Un nome che si riallacci a quello di Gesù
Posté par atempodiblog le 17 novembre 2024
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Posté par atempodiblog le 30 juillet 2022
La devozione mariana in sant’Ignazio
Quando si pensa a sant’Ignazio di Loyola, la memoria corre subito ai suoi Esercizi spirituali. Poca, invece, è la fama della sua devozione alla Vergine Maria. Eppure, di “tracce mariane”, ne troviamo non poche: come nella vita, così anche nei suoi scritti.
di Antonio Tarallo – La nuova Bussola Quotidiana
Quando si pensa a Sant’Ignazio di Loyola, la memoria corre subito ai suoi Esercizi spirituali, fonte inesauribile per la meditazione, testo-simbolo della sua avventura terrena. E il termine “avventura” è davvero quello che meglio si addice alla sua biografia: Ignazio, il condottiero spagnolo, che troverà- poi – in Dio l’unico vero duce non solo delle sue battaglie, ma dell’intera sua esistenza. Coraggioso e dal fine intelletto, il fondatore dei Gesuiti – del quale domani ricorre la memoria liturgica – rappresenta uno dei più famosi santi che la Chiesa annovera. Tanti libri su di lui sono stati scritti; tante pagine raccontano di come il militare degli uomini sia diventato uno dei più importanti “militi del Signore”.
Poca, invece, è la fama della sua devozione alla Vergine Maria. Eppure di “tracce mariane”, ne troviamo non poche: come nella vita, così anche nei suoi scritti. Infatti, l’espressione con riferimento a Maria che più frequentemente appare negli Esercizi Spirituali è Madre y Señora nuestra (Madre e Signora nostra): espressione ricca di contenuto teologico e, al contempo, di grande carica emotiva, di “filiale affetto” si potrebbe dire.
E Ignazio provava una devozione del tutto particolare per la Mamma Celeste, per la Signora: proprio a Lei si sentirà legato fin da quella famosa battaglia di Pamplona che gli cambierà la vita, definitivamente. Era il 1521. All’epoca il fondatore gesuita non si chiamava ancora Ignazio ma Iñigo, e non aveva ancora trent’anni. Durante la battaglia fu colpito duramente alla gamba, ma ciò non lo ferì comunque mortalmente. Inizia per lui il periodo della convalescenza, lungo e tortuoso. Nasce così la sua passione per due letture che gli cambieranno l’esistenza: Vita Christi del certosino Ludolfo di Sassonia e Le vite dei santi di Jacopo da Varagine, vescovo di Genova e frate domenicano. E proprio di questo periodo, nella sua Autobiografia, troviamo un racconto in cui la Vergine è protagonista: Sant’Ignazio “vide chiaramente un’immagine di nostra Signora con il santo bambino Gesù [e] poté contemplarla a lungo provandone grandissima consolazione”. Questa visione ebbe come effetto una profonda “trasformazione che si era compiuta dentro la sua anima”. Dopo lunghi mesi di lettura e studio, avverrà, poi, il pellegrinaggio al benedettino monastero “de Montserrat”: qui, l’incontro con la Vergine, o meglio, con la “Moreneta”, una scultura di legno (XIII secolo) che raffigura la Vergine. Si narra che proprio di fronte a questa effige, Iñigo deporrà la spada di guerra per imbracciare il Crocifisso dell’Amore. Il passato si chiude per aprirgli la porta di un nuovo cammino: quello verso Dio, verso la carità, verso il Paradiso. La Vergine lo aveva ormai attratto a sé, e Iñigo diventerà Ignazio.
La presenza della Madre di Dio sarà una costante nella sua vita perché anche a Roma, città fondamentale per il cammino personale di Ignazio e di quello della Compagnia da lui fondata, incontra un’altra immagine che rimarrà scolpita nel suo cuore: è la Madonna della Strada che si trovava nella chiesa che all’epoca aveva nome Santa Maria degli Astalli per poi prendere il nome, appunto, di Madonna della Strada.
Annus Domini 1641. Sul soglio di Pietro regna Papa Paolo III, lo stesso pontefice che l’anno prima aveva approvato la Compagnia di Gesù; il Santo Padre consegna la chiesa, abbattuta e ricostruita nel 1569, a Sant’Ignazio di Loyola. Davanti a questa miracolosa immagine si narra – tra l’altro – che furono molti i santi che si fermarono in preghiera: da Pierre Favre a Carlo Borromeo, fino a giungere a Filippo Neri. Ma qual è la storia di questo affresco così delicato, tenero e dolce? La sua storia si intreccia con quella del guerriero di Dio, Ignazio: infatti, quel dipinto, era stato sempre lì, precedentemente alla sua venuta a Roma; infatti, l’effige della Madonna col Bambino in braccio, si trovava in angolo della chiesa di Santa Maria della Strada; e il santo spagnolo si era imbattuto nell’affresco in occasione del suo primo viaggio nella Città Eterna, nel 1540. Il dato più lontano nel tempo riguardante l’edificio sacro al cui interno era stata affrescata l’immagine della Madonna della Strada risale al 1192, anno in cui compare la prima indicazione di una chiesa dal nome Santa Maria de Astariis, appellativo che ritorna anche in un catalogo di chiese romane redatto intorno al 1230; mentre in un codice del 1320 – conservato presso la Biblioteca Nazionale di Torino – si legge che questa chiesetta era retta da un solo sacerdote e al suo interno si facevano seppellire i membri della famiglia romana degli Astalli. Nei documenti successivi, invece, il nome dell’edificio sacro muta in “Santa Maria de scinda” e in “Santa Maria de stara”, per poi mutarsi nuovamente in “Santa Maria della Strada”. È comunque importante specificare che la superficie dove sorgeva questa chiesa occupava una piccola parte dell’area circoscritta da quelle vie che sono le attuali via degli Astalli, via del Plebiscito e piazza del Gesù. Ciò che vediamo oggi, lo dobbiamo alla decisione del cardinale Alessandro Farnese di costruire – nel 1568 – la Chiesa del Gesù. E solo nel 1575, l’affresco venne posto nella cappella della nuova chiesa dove i Gesuiti prendevano i voti.
Chi entra, oggi, nella Chiesa del Gesù, non può non rimanerne colpito da questa immagine della Madonna della Strada: rimane affascinato dalla sua grazia, dalla sua bellezza misteriosa. La Vergine è rappresentata a mezzo busto, con in braccio sinistro il Bambino; la mano destra, invece, è aperta, rivolta ai fedeli. Ha il capo coronato circondato dal nimbo; lo sguardo frontale; e tutta la figura è avvolta da un manto color oro. Anche il Bambino ha una luminosa aureola, e presenta la postura del Pantocratore; ha lo sguardo frontale che infonde al fedele una serenità austera; con la sinistra tiene un libro e alza la destra nel gesto della benedizione. Nell’insieme, l’effige mariana sembra evocare la tipologia della Madre mediatrice di Grazia; e, inoltre, con il suo sguardo che penetra nel cuore di ogni fedele, sembra davvero che inviti alla fiducia nel Figlio.
La storia di questa immagine ha visto una tappa fondamentale nel 2006, quando è stata sottoposta a un restauro che ne ha mostrato un nuovo volto, del tutto inedito: infatti, l’immagine si è rivelata di oltre due secoli più antica di quello che si pensava. Il lavoro di restauro ha dissolto secoli di sporcizia, depositi minerali, vernice e sopraverniciatura dalla superficie dell’immagine; e, così, i colori brillanti hanno iniziato a farsi strada, tanto da dare alla luce una nuova Madonna della Strada. Gli esperti che hanno supervisionato il lavoro di restauro, alla fine, hanno concordato sul fatto di datare l’opera al XIII o al XIV secolo.
La Madonna della Strada, nulla di più attuale. Proprio oggi che molti sembrano aver smarrito la via, guardare a questa effige vuol dire non solo entrare nella spiritualità ignaziana, ma anche chiedere alla Vergine la giusta direzione. Ignazio di Loyola, a distanza di secoli, grazie ai suoi scritti, alla sua testimonianza, sembra quasi offrirci il “google map” per trovare l’Infinito di Dio. E le parole della preghiera dedicata alla Madonna della Strada, ci offrono la possibilità di revisionare anche noi il nostro cammino e di guardare al Cielo, così come fece quel guerriero di Dio dal nome Ignazio di Loyola:
“O Maria, Madonna della Strada, accompagnaci sulle vie del mondo tu che hai camminato: sui monti della Giudea, portando, sollecita, Gesù e la sua gioia; sulla strada da Nazareth a Betlemme dove è nato Gesù, il nostro Redentore; sul cammino dell’esilio per proteggere il Figlio dell’Altissimo; sulla via del Calvario per ricevere la maternità della Chiesa. Continua, ti preghiamo, a camminare accanto a tutti noi sulle strade del mondo affinché possiamo vivere e testimoniare il Vangelo di salvezza. Proteggi in particolare quanti hanno la strada come luogo di lavoro, d’impegno, di viaggio e di pellegrinaggio, e che sono alla ricerca dei beni più grandi per una vita degna e benedetta”.
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Posté par atempodiblog le 15 janvier 2015
«Un’aberrazione uccidere in nome di Dio. Ma le religioni non vanno insultate»
Gli attentati di Parigi, la libertà religiosa e la libertà di espressione, la responsabilità: sul volo dallo Sri Lanka alle Filippine Papa Francesco spiega: «Non si può reagire violentemente, ma se uno dice una parolaccia contro mia mamma, gli aspetta un pugno. Benedetto XVI aveva parlato di questa mentalità positivista che considera le religioni come sottoculture».
di Andrea Tornielli inviato sul volo Colombo-Manila - Vatican Insider
Gli attentati di Parigi, la libertà di espressione, la responsabilità: sul volo dallo Sri Lanka alle Filippine Papa Francesco ha risposto alla domanda di un giornalista francese sul dibattito che si è innescato dopo il crudele massacro dei vignettisti di Charlie Hebdo. Papa Bergoglio ha spiegato che «non si può reagire violentemente», anzi, che è «un’aberrazione uccidere in nome di Dio», ma per quanto riguarda la libertà di espressione «c’è un limite», lasciando intendere, con l’esempio dell’offesa alla mamma, che toccando ciò che le persone hanno di più caro a volte possono scattare reazioni inconsulte.
In Sri Lanka ha ricordato che la libertà religiosa è un diritto umano fondamentale, nel rispetto delle diverse religioni. Ma fino a che punto si può arrivare con la libertà di espressione, che è anche un diritto umano fondamentale?
«Grazie della domanda, intelligente! Credo che tutti e due siano diritti umani fondamentali, la libertà religiosa e la libertà di espressione. Parliamo chiaro, andiamo a Parigi! Non si può nascondere una verità: ognuno ha il diritto di praticare la propria religione senza offendere, liberamente e così vogliamo fare tutti. Secondo: non si può offendere o fare la guerra, uccidere in nome della propria religione, in nome di Dio. A noi ciò che succede adesso ci stupisce, ma pensiamo alla nostra storia, quante guerre di religione abbiamo avuto! Pensiamo alla notte di San Bartolomeo! (Il riferimento è alla strage degli ugonotti, uccisi dai cattolici, ndr). Come si capisce, anche noi siamo stati peccatori su questo, ma non si può uccidere in nome di Dio, questa è una aberrazione. Si deve fare con libertà senza offendere.
Sulla libertà di espressione: ognuno ha non solo la libertà e il diritto ma anche l’obbligo di dire ciò che pensa per aiutare il bene comune. Se un deputato non dice quella che pensa sia la vera strada da percorrere, non collabora al bene comune. Avere dunque questa libertà, ma senza offendere, perché è vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro mia mamma, gli spetta un pugno. Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri. Papa Benedetto in un discorso (la lectio di Ratisbona, nel 2006, ndr) aveva parlato di questa mentalità post-positivista, della metafisica post-positivista, che portava a credere che le religioni o le espressioni religiose sono un sorta di sottoculture, tollerate, ma sono poca cosa, non fanno parte della cultura illuminista. E questa è un’eredità dell’illuminismo. Tanta gente che sparla, prende in giro, si prende gioco della religione degli altri. Questi provocano e può accadere quello che accadrebbe al dottor Gasbarri se dicesse qualcosa contro mia mamma. C’è un limite, ogni religione ha dignità, ogni religione che rispetti la vita umana, la persona umana, io non posso prenderla in giro. Ho preso questo esempio del limite per dire che nella libertà di espressione ci sono limiti, come (nell’esempio) della mia mamma».
Nel mondo c’è molta preoccupazione per la sua incolumità. Secondo alcuni servizi segreti il Vaticano sarebbe nel mirino dei terroristi islamici. C’è timore anche per i suoi viaggi all’estero. Sappiamo che non vuole rinunciare al contatto diretto con la gente ma ora cambierà i suoi comportamenti? È preoccupato per la sicurezza dei fedeli che partecipano alle sue celebrazioni? Cosa fare per rispondere alle minacce? E, più in generale, come rispondere alle minacce terroristiche?
«Sempre il miglior modo per rispondere (alle minacce, ndr) è la mitezza, essere mite, umile, come il pane, senza fare aggressioni. A me preoccupano i fedeli, davvero, e su questo ho parlato con la sicurezza vaticana: qui sul volo c’è il dottor Giani (il capo della Gendarmeria vaticana, ndr), incaricato di questo, lui è aggiornato. Questo a me preoccupa abbastanza. Ma lei sa che io ho un difetto, una bella dose di incoscienza. Alcune volte mi sono chiesto: ma se accadesse a me? Ho soltanto chiesto al Signore la grazia che non mi faccia male perché non sono coraggioso davanti al dolore, sono molto timoroso».
Abbiamo assistito in queste ultime settimane ad attentati suicidi che hanno utilizzato dei bambini. Cosa pensa di questo modo di fare la guerra?
«Forse è una mancanza di rispetto, ma mi viene da dire che dietro ogni attentato suicida c’è un elemento di squilibrio umano, non so se mentale, ma umano. Qualcosa che non va nella persona, quella persona ha uno squilibrio nella sua vita. Dà la vita ma non la dà bene. C’è tanta gente che lavora, come per esempio i missionari: danno la vita, ma per costruire. Il kamikaze invece dà la vita per distruggere. C’è qualcosa che non va. Io ho seguito la tesi di licenza di un pilota dell’Alitalia che l’ha fatta sui kamikaze giapponesi. Correggevo la parte metodologica, ma non si capisce fino in fondo il fenomeno, che non è soltanto dell’Oriente, ed è collegata ai sistemi totalitari, dittatoriali, che uccidono la vita o la possibilità di futuro. Ma, ripeto, non è un fenomeno solo orientale. Per quanto riguarda l’uso dei bambini per gli attentati (il riferimento è alle ragazze kamikaze in Nigeria e al video choc del bambino che uccide una vittima dell’Is, ndr): sono usati dappertutto per tante cose, sfruttati nel lavoro, come schiavi, sfruttati sessualmente. Alcuni anni fa con alcuni membri del senato in Argentina abbiamo voluto fare una campagna negli alberghi più importanti per dire che lì non si sfruttano i bambini per i turisti, ma non ci siamo riusciti… A volte quando ero in Germania, mi sono caduti sotto gli occhi articoli che parlavano delle zone del turismo erotico nel Sud Est asiatico e anche lì si trattava di bambini. I bambini sono sfruttati anche per questo, per gli attentati kamikaze. Di più non oso dire».
Ha idea di come coinvolgere gli altri leader religiosi per combattere l’estremismo? C’è chi propone, per esempio, un altro incontro ad Assisi, come fece Giovanni Paolo II.
«C’è stata la proposta di fare un nuovo incontro ad Assisi con le religioni contro la violenza, so che alcuni stanno lavorando su questo. Ho parlato con il cardinale Tauran e so che questo suscita inquietudine nelle altre religioni».
La sua visita al tempio buddista a Colombo è stata una grande sorpresa. Fino al XX secolo i cristiani dicevano che il buddismo era una truffa e che era la religione del diavolo. Quale sarà il futuro dei rapporti con questa religione?
«Il monaco che guida questo tempio è riuscito a farsi invitare dal governo all’aeroporto, è anche molto amico del cardinale Ranjith e quando mi ha salutato mi ha chiesto di visitare il tempio. Ho parlato col cardinale, non c’era tempo. Quando sono arrivato ho dovuto sospendere l’incontro con i vescovi, perché non stavo bene, ero stanco, dopo i 29 chilometri ero uno straccio. Ieri, dopo essere tornato da Madhu, c’era la possibilità. Ho telefonato e sono andato. Là ci sono le reliquie di due discepoli di Budda, erano in Inghilterra e i monaci sono riusciti a farsele ridare. Lui è venuto all’aeroporto, io sono andato a trovarlo a casa sua. Poi, ieri io ho visto una cosa che mai avrei pensato a Madhu: non c’erano solo cattolici, c’erano buddisti, islamici, induisti e tutti vanno lì a pregare e dicono che ricevono grazie. C’è nel popolo, che mai sbaglia, qualcosa che li unisce e se loro sono così tanto naturalmente uniti da andare insieme a pregare in un tempio che è cristiano ma non solo cristiano… Come potevo io non andare al tempio buddista? Quello che è successo a Madhu è molto importante, c’è il senso di interreligiosità che si vive nello Sri Lanka. Ci sono dei gruppetti fondamentalisti, ma non sono col popolo, sono elìtes teologiche… Una volta si diceva che i buddisti andavano all’inferno? Ma anche i protestanti, quando io ero bambino, andavano all’inferno, così ci insegnavano. E ricordo la prima esperienza che ho avuto di ecumenismo: avevo 4 o 5 anni e andavo per strada con mia nonna, che mi teneva per mano, e sull’altro marciapiede arrivavano due donne dell’Esercito della salvezza, con quel cappello che oggi non portano più e con quel fiocco. Io chiesi: dimmi nonna, quelle sono suore? E lei mi ha risposto: no, sono protestanti, ma sono buone! È stata la prima volta che io ho sentito parlare bene di persone appartenenti alle altre confessioni. La Chiesa è cresciuta tanto nel rispetto delle altre religioni, il Concilio Vaticano II ha parlato del rispetto per i loro valori. Ci sono stati tempi oscuri nella storia della Chiesa, dobbiamo dirlo senza vergogna, perché anche noi siamo in un cammino, questa interreligiosità è una grazia».
In questo viaggio vediamo la bellezza e la vulnerabilità della natura nell’isola di Sri Lanka, e nelle Filippine colpite dal disatro naturale del tifone Yolanda. Da un anno studia l’enciclica sull’ambiente. Tre domande. Il cambiamento climatico è dovuto più all’opera dell’uomo, per mancata cura, o alla forza della natura? La sua enciclica quando uscirà? Intende invitare le altre religioni ad affrontare insieme questo tema della tutela dell’ambiente?
«Non so se del tutto, ma in grande parte è l’uomo che dà schiaffi alla natura ad avere una responsabilità nei cambi climatici. Ci siamo un po’ impadroniti della natura, della madre terra. Un vecchio contadino mi ha detto: Dio perdona sempre, gli uomini qualche volta, la natura mai. L’abbiamo sfruttata troppo. Ricordo che ad Aparacida (alla riunione degli episcopati latinoamericani del 2007, ndr) quando sentivo i vescovi del Brasile parlare di deforestazione dell’Amazzonia, non capivo molto. Poi cinque anni fa con una commissione per i diritti umani, ho fatto un ricorso per fermare nel nord dell’Argentina una deforestazione terribile. Poi c’è la monocultura: i contadini sanno che dopo tre anni coltivando il grano, devi cambiare coltivazione per un anno per rigenerare la terra. Oggi si fa la monocultura della soia fino a che la terra si esaurisce. L’uomo è andato troppo oltre. Grazie a Dio oggi ci sono tanti che parlano di questo, e io vorrei ricordare il mio amato fratello Bartolomeo (il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, ndr) che ha scritto tanto su questo tema e io l’ho letto molto per preparare l’enciclica. Il teologo Romano Guardini parlava di una seconda “incultura”, che accade quando tu ti impadronisci del creato, e così la cultura diventa incultura. La prima bozza della nuova enciclica l’ha preparata il cardinale Turkson con la sua equìpe. Poi ci ho lavorato io e ora ho preparato la terza bozza e questa l’ho inviata alla Congregazione per la dottrina della fede, alla Segreteria di Stato e al teologo della Casa pontificia, perché studiassero che io non dicessi stupidaggini. Adesso mi prenderò tutta una settimana di marzo per finirla. Quindi andrà in traduzione. Penso che se il lavoro va bene, a giugno-luglio potrà uscire. L’importante è che ci sia un po’ di tempo tra l’uscita e il prossimo incontro sul clima di Parigi. L’ultima conferenza del Perù mi ha deluso, speriamo che a Parigi siano un po’ più coraggiosi. Credo che il dialogo con le religioni sia importante anche su questo punto e che ci sia un accordo su un sentire comune. Ho parlato con alcuni esponenti delle altre religioni sul tema e almeno due teologi l’hanno fatto: non sarà comunque una dichiarazione in comune, gli incontri con le religioni arriveranno dopo».
Quale messaggio manda ai filippini che non potranno partecipare direttamente al suo incontro?
«Rischio di semplificare troppo, ma il centro, il nocciolo del messaggio saranno i poveri. I poveri che vogliono andare avanti, i poveri che hanno sofferto il tifone Yolanda e che ancora soffrono le sue conseguenze, i poveri che hanno la fede, la speranza. Il popolo di Dio, i poveri, i poveri sfruttati da quelli che determinano tante ingiustizie sociali, spirituali, esistenziali. L’altro giorno a casa nostra, a Santa Marta, gli etiopi hanno festeggiato e hanno invitato una cinquantina di dipendenti. Io sono stato con loro e guardando i filippini che hanno lasciato la loro patria, papà, mamma e figli per venire qui a lavorare… I poveri. Questo sarà il nocciolo».
Ha chiesto verità e riconciliazione per lo Sri Lanka dopo il conflitto. Appoggerà la commissione per la verità in Sri Lanka e in altri paesi dilaniati dai conflitti interni?
«Non conosco bene come siano le commissioni per la verità in Sri Lanka. Ho conosciuto come era quella dell’Argentina, e l’ho appoggiata perché era su una buona strada. Concretamente non posso dire di più. Ma posso dire che appoggio tutti gli sforzi equilibrati per aiutare a mettersi d’accordo. Ho sentito dire una cosa dal presidente dello Sri Lanka: non vorrei che il mio fosse interpretato come commento politico. Mi ha detto che vuole andare avanti nel lavoro per la pace, la riconciliazione, poi ha continuato con un’altra parola. Ha detto: si deve creare l’armonia nel popolo, che è più della pace e della riconciliazione, l’armonia è anche musicale… Poi ha aggiunto che questa armonia ci darà la felicità e la gioia. Io sono rimasto stupito e ho detto: mi piace sentire questo, ma non è facile! E lui: eh sì, dovremo arrivare al cuore del popolo. Questo mi fa pensare per rispondere: soltanto arrivando al cuore del popolo che sa cosa siano le ingiustizie, le sofferenze inflitte dalle dittature. Soltanto arrivando lì possiamo trovare strade giuste senza compromessi. Le commissioni di indagine sulla verità sono uno degli elementi che possono aiutare, ma ci sono altri elementi per arrivare alla pace, alla riconciliazione, all’armonia, al cuore del popolo. Ho preso a prestito le parole del presidente dello Sri Lanka».
Qual è il significato di questa canonizzazione di Giuseppe Vaz, che ha celebrato in Sri Lanka?
«Queste canonizzazioni sono state fatte con la metodologia che si chiama equipollente: quando da tanto tempo un uomo o una donna sono beati e si ha la venerazione del popolo di Dio e di fatto vengono venerati come santi, non si fa il processo sul miracolo. L’ho fatto per Angela da Foligno, e poi ho scelto di canonizzare persone che sono state grandi evangelizzatori e grandi evangelizzatrici. Il primo è stato Pietro Favre, evangelizzatore dell’Europa, che è morto per strada, evangelizzando. Poi ci sono stati gli evangelizzatori del Canada, fondatori della Chiesa in quel paese. Poi il santo brasiliano fondatore di San Paolo e ora José Vaz, evangelizzatore dell’antica Ceylon. A settembre negli Stati Uniti farò la canonizzazione di Junipero Serra. Sono figure che hanno fatto una forte evangelizzazione e sono in sintonia con la spiritualità dell’Evangelii gaudium».
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Posté par atempodiblog le 3 janvier 2014
Il Papa nella Chiesa del Gesù: il Vangelo si annuncia con dolcezza e amore, non con le bastonate
Tratto da: News.va
Papa Francesco ha presieduto stamani nella Chiesa del Gesù la Messa nel giorno della ricorrenza liturgica del Santissimo Nome di Gesù. La celebrazione ha un carattere di ringraziamento per l’iscrizione al catalogo dei Santi, il 17 dicembre scorso, di Pietro Favre, primo sacerdote gesuita. Sono presenti il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il cardinale vicario Agostino Vallini, il vescovo di Annecy, mons. Yves Boivineau, nella cui diocesi è nato Favre, e circa 350 gesuiti.
Nell’omelia il Papa ha ricordato quanto dice San Paolo: «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2, 5-7). “Noi, gesuiti – ha rilevato – vogliamo essere insigniti del nome di Gesù, militare sotto il vessillo della sua Croce, e questo significa: avere gli stessi sentimenti di Cristo. Significa pensare come Lui, voler bene come Lui, vedere come Lui, camminare come Lui. Significa fare ciò che ha fatto Lui e con i suoi stessi sentimenti, con i sentimenti del suo Cuore”.
“Il cuore di Cristo – ha proseguito – è il cuore di un Dio che, per amore, si è «svuotato». Ognuno di noi, gesuiti, che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso. Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli «svuotati». Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa. E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta. Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Quella santa e bella inquietudine!”.
Il Papa ha quindi proseguito: “Ma, perché peccatori, possiamo chiederci se il nostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca o se invece si è atrofizzato; se il nostro cuore è sempre in tensione: un cuore che non si adagia, non si chiude in se stesso, ma che batte il ritmo di un cammino da compiere insieme a tutto il popolo fedele di Dio. Bisogna cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre. Solo questa inquietudine dà pace al cuore di un gesuita, una inquietudine anche apostolica, non ci deve far stancare di annunciare il kerygma, di evangelizzare con coraggio. È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica. Senza inquietudine siamo sterili”.
“È questa l’inquietudine – ha osservato – che aveva Pietro Favre, uomo di grandi desideri, un altro Daniele. Favre era un «uomo modesto, sensibile, di profonda vita interiore e dotato del dono di stringere rapporti di amicizia con persone di ogni genere» (Benedetto XVI, Discorso ai gesuiti, 22 aprile 2006). Tuttavia, era pure uno spirito inquieto, indeciso, mai soddisfatto. Sotto la guida di sant’Ignazio ha imparato a unire la sua sensibilità irrequieta ma anche dolce e direi squisita, con la capacità di prendere decisioni. Era un uomo di grandi desideri; si è fatto carico dei suoi desideri, li ha riconosciuti. Anzi per Favre, è proprio quando si propongono cose difficili che si manifesta il vero spirito che muove all’azione (cfr Memoriale, 301). Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo. Ecco la domanda che dobbiamo porci: abbiamo anche noi grandi visioni e slancio? Siamo anche noi audaci? Il nostro sogno vola alto? Lo zelo ci divora (cfr Sal 69,10)? Oppure siamo mediocri e ci accontentiamo delle nostre programmazioni apostoliche da laboratorio? Ricordiamolo sempre: la forza della Chiesa non abita in se stessa e nella sua capacità organizzativa, ma si nasconde nelle acque profonde di Dio. E queste acque agitano i nostri desideri e i desideri allargano il cuore. Quello di Sant’Agostino: ‘Pregare per desiderare e desiderare per allargare il cuore’. Proprio nei desideri Favre poteva discernere la voce di Dio. Senza desideri non si va da nessuna parte ed è per questo che bisogna offrire i propri desideri al Signore. Nelle Costituzioni si dice che «si aiuta il prossimo con i desideri presentati a Dio nostro Signore» (Costituzioni, 638)”.
“Favre – ha ancora detto il Papa - aveva il vero e profondo desiderio di «essere dilatato in Dio»: era completamente centrato in Dio, e per questo poteva andare, in spirito di obbedienza, spesso anche a piedi, dovunque per l’Europa, a dialogare con tutti con dolcezza, e ad annunciare il Vangelo” E a braccio ha aggiunto: “.Mi viene da pensare alla tentazione, che forse possiamo avere noi e che tanti hanno, di collegare l’annunzio del Vangelo con bastonate inquisitorie, di condanna. No, il Vangelo si annunzia con dolcezza, con fraternità, con amore”. Quindi ha proseguito: “La sua familiarità con Dio lo portava a capire che l’esperienza interiore e la vita apostolica vanno sempre insieme. Scrive nel suo Memoriale che il primo movimento del cuore deve essere quello di «desiderare ciò che è essenziale e originario, cioè che il primo posto sia lasciato alla sollecitudine perfetta di trovare Dio nostro Signore» (Memoriale, 63). Favre prova il desiderio di «lasciare che Cristo occupi il centro del cuore» (Memoriale, 68). Solo se si è centrati in Dio è possibile andare verso le periferie del mondo! E Favre ha viaggiato senza sosta anche sulle frontiere geografiche tanto che si diceva di lui: «pare che sia nato per non stare fermo da nessuna parte» (MI, Epistolae I, 362). Favre era divorato dall’intenso desiderio di comunicare il Signore. Se noi non abbiamo il suo stesso desiderio, allora abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera e, con fervore silenzioso, chiedere al Signore, per intercessione del nostro fratello Pietro, che torni ad affascinarci. Quel fascino del Signore che portava Pietro a tutte queste pazzie apostoliche …”.
Il Papa così ha concluso la sua omelia: “Noi siamo uomini in tensione, siamo anche uomini contraddittori e incoerenti, peccatori, tutti. Ma uomini che vogliono camminare sotto lo sguardo di Gesù. Noi siamo piccoli, siamo peccatori, ma vogliamo militare sotto il vessillo della Croce nella Compagnia insignita del nome di Gesù. Noi che siamo egoisti, vogliamo tuttavia vivere una vita agitata da grandi desideri. Rinnoviamo allora la nostra oblazione all’Eterno Signore dell’universo perché con l’aiuto della sua Madre gloriosa possiamo volere, desiderare e vivere i sentimenti di Cristo che svuotò se stesso. Come scriveva san Pietro Favre, «non cerchiamo mai in questa vita un nome che non si riallacci a quello di Gesù» (Memoriale, 205). E preghiamo la Madonna di essere messi con il suo Figlio”.
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Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013
In un’ampia intervista alla rivista Civiltà Cattolica, papa Francesco spiega le priorità della Chiesa, l’importanza della misericordia e dell’uscire incontro alle situazioni e alle persone ferite. La Chiesa come “un ospedale da campo”. Accoglienza di divorziati, omosessuali, persone che hanno praticato l’aborto. Molti applaudono alla “rivoluzione”, ma in realtà tutto è nella più pura tradizione. L’importanza della donna nella Chiesa, della collegialità anche con gli ortodossi. “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”.
di Bernardo Cervellera – AsiaNews
« La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: « Gesù Cristo ti ha salvato! ». E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia ».
Secondo papa Francesco, testimoniare la misericordia è il « bisogno più grande della Chiesa di oggi »: lo afferma in vari modi nella lunga conversazione
-intervista che egli ha avuto con un suo confratello gesuita, p. Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, e diffusa in contemporanea su molte
pubblicazioni dell’ordine.
Troppo spesso – spiega il papa – la Chiesa si mostra più interessata all’organizzazione e alla morale, e va incontro al mondo presentando solo delle regole: « Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza.
L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali ».
Il pontefice ribadisce così quello che è divenuto il suo slogan fin dall’elezione (anzi, fin dal conclave): « Uscire » verso « le periferie esistenziali e geografiche ». Ancora nell’intervista, egli dice: « Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio ».
Diversi media hanno presentato la sua intervista come una « rivoluzione », una « apertura », fino a supporre quasi una « sconfessione » del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
In realtà, ogni missionario e ogni cristiano sa che prima occorre l’annuncio della salvezza offerta da Gesù Cristo, poi la catechesi (e la dottrina), poi la
morale. Sottolineare sempre e solo la morale è un errore di impostazione.
La vera novità di papa Francesco, più che a livello dottrinale, è a livello di atteggiamento: « La prima riforma – egli dice – deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato ».
« Sogno – aggiunge – una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo ».
Chi volesse mettere in contrasto questo atteggiamento con il passato magistero, dovrebbe ricordare che Giovanni Paolo II ha dedicato addirittura
un’enciclica alla misericordia (« Dives in misericordia« ), che Benedetto XVI ha messo la testimonianza del Dio di misericordia alla base della civiltà umana.
Anche quanto lui dice sull’accoglienza di divorziati, omosessuali, persone che hanno scelto l’aborto non presenta nessuna novità dottrinale: per
sincerarsene, basta una lettura del Catechismo della Chiesa cattolica. Nell’intervista, è lo stesso papa Francesco ad affermarlo: « Dobbiamo annunciare
il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono « feriti sociali » perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è
possibile ».
Ancora, una volta, il pontefice sottolinea l’atteggiamento di apertura, di accoglienza della persona, senza mettere anzitutto davanti principi e regole:
« Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione ».
« Io vedo con chiarezza – dice anche – che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e
gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso ».
Un’altra novità interessante per una riforma della Chiesa è quanto Francesco dice a proposito della certezza di fede.
Nel « cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene… Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui ». Una simile affermazione viene vista da alcuni commentatori come la conferma che finalmente anche il papa è dei nostri, del « partito del relativismo »; finalmente possiamo brindare al fatto che non vi è alcuna verità. Lo stesso pontefice si chiede: « È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui ». In realtà il papa non fa altro che sottolineare la tradizionalissima dottrina agostiniana: « se lo comprendi, non è Dio »: Dio non si può inscatolare in un’idea, in regole, in discorsi, ma lo si può incontrare. La Verità la si può incontrare nella storia, « nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio ».
Nella stessa intervista, Francesco spiega il valore dell’adorazione silenziosa serale davanti al tabernacolo, per ricordare « cosa io ho fatto per Cristo », ma soprattutto per ravvivare la coscienza « che il Signore ha memoria di me ».
Un altro punto toccato nell’intervista è quello sul ruolo della donna nella Chiesa. Il pontefice spinge per una « teologia della donna nella Chiesa » che dia valore al suo apporto specifico, anche in luoghi di responsabilità, ma mette in guardia contro il « machismo in gonnella », le rivendicazioni di tipo femminista che vogliono rendere la donna uguale all’uomo (« in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo »). Qualche teologo in
voga ha subito applaudito alla possibilità che « finalmente » si possa avere il sacerdozio femminile. Ma lo stesso papa, nell’intervista, dice: « La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità ». Il punto perciò è ritrovare l’apporto specifico e la dignità del « genio femminile » – come diceva Giovanni Paolo II – senza voler rinchiudere questa riscoperta in una semplice equiparazione di funzioni.
Un punto piuttosto innovativo citato nella conversazione è quello della collegialità applicata al governo della Chiesa e ai rapporti ecumenici.
« Credo …che la consultazione sia molto importante. I Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale ».
E ancora: « Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo ».
Anche in questo papa Francesco è in qualche modo debitore delle visite e degli incontri di Giovanni Paolo II con molte personalità ortodosse e del fine lavoro ecumenico di Benedetto XVI, che anni fa ha chiesto alle Chiese ortodosse di aiutarlo a esprimere il ministero petrino in una maniera da loro accettabile e fedele alla tradizione della Chiesa indivisa.
Non è possibile riassumere tutta la ricchezza della conversazione intervista: vi sono ancora temi quali il rapporto fra Chiese giovani e antiche, fra teologia e popolo, fra laboratori pensanti ed esperienze di frontiera. Per questo rimandiamo alla lettura completa del testo.
Ma un aspetto vale ancora la pena di citare: quella dell’atteggiamento personale di papa Francesco, il suo cuore, quando cerca di definirsi: « Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato ». E rivela lo stile di vita del beato Pietro Favre (1506-1546), uno dei primi compagni di sant’Ignazio di Loyola, così vicino al suo: « Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce… ».
« Le mie scelte – aggiunge – anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare ».
Per il testo completo della conversazione-intervista, vedi qui.
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