità vive nella fede e operose nella testimonianza del Vangelo e della carità vissuta. Anche le diverse aggregazioni ecclesiali devono sentirsi coinvolte in questo compito, in piena sintonia con l’azione pastorale delle parrocchie e della Chiesa diocesana.
Chiedo perciò ai nostri catechisti: vivete la vostra vita di fede in una intensa partecipazione alla vita ecclesiale, in piena comunione col Vescovo e i pastori da lui inviati nelle comunità parrocchiali?

6. La formazione permanente dei catechisti. La formazione permanente è un aiuto prezioso e necessario per chi vuole attuare al meglio questi compiti e deve essere costantemente promossa dal Vescovo, primo catechista della Chiesa diocesana, e dai suoi collaboratori, richiesta e seguita da chi è chiamato al servizio della catechesi. Essa deve coniugare momenti di preghiera e di spiritualità, aggiornamento teologico e pastorale, esperienze di vita ecclesiale sia nell’ambito catechetico, che in quello caritativo e di evangelizzazione. Il catechista si immedesimerà nella figura dei discepoli di Emmaus, che si lasciano illuminare dalla parola del divino Viandante, lo riconoscono alla mensa condivisa con Lui e vanno ad annunciare con entusiasmo che Lui è risorto e che essi lo hanno incontrato. In particolare, è importante che il catechista trasmetta la fede parlando con il cuore, come ci ha ricordato Papa Francesco al numero 144 della Evangelii Gaudium: “Parlare con il cuore implica mantenerlo non solo ardente, ma illuminato dall’integrità della Rivelazione e dal cammino che la Parola di Dio ha percorso nel cuore della Chiesa e del nostro popolo fedele lungo il corso della storia. L’identità cristiana, che è quell’abbraccio battesimale che ci ha dato da piccoli il Padre, ci fa anelare, come figli prodighi – e prediletti in Maria -, all’altro abbraccio, quello del Padre misericordioso che ci attende nella gloria. Far sì che il nostro popolo si senta come in mezzo tra questi due abbracci, è il compito difficile ma bello di chi predica il Vangelo”.
Ci chiediamo allora: viene promossa e attuata fra noi la formazione permanente dei catechisti? Viene partecipata con impegno dai catechisti, consapevoli di quanto essa sia necessaria sia sul piano dei metodi catechetici, che su quello dei contenuti da conoscere e approfondire sempre più e sempre meglio? Facendo catechesi ci sforziamo di parlare con il cuore, con ardore di fede e conoscenza illuminata, vivendo con sincera partecipazione la comunione ecclesiale?

7. Preghiera del catechista. Chiediamo tutto questo al Signore, con le parole del vescovo don Tonino Bello, catecheta irradiante della gioia cristiana, che ci accompagna dal cielo con la sua intercessione:

“Chiamato ad annunciare la tua Parola, aiutami, Signore, a vivere di Te e ad essere strumento della tua pace. Assistimi con la tua luce, perché i ragazzi che la comunità mi ha affidato trovino in me un testimone credibile del Vangelo. Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita, perché le parole, quando veicolano la tua, non suonino false sulle mie labbra. Esercita su di me un fascino così potente che io abbia a pensare come te, ad amare la gente come te, a giudicare la storia come te. Concedimi il gaudio di lavorare in comunione e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri, pretendo di fare la mia corsa da solo. Infondi in me una grande passione per la verità, e impediscimi di parlare in tuo nome se prima non ti ho consultato con lo studio e non ho tribolato nella ricerca. Salvami dalla presunzione di sapere tutto. Dal rigore di chi non perdona debolezze… Trasportami, dal Tabor della contemplazione, alla pianura dell’impegno quotidiano. E se l’azione inaridirà la mia vita, riconducimi sulla montagna del silenzio. Dalle alture… il mio sguardo missionario arriverà più facilmente agli estremi confini della terra. Affidami a tua Madre. Dammi la gioia di custodire i miei ragazzi come Lei custodì Giovanni. E quando, come Lei, anch’io sarò provato dal martirio, fa’ che ogni tanto possa trovare riposo reclinando il capo sulla sua spalla. Amen!” (Dio scommette su di noi. Pregare con Don Tonino Bello, Paoline, Roma 2019, 162-164).

+ Bruno
Padre Arcivescovo

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La Pasqua spiegata da Pinocchio

Posté par atempodiblog le 3 avril 2018

La Pasqua spiegata da Pinocchio
Che qualcuno ci venga a prendere è il grande miracolo della vita. Il mistero della Resurrezione attraverso una pagina del libro di Franco Nembrini dedicato al burattino di Collodi
Redazione Tempi.it

La Pasqua spiegata da Pinocchio dans Articoli di Giornali e News Pinocchio

Tutti conoscono Pinocchio, uno dei libri più popolari della storia, ma non tutti si sono resi conto che Collodi ha scritto una delle più belle parabole della condizione umana. In L’avventura di Pinocchio. Rileggere Collodi e scoprire che parla della vita di tutti (ed. Centocanti, 192 pagine) Franco Nembrini prende molto sul serio un’intuizione del cardinal Giacomo Biffi per rileggere l’avventura del celebre burattino, mostrando, passo dopo passo, come questa riproponga il dramma della vita, così come lo presenta la tradizione cristiana: la paternità, la fuga da casa, la libertà ferita, l’incontro con una possibile salvezza, la morte e la resurrezione. Pochi sanno infatti che verso la fine del 1880, Collodi mandò al suo amico Fernandino Martini, redattore capo di un giornale per ragazzi, un pacco di manoscritti che definì «una bambinata» e accompagnò da una missiva, «fanne quello che ti pare; ma, se la stampi, pagamela bene, per farmi venire voglia di seguitarla». Il 7 luglio 1881 sul Giornale per i bambini uscì la prima puntata della Storia di un burattino, il 27 ottobre l’ottava, che si concludeva con la morte di Pinocchio.

Nelle intenzioni di Collodi Pinocchio era infatti morto davvero, la storia era finita, e invece la redazione del giornale venne subissata di lettere di protesta inviate da bambini di tutta Italia che rivolevano il loro eroe. Martini rintracciò Collodi: «Guarda che la storia deve andare avanti!», «Come, andare avanti?. È morto! Come faccio?». «E tu fallo risorgere!». E Collodi, racconta Nembrini, lo fece risorgere. Ecco uno dei passi più belli del libro, nel cui ultimo capitolo è raccontata l’avventura della salvezza, l’avvenimento della salvezza. Che avviene nel fondo degli inferi, nell’oscurità assoluta del ventre del Pesce-cane, dove Pinocchio trova un compagno di sventura, un Tonno.

Riportiamo di seguito un passo del libro di Nembrini, che inizia con una citazione di Collodi.

«- Ed ora, che cosa dobbiamo fare qui al buio?…
– Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due!…
Ma io non voglio esser digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.
– Neppure io vorrei esser digerito, – soggiunse il Tonno – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…
– Scioccherie! – gridò Pinocchio.
– La mia è un’opinione – replicò il Tonno – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!
 Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire…
– Fuggi, se ti riesce!…

Il Tonno è un cinico, un disilluso, un rassegnato. Un uomo di oggi, per il quale «i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni», e tutte le opinioni sono equivalenti; forse un accenno di autoritratto di Collodi, con quel riferimento ai «Tonni politici», alla speranza che lo ha deluso…

Nel tempo che faceva questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di vedere, lontano lontano, una specie di chiarore.
 Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? – disse Pinocchio.
– Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà, come noi, il momento di esser digerito!…
– Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?

In qualsiasi circostanza, anche la più dura, la più cattiva, quella che senti più estranea, più nemica di te, quello sguardo, quel tenerti d’occhio di Dio fa in modo che sempre un lumicino da qualche parte ci sia. Il Tonno, cinico, alza le spalle, non si aspetta più niente. Pinocchio invece di quel lumino si fida. Sai mai che là dove vedo la luce possa incontrare qualcuno capace di insegnarmi la strada, che quest’ombra che non so nemmeno distinguere – come il Virgilio di Dante, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!» – sia proprio la guida venuta a prendermi per insegnarmi la strada?
Non importa se il Tonno lo avvisa che il Pesce-cane «è lungo più di un chilometro, senza contare la coda», che è come dire: “Non farti illusioni, è troppo lontano, non ci arriverai mai”. Pinocchio ha imparato ad avere il coraggio di guardare la realtà per quello che è, per i segni positivi che manda, attraverso i quali attrae e sollecita in qualche modo la libertà; perciò decide, fidandosi di un segnale così tenue, di percorrere il corpo del Pesce-cane per andare a vedere. Ed è per questo coraggio, per questa libera decisione di andare a vedere che l’ultima parola non sarà la morte, non sarà la vittoria del male, ma del bene. L’ultima parola della vita dell’uomo, così come della vicenda di Pinocchio, sarà la parola misericordia. Perché questi ultimi capitoli sono le pagine in cui la natura di Dio, e perciò in qualche modo anche la nostra, perché partecipiamo della natura di Dio, si svela come misericordia.

Pinocchio appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel bujo, e camminando a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, si avviò un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano. E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona.

Non è magari un’autostrada, il cammino sarà anche faticoso, ma bisogna guardare là. Viene in mente il finale del bellissimo film Le ali della libertà,quando il protagonista riesce a fuggire dal carcere strisciando nel condotto di una fogna: la strada può essere ripugnante, ma vale la pena farla.

E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioja, e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
– Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!

In fondo all’inferno, in fondo al nostro male, Dio ci viene a prendere. Viene in mente veramente la notte di Pasqua, il buio orrendo del venerdì santo e del sabato santo, la morte di Dio, il punto più fosco, più terribile della storia dell’umanità; ma da lì la Chiesa quella notte fa gridare: «Felice colpa, che ci ha meritato un così grande Redentore!». Che nel momento in cui noi siamo più lontani dal nostro bene qualcuno ci venga a prendere è il grande miracolo della vita. (…) E Pinocchio giustamente esulta perché è tornato a casa. Tornare alla casa del padre, tornare a consistere del rapporto che ti fa essere: questa è la salvezza. Capiamo allora l’entusiasmo di Pinocchio; ma più sconvolgente e più straordinaria ancora è la battuta successiva:

– Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto, stropicciandosi gli occhi – Dunque tu se’ proprio il mi’ caro Pinocchio?
 Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero?

La sintesi di tutto il bisogno che abbiamo, di tutta la domanda con cui ci alziamo al mattino, è: c’è qualcuno che può perdonarmi? C’è qualcuno che darebbe la vita per me adesso senza chiedermi di cambiare? E se Dio si mostra come Dio, si mostra per questo. Il sospetto di avere incrociato in qualche modo il Padreterno, il sospetto che questo avvenimento che hai davanti agli occhi abbia a che fare con Dio, viene quando senti la misericordia operante, quando ti senti guardato in quel modo. Perché quest’opera, il perdono, la fa solo Dio, e chi vive come Lui».

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Il silenzio del Sabato Santo

Posté par atempodiblog le 31 mars 2018

Il silenzio del Sabato Santo
di Don Corrado Bruno SDB – Rivista Maria Ausiliatrice
Tratto da: Salesiani don Bosco

Il silenzio del Sabato Santo dans Fede, morale e teologia Gerusalemme_Deposizione_Santo_Sepolcro

Il Sabato Santo, incastonato tra il dolore della Croce e la gioia della Pasqua, si colloca al centro della nostra fede. È un giorno denso di sofferenza, di attesa e di speranza; segnato da un profondo silenzio.

I discepoli hanno ancora nel cuore le immagini dolorose della morte di Gesù che segna la fine dei loro sogni messianici. In quel giorno sperimentano il silenzio di Dio, la pesantezza della sua apparente sconfitta, la disperazione dovuta all’assenza del Maestro prigioniero della morte.

C’è stato, a partire dalla cena pasquale, un succedersi vorticoso di fatti imprevedibili, che li ha sorpresi e ammutoliti. Le anticipazioni sulla sua passione più volte fatte da Gesù, i segni rassicuranti e miracolosi che le avevano sostenute, l’amore mostrato nell’Ultima Cena… tutto, in questo giorno, sembra svanito.

I discepoli hanno l’impressione che Dio sia divenuto muto e che non suggerisca più linee interpretative della storia.

A ciò si aggiunge la vergogna d’essere fuggiti e d’aver rinnegato il Signore: si sentono traditori, incapaci di far fronte al presente e senza prospettiva di futuro, non vedono come uscire da una situazione di crollo delle illusioni, mancando ancora quei segni che incominceranno a scuoterli a partire dal mattino della Domenica con il racconto del sepolcro vuoto e le apparizioni del Risorto.

Tuttavia, i discepoli, proprio attraverso la porta del Sabato Santo, ci aiutano a riflettere sul senso del nostro tempo e a leggere il passaggio dei nostri giorni, riconoscendo nel loro disorientamento, le nostalgie e le paure che caratterizzano la nostra vita di credenti nello scenario che s’appresta all’inizio di questo millennio.

La presenza di Maria
Ma questo giorno è anche il Sabato di Maria. Ella lo vive nelle lacrime unite alla forza della fede. Veglia nell’attesa fiduciosa e paziente; sa che le promesse di Dio si avverano per la potenza divina che risuscita i morti. Così Maria con la sua forza d’animo sorregge la fragile speranza dei discepoli amareggiati e delusi.

Con la Madonna del Sabato Santo, anche noi leggeremo la nostra attesa e le nostre speranze, la fede vissuta come continuo e faticoso cammino verso il mistero, per rispondere con verità, speranza ed amore alle domande che ci portiamo dentro: “Chi siamo e dove siamo diretti? Dove va il cristianesimo e la Chiesa che amiamo?”.

Anche nel sabato del tempo in cui ci troviamo è necessario riscoprire l’importanza dell’attesa. L’assenza di speranza è forse la malattia mortale delle coscienze di oggi.

Siamo nel sabato del tempo, è vero, un sabato che indica quasi assenza di direzione, tempo sospeso ma pur sempre un tempo santificato dall’azione di Dio, anche se un Dio silente, che tace e si nasconde.

Verrà quindi per tutti il giorno ottavo, il giorno del ritorno del Signore Gesù, non fuori, ma dentro le contraddizioni della storia. Per questo, dobbiamo lasciarci ispirare dalla Pasqua e riflettere sulla gioia degli apostoli quando incontrano Gesù vivente e risorto: “E i discepoli gioirono al vedere il Signore”.

All’indifferenza, alla frustrazione e alla delusione senza attese di futuro, deve opporsi come antidoto soltanto la speranza, non quella fondata su calcoli, ma sull’unico fondamento della promessa di Dio.

La Madonna del Sabato Santo getta luce sul compito che ci aspetta e che ci è reso possibile dal dono dello Spirito del Risorto. Si tratta di irradiare attorno a noi, con gli atti semplici della vita quotidiana, e senza forzature, la gioia interiore e la pace, frutti della consolazione dello Spirito. Perché credere in Cristo, morto e risorto, per noi significa essere testimoni, con la parola e con la vita, della speranza che non muore.

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La benedizione delle famiglie. Se il Signore «bussa» alla porta di casa

Posté par atempodiblog le 27 mars 2018

La benedizione delle famiglie. Se il Signore «bussa» alla porta di casa
La benedizione pasquale delle famiglie resta ancora oggi un “rito” che da Nord a Sud dell’Italia unisce le parrocchie nel tempo di Quaresima
di Giacomo Gambassi – Avvenire

La benedizione delle famiglie. Se il Signore «bussa» alla porta di casa dans Benedizione delle famiglie Benedizione_famiglie

È una tradizione già contemplata dal Concilio di Trento. Ma al tempo stesso può essere considerata un prezioso momento per declinare nel quotidiano l’impegno a essere Chiesa “in uscita”, secondo l’intuizione di papa Francesco. La benedizione pasquale delle famiglie resta ancora oggi un “rito” che da Nord a Sud dell’Italia unisce le parrocchie nel tempo di Quaresima. Come vuole una prassi consolidata dai secoli, i sacerdoti programmano fin da dopo le festività natalizie le “benedizioni”, come vengono popolarmente chiamate, che catalizzeranno gran parte delle loro già fitte agende. Del resto, «uno dei compiti principali della loro azione pastorale» è la «cura di visitare le famiglie per recare l’annuncio di pace di Cristo», spiega il Benedizionale, ossia il libro che contiene le formule di benedizione per le diverse circostanze. E così nelle settimane che portano alla Pasqua il prete passa di casa in casa.

«E tutto ciò va visto come una vera e propria occasione di evangelizzazione delle famiglie accompagnata dalla preghiera», spiega don Gianni Cavagnoli, parroco di Cremona ma anche docente di liturgia all’Istituto “Santa Giustina” di Padova e direttore della Rivista Liturgica. Che subito aggiunge: «Se leggiamo questo capitolo ecclesiale alla luce dell’attuale magistero pontificio, possiamo dire che è espressione di una comunità ecclesiale estroversa che sa andare verso la gente e ha un rinnovato slancio missionario». Guai, però, a parlare di benedizione delle case. «Non è certamente un gesto scaramantico – tiene a precisare il sacerdote –. Ecco perché al centro ci deve essere sempre la persona e l’abitazione va intesa come luogo in cui la famiglia si riunisce. Non per nulla oggi nelle visite il prete raccoglie le confidenze del popolo di Dio che gli è stato affidato e tocca con mano anche le sue povertà: da quelle sociali, come la mancanza di lavoro, a quelle umane, che possono comprendere le crisi dei matrimoni o le incomprensioni nei rapporti con i figli. E, attraverso l’abbraccio che si realizza con questa pratica antica, il pastore se ne fa carico». Altrettanto da evitare è ogni accenno “economico”.

«Se papa Francesco ha ribadito con forza che la Messa non si paga – afferma don Cavagnoli –, è quanto mai necessario cancellare ogni ombra di lucro dalle benedizioni pasquali». Eppure non mancano le difficoltà. «Per due ragioni essenzialmente – sottolinea il liturgista –. La prima è legata al numero di sacerdoti che si sta riducendo. Allora la benedizione pasquale rischia di trasformarsi in una sorta di maratona del parroco, segnata dalla fretta. Inoltre succede che una famiglia possa ricevere la benedizione ogni due o tre anni, come testimoniano i casi di grandi parrocchie di città. In secondo luogo è cambiato il contesto sociale. Si fa fatica a trovare in casa una famiglia al mattino o al pomeriggio. Sicuramente qualcuno non vuole aprire la porta in modo intenzionale, ma in molti casi la porta resta chiusa perché i coniugi o i figli non ci sono a quel determinato orario. Abbiamo famiglie che chiedono un nuovo appuntamento, ma gli intensi ritmi di lavoro che accomunano comunità cittadine e rurali sono una variante ormai imprescindibile».

Il “rito” affonda le sue radici nelle parole di Gesù che si trovano nel Vangelo di Luca: “In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa”. «La shalombiblica è il complesso di ogni bene. A livello fisico si tratta della salute, del lavoro, del cibo. Dal punto di vista spirituale rimanda all’armonia. Perciò dire pace significa augurare l’unità in una società marcata dalle divisioni e dai contrasti». Poi c’è l’aspersione con l’acqua. «È il richiamo al Battesimo. L’acqua esprime sia il fatto che come famiglia siamo inseriti in Cristo, sia il bisogno di purificazione, cioè di perdono. E il perdono è una dimensione quanto mai importante e da riscoprire anche fra le mura domestiche ». La benedizione delle famiglie avviene per lo più in Quaresima. «Perché viene portato l’annuncio di Pasqua – chiarisce il liturgista –. È come se Cristo Risorto venisse in mezzo a noi, nelle nostre abitazioni, attraverso la persona del sacerdote». Ma può essere un laico a compiere questa prassi? «Certamente, purché lo faccia a nome della comunità. Anzi, è bene che nelle famiglie ci siano anche altre occasioni di benedizione comune come può essere prima di un pasto. E i sussidi per proporle non mancano».

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Per approfondire 2e2mot5 dans Diego Manetti  “In punta di piedi”, con discrezione e rispetto

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Domenica delle Palme

Posté par atempodiblog le 25 mars 2018

Domenica delle Palme
La Domenica delle Palme segna l’inizio della Settimana Santa, come ben ricorda la monizione che precede la liturgia e introduce la processione: “Gesù entra in Gerusalemme per dare compimento al mistero della morte e Resurrezione”.
di Mons. Luigi Negri– La nuova Bussola Quotidiana

Domenica delle Palme dans Commenti al Vangelo maesta-duccio-ingresso-a-gerusalemme

La Domenica delle Palme segna l’inizio della Settimana Santa, come ben ricorda la monizione che precede la liturgia e introduce la processione: “Gesù entra in Gerusalemme per dare compimento al mistero della morte e Resurrezione”. Già queste parole ci consentono di entrare nel cuore della celebrazione, che ha come suo punto d’inizio il ricordo dell’ingresso messianico di Cristo a Gerusalemme, il Re di tutti i secoli e Nostro Signore che entra nella Città Santa sul dorso di un’umilissima asina, adempiendo così la profezia di Zaccaria: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9, 9).

I rami e i mantelli che la folla stese sulla strada sono il segno di un popolo che acclama il suo re, senza tuttavia immaginare che la regalità di Cristo avrebbe trovato il suo compimento sul Calvario. È la logica di Dio, così sorprendente e scandalosa per il mondo, è il mistero della croce che è già contenuto in quello che per la logica umana ha l’apparenza di un ossimoro: il Re su un asino. Un Re al quale i fanciulli cantano “Osanna al figlio di Davide”, che sconcerta chi detiene una qualche forma di potere terreno (“non senti quello che dicono?”, domandano sdegnati gli increduli scribi e sommi sacerdoti), a cui Gesù ricorda la necessità di farsi piccoli per entrare nel Regno dei Cieli, rievocando il Salmo 8: “Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode?”.

Ecco perché il culmine della liturgia odierna non può che essere la Passione. Tutte le letture mostrano il commovente legame tra l’Antica e la Nuova Alleanza che si realizza in Cristo, il divin Verbo che ama ciascuno di noi e perciò abbassatosi fino a noi per mantenere le promesse di salvezza, ossia la liberazione dal peccato e dalla schiavitù a cui ci assoggetta Satana con i suoi inganni. Solo Cristo è la risposta al male, solo dalla sua croce – che ogni cristiano è chiamato a portare – passano la vittoria sulla morte e la gloria eterna, e non per nulla la liturgia della Parola si apre con un’altra profezia avverata, riprendendo un passo cristologico di Isaia, noto come Terzo canto del Servo: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Is 50, 6). Il Servo cantato da Isaia è la prefigurazione di Gesù sofferente e obbediente in tutto alla volontà del Padre, per espiare i nostri peccati e realizzare il disegno salvifico.

La processione che precede la liturgia è documentata a Gerusalemme fin dal IV secolo, presto estesasi in altri centri della cristianità come la Siria e l’Egitto. Con il tempo la processione accrebbe la sua importanza, arricchendosi di inni sacri e della rituale benedizione delle palme, attestata dal VII secolo. In quest’epoca operò tra gli altri un celebre innografo e teologo come sant’Andrea di Creta (c. 650-740), che sulla Domenica delle Palme scrisse: “Corriamo anche noi insieme a Colui che si affretta verso la Passione e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a Lui lungo il suo cammino rami d’olivo o di palme, tappeti e altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai Suoi piedi le nostre persone. […] Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”.

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IL SEGNO. Benedizione delle famiglie gesto che crea comunità

Posté par atempodiblog le 26 février 2018

IL SEGNO. Benedizione delle famiglie gesto che crea comunità
Da sempre in Quaresima e durante il Tempo pasquale i parroci benedicono le famiglie Un modo per rinnovare la fede e consolidare la fraternità e la comunione sul territorio
di Giacomo Gambassi – Avvenire

IL SEGNO. Benedizione delle famiglie gesto che crea comunità dans Benedizione delle famiglie Benedizione_famiglie

Affonda le sue radici nell’eredità del Concilio di Trento la tradizione di benedire le famiglie nel tempo di Quaresima e di Pasqua che, a distanza di quasi cinquecento anni, marca ancora la vita di una parte consistenze delle parrocchie italiane in queste settimane. Quando era nata, la benedizione annuale dei nuclei familiari rappresentava un momento per consolidare la comunità e preservarla dalle correnti ereticali.

Oggi il Benedizionale la definisce un’«occasione preziosa» che i sacerdoti e i loro collaboratori devono avere «particolarmente a cuore» per «avvicinare e conoscere tutte le famiglie» di un territorio.

Certo, ha scritto il docente di liturgia e parroco nella diocesi di Alessandria, don Silvano Sirboni, «in un contesto multireligioso come il nostro, segnato da sistemi e ritmi di lavoro che costringono alla mobilità svuotando o quasi durante il giorno interi quartieri, questa attività pastorale trova non poche difficoltà, specie nei centri urbani». Eppure, resta come un punto fermo nelle agende parrocchiali: non solo in quelle dei piccoli paesi ma anche delle grandi città. Che comunque va liberata dal tratto – dominante soprattutto in passato – che riduceva il tutto a un gesto esteriore vicino all’ambito della superstizione. Ecco perché sempre il Benedizionale tiene a precisare che «non si deve fare la benedizione delle case senza la presenza di coloro che vi abitano».

Del resto il significato di questa consuetudine può essere compreso dalle parole con cui il sacerdote introduce il rito: «Con la visita del pastore – afferma appena varcato il portone d’ingresso –, è Gesù stesso che entra in questa casa e vi porta la sua gioia e la sua pace». Proprio l’annuncio della «pace» di Cristo è il cuore di questa iniziativa.

Non è un caso che la Chiesa inviti i parroci a considerare «uno dei compiti privilegiati della loro azione pastorale la cura di visitare le famiglie», fedeli al mandato del Signore che ai discepoli raccomandava: «In qualunque casa entriate, prima dite “pace” a questa casa». Ed ecco che il primo saluto del sacerdote è oggi: «Pace a questa casa e ai suoi abitanti».

I fondamenti si trovano nella Scrittura. Perché il Dio della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto e della Risurrezione del suo Figlio «passa» nel luogo principale della vita ordinaria, l’abitazione, per sostenere nel cammino quotidiano. Lo sottolineano anche le intenzioni di preghiera in cui si chiede al Signore di riempire la casa della sua «dolce presenza» con «la potenza dello Spirito».

Inoltre l’incontro del presbitero con le famiglie diventa opportunità per un «discreto annuncio del Vangelo». Così il rito unisce la preghiera all’ascolto della Parola che viene proposta attraverso brevi passi biblici. E la benedizione annuale è anche un richiamo a riconosce nel Signore «il principio e il fondamento sul quale si basa e si consolida l’unità della famiglia». Come icona viene indicata quella della Sacra Famiglia nel cui grembo Cristo, insieme con Maria e Giuseppe, «ha santificato la vita domestica».

Segno concreto è l’aspersione con l’acqua benedetta. Tanto che, in alcune aree della Penisola, la benedizione delle famiglie continua ad essere chiamata l’«acqua santa». Si tratta di un’occasione per fare memoria del Battesimo con il quale il Signore «aggrega la società domestica alla grande famiglia dello Spirito» e per «rinnovare» l’adesione a Cristo, dice il sacerdote mentre compie il rito.

Da ricordare che la benedizione annuale è un impulso a rinsaldare i legami con la parrocchia e a riflettere sul percorso comunitario. Ma vuol essere anche una possibilità per tastare il polso della vita spirituale fra le mura domestiche in modo da individuare le difficoltà e le sfide che una parrocchia è chiamata ad affrontare.

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Gesù non ha lasciato la terra e i suoi

Posté par atempodiblog le 30 mars 2016

Gesù non ha lasciato la terra e i suoi dans Citazioni, frasi e pensieri Ges-Risorto

Il vero senso della Risurrezione ci è dato dal salmo di cui la divina liturgia si serve per l’introito della santa Messa di Pasqua: resurrexi et adhuc tecum sum – sono risorto ed eccomi ancora con te. Oltre la divina immensità, oltre la divina eucaristia, c’è una presenza sentita e sensibile del Signore Gesù, l’uomo-Dio, poiché è risorto!

Oltre la sua presenza nel cielo alla destra del Padre, alla visione degli angeli e dei santi c’è la sua presenza nel mondo e alle anime peregrinanti per il mondo. Ascendendo al Padre e prendendo il primo posto di gloria alla destra di Lui, non ha lasciato la terra e i suoi, è presente ai suoi sulla terra, poiché è risorto.

Come credo alla Trinità inabitante nell’anima voglio credere all’umanità divina di Gesù circumstante all’uomo e specie al discepolo di Cristo e sposa di Dio. Non relimquam vos orfanos, vado et venio ad vos – Non vi lascio orfani, vado e vengo a voi. Non mi pare si possa spiegare meglio in altro senso. Modicum et non videbitis et modicum et videbitis – Tra poco non mi vedrete più; e tra un altro poco mi vedrete, similmente si possono solo spiegare bene della risurrezione del Signore. Alleluja.

Beato Giustino M. Russolillo

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Pasqua: la gioia della Resurrezione anche sulle nostre tavole

Posté par atempodiblog le 28 mars 2016

Pasqua: la gioia della Resurrezione anche sulle nostre tavole
di Pane e focolare

Pasqua: la gioia della Resurrezione anche sulle nostre tavole dans Cucina e dintorni

Eccoci arrivati alla Pasqua: la solennità più importante di tutto l’Anno Liturgico. In occasione di questa festa si regalano ai bambini le uova di cioccolato e si compra la colomba; chi vive all’ombra del Vesuvio cucina la pastiera con la ricetta di famiglia (conservata gelosamente), chi invece vive sotto la Lanterna mette in tavola la torta Pasqualina.

Anche chi non è credente deve arrendersi all’evidenza: il Cristianesimo ha profondamente influenzato la cultura della nostra nazione e non avremmo la gioia della festa e i relativi piaceri della tavola se quella lontana Domenica di 2000 anni fa alcune donne non si fossero trovate davanti ad un Sepolcro vuoto. Da quell’avvenimento senza precedenti è uscita una civiltà cristiana che ha lasciato il segno, anche a tavola.

I cattolici si lasciano alle spalle la Quaresima, i digiuni, le astinenze, e adesso non solo possono ma anzi devono fare festa anche a tavola. Digiunare di domenica è una colpa grave, come dice Cesario di Arles (VI sec.): “Se qualcuno digiuna di domenica, pecca”. Il principio vale a maggior ragione per quella che è la Domenica per antonomasia, il giorno della gioia perché la promessa di salvezza si è realizzata.

Se il colore del Natale è il rosso, quello della Pasqua è il giallo: ma qualunque colore scegliate, in ogni apparecchiatura della tavola di Pasqua deve esserci allegria, luce e tanti fiori colorati. Fortunati coloro che possono finalmente pranzare all’aria aperta, godendo della primavera.

Ci sono tanti cibi tipici della Pasqua, tutti con bellissime simbologie.

 dans Santa Pasqua

Cominciamo dalle uova: di cioccolato, di zucchero, oppure uova sode con il guscio dipinto con artistica fantasia. Simbolo della vita già in epoche pagane, è ripreso dal cristianesimo. La festività pasquale cade in primavera e prende il posto di feste antiche che segnavano il passaggio dall’inverno alla stagione del risveglio della natura: l’uovo è simbolo di fertilità, di vita. Diventa quindi anche simbolo della Resurrezione di Cristo: il guscio è il sepolcro dal quale uscirà la vita.

In molte località c’è la bella tradizione di portare le uova in chiesa e alla fine della Santa Messa il sacerdote le benedice.

E veniamo all’agnello: ci ricorda le parole di San Giovanni Battista, che nell’indicare Gesù ai discepoli lo chiama: “Ecco l’Agnello di Dio” (Giovanni 1, 29). Ci ricorda il Suo sacrificio in Croce, la Sua Passione, perché fu immolato “come un agnello condotto al macello” (Isaia 53,7). Era un cibo già presente nella cena della Pasqua ebraica (Gesù ha mangiato l’agnello nell’Ultima Cena) ed è diventato il cibo tipico anche della mensa pasquale cristiana.

La pastiera, dolce tipico di Napoli, è un’istituzione sulla tavola di questa festa. Le leggende legate alla sua nascita sono tante. Alcune parlano della sirena Partenope, ma la ricetta attuale viene attribuita alle suore dell’antico monastero di san Gregorio Armeno, che vollero creare un dolce che fosse pieno di simboli di Cristo e della Resurrezione. Infatti usano le uova, l’acqua di fiori d’arancio che ricorda l’arrivo della primavera e il grano, ricchissimo di simboli: dal grano si ricava la farina, con la quale si fa il pane (che richiama l’Eucarestia). Ma il grano è simbolo di Cristo anche perché viene macinato nella mola, e questo ricorda la sofferenza di Gesù durante la Passione (a questo proposito, potete dare un’occhiata anche al testo che ho pubblicato il Giovedì Santo sul Cristo del Torchio). La tradizione vuole che la pastiera si prepari il Giovedì Santo, perché è un dolce che col passare dei giorni migliora. I miei amici napoletani che sono followers di questo blog sapranno sicuramente dirmi di più: se poi mi spediscono una fetta della loro pastiera, li ringrazio.

A Milano e non solo, ma soprattutto nel Nord Italia, ecco la colomba: simbolo di pace e salvezza, immagine dell’offerta di Cristo e icona dello Spirito Santo. Ci sono, come capita spesso, tante leggende su questo dolce: una di esse parla di san Colombano e della Regina Teodolinda. Siamo intorno all’anno 612, il santo abate irlandese Colombano, dopo il suo lungo peregrinare per l’Europa, arriva in Italia e si reca a Pavia, dove viene invitato a pranzo dalla regina longobarda, insieme con i suoi monaci. E’ Quaresima e Colombano rifiuta una ricca portata di selvaggina, per rispettare il precetto di astinenza dalle carni. La regina Teodolinda non capisce e si offende: allora l’abate le dice che avrebbe consumato le carni solo dopo averle benedette. Mentre San Colombano alza la mano destra in segno di croce, avviene il miracolo: le pietanze di carne si trasformano in candide colombe di pane bianco.

Se ci spostiamo a Genova, troviamo la torta pasqualina, con il ripieno di bietole, che a primavera germogliano, e uova, che come vedete ricorrono sempre nelle preparazioni pasquali. Secondo la tradizione i fogli di pasta sfoglia devono essere 33, come gli anni di Gesù.

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Buona Pasqua a tutti!

Posté par atempodiblog le 27 mars 2016

Cristo è risorto! Alleluja!

Resurrezione Giotto

Buona Pasqua a tutti! Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca!

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O Croce di Cristo!

Posté par atempodiblog le 26 mars 2016

Preghiera scritta e letta da Papa Francesco al termine della Via Crucis al Colosseo
Tratta da: News.va

O Croce di Cristo! dans Fede, morale e teologia Ges

O Croce di Cristo!

O Croce di Cristo, simbolo dell’amore divino e dell’ingiustizia umana, icona del sacrificio supremo per amore e dell’egoismo estremo per stoltezza, strumento di morte e via di risurrezione, segno dell’obbedienza ed emblema del tradimento, patibolo della persecuzione e vessillo della vittoria.

O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo eretta nelle nostre sorelle e nei nostri fratelli uccisi, bruciati vivi, sgozzati e decapitati con le spade barbariche e con il silenzio vigliacco.

O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei volti dei bambini, delle donne e delle persone, sfiniti e impauriti che fuggono dalle guerre e dalle violenze e spesso non trovano che la morte e tanti Pilati con le mani lavate.

O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei dottori della lettera e non dello spirito, della morte e non della vita, che invece di insegnare la misericordia e la vita, minacciano la punizione e la morte e condannano il giusto.

O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei ministri infedeli che invece di spogliarsi delle proprie vane ambizioni spogliano perfino gli innocenti della propria dignità.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei cuori impietriti di coloro che giudicano comodamente gli altri, cuori pronti a condannarli perfino alla lapidazione, senza mai accorgersi dei propri peccati e colpe.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei fondamentalismi e nel terrorismo dei seguaci di qualche religione che profanano il nome di Dio e lo utilizzano per giustificare le loro inaudite violenze.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei potenti e nei venditori di armi che alimentano la fornace delle guerre con il sangue innocente dei fratelli e danno ai loro figli da mangiare il pane insanguinato.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei traditori che per trenta denari consegnano alla morte chiunque.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei ladroni e nei corrotti che invece di salvaguardare il bene comune e l’etica si vendono nel misero mercato dell’immoralità.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi negli stolti che costruiscono depositi per conservare tesori che periscono, lasciando Lazzaro morire di fame alle loro porte.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei distruttori della nostra “casa comune” che con egoismo rovinano il futuro delle prossime generazioni.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi negli anziani abbandonati dai propri famigliari, nei disabili e nei bambini denutriti e scartati dalla nostra egoista e ipocrita società.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nel nostro Mediterraneo e nel mar Egeo divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata.

O Croce di Cristo, immagine dell’amore senza fine e via della Risurrezione, ti vediamo ancora oggi nelle persone buone e giuste che fanno il bene senza cercare gli applausi o l’ammirazione degli altri.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei ministri fedeli e umili che illuminano il buio della nostra vita come candele che si consumano gratuitamente per illuminare la vita degli ultimi.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei volti delle suore e dei consacrati – i buoni samaritani – che abbandonano tutto per bendare, nel silenzio evangelico, le ferite delle povertà e dell’ingiustizia.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei misericordiosi che trovano nella misericordia l’espressione massima della giustizia e della fede.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nelle persone semplici che vivono gioiosamente la loro fede nella quotidianità e nell’osservanza filiale dei comandamenti.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei pentiti che sanno, dalla profondità della miseria dei loro peccati, gridare: Signore ricordati di me nel Tuo regno!

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei beati e nei santi che sanno attraversare il buio della notte della fede senza perdere la fiducia in te e senza pretendere di capire il Tuo silenzio misterioso.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nelle famiglie che vivono con fedeltà e fecondità la loro vocazione matrimoniale.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei volontari che soccorrono generosamente i bisognosi e i percossi.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei perseguitati per la loro fede che nella sofferenza continuano a dare testimonianza autentica a Gesù e al Vangelo.

O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei sognatori che vivono con il cuore dei bambini e che lavorano ogni giorno per rendere il mondo un posto migliore, più umano e più giusto.

In te Santa Croce vediamo Dio che ama fino alla fine, e vediamo l’odio che spadroneggia e acceca i cuori e le menti di coloro preferiscono le tenebre alla luce.

O Croce di Cristo, Arca di Noè che salvò l’umanità dal diluvio del peccato, salvaci dal male e dal maligno! O Trono di Davide e sigillo dell’Alleanza divina ed eterna, svegliaci dalle seduzioni della vanità! O grido di amore, suscita in noi il desiderio di Dio, del bene e della luce.

O Croce di Cristo, insegnaci che l’alba del sole è più forte dell’oscurità della notte. O Croce di Cristo, insegnaci che l’apparente vittoria del male si dissipa davanti alla tomba vuota e di fronte alla certezza della Risurrezione e dell’amore di Dio che nulla può sconfiggere od oscurare o indebolire.

Amen!

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Novena alla Divina Misericordia (dal 25 marzo al 2 aprile 2016)

Posté par atempodiblog le 25 mars 2016

Novena alla Divina Misericordia (dal 25 marzo al 2 aprile 2016) dans Fede, morale e teologia Ges-confido-in-Te

La Festa della Divina Misericordia, secondo le apparizioni di Gesù a santa Faustina, deve essere preceduta da una novena, che va recitata ogni giorno a partire dal Venerdì Santo per nove giorni consecutivi, fino al sabato precedente la Festa della Misericordia (seconda Domenica di Pasqua, dal 25 marzo al 2 aprile 2016, ndr).

Gesù per due volte espresse il desiderio che la sua confidente, attraverso una preghiera di nove giorni, si preparasse a questa Solennità. La Santa ci ha trasmesso la promessa del Salvatore rivolta a tutti i fedeli e contenuta in queste parole: “Durante questa novena elargirò alle anime grazie di ogni genere”.

Sebbene il tempo tra il Venerdì Santo e la seconda Domenica di Pasqua possegga un particolare privilegio, tuttavia la novena alla Divina Misericordia può essere recitata anche in qualsiasi altro periodo dell’anno. (Radio Maria)

Per recitare la novena cliccare qui Freccia dans Viaggi & Vacanze NOVENA ALLA DIVINA MISERICORDIA

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