La musica che si fa preghiera nelle opere di Verdi e Puccini

Posté par atempodiblog le 22 novembre 2024

La musica che si fa preghiera nelle opere di Verdi e Puccini
Non pochi elementi rimandano alla fede in Dio nel repertorio operistico dei due grandi compositori italiani. La Tosca e il Nabucco sono pervasi da un anelito religioso. Un approfondimento nel giorno di Santa Cecilia.
di Antonio Tarallo – La nuova Bussola Quotidiana

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Cultura e devozione popolare s’intrecciano in Santa Cecilia di cui oggi ricorre la memoria liturgica: la santa dei musicisti, così il popolo di Dio la ricorda e la festeggia. E se si parla di musica è spontaneo parlare di “sacre” note. 

I compositori che hanno scritto di Dio nelle loro composizioni sono davvero innumerevoli: dal grande maestro Bach a Haydn, da Mozart a Verdi, da Ludwig van Beethoven a Mendelssohn passando per Brahms, fino a giungere al Novecento musicale (Poulenc, Britten, Penderecki e tanti altri). Sono composizioni dette “sacre”, appunto: si alternano così in questo vasto panorama musicale Messe e Requiem, preghiere e salmi trasformati in canti e note. Ma, c’è anche una produzione musicale che non è possibile inquadrare in questo contesto: sono note musicali, rimandi, versi che parlano della fede in Dio o della Chiesa, presenti in alcune composizioni operistiche “laiche” (definiamole pur così). Non sono poche, infatti, le opere liriche che fanno riferimento al tema del sacro: melodrammi che, a un certo punto della trama, riecheggiano Dio e la fede.

Il primo nome che verrebbe in mente – il prossimo 29 novembre celebreremo il centenario della sua morte – è Giacomo Puccini che, certamente, non si può considerare un musicista proprio religioso. Eppure nelle sue partiture il sacro è ben presente ed evidente. Vi è, ad esempio, la sua famosa Tosca, opera andata in scena al Teatro Costanzi di Roma (l’odierno Teatro dell’Opera) il 14 gennaio 1900. Un melodramma che vede la trama d’amore di Mario Cavaradossi e Floria Tosca intrecciarsi con la storia del mondo: c’è tutta la Roma papalina del 1800 e poi, di sfondo, la battaglia di Marengo della seconda campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte. Nel primo atto, oltre alla presenza del simpatico sagrestano con il suo Angelus recitato a mezzogiorno nella chiesa di sant’Andrea della Valle, troviamo soprattutto una scena di grande effetto: il Te Deum posto a fine dell’atto. Per 73 misure, in partitura, il suono delle campane fa da sfondo a un’orchestrazione colossale: lo scandire del coro dei versi del Te Deum conferisce al tutto una sacralità composta di invocazioni e lodi del popolo a Dio. Cadenzati, sono i versi: «Adjutorum nostrum in nomine Domini/ qui fecit coelum et terram./ Sit nomen Domini benedictum/ et hoc nunc et usque in saeculum. Te Deum laudamus:/ Te Dominum confitemur!». Un crescendo di preghiere alternato dal lugubre e voluttuso desiderio di Scarpia verso Tosca: parole che non hanno proprio nulla del sacro («Ah di quegli occhi/ vittoriosi veder la fiamma/ illanguidir con spasimo d’amor/ fra le mie braccia…»). Un climax musicale di grande effetto.

Ma, sempre nella Tosca, altro elemento che rimanda a Dio e alla fede è la preghiera-aria di Tosca stessa. Siamo nel secondo atto, nello studio di Scarpia a palazzo Farnese. Ormai, sembra tutto perduto: il suo amante Cavaradossi è condannato al capestro. A Tosca non rimane altro, allora, che invocare Dio con una preghiera che potrebbe quasi assomigliare alla preghiera di Giobbe: «Vissi d’arte, vissi d’amore. (…) Nell’ora del dolore,/ perché, perché, Signore,/ ah, perché me ne rimuneri così?». La melodia, in questo caso, si fa intima: è un dialogo con Dio quello che Puccini ci presenta. Una preghiera-richiesta (e anche riflessione, se vogliamo) sull’inspiegabile Disegno di Dio. Tosca, fervente credente, che ha portato sempre in chiesa i fiori alla Madonna, che ha sempre pregato Dio («Sempre con fè sincera/ la mia preghiera/ ai santi tabernacoli salì»), si domanda il perché di tanta sofferenza. L’aria di Tosca diviene così una preghiera universale dell’animo umano che, molto spesso, non riesce a comprendere il dolore sulla terra: è il perché che più volte ripete Tosca nel suo Vissi d’arte.

Altro nome del melodramma, Giuseppe Verdi, ossia il melodramma italiano “in persona”. Altro compositore che per tutta la sua vita ha vissuto una certa avversione alla Chiesa e al sacro (ma sempre spinto alla ricerca di Dio, soprattutto nell’ultima parte della sua esistenza). Di lui rimarranno come repertorio sacro alcune composizioni immortali come il Requiem. Ma non sono pochi i rimandi a Dio nel repertorio operistico che Verdi ci ha lasciato: ad esempio, ne La forza del destino (1862). La mente corre subito alla preghiera La Vergine degli angeli (che chiude il finale del secondo atto dell’opera ambientato nella chiesa della Madonna degli Angeli presso Hornachuelos) che vede coinvolti prima un coro sommesso e poi Leonora, una delle voci più importanti dell’intera opera, accompagnata dall’arpa che riesce a fornire a questo canto dolce e tenero un’aura divina. La preghiera sale al cielo così come il canto di Leonora e del coro.

E nel corollario di melodrammi che Verdi ha composto non può mancare il Nabucco (1846): in questo caso, già il soggetto dell’opera si presta. Una trama che vede protagonisti: Nabucco, re di Babilonia; Fenena, figlia di Nabucco; Abigaille, figlia illegittima di Nabucco; Zaccaria, il Gran Pontefice; Ismaele, nipote del re di Gerusalemme Sedecia. E fra tutti questi personaggi, ne spicca uno in particolare: il popolo ebraico con il suo Va pensiero. La scena è tratta dal salmo 137: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre». Di scene da ricordare ce ne sarebbero davvero tante. Ma, forse, una delle più significative è quella della “conversione” di Nabucco: «Dio di Giuda! l’ara, il Tempio/ A Te sacro, sorgeranno./ Deh! mi togli a tanto affanno/ E i miei riti struggerò./ Tu m’ascolti! … Già dell’empio/ Rischiarata è l’egra mente! Ah!/ Dio verace, onnipossente,/ Adorarti ognor saprò!». Nabucco, ormai ravveduto del comportamento riprovevole contro il Signore, riesce finalmente a soggettarsi a Dio, unico verace e onnipossente.

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Martirio di Santa Cecilia e di Valeriano

Posté par atempodiblog le 22 novembre 2013

Martirio di Santa Cecilia e di Valeriano
Dalle visioni di Maria Valtorta 22 luglio 1944
Tratto da: L’incontro

Martirio di Santa Cecilia e di Valeriano dans Maria Valtorta Santa-Cecilia
Guido Reni, S. Cecilia, c. 1616, Gemaldegalerie, Berlino, Germania

        Vedo le catacombe. Per quanto io non sia mai stata nelle catacombe, capisco che sono esse. Quali non so. Vedo oscuri meandri di stretti corridoi scavati nella terra, bassi e umidi, fatti tutti a giravolte come un labirinto. (…)
         Le persone sono numerose e sboccano da tutte le parti, salutandosi con amore, a voce bassa come il luogo santo lo richiede. Vi sono uomini, donne e bambini. Di ogni condizione sociale. Vestiti da poveri e da patrizi. Le donne hanno il capo coperto da una stoffa leggera come una mussola. Non è il velo di tulle, certo, ma è come una garza fitta fitta, più bella nelle ricche, più povera nelle povere, scura per le spose e vedove, bianca per le vergini. Vi sono spose che hanno i bambini in braccio. Forse non avevano a chi lasciarli e se li sono portati seco e, se i più grandicelli camminano al fianco delle mamme loro, i più piccini, certuni infanti, dormono beati sotto il velo materno, cullati dal passo della madre e dai canti lenti e pii che si elevano sotto le volte. Sembrano angioletti scesi dal Cielo e sognanti il Paradiso a cui sorridono nel sonno.
         La gente aumenta e finisce a radunarsi in una vastissima sala semicircolare che ha nel culmine del cerchio l’altare volto verso la folla ed è tutta coperta di pitture o mosaici. Non capisco bene. So che sono figurazioni colorate in cui splendono i toni più vivi o chiari e brillano le raggiere d’oro. Sull’altare molti lumi accesi. Intorno all’altare una corona di vergini bianco-vestite e bianco-velate.
         Entra, benedicente, un vecchio dall’aspetto buono e maestoso. Credo sia il Pontefice, perché tutti si prostrano riverenti. Egli è circondato da preti e diaconi e passa fra la siepe di teste chine con un sorriso di bellezza ineffabile sul volto. Il solo sorriso dice della sua santità. Sale all’altare e si prepara al rito mentre i fedeli cantano.
         La celebrazione ha luogo. È quasi simile alla nostra. Molto più complessa di quella vista nel Tullianum, celebrata dall’apostolo Paolo, e di quella vista celebrare in casa di Petronilla.
        I1 vecchio celebrante, Vescovo di certo se non Pontefice, è aiutato e servito dai diaconi, i quali hanno vesti molto diverse dalle sue perché, mentre questo porta una veste (di celebrazione) che somiglia, tanto per darle un’idea, a quegli accappatoi da toletta che le donne usano per pettinarsi – mantellette tonde che coprono sul davanti e sul dietro e le spalle e braccia sino quasi al polso – i diaconi hanno una veste di celebrazione quasi uguale alle attuali, lunga sino al ginocchio e con maniche larghe e corte.
         La Messa consta di canti, che comprendo essere brani di salmi o dell’Apocalisse, di letture di brani epistolari o biblici e del Vangelo, i quali vengono commentati ai fedeli dai diaconi a turno.
        Finito di leggere il Vangelo – lo legge con voce di canto un giovane diacono – si alza il Pontefice. Lo chiamo così perché sento che così è indicato da una mamma ad un suo bambino piuttosto irrequieto. Il brano scelto era la parabola delle dieci vergini: sagge a stolte (Mt 25,1-13).
         Il Pontefice dice: «Propria delle vergini, questa parabola si rivolge a tutte le anime, poiché i meriti del Sangue del Salvatore e la Grazia riverginizzano le anime e le fanno come fanciulle in attesa dello Sposo.
        Sorridete, o vecchi cadenti; alzate il volto, o patrizi sino a ieri immersi nella fanghiglia del paganesimo corrotto; guardate senza più rimpianto al vostro candido ignorare di fanciulle, o madri e spose. Non siete, nell’anima, dissimili da questi gigli fra cui passeggia l’Agnello e che ora fanno corona al suo altare. L’anima vostra ha bellezze di vergine che nessun bacio ha sfiorata, quando rinascete e permanete in Cristo, Signor nostro. Il suo venire fa più candida di alba su un monte coperto di neve l’anima che prima era sporca e nera dei vizi più abbietti. Il pentimento la deterge, la volontà la depura, ma l’amore, l’amore del nostro santo Salvatore, amore che viene dal suo Sangue che grida con voce d’amore, vi rende la verginità perfetta. Non già quella che aveste all’alba della vostra vita umana, ma quella che era del padre di tutti: Adamo, ma quella che era della madre di tutti: Eva, prima che Satana passasse, traviando, sulla loro innocenza angelica, sull’innocenza: dono divino che li vestiva di grazia agli occhi di Dio e dell’universo.
        O santa verginità della vita cristiana! Bagno di Sangue, di Sangue di un Dio che vi fa nuovi e puri come l’Uomo e la Donna usciti dalle mani dell’Altissimo! O nascita seconda della vostra vita, nella vita cristiana, preludio di quella terza nascita che vi darà il Cielo quando vi salirete al cenno di Dio, candidi per la fede o porpurei per il martirio, belli come angeli e degni di vedere e seguire Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore nostro!
        Ma oggi, più che alle anime riverginizzate dalla Grazia, mi volgo a quelle chiuse in corpo vergine, con volontà di vergine. Alle vergini sagge che hanno compreso l’invito d’amore del Signor nostro e le parole del vergine Giovanni, e vogliono seguire per sempre l’Agnello fra la schiera di coloro che non conobbero contaminazione e che empiranno in eterno i Cieli del cantico che niuno può dire se non coloro che vergini sono per amore di Dio. (Ap 14,49 E parlo alla forte nella fede, nella speranza, nella carità, che si ciba questa notte delle Carni immacolate del Verbo e si corrobora col suo Sangue come di Vino celeste per esser forte nella sua impresa.
         Una fra voi si alzerà da questo altare per andare incontro a un destino il cui nome può essere “morte”. E vi va fidente in Dio, non della fede comune a tutti i cristiani, ma di una ancor più perfetta fede che non si limita a credere per se stessa, a credere nella protezione divina per se stessa. Ma crede anche per gli altri e spera di portare a questo altare colui che domani sarà agli occhi del mondo il suo sposo ma agli occhi di Dio il fratello suo dilettissimo. Doppia, perfetta verginità che si sente sicura della sua forza al punto di non temere violazione, di non temere ira di sposo deluso, di non temere debolezza di senso, di non temere paura di minacce, di non temere delusione di speranze, di non temere paura e quasi certezza di martirio.
         Alzati e sorridi al tuo Sposo vero, casta vergine di Cristo che vai incontro all’uomo guardando a Dio, che ci vai per portare l’uomo a Dio! Dio ti guarda e sorride e ti sorride la Madre che fu Vergine e gli angeli ti fanno corona. Alzati e vieni a dissetarti alla Fonte immacolata prima di andare alla tua croce, alla tua gloria.
         Vieni, sposa di Cristo. Ripeti a Lui il tuo canto d’amore sotto queste volte che ti sono più care della cuna della tua nascita al mondo, e portalo teco sino al momento che l’anima lo canterà nel Cielo mentre il corpo poserà nell’ultimo sonno fra le braccia di questa tua vera Madre: l’apostolica Chiesa».
         Finita l’omelia del Pontefice, vi è un poco di brusio, perché i cristiani sussurrano guardando e accennando la schiera delle vergini. Si fa silenzio e poi vengono fatti uscire i catecumeni e la Messa prosegue. Non c’è il Credo. Almeno io non lo sento dire. Dei diaconi passano fra i fedeli raccogliendo offerte, mentre altri diaconi cantano con la loro voce virile alternando le strofe di un inno alle voci bianche delle vergini. Volute di incenso salgono verso la volta della sala mentre il Pontefice prega all’altare e i diaconi sollevano sulle palme le offerte raccolte in vassoi preziosi e in anfore pure preziose.
        La Messa prosegue ora così come è adesso. Dopo il dialogo che precede il Prefazio, e il Prefazio cantato dai fedeli, si fa un grande silenzio in cui si odono solo le aspirazioni e i sibili del celebrante che prega curvo sull’altare e che poi si solleva e a voce più distinta dice le parole della Consacrazione.
        Bellissimo il Pater intonato da tutti. Quando si inizia la distribuzione delle Specie i diaconi cantano. Vengono comunicate le vergini per prime. Poi cantano esse il canto udito per la sepoltura di Agnese (Ap 14,1): “Vidi supra montem Sion Agnum stantem…”. Il cantico dura sinché dura la distribuzione delle Specie alternandosi al salmo: “Come il cervo sospira alle acque, così l’anima mia anela Te mio Dio” (Sl 42).
         La Messa ha termine. I cristiani si affollano intorno al Pontefice per esserne benedetti anche singolarmente e per accomiatarsi dalla vergine a cui si è rivolto il Pontefice. Questi saluti avvengono però in una sala vicina, una anticamera, direi, della chiesa vera e propria. E avvengono quando la vergine, dopo una preghiera più lunga di tutte degli altri presenti, si alza dal suo posto, si prostra ai piedi dell’altare e ne bacia il bordo. Pare proprio un cervo che non sappia staccarsi dalla sua fonte d’acqua pura.
         Sento che la chiamano: “Cecilia, Cecilia” e la vedo, finalmente, in viso, perché ora è ritta presso il Pontefice e si è un poco sollevato il velo. È bellissima e giovanissima. Alta, formosa con grazia, molto signorile nel tratto, con una bella voce e un sorriso e uno sguardo d’angelo. Dei cristiani la salutano con lacrime, altri con sorrisi. Alcuni le dicono come mai si è potuta decidere a nozze terrene, altri se non teme l’ira del patrizio quando la scoprirà cristiana.
         Una vergine si rammarica che ella rinunci alla verginità. Risponde Cecilia a lei per rispondere a tutti: “Ti sbagli, Balbina. Io non rinuncio a nessuna verginità. A Dio ho sacrato il mio corpo come il mio cuore e a Lui resto fedele. Amo Dio più dei parenti. Ma li amo ancora tanto da non volerli portare a morte prima che Dio li chiami. Amo Gesù, Sposo eterno, più d’ogni uomo. Ma amo gli uomini tanto da ricorrere a questo mezzo per non perdere l’anima di Valeriano. Egli mi ama, ed io castamente lo amo, perfettamente lo amo, tanto da volerlo avere meco nella Luce e nella Verità. Non temo le sue ire. Spero nel Signore per vincere. Spero in Gesù, per cristianizzare lo sposo terreno. Ma se non vincerò in questo, e martirio mi verrà dato, vincerò più presto la mia corona. Ma no!… Io vedo tre corone scendere dal Cielo: due uguali e una fatta di tre ordini di gemme. Le due uguali sono tutte rosse di rubini. La terza è di due fasce di rubini intorno e un grande cordone di perle purissime. Esse ci attendono. Non temete per me. La potenza del Signore mi difenderà. In questa chiesa ci troveremo presto uniti per salutare dei nuovi fratelli. Addio. In Dio”.
        Escono dalle catacombe. Si avvolgono tutti in mantelli scuri e sgattaiolano per le vie ancora semioscure perché l’alba è appena appena al suo inizio.
        Seguo Cecilia che va insieme a un diacono e a delle vergini. Alla porta di un vasto fabbricato si lasciano. Cecilia entra con due vergini sole. Forse due ancelle. Il portinaio però deve essere cristiano perché saluta così: “Pace a te!”.
        Cecilia si ritira nelle sue stanze e insieme alle due prega e poi si fa preparare per le nozze. La pettinano molto bene. Le infilano una finissima veste di lana candidissima, ornata di una greca in ricamo bianco su bianco. Sembra ricamata in argento e perle. Le mettono monili alle orecchie, alle dita, al collo, ai polsi.
        La casa si anima. Entrano matrone e altre ancelle. Un via vai festoso e continuo.
        Poi assisto a quello che credo sia lo sposalizio pagano. Ossia, l’arrivo dello sposo fra musiche e invitati e delle cerimonie di saluti e aspersions e simili storie, e poi la partenza in lettiga verso la casa dello sposo tutta parata a festa. Noto che Cecilia passa sotto archi di bende di lana bianca e di rami che mi paiono mirto e si ferma davanti al larario, credo, dove vi sono nuove cerimonie di aspersioni e di formule. Vedo a odo i due darsi la mano e dire la frase rituale: “Dove tu, Caio, io Caia”.
        Vi è tanta di quella gente e su per giù tutta in vesti uguali: toghe, toghe e toghe, che non capisco quale sia il sacerdote del rito e se c’è. Mi pare di avere il capogiro.
        Poi Cecilia, tenuta per mano dallo sposo, fa il giro dell’atrio (non so se dico bene), insomma della sala a nicchie e colonne dove è il larario, e saluta le statue degli antenati di Valeriano, credo. E poscia passa sotto nuovi archi di mirto ed entra nella vera casa. Sulla soglia le offrono doni e, fra l’altro, una rocca e un fuso. Gliela offre una vecchia matrona. Non so chi sia.
         La festa si inizia col solito banchetto romano e dura fra canti e danze. La sala è ricchissima come tutta la casa. Vi è un cortile – credo si chiami impluvio, ma non ricordo bene i nomi della edilizia romana né so se li applico giusti – che è un gioiello di fontane, statue e aiuole. Il triclinio è fra questo e il giardino folto e fiorito che è oltre la casa. Fra i cespugli, statue di marmo e fontane bellissime.
         Mi sembra passi molto tempo perché la sera scende. (…)
         Cecilia sorride allo sposo che le parla e la guarda con amore. Ma pare un poco svagata. Valeriano le chiede se è stanca e, forse per farle cosa gradita, si alza per licenziare gli ospiti.
        Cecilia si ritira nelle sue nuove stanze. Le sue ancelle cristiane sono con lei. Pregano e, per avere una croce, Cecilia bagna un dito in una coppa che deve servire alla toletta e segna una leggera croce scura sul marmo di una parete. Le ancelle la svestono del ricco abito mettendole una semplice veste di lana, le sciolgono i capelli levandone le forcine preziose e glie li annodano in due trecce. Senza gioielli, senza riccioli, così, con le trecce sulle spalle, Cecilia pare una giovinetta, mentre giudico abbia dai 18 ai 20 anni.
        Un’ultima preghiera e un cenno alle ancelle, che escono per tornare con altre più anziane, certo della casa di Valeriano. In corteo vanno ad una magnifica camera e le più vecchie accompagnano Cecilia al letto che è poco dissimile dai divani alla turca di ora, soltanto la base è di avorio intarsiato e colonne di avorio sono ai quattro lati, sorreggenti un baldacchino di porpora. Anche il letto è coperto di ricchissime stoffe di porpora. La lasciano sola.
        Entra Valeriano e va a mani tese verso Cecilia. Si vede che l’ama molto. Cecilia sorride al suo sorriso. Ma non va verso lui. Resta in piedi al centro della stanza, perché, non appena uscite le vecchie ancelle che l’avevano adagiata sul letto, ella si è rialzata.
        Valeriano se ne stupisce. Crede non l’abbiano servita a dovere ed è già iracondo verso le ancelle. Ma Cecilia lo placa dicendo che fu lei a volerlo attendere in piedi.
         “Vieni, allora, Cecilia mia” dice Valeriano cercando di abbracciarla. “Vieni, ché io ti amo tanto”.
         “Io pure. Ma non mi toccare. Non mi offendere con carezze umane”. “Ma Cecilia!… Sei mia sposa”. “Son di Dio, Valeriano. Son cristiana. Ti amo, ma con l’anima in Cielo. Tu non hai sposato una donna, ma una figlia di Dio cui gli angeli servono. E l’angelo di Dio sta meco a difesa. Non offendere la celeste creatura con atti di triviale amore. Ne avresti castigo”.
        Valeriano è trasecolato. Dapprima lo stupore lo paralizza, ma poi l’ira d’esser beffato lo soverchia ed egli si agita e urla. È un violento, deluso sul più bello. “Tu mi hai tradito! Tu ti sei fatta giuoco di me. Non credo. Non posso, non voglio credere che tu sei cristiana. Sei troppo buona, bella e intelligente per appartenere a questa sozza congrega. Ma no!… È uno scherzo. Tu vuoi giocare come una bambina. È la tua festa. Ma lo scherzo è troppo atroce. Basta. Vieni a me”
        “Sono cristiana. Non scherzo. Mi glorio d’esserlo perché esserlo vuol dire esser grandi in terra e oltre. Ti amo, Valeriano. Ti amo tanto che sono venuta a te per portarti a Dio, per averti con me in Dio”.
         “Maledizione a te, pazza e spergiura! Perché mi hai tradito? Non temi la mia vendetta?…”
         “No, perché so che sei nobile e buono e mi ami. No, perché so che non osi condannare senza prova di colpa. Io non ho colpa…”.
         “Tu menti dicendo di angeli e dèi. Come posso credere a questo? Dovrei vedere e se vedessi… se vedessi ti rispetterei come angelo. Ma per ora sei la mia sposa. Non vedo nulla. Vedo te sola”.
         “Valeriano, puoi credere che io menta? Lo puoi credere, proprio tu che mi conosci? Sono dei vili, Valeriano, le menzogne. Credi a quanto ti dico. Se tu vuoi vedere l’angelo mio, credi in me e lo vedrai. Credi a chi ti ama. Guarda: sono sola con te. Tu potresti uccidermi. Non ho paura. Sono in tua balìa. Mi potresti denunciare al Prefetto. Non ho paura. L’angelo mi ripara delle sue ali. Oh! se tu lo vedessi!…”
         “Come potrei vederlo?”
        “Credendo in ciò che io credo. Guarda: sul mio cuore è un piccolo rotolo. Sai cosa è? È la Parola del mio Dio. Dio non mente, e Dio ha detto di non avere paura, noi che crediamo in Lui, ché aspidi e scorpioni saranno senza veleno per il nostro piede (Mc 16,17-18)”.
         “Ma pure voi morite a migliaia nelle arene…”
         “No. Non moriamo. Viviamo eterni. L’Olimpo non è. Il Paradiso è. In esso non sono gli dèi bugiardi e dalle passioni brutali. Ma solo angeli e santi nella luce e nelle armonie celesti. Io le sento… Io le vedo… O Luce! O Voce! O Paradiso! Scendi! Scendi! Vieni a far tuo questo tuo figlio, questo mio sposo. La tua corona, prima a lui che a me. A me il dolore d’esser senza il suo affetto, ma la gioia di vederlo amato da Te, in Te, prima del mio venire. O gioioso Cielo! O eterne nozze! Valeriano, saremo uniti davanti a Dio, vergini sposi, felici di un amore perfetto…” Cecilia è estatica.
        Valeriano la guarda ammirato, commosso. “Come potrei… come potrei avere ciò? Io sono il patrizio romano. Sino a ieri gozzovigliai e fui crudele. Come posso esser come te, angelo?”
         “Il mio Signore è venuto per dare vita ai morti. Alle anime morte. Rinasci in Lui e sarai simile a me. Leggeremo insieme la sua Parola e la tua sposa sarà felice d’esserti maestra. E poi ti condurrò meco dal Pontefice santo. Egli ti darà la completa luce e la grazia. Come cieco a cui si aprono le pupille tu vedrai. Oh! vieni, Valeriano, e odi la Parola eterna che mi canta in cuore”.
         E Cecilia prende per mano lo sposo, ora tutto umile e calmo come un bambino, e si siede presso a lui su due ampi sedili e legge il I capitolo del Vangelo di S. Giovanni sino al v. 14, poi il cap. 3° nell’episodio di Nicodemo.
         La voce di Cecilia è come musica d’arpa nel leggere quelle pagine e Valeriano le ascolta prima stando seduto col capo appuntellato alle mani, posando i gomiti sui ginocchi, ancora un poco sospettoso e incredulo, poi appoggia il capo sulla spalla della sposa e a occhi chiusi ascolta attentamente e, quando lei smette, supplica: “Ancora, ancora”. Cecilia legge brani di Matteo e Luca, tutti atti a persuadere sempre più lo sposo, e termina tornando a Giovanni del quale legge dalla lavanda in poi Gv. 13.
         Valeriano ora piange. Le lacrime cadono senza sussulti dalle sue palpebre chiuse. Cecilia le vede e sorride, ma non mostra notarle. Letto l’episodio di Tommaso incredulo Gv.20,24-29, ella tace…
         E restano così, assorti l’una in Dio, l’altro in se stesso, sinché Valeriano grida: “Credo. Credo, Cecilia. Solo un Dio vero può aver detto quelle parole e amato in quel modo. Portami dal tuo Pontefice. Voglio amare ciò che tu ami. Voglio ciò che tu vuoi. Non temere più di me, Cecilia. Saremo come tu vuoi: sposi in Dio e qui fratelli. Andiamo, ché non voglio tardare a vedere ciò che tu vedi: l’angelo del tuo candore “.
        E Cecilia raggiante si alza, apre la finestra, scosta le tende perché la luce del nuovo giorno entri, e si segna dicendo il Pater noster: adagio, adagio perché lo sposo possa seguirla, e poi con la sua mano lo segna in fronte e sul cuore e per ultimo gli prende la mano e glie la porta alla fronte, al petto, alle spalle nel segno di croce, e poi esce tenendo lo sposo sempre per mano, guidandolo verso la Luce.
         Non vedo altro.

         Ma Gesù mi dice:
        «Quanto avete da imparare dall’episodio di Cecilia! È un vangelo della Fede. Perché la fede di Cecilia era ancor più grande di quella di tante altre vergini.
        Considerate. Ella va alle nozze fidando in Me che ho detto: “Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a un monte: ritirati, ed esso si sposterà”(Mt 17,20). Vi va sicura del triplo miracolo di esser preservata da ogni violenza, di esser apostola dello sposo pagano, di esser immune per il momento, e da parte di lui, da ogni denuncia. Sicura nella sua fede, ella fa un passo rischioso, agli occhi di tutti, non ai suoi, perché i suoi fissi in Me vedono il mio sorriso. E la sua fede ha ciò che ha sperato.
         Come va al cimento? Corroborata di Me. Si alza da un altare per andare alla prova. Non da un letto. Non parla con uomini. Parla con Dio. Non si appoggia altro che a Me.
         Ella lo amava santamente Valeriano, lo amava oltre la carne. Angelica sposa, vuole continuare ad amare così il consorte per tutta la vera Vita. Non si limita a farlo felice qui. Vuole farlo felice in eterno. Non è egoista. Dà a lui ciò che è il suo bene: la conoscenza di Dio. Affronta il pericolo pur di salvarlo. Come madre, ella non cura pericoli pur di dare alla Vita un’altra creatura.
         La vera Religione non è mai sterile. Dà ardori di paternità e maternità spirituali che empiono i secoli di calori santi. Quanti coloro che in questi venti secoli hanno effuso se stessi, facendosi eunuchi volontari pur di esser liberi di amare non pochi, ma tanti, ma tutti gli infelici!
        Guardate quante vergini fanno da madri agli orfani, quanti vergini da padri ai derelitti. Guardate quanti generosi senza tonaca o divisa fanno olocausto della loro vita per portare a Dio la miseria più grande: le anime che si sono perdute e impazzano nella disperazione e nella solitudine spirituale. Guardate. Voi non li conoscete. Ma Io li conosco uno per uno e li vedo come diletti del Padre.
        Cecilia vi insegna anche una cosa. Che per meritare di vedere Iddio bisogna esser puri. Lo insegna a Valeriano e a voi. Io l’ho detto: “Beati i puri perché vedranno Dio” (Mt 5,8).
         Esser puri non vuol dire esser vergini. Vi sono vergini che sono impuri, e padri e madri che sono puri. La verginità è l’inviolatezza fisica e, dovrebbe essere, spirituale. La purezza è la castità che dura nelle contingenze della vita. In tutte. È puro colui che non pratica e seconda la libidine e gli appetiti della carne. È puro colui che non trova diletto in pensieri e discorsi o spettacoli licenziosi. È puro colui che, convinto della onnipresenza di Dio, si comporta sempre, sia che sia con sé solo che con altri, come fosse in mezzo ad un pubblico.
        Dite: fareste in mezzo ad una piazza ciò che vi permettete di fare nella vostra stanza? Direste ad altri, coi quali volete rimanere in alto concetto, ciò che ruminate dentro? No. Perché su una via incorrereste nelle pene degli uomini e presso gli uomini nel loro disprezzo. E perché allora fate diversamente con Dio? Non vi vergognate di apparire a Lui quali porci, mentre vi vergognate di apparire tali agli occhi degli uomini?
        Valeriano vide l’angelo di Cecilia e ebbe il suo e portò a Dio Tiburzio. Lo vide dopo che la Grazia lo rese degno, e la volontà insieme, di vedere l’angelo di Dio. Eppure Valeriano non era vergine. Non era vergine. Ma quale merito sapersi strappare, per un amore soprannaturale, ogni abitudine inveterata di pagano! Grande merito in Cecilia che seppe tenere l’affetto per lo sposo in sfere tutte spirituali, con una verginità doppiamente eroica; grande merito in Valeriano di saper volere rinascere alla purezza dell’infanzia, per venire con bianca stola nel mio Cielo.
         I puri di cuore! Aiuola profumata e fiorita su cui trasvolano gli angeli. I forti nella fede. Rocca su cui si alza e splende la mia Croce. Rocca di cui ogni pietra è un cuore cementato all’altro nella comune Fede che li lega.
        Nulla Io nego a chi sa credere e vincere la carne e le tentazioni. Come a Cecilia, Io do vittoria a chi crede ed è puro di corpo e di pensiero.
        Il Pontefice Urbano ha parlato sulla riverginizzazione delle anime attraverso la rinascita e la permanenza in Me. Sappiatela raggiungere. Non basta esser battezzati per essere vivi in Me. Bisogna sapervi rimanere.
        Lotta assidua contro il demonio e la carne. Ma non siete soli a combatterla. L’angelo vostro ed Io stesso siamo con voi. E la terra si avvierebbe verso la vera pace quando i primi a far pace fossero i cuori con se stessi e con Dio, con se stessi e i fratelli, non più essendo arsi da ciò che è male e che a sempre maggior male spinge. Come valanga che si inizia da un nulla e diviene massa immane.
         Tanto dovrei dire ai coniugi. Ma a che pro? Già ho detto. Né si volle capire. Nel mondo decaduto non soltanto la verginità pare manìa ma la castità nel coniugio, la continenza, che fa dell’uomo un Uomo e non una bestia, non è più riputata che debolezza e menomazione.
        Siete impuri e trasudate impurità. Non date nomi ai vostri mali morali. Ne hanno tre, i sempre antichi e sempre nuovi: orgoglio, cupidigia e sensualità. Ma ora avete raggiunto la perfezione in queste tre belve che vi sbranano e che andate cercando con pazza bramosia.
        Per i migliori ho dato questo episodio, per gli altri è inutile perché alla loro anima sporca di corruzione non fa che muovere solletico di riso. Ma voi buoni state fedeli. Cantate con cuore puro la vostra fede a Dio. E Dio vi consolerà dandosi a voi come Io ho detto. Ai buoni fra i migliori darò la conoscenza completa della conversione di Valeriano per il merito di una vergine pura e fedele».

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Santa Cecilia

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2011

Santa Cecilia dans Henry Perroy 22-novembre-Santa-Cecilia

Un giorno a Roma, c’era un grande matrimonio. La figlia di un ricco cittadino romano sposava un ricco abitante della città, chiamato Valeriano. I suoi genitori l’avevano costretta a questo matrimonio. Cecilia aveva detto si per obbedienza. Ma quando fu sposata, disse a suo marito: “Valeriano, io ho un Angelo presso di me che mi protegge; rispettalo”. Valeriano le rispose: « Mi farò cristiano se vedrò il tuo Angelo”. “Non puoi vederlo se non sei battezzato”. Allora Valeriano rispose: “Voglio il Battesimo”. “Va a cercare Urbano. Questi si nasconde perché lo cercano per ucciderlo. E’ nel tal luogo”.
Valeriano andò a trovare Urbano che lo battezzò, di ritorno vide Cecilia in preghiera. Presso di lei, sfolgorante, c’è il suo Angelo.
Incantato, corse da suo fratello Tiburzio per raccontargli ciò che aveva visto.
Tiburzio lo seguì, si presentò a Cecilia, che lo istruì e lo fece battezzare. Anche lui vide l’Angelo… Qualche tempo dopo i due fratelli erano martirizzati e Cecilia rimase vedova.
Il giudice la fece chiamare e le chiese: “Dove sono tutti i beni di tuo marito?”. “Ho dato tutto ai poveri”. Furente, il giudice ordinò di farla venire presso di sé, di chiuderla nella sala delle terme e di aprire tutte le tubature del vapore per farla morire. Cecilia rivestì i suoi abiti migliori ed entrò nel locale delle terme. Due giorni dopo si aprì la porta, Cecilia era piena di vita. Il giudice ordinò di troncarle la testa. Tre colpi di scure. Impossibile staccarle il capo. Cecilia visse ancora tre giorni. Si scoperse la sua tomba nel 1599, la si trovò intatta con le sue belle vesti e un delizioso velo sul capo.
Non dimenticare che tu, come Cecilia, hai presso di te un Angelo. Non fare nulla che possa rattristarlo.

PROPOSITO: Oggi penserò spesso che ho l’Angelo accanto a me.

di Henry Perroy

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