San Giuseppe

Posté par atempodiblog le 19 mars 2025

San Giuseppe
Il beato Pio IX lo ha dichiarato patrono della Chiesa universale, consapevole della potentissima intercessione di Giuseppe, che si estende a ogni grazia, come già ricordava santa Teresa d’Avila
di Ermes Dovico – La nuova Bussola Quotidiana

San Giuseppe dans Angeli San-Giuseppe

Se giustamente l’antico adagio teologico afferma che di Maria non si dice mai abbastanza, similmente si può dire del suo castissimo sposo poiché in nessun altro santo, eccetto la stessa Madre di Dio, la dimensione del mistero è così grande come in san Giuseppe. E in nessun altro santo come nel padre putativo di Gesù le logiche divine appaiono del tutto straordinarie e ribaltate rispetto alle logiche del mondo. La Chiesa insegna che solo a Dio si deve il culto di latria (adorazione); a Maria è riservata una venerazione specialissima detta iperdulia («oltre la dulia», cioè il culto di angeli e santi), cui segue immediatamente la protodulia dovuta a Giuseppe, da venerare come primo tra tutti i santi.

Il perché lo spiega bene Leone XIII nella Quamquam Pluries: «Poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un vincolo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. Infatti il matrimonio costituisce la società, il vincolo superiore ad ogni altro: per sua natura prevede la comunione dei beni dell’uno con l’altro. Pertanto se Dio ha dato alla Vergine in sposo Giuseppe, glielo ha dato pure a compagno della vita, testimone della verginità, tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, mercé il patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei». Non è perciò casuale il posto unico che san Giuseppe occupa nel cuore dei credenti, dai fedeli più semplici ai più grandi teologi, fino ai pontefici, che da secoli esortano i cristiani ad accrescere la devozione verso il Custode della Sacra Famiglia, in sommo grado ripieno di fede, speranza e carità.

Il Vangelo non gli attribuisce direttamente nessuna parola, ma il suo silenzio e ogni circostanza in cui si parla di lui hanno un peso specifico enorme. Giuseppe collega Gesù alla discendenza di Davide, è l’uomo chiamato da Dio a cooperare alla realizzazione delle profezie e all’adempimento delle antiche promesse. Perciò il primo capitolo di Matteo, l’evangelista che più si rivolge ai Giudei, si apre con la genealogia di Gesù e – al suo culmine – ci presenta Giuseppe come «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo». Come Luca approfondirà la prospettiva interiore della Vergine, Matteo ci offre uno spaccato dei pensieri di Giuseppe, da lui lodato quale «giusto». Un giusto che in ogni istante, per quanto tormentato, pensò a proteggere Maria, preservandola dalla lapidazione e custodendone l’onore, fino al conforto del messaggero celeste: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».

Giuseppe abbracciò quindi la sua vocazione di sposo e «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore», prendendo con sé la sua sposa. Quel «fece» dice molto su questo glorioso santo nascosto, che ama la legge di Dio e dunque la osserva, abbandonandosi totalmente alla Volontà divina, con il pieno assenso del suo intelletto. Come Maria ha detto liberamente sì a Dio, così Giuseppe: entrambi sorpresi da Lui, entrambi pronti a servire il Suo disegno salvifico. «La sorpresa del casto Giuseppe era paragonabile a quella della Vergine Maria quando al momento dell’Annunciazione ha chiesto: « Come può accadere se non conosco uomo? » Maria voleva sapere come avrebbe potuto essere vergine e madre allo stesso tempo, e san Giuseppe non sapeva come poter essere vergine e padre», ha detto il venerabile Fulton Sheen (1895-1979) in una splendida catechesi: «L’Angelo del Signore ha spiegato a entrambi che solo Dio aveva il potere di fare una cosa simile».

Attraverso il matrimonio con Maria, luce per tutti gli sposi, Giuseppe divenne padre di Gesù e ne servì la missione proprio con la sua paternità verginale. Salvò il Bambino da Erode con la fuga in Egitto, lo allevò, lo nutrì, lo vestì, gli insegnò un mestiere, assolvendo di giorno in giorno i suoi compiti paterni verso Gesù, il quale da parte sua obbediva docilmente ai genitori e «cresceva in sapienza, età e grazia», preludio della sua attività pubblica. A Dio piacque che Gesù, Verbo incarnato, venisse chiamato figlio di Giuseppe e volle che alla custodia del santo patriarca fossero affidati «gli inizi della Redenzione» (Messale Romano). Come ricorda san Giovanni Paolo II nella Redemptoris Custos, Giuseppe fu allo stesso tempo il Custode del Redentore, il primo devoto di Maria e il primo uomo al quale fu partecipato il mistero dell’Incarnazione che si era compiuto nella sua sposa. Alla quale è indissolubilmente legato. Perciò, insegnano i santi, la vera devozione dell’uno accresce la devozione verso l’altra: e insieme sono strada sicura verso Cristo.

Ecco perché san Giovanni Crisostomo ne sottolineava l’eccezionale ruolo di «ministro della salvezza» e il beato Pio IX lo ha dichiarato patrono della Chiesa universale, consapevole della potentissima intercessione di Giuseppe, che si estende a ogni grazia, come già ricordava santa Teresa d’Avila: «Ad altri sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso San Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte. Con ciò il Signore vuol darci a intendere che, a quel modo che era a lui soggetto in terra, dove egli come padre putativo gli poteva comandare, altrettanto gli è ora in cielo nel fare tutto ciò che gli chiede».

Divisore dans San Francesco di Sales

Per saperne di più:

Freccia dans Viaggi & Vacanze Quamquam Pluries, enciclica di Leone XIII, con in calce l’orazione «A te, o beato Giuseppe…»

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Maria Ausiliatrice

Posté par atempodiblog le 24 mai 2019

Maria Ausiliatrice
Tratto da: La nuova Bussola Quotidiana

Maria Ausiliatrice dans Apparizioni mariane e santuari Maria-Ausiliatrice

San Giovanni Bosco è colui che notoriamente ha fatto di più per propagare la devozione alla Madonna con il titolo di Maria Ausiliatrice, ma il diretto riferimento al soccorso prestato da Maria ai suoi figli era già diffuso nella cristianità di lingua greca dei primi secoli, come mostrano antiche iscrizioni in cui la Beata Vergine, oltre che con titoli celebri come Theotókos (in breve, “Madre di Dio”) e Panaghia (“Tutta Santa”), era invocata come Boetheia, che sta per “aiuto”. San Giovanni Crisostomo si riferì così alla Madre celeste in un’omelia del 345, imitato da diversi altri santi del primo millennio, come per esempio Germano di Costantinopoli (c. 634-733), il quale diceva: “Noi, allontanatici da Dio nella moltitudine dei peccati, attraverso di te abbiamo ricercato Dio e lo abbiamo trovato; e avendolo trovato, siamo stati salvati. Perciò potente è il tuo aiuto per la salvezza, o Madre di Dio”.

In seguito alla vittoriosa battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571 (le navi della Lega Santa sconfissero la flotta dell’Impero Ottomano, fermando l’espansione musulmana), che indusse san Pio V a istituire la festa di Santa Maria della Vittoria (oggi Beata Vergine Maria del Rosario), l’invocazione Auxilium christianorum, “Aiuto dei cristiani”, venne inserita nelle Litanie lauretane. Oltre due secoli più tardi, il 15 settembre 1815, Pio VII stabilì la celebrazione della festa di “Maria, Aiuto dei cristiani” al 24 maggio, anniversario del suo ritorno trionfale a Roma (24 maggio 1814) dopo i quasi cinque anni di prigionia sotto Napoleone. In origine la festa, già diffusa tra i Servi di Maria fin dal XVII secolo, era limitata alla diocesi di Roma, ma poi si è estesa in altri luoghi della cristianità, pur senza essere inserita nel Calendario Romano Generale.

Don Bosco aveva appena trent’anni quando nel 1845 la Vergine gli apparve nel rione torinese di Valdocco (toponimo che tradizionalmente sta per Vallis occisorum, “Valle degli uccisi”), ordinandogli la costruzione di una chiesa nel punto esatto del martirio dei santi Avventore e Ottavio, due soldati del III secolo, ritenuti i primi martiri di Torino e celebrati insieme al compagno d’armi san Solutore, decapitato ad alcuni chilometri di distanza dai due. “In questo luogo – disse la Madonna – dove i gloriosi martiri di Torino Avventore e Ottavio soffrirono il loro martirio, su queste zolle che furono bagnate e santificate dal loro sangue, io voglio che Dio sia onorato in modo specialissimo”. Mentre diceva queste parole, trascritte da don Bosco nelle sue Memorie, Maria “avanzava un piede posandolo sul luogo ove avvenne il martirio e me lo indicò con precisione”. Vent’anni più tardi fu posata la prima pietra e il 9 giugno 1868 avvenne la consacrazione del Santuario di Maria Ausiliatrice.

Il santo educatore commissionò inoltre a Tommaso Lorenzone la pala dell’altare maggiore, che raffigura Maria con Gesù Bambino nel braccio sinistro e lo scettro, terminante con un globicino sormontato dalla croce, nella mano destra, con attorno gli apostoli, gli evangelisti e degli angioletti, e in alto l’irradiazione dello Spirito Santo, rappresentato da una colomba. L’immagine ricevette l’incoronazione canonica nel 1903, sotto Leone XIII, per mezzo dell’arcivescovo Agostino Richelmy. Il titolo di Ausiliatrice venne poi riportato nella Lumen Gentium, la costituzione del Vaticano II sulla Chiesa, che ne sottolineò la speciale cooperazione alla Redenzione operata dal divin Figlio, a beneficio di quanti Lo amano: “Questa maternità di Maria nell’economia della grazia perdura senza soste dal momento del consenso prestato nella fede al tempo dell’Annunciazione, e mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. […] Per questo la Beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di Avvocata, Ausiliatrice, Soccorritrice, Mediatrice” (LG 62).

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La bellezza incantevole e la dolcezza ineffabile della Sapienza incarnata

Posté par atempodiblog le 22 mai 2016

La bellezza incantevole e la dolcezza ineffabile della Sapienza incarnata
Da: ‘L’amore dell’eterna Sapienza’ di  San Luigi Maria Grignion de Montfort

Montfort

La Sapienza s’è fatta uomo solo per attirare i cuori degli uomini alla sua amicizia ed alla sua imitazione. Ecco perché s’è compiaciuta di adornarsi di tutte le amabilità e dolcezze umane più incantevoli e sensibili, senza difetti né brutture.

I) La Sapienza è dolce nelle sue origini
Se noi la consideriamo nelle sue origini, essa è soltanto bontà e dolcezza. È dono dell’amore del Padre ed effetto di quello dello Spirito Santo. È data a noi dall’amore ed è formata dall’amore: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». È dunque tutta amore, anzi è l’amore stesso del Padre e dello Spirito Santo.

È nata dalla madre più dolce, affettuosa e bella, dalla divina Maria. Volete spiegarmi la dolcezza di Gesù? Spiegatemi prima la dolcezza di Maria sua madre, alla quale egli somiglia nella soavità del temperamento. Gesù è figlio di Maria e, perciò, in lui non si trova né fierezza né rigore né bruttezza e ancora infinitamente meno che nella madre, perché è la Sapienza eterna, la dolcezza e la bellezza stessa.

II) È dolce, secondo i profeti
I profeti, ai quali venne rivelata in anticipo la Sapienza incarnata, la chiamano pecorella e agnello mansueto. Predicono che per la sua dolcezza non spezzerà una canna incrinata, e non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta, cioè che avrà tanta bontà che quando un povero peccatore sarà mezzo affranto, accecato, perduto per le proprie colpe e quasi con un piede nell’inferno, non lo lascerà perdersi del tutto, a meno ch’egli stesso non la costringa.

San Giovanni Battista, che per quasi trent’anni restò nel deserto a meritarsi con le sue austerità la conoscenza e l’amore della Sapienza incarnata, appena la vide, additandola ai discepoli, esclamò: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!». Non disse infatti come sembra avrebbe dovuto: «Ecco l’Altissimo, ecco il Re della gloria, ecco l’Onnipotente…». Conoscendola però a fondo più di qualsiasi altro uomo del passato o del futuro, disse: «Ecco l’agnello di Dio! Ecco la Sapienza eterna che per inebriare i cuori e rimettere i nostri peccati ha unito in sé tutte le dolcezze di Dio e dell’uomo, del cielo e della terra!».

III) È dolce nel nome
Ma che cosa ci dice il nome di Gesù, il nome proprio della Sapienza incarnata, se non carità ardente, amore infinito e dolcezza incantevole?

Gesù, Salvatore, colui che salva l’uomo, colui del quale è prerogativa amare e salvare l’uomo! «Nulla si canta di più soave, nulla si ascolta di più giocondo, nulla si pensi di più dolce di Gesù, il Figlio di Dio!»
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Oh, quanto è dolce all’orecchio ed al cuore di un’anima predestinata il nome di Gesù! «È miele sulla bocca, melodia nell’orecchio, giubilo nel cuore!».

IV) È dolce nel volto
«Gesù è dolce nel volto, dolce nelle parole, dolce nelle azioni».

L’amabilissimo Salvatore aveva un volto così dolce e buono, che invaghiva i cuori e gli occhi di quanti lo vedevano. I pastori che vennero a trovarlo nella stalla furono attratti dalla dolcezza e soavità del suo viso, tanto che restavano giorni interi come rapiti fuori di sé a guardarlo. I re, anche i più fieri, non appena conobbero le dolci attrattive di questo bel bambino, deposta ogni fierezza, caddero senza difficoltà ai piedi della sua culla.

Quante volte si dissero l’un l’altro: «Amici, com’è dolce star qui! Non si trovano nei nostri palazzi gaudii simili a quelli che si gustano in questa stalla alla vista di questo Dio-bambino!».

Quando Gesù era giovanissimo, le persone afflitte ed i bambini venivano da tutti i paesi vicini per vederlo e gioire con lui. Si dicevano a vicenda: «Andiamo a vedere il piccolo Gesù, il bel bambino di Maria». La bellezza e la maestà del suo volto, diceva san Giovanni Crisostomo, erano così dolci ed al tempo stesso così imponenti, che quanti lo videro non poterono non amarlo.

Qualche re molto distante dalla sua terra, alla fama della sua bellezza volle averne il ritratto, e si racconta che nostro Signore medesimo lo abbia inviato al re Abgar in segno di speciale benevolenza.

Alcuni autori assicurano che i soldati romani ed i giudei gli velarono il volto per maltrattarlo e schiaffeggiarlo con maggior libertà, perché dai suoi occhi e dal viso gli traspariva uno splendore di bellezza così dolce ed incantevole che disarmava i più crudeli.

V) È dolce nelle parole
Gesù è dolce nelle parole. Mentre viveva in terra, conquistava tutti con la dolcezza delle parole, e non lo si udì mai alzare troppo la voce né discutere con animosità, proprio come avevano predetto i profeti: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce».

Chi l’ascoltava spassionatamente era colpito dalle parole di vita che uscivano dalla sua bocca, tanto da esclamare: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!». E chi lo odiava, molto sorpreso dall’eloquenza e sapienza delle sue parole, si chiedeva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza?».

Parecchie migliaia di umili persone abbandonarono le case e le famiglie per andarlo ad ascoltare fin nell’interno del deserto, trascorrendo diversi giorni senza bere e senza mangiare, solo sazi della soavità della sua parola.

E con la dolcezza del parlare, quasi come un’esca, attrasse gli apostoli alla sua sequela, guarì gli ammalati più incurabili, consolò i più afflitti. A Maria Maddalena, desolata, disse soltanto «Maria!» e la colmò di gioia e di dolcezza.

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Il gusto e la pratica della semplicità

Posté par atempodiblog le 11 octobre 2015

giovanni xxiii

Oh, la semplicità del Vangelo, del libro della Imitazione di Cristo, dei Fioretti di san Francesco, delle pagine più squisite di san Gregorio, nei Morali: “Deridetur fusti simplicitas”, con quel che segue! Come sempre più gusto quelle pagine, e torno a esse con diletto interiore! Tutti i sapienti del secolo, tutti i furbi della terra, anche quelli della diplomazia vaticana, che meschina figura fanno, posti nella luce di semplicità e di grazia che emana da questo grande e fondamentale insegnamento di Gesù e dei suoi santi!

Questo è l’accorgimento più sicuro che confonde la sapienza del mondo, e si accorda egualmente bene, anzi meglio, con garbo e con autentica signorilità, a ciò che vi è di più alto nell’ordine della scienza, anche della scienza umana e della vita sociale, in conformità alle esigenze di tempi, di luoghi e di circostanze.

“Hoc est philosophiae culmen, simplicem esse cum prudentia”. Il pensiero è di san Giovanni Crisostomo, il mio grande patrono d’Oriente.

Signore Gesù, conservatemi il gusto e la pratica di questa semplicità che, tenendomi umile, mi avvicina di più al vostro spirito e attira e salva le anime.

San Giovanni XXIII

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Un cristiano porta pace

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2014

“Un cristiano porta pace agli altri. E non solo pace, ma anche amore, bontà, fedeltà e gioia”.

Tweet di Papa Francesco

Un cristiano porta pace dans Citazioni, frasi e pensieri insegnare-a-pregare

“La preghiera calma i turbamenti dell’anima, assopisce la collera, scaccia la gelosia, spegne la cupidigia, diminuisce e inaridisce l’attaccamento ai beni di questa terra, procura allo spirito una pace profonda”.

San Giovanni Crisostomo

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La maldicenza uccide. E mai è innocente

Posté par atempodiblog le 2 septembre 2014

Il Papa e il crimine che i cristiani poco considerano
La maldicenza uccide. E mai è innocente
di Stefania Falasca – Avvenire

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Cristiani da salotto, cristiani di pasticceria, cristiani omicidi… Omicidi!? Sì. Proprio così. E chi sono? Sono quelli che sparlano. Quelli che dicono male degli altri. Quelli che invidiano, che con le loro lingue dividono, calunniano, diffamano. Non usa mezzi termini, papa Francesco. E tiene a sottolineare che «su questo punto, non c’è posto per le sfumature. Se tu parli male del fratello, uccidi il fratello. E noi, ogni volta che lo facciamo, imitiamo quel gesto di Caino, il primo omicida della storia». La questione è ritornata inesorabile, e più attuale che mai, anche nell’ultima udienza di mercoledì scorso. «Le chiacchiere – ha ribadito il Papa – sempre vanno su questa dimensione della criminalità. Non ci sono chiacchiere innocenti».

Parole dure. Durissime. Senza scampo, per un aspetto della vita sociale che riguarda e si estende, pressoché a tutti; chi più, chi meno. Ma quanti tra i cristiani, tra le comunità cattoliche, si sono accorti di entrare dritti con le loro chiacchiere, i loro piccoli gossip parrocchiali – spesso reputati naturali, leggeri, innocenti – in questa fonda e cupa «dimensione criminale»? Quanti si sentono killer e carnefici? Non sarà un’esagerazione? Ce lo chiediamo, dando quasi per scontato il mal comune. Ma di fronte a parole così crude, che mettono a nudo interiori oscurità, anche meccanismi di autodifesa possono scattare automatici. E questo, come la scarsa coscienza, può far sì che tra le tante cose dette da Francesco tali riferimenti scivolino, anche con sussiego, in second’ordine di considerazione e di confronto.

Fatto è, però, che forse nessun altro pontefice, nella storia recente, con un linguaggio puntuto ed efficace ha battuto tanto su questo male. E di fatto non c’è piaga dolente come questa della maldicenza, così sentita e additata da papa Bergoglio, che è – ed è stata – oggetto della sua predicazione ordinaria fin dall’inizio. Unita a un altro aspetto distruttivo per la Chiesa: quello della mondanità spirituale. I due « caini » hanno viaggiato, viaggiano insieme. Di pari passo. A quella vile «lebbra» del «darsi gloria gli uni gli altri» – spirito mondano che corrode le fondamenta della comunità ecclesiale – sempre s’accompagnano (e scorazzano gioconde) la superbia e l’invidia, radici del pettegolezzo più distruttivo: la calunnia.

Del resto il male biforcuto prodotto dalla «clericas invidia», come la definiva il celebre moralista Haring ai tempi del Concilio, è ben noto. E non c’è qui bisogno di scomodare Dante che definiva l’invidia «meretrice delle corti». La «radice di mali infiniti» è inconciliabile con lo spirito della fede, e nella tradizione della Chiesa, da san Crisostomo a sant’Agostino e san Tommaso, ne viene descritto l’aspetto diabolico. Le maldicenze, le calunnie che portano alle divisioni, nascono infatti dall’«Invidia prima», quella che appartiene a Satana. Il primo calunniatore della storia è stato Satana, la sua prima calunnia è nei confronti di Dio. La calunnia è perciò il modello di Satana nel suo parlare. Egli sa che questa può distruggere in un attimo quello che è stato costruito in tanto tempo con amore, amicizia, rispetto reciproco.

Egli sa che così ostacola l’unità. Egli sa che il corpo di Cristo non può essere diviso. Ci sono pochi peccati che la Bibbia condanna con altrettanta severità come essa fa con la calunnia. Lo stesso san Francesco di Sales, sul modello di altri, parla in modo efficace della maldicenza come «crimine» e «causa diabolica di omicidi». Dunque, non si tratta di una personale espressione, né di una particolare esagerazione o fissazione di papa Francesco. «Un cristiano omicida… Non lo dico io, eh?, lo dice il Signore… Quello che ha nel suo cuore un po’ d’odio contro il fratello è un omicida»; e in un’altra omelia, a Santa Marta, riprende: «anche l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera, lo dice, chiaro: colui che odia suo fratello, cammina nelle tenebre; chi giudica il fratello, cammina nelle tenebre».

E così nell’ultima udienza, significativamente, afferma anche riguardo all’unità dei cristiani: «Quando noi parliamo di peccati contro l’unità dei cristiani pensiamo agli scismi, alle sfide ecumeniche, alle guerre di religione. Ma tutto nasce dalle divisioni nel nostro cuore alle quali dobbiamo fare un esame di coscienza». E continua: «Pensiamo a mancanze molto comuni nelle nostre comunità… tristemente segnate da invidie, gelosie… alle chiacchiere che sono alla portata di tutti… In una comunità cristiana la divisione è uno dei peccati più gravi, perché la rende segno non dell’opera di Dio, ma dell’opera del Diavolo, il quale è per definizione colui che separa, che rovina i rapporti, che insinua pregiudizi… è opera gravissima perché è opera del Diavolo» cui noi prestiamo collaborazione.

La maldicenza provoca la disunione nella famiglia di Dio. Sempre è fonte di separazione e danneggia assai più la Chiesa di quanto lo facciano altri peccati più scandalosi. È ciò, in sostanza, che non ci fa Chiesa di Cristo.

Papa Francesco ci chiama quindi «a convertire il cuore» a «chiedere la grazia di non sparlare, di non criticare», di «non imitare il gesto di Caino», a bloccare sul nascere ogni maldicenza o interpretazioni calunniose che distruggono noi stessi e le altre persone e impediscono l’unità dei figli Dio nel vincolo supremo della carità. E forse può essere d’aiuto, in proposito, un aneddoto di Socrate, che data la gravità del «nefando crimine» riguardante tutti, potrebbe essere opportuno non prendere come un semplice fervorino. A un amico che stava per riferirgli in gran segreto una notizia sul conto di un altro, Socrate chiese: «Hai passato la tua intenzione ai tre colini?». Interpellato su cosa volesse dire con questa frase, Socrate spiegò: «Uno: sei sicuro che la cosa che stai per dirmi è vera? Due: sei sicuro che stai per dirmi una cosa buona? Tre: sei sicuro che sia proprio utile che io lo sappia?». L’amico comprese e rinunciò al suo proposito.

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Quaresima: digiuno, confessione, elemosina

Posté par atempodiblog le 31 mars 2014

La Confessione non può essere ridotta a confessare i peccati e all’assoluzione, ma è quel lavorio all’interno del cuore per cui ogni confessione è efficace nella misura in cui c’è il dolore dei peccati, la consapevolezza di aver offeso Dio, il dispiacere di aver offeso Dio, il proposito di non commetterne più, a queste condizioni c’è il perdono dei peccati che è una grazia talmente grande per cui il Papa sabato prossimo ha promosso una giornata di ringraziamento per il dono del perdono dei peccati, per il dono del sacramento della Confessione. Un invito da parte del Papa a ringraziare e confessarci, un invito della Chiesa e della Madonna insieme, “andate a confessarvi”, prepariamo una bella confessione pasquale e noi sacerdoti organizziamo nelle chiese quegli incontri penitenziali.

di Padre Livio Fanzaga
Tratto da: Medjugorje Liguria

Quaresima: digiuno, confessione, elemosina dans Fede, morale e teologia e0sys9

Il tempo di quaresima è segnato da alcuni gesti forti, importanti. In particolare la tradizione cristiana ha sempre insistito sulla necessità di praticare in special modo, in questo tempo liturgico, il digiuno, la confessione e l’elemosina.

Dai microfoni di radio Maria padre Livio invita spesso gli ascoltatori al digiuno in senso lato: non solo rinuncia al cibo, magari per dare ciò che ci si è tolti, ad altri, ma anche “digiuno degli occhi”, “digiuno delle orecchie”, “digiuno della lingua”. Se in passato rinunciare al cibo poteva essere un gesto forte, per esercitare la proprio temperanza, l’autocontrollo, il dominio dello spirito sul corpo, oggi è più urgente disfarsi delle mille sollecitazioni sensoriali, visive, tattili che il mondo ci presenta per distrarci, per intrattenerci, per anestetizzare la nostra sana inquietudine di uomini.

Televisione, radio, internet… sono un pullulare di sollecitazioni che, sommate l’una all’altra, rischiano di seppellire i veri desideri della mente e del cuore. L’indifferentismo rispetto alla fede, alla vita, al prossimo, è agevolato da questa possibilità che abbiamo di entrare in contatto continuo con un mondo lontano, virtuale, finto, per staccare la spina rispetto alla realtà vicina, al prossimo, a Dio. Per questo giustamente padre Livio ci invita a “liberarci” dalle svariate distrazioni, per concentrare il nostro sguardo, il nostro ascolto, i nostri silenzi, da cui siamo spesso così spaventati, verso le cose che contano. Perché la voce di Dio non può parlare all’uomo indaffarato soverchiamente nel chiassoso nulla.

Oltre al digiuno, la confessione. Il cardinal Raymond Burke, nei suoi “Esercizi spirituali ai sacerdoti” (Fede & Cultura), insiste molto su questo sacramento dimenticato, cui anche il pontefice fa spesso riferimento. Confessarsi significa riconoscersi peccatori, non in senso generico, ma verso Qualcuno. Significa sentirsi bisognosi di perdono, di grazia, di misericordia: senza questa disposizione del cuore, superficialità di vita e superbia mettono radici nel cuore dell’uomo, trasformandolo in una creatura orgogliosa e tronfia del suo nulla.

Ma è ai sacerdoti che il cardinal Burke si rivolge, definendoli, prima ancora che “guide morali”, “araldi e strumenti della misericordia di Dio”, e dicendo loro che “soltanto quando i fedeli avranno raggiunto una più profonda conoscenza della Divina Misericordia, ascolteranno la chiamata alla conversione e alla donazione della loro vita a Dio, cosicché Egli potrà perdonare i loro peccati e rafforzarli nel proposito d’emendamento. E’ soltanto nella luce della bontà divina che riusciamo a capire che cos’è il peccato!”.

E qui il cardinale consiglia ai sacerdoti di confessare spesso, di ritirarsi volentieri in questo piccolo ospedale dell’anima in cui si operano guarigioni e riconciliazione che è il confessionale, e di confessarsi spesso. Essendoci, a mio parere, un grave rischio: se il sacerdote sale solo sul pulpito, e non sta mai in confessionale, ad ascoltare le colpe altrui, a denunciare le proprie, le sue omelie saranno improntate o ad un freddo e duro moralismo, o allo sciocco utopismo del tempo e delle mode. Perché è nel confessionale che il sacerdote diventa conoscitore dell’animo umano, della sua fragilità, della sua debolezza, ed anche dei suoi slanci vitali, delle sue aspirazioni. Ed è questo il campo di battaglia in cui si impara a tenere al centro la Verità, accompagnata però dalla Misericordia, senza trasformare la Verità in ideologia né la Misericordia in buonismo.

L’ultimo elemento classico della quaresima cristiana è l’elemosina, che, secondo i Padri della Chiesa, “copre la moltitudine dei peccati”. Il dovere dell’elemosina si ricollega fortemente alla carnalità di Cristo, ed è per questo che viene spesso frainteso: quando diventa, per chi fa del cristianesimo una filosofia morale, solo esigenza di giustizia sociale; oppure quando il riferimento ai poveri, ai bisognosi, al dovere cristiano di soccorrere e di sovvenire, appare alle orecchie degli spiritualisti come qualcosa di troppo umano, di poco elevato, di confondibile con dottrine materialiste moderne.

Date dunque ai poveri: lo prego, lo esorto, lo comando, lo ingiungo”, scriveva sant’Agostino, mentre il Crisostomo insegnava che la ricchezza non è male, ma “il peccato sta nell’usare male di essa, non ripartendola tra i poveri”. Dio, proseguiva, “non ha fatto nulla di malvagio. Tutto è buono, o addirittura molto buono. Anche le ricchezze lo sono, a condizione che non dominino chi le possiede, e che servano a porre rimedio alla povertà”. Povertà nostra e altrui che rimarrà sempre con noi, sino alla fine dei tempi, in varie forme e modi, come segno del nostro limite e come appello al nostro cuore.

Francesco Agnoli - Il Foglio
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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Gesù Vero Dio e vero uomo

Posté par atempodiblog le 3 mars 2014

Gesù Vero Dio e vero uomo

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L’Io di Gesù Cristo è un io divino. Quando ti rivolgi a Gesù Cristo come a un Tu, ti rivolgi al Verbo, a Dio. Il “Tu” di Cristo è un “Tu” Divino. L’Io di Cristo è un Io divino. In Gesù Cristo non ci sono due Io (un “io” divino e un “io” umano), c’è un “io” divino soltanto che opera attraverso la natura umana, la quale natura umana ha un corpo e un’anima e quindi Gesù Cristo ha anche un’anima creata, perché è vero uomo. L’uomo ha un’anima e un corpo, ma quest’anima è sorretta dall’Io divino. Quindi l’Io divino opera anche attraverso l’intelligenza umana, attraverso la volontà umana e un corpo umano. Quindi la natura umana in Gesù Cristo è uno strumento attraverso cui opera la divinità, questo è molto importante. E’ fondamentale. Tutti gli Io, compreso quello della Madonna sono io creati, “io” umani. L’Io di Gesù Cristo è un Io divino, tanto che la Chiesa ha condannato Nestorio che diceva che in Gesù Cristo c’erano un io divino e un io umano. In Gesù c’è una sola persona, la persona divina.

Questo è importante perché se si vacilla su questo cade il Cristianesimo, perché se l’io di Gesù Cristo non è un io divino, se la Sua persona non è una persona divina… cade il Cristianesimo. Cade perché Gesù Cristo sarebbe un uomo e se è un uomo… sarebbe un profeta e non il Figlio di Dio.
Lungo il corso della storia della Chiesa c’è stata una grande lotta per affermare la divinità di Gesù Cristo, infatti  le eresie dei primi secoli, tutte in qualche modo, hanno tentato di sgretolare la divinità di Gesù Cristo e in alcuni casi sono state così diffuse, specialmente l’arianesimo del IV secolo che negava la divinità di Gesù Cristo.  San Girolamo dice che improvvisamente la Chiesa Cattolica si svegliò ariana, la stragrande maggioranza dei vescovi era ariana, ma non il Papa, non sant’Attanasio e non tanti altri… La lotta di sant’Ambrogio con gli ariani la sanno tutti.

I primi Concili Ecumenici si sono fatti tutti su questo punto: affermare la fede in Gesù Figlio di Dio. Anche l’espressione “Maria Madre di Dio” vuol dire che quel Bambino che da Lei è nato è Dio. L’identità di una persona è il suo “io” e l’Io di Cristo è un Io divino. Noi questo lo vediamo nel Vangelo di san Giovanni, quando Gesù disse: “prima che Abramo fosse, Io sono”. Quell’“Io sono” è il nome che Dio rivelò sul monte Siani o quando nel Getzemani chiede chi cercassero e poi Lui rispose “Io sono” e stramazzano per terra.

Noi professiamo la divinità di Gesù Cristo vero Uomo e vero Dio. La fede non solo ha vacillato nel passato, ma vacilla tutt’ora. Benedetto XVI ha lamentato, in un suo discorso, che proprio questa fede centrale è continuamente corrosa. Si cerca di dire che era talmente uomo da dimenticare di essere Dio.

Una suora che mi diceva che dove va a studiare teologia si insegna che Gesù Cristo studiando la Sacra Scrittura si è accorto di essere Dio. La navicella della fede fa naufragio.

Noi crediamo che Gesù è il Verbo di Dio fatto uomo, il Figlio di Dio fatto uomo. Quando la domenica diciamo il Credo… diciamolo con il cuore: “Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato”… generato da che? Emana dal Padre prima di tutti i secoli ed è della stessa sostanza del Padre. Gesù è Dio, un unico Dio.

Ecco perché il Credo che noi diciamo è quello niceno-costantinopolitano che esprime la fede della Chiesa dei primi secoli contro le eresie. Siccome dicevano è simile al Padre… no: della stessa sostanza del Padre.
Quindi  Dio da Dio e non creatura da Creatore. La Chiesa fin dall’inizio è stata precisa ad affermare la fede che è nei Vangeli. L’affermazione di essere Dio l’ha fatta Gesù Cristo ed è per quello che lo hanno ucciso, perché volevano lapidarlo? “Noi ti lapidiamo non per quello che tu fai, ma perché tu essendo uomo ti fai Dio”.

Tratto da una catechesi giovanile (del 2006) di Padre Livio Fanzaga ai microfoni di Radio Maria

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Dal Catechismo

III. Vero Dio e vero uomo

464 L’evento unico e del tutto singolare dell’incarnazione del Figlio di Dio non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo, né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano. Egli si è fatto veramente uomo rimanendo veramente Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. La Chiesa nel corso dei primi secoli ha dovuto difendere e chiarire questa verità di fede contro eresie che la falsificavano.

465 Le prime eresie più che la divinità di Cristo hanno negato la sua vera umanità (docetismo gnostico). Fin dall’epoca apostolica la fede cristiana ha insistito sulla vera incarnazione del Figlio di Dio «venuto nella carne». Ma nel terzo secolo, la Chiesa ha dovuto affermare contro Paolo di Samosata, in un Concilio riunito ad Antiochia, che Gesù Cristo è Figlio di Dio per natura e non per adozione. Il primo Concilio Ecumenico di Nicea nel 325 professò nel suo Credo che il Figlio di Dio è «generato, non creato, della stessa sostanza (homousios) del Padre», e condannò Ario, il quale sosteneva che «il Figlio di Dio veniva dal nulla» e che sarebbe «di un’altra sostanza o di un’altra essenza rispetto al Padre».

466 L’eresia nestoriana vedeva in Cristo una persona umana congiunta alla Persona divina del Figlio di Dio. In contrapposizione ad essa san Cirillo di Alessandria e il terzo Concilio Ecumenico riunito a Efeso nel 431 hanno confessato che «il Verbo, unendo a se stesso ipostaticamente una carne animata da un’anima razionale, [...] si fece uomo». L’umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l’ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Per questo il Concilio di Efeso ha proclamato nel 431 che Maria in tutta verità è divenuta Madre di Dio per il concepimento umano del Figlio di Dio nel suo seno; «Madre di Dio [...] non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne».

467 I monofisiti affermavano che la natura umana come tale aveva cessato di esistere in Cristo, essendo stata assunta dalla Persona divina del Figlio di Dio. Opponendosi a questa eresia, il quarto Concilio Ecumenico, a Calcedonia, nel 451, ha confessato:

«Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l’umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato”;generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l’umanità.
Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi».

468 Dopo il Concilio di Calcedonia, alcuni fecero della natura umana di Cristo una sorta di soggetto personale. Contro costoro, il quinto Concilio Ecumenico, a Costantinopoli, nel 553, ha confessato riguardo a Cristo: vi è «na sola ipostasi [o Persona]…, cioè il Signore (nostro) Gesù Cristo, uno della Trinità». Tutto, quindi, nell’umanità di Cristo deve essere attribuito alla sua Persona divina come al suo soggetto proprio, non soltanto i miracoli ma anche le sofferenze e così pure la morte: «Il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, Signore della gloria e uno della Santa Trinità».

469 La Chiesa così confessa che Gesù è inscindibilmente vero Dio e vero uomo. Egli è veramente il Figlio di Dio che si è fatto uomo, nostro fratello, senza con ciò cessare d’essere Dio, nostro Signore:

«Id quod fuit remansit et quod non fuit assumpsit – Rimase quel che era e quel che non era assunse», canta la liturgia romana. E la liturgia di san Giovanni Crisostomo proclama e canta: «O Figlio unigenito e Verbo di Dio, tu, che sei immortale, per la nostra salvezza ti sei degnato d’incarnarti nel seno della santa Madre di Dio e sempre Vergine Maria; tu, che senza mutamento sei diventato uomo e sei stato crocifisso, o Cristo Dio, tu, che con la tua morte hai sconfitto la morte, tu che sei uno della Santa Trinità, glorificato con il Padre e lo Spirito Santo, salvaci!».

IV. Come il Figlio di Dio è uomo?

470 Poiché nella misteriosa unione dell’incarnazione «la natura umana è stata assunta, senza per questo venir annientata», la Chiesa nel corso dei secoli è stata condotta a confessare la piena realtà dell’anima umana, con le sue operazioni di intelligenza e di volontà, e del corpo umano di Cristo. Ma parallelamente ha dovuto di volta in volta ricordare che la natura umana di Cristo appartiene in proprio alla Persona divina del Figlio di Dio che l’ha assunta. Tutto ciò che egli è e ciò che egli fa in essa deriva da «uno della Trinità». Il Figlio di Dio, quindi, comunica alla sua umanità il suo modo personale d’esistere nella Trinità. Pertanto, nella sua anima come nel suo corpo, Cristo esprime umanamente i comportamenti divini della Trinità:

«Il Figlio di Dio [...] ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato».

L’anima e la conoscenza umana di Cristo

471 Apollinare di Laodicea sosteneva che in Cristo il Verbo aveva preso il posto dell’anima o dello spirito. Contro questo errore la Chiesa ha confessato che il Figlio eterno ha assunto anche un’anima razionale umana.

472 L’anima umana che il Figlio di Dio ha assunto è dotata di una vera conoscenza umana. In quanto tale, essa non poteva di per sé essere illimitata: era esercitata nelle condizioni storiche della sua esistenza nello spazio e nel tempo. Per questo il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha potuto accettare di «crescere in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52) e anche di doversi informare intorno a ciò che nella condizione umana non si può apprendere che attraverso l’esperienza. Questo era del tutto consono alla realtà del suo volontario umiliarsi nella «condizione di servo» (Fil 2,7).

473 Al tempo stesso, però, questa conoscenza veramente umana del Figlio di Dio esprimeva la vita divina della sua persona. «Il figlio di Dio conosceva ogni cosa; e ciò per il tramite dello stesso uomo che egli aveva assunto; non per la natura (umana), ma per il fatto che essa stessa era unita al Verbo [...]. La natura umana, che era unita al Verbo, conosceva ogni cosa, e tutto ciò che è divino lo mostrava in se stesso per la sua maestà». È, innanzi tutto, il caso della conoscenza intima e immediata che il Figlio di Dio fatto uomo ha del Padre suo. Il Figlio di Dio anche nella sua conoscenza umana mostrava la penetrazione divina che egli aveva dei pensieri segreti del cuore degli uomini.

474 La conoscenza umana di Cristo, per la sua unione alla Sapienza divina nella Persona del Verbo incarnato, fruiva in pienezza della scienza dei disegni eterni che egli era venuto a rivelare. Ciò che in questo campo dice di ignorare, dichiara altrove di non avere la missione di rivelarlo.

La volontà umana di Cristo

475 Parallelamente, la Chiesa nel sesto Concilio Ecumenico ha dichiarato che Cristo ha due volontà e due operazioni naturali, divine e umane, non opposte, ma cooperanti, in modo che il Verbo fatto carne ha umanamente voluto, in obbedienza al Padre, tutto ciò che ha divinamente deciso con il Padre e con lo Spirito Santo per la nostra salvezza. La volontà umana di Cristo «segue, senza opposizione o riluttanza, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente».

Il vero corpo di Cristo

476 Poiché il Verbo si è fatto carne assumendo una vera umanità, il corpo di Cristo era delimitato. Perciò l’aspetto umano di Cristo può essere «dipinto».  Nel settimo Concilio Ecumenicola Chiesa ha riconosciuto legittimo che venga raffigurato mediante venerande e sante immagini.

477 Al tempo stesso la Chiesa ha sempre riconosciuto che nel corpo di Gesù il «Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne». In realtà, le caratteristiche individuali del corpo di Cristo esprimono la Persona divina del Figlio di Dio. Questi ha fatto a tal punto suoi i lineamenti del suo corpo umano che, dipinti in una santa immagine, possono essere venerati, perché il credente che venera «l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto».

Il cuore del Verbo incarnato

478 Gesù ci ha conosciuti e amati, tutti e ciascuno, durante la sua vita, la sua agonia e la sua passione, e per ognuno di noi si è offerto: il Figlio di Dio «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Ci ha amati tutti con un cuore umano. Per questo motivo, il sacro cuore di Gesù, trafitto a causa dei nostri peccati e per la nostra salvezza, «praecipuus consideratur index et symbolus [...] illius amoris, quo divinus Redemptor aeternum Patrem hominesque universos continenter adamat – è considerato il segno e simbolo principale [...] di quell’infinito amore, col quale il Redentore divino incessantemente ama l’eterno Padre e tutti gli uomini».

In sintesi

479 Nel tempo stabilito da Dio, il Figlio unigenito del Padre, la Parola eterna, cioè il Verbo e l’immagine sostanziale del Padre, si è incarnato: senza perdere la natura divina, ha assunto la natura umana.

480 Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, nell’unità della sua Persona divina; per questo motivo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini.

481 Gesù Cristo ha due nature, la divina e l’umana, non confuse, ma unite nell’unica Persona del Figlio di Dio.

482 Cristo, essendo vero Dio e vero uomo, ha una intelligenza e una volontà umane, perfettamente armonizzate e sottomesse alla sua intelligenza e alla sua volontà divine, che egli ha in comune con il Padre e lo Spirito Santo.

483 L’incarnazione è quindi il mistero dell’ammirabile unione della natura divina e della natura umana nell’unica Persona del Verbo.

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Inoltre freccetta.jpg Gesù (di Antonio Socci)

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Maria e i primi cristiani

Posté par atempodiblog le 12 septembre 2013

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Il Rosario è la principale devozione mariana oggi in uso tra i cattolici. Ma fin dai tempi della Chiesa primitiva, i seguaci di Cristo praticavano il culto a Maria, che in seguito viene ad arricchirsi di nuove pie pratiche, contestate dai protestanti, ma in sintonia con quanto i veri cristiani hanno sempre creduto.
Già nel Vangelo di san Giovanni viene messo in risalto il ruolo di mediatrice tra Gesù e gli uomini, svolto da Maria. Ci riferiamo al primo miracolo di Gesù, compiuto a Cana di Galilea. Nell’occasione, è proprio l’intercessione di Maria che fa sì che Gesù trasformi l’acqua in vino. Dal Vangelo all’archeologia, le tracce del culto mariano sono numerose.
Consideriamo l’epitaffio di un tale di nome Vericundus nelle catacombe di Priscilla, a Roma, databile secondo la compianta studiosa Margherita Guarducci alla fine del II secolo. Ebbene, all’interno del nome si trova inserita una “M”, che sta ad indicare Maria, con lo scopo di augurare al defunto la sua protezione nell’aldilà. Ciò dimostra come fin dall’antichità il nome di Maria fosse invocato a protezione delle anime dei defunti.
La più antica preghiera rivolta a Maria, Sub tuum praesidium, è stata trovata in un papiro egiziano, copto, databile, secondo diversi studiosi, al III secolo. Ecco il testo: “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta” .
Del medesimo periodo troviamo, ancora nelle catacombe di Priscilla, a Roma, una rappresentazione dove si vede bene la figura di un vescovo che, nell’atto di imporre il sacro velo ad una vergine cristiana, le addita come modello Maria Santissima, dipinta col bambino Gesù in braccio.
Un’altra preziosa testimonianza la rintracciamo nel famoso “muro G”, in Vaticano. In quel luogo, dove sono state identificate dalla Guarducci le ossa di Pietro, vi è un graffito, del IV secolo, in cui il nome di Maria appare per intero.
Si ricordi, infine, che lo stesso concilio di Efeso dell’armo 431, nel quale Maria fu proclamata Madre di Dio, fu celebrato in un edificio a Lei dedicato, segno di una devozione mariana preesistente al concilio stesso. Ma possiamo dire di più.
Esistono bellissime preghiere rivolte a Maria da Atanasio, san Giovanni Crisostomo, sant’ Ambrogio, san Gerolamo e sant’Agostino.
Inoltre, è certo che prima del concilio di Efeso Maria fosse festeggiata anche liturgicamente a Betlemme, a Gerusalemme e a Nazareth.
Alla luce di questi riferimenti, possiamo concludere che ciò che i cattolici continuano a fare nel tempo e a credere ancora oggi riguardo a Maria, corrisponde a ciò che i cristiani, fin dai primi tempi, hanno sempre fatto e creduto. È quanto basta per confermarci nella verità cattolica riguardo al culto mariano.
E non c’è da stupirsi. In fondo, Maria lo aveva già detto chiaramente: “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata” (Le 1,48).

di Roberto Lanzilli – Il Timone

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L’umiltà sincera

Posté par atempodiblog le 6 juin 2013

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La vanagloria è una forma di idolatria per cui l’io sta al posto di Dio e si agisce non per Dio ma per avere una lode; pertanto Dio è eliminato dalla vita, e siamo di fronte a un ateismo pratico, potremmo dire a un ateismo psicologico, in cui l’io non è più polarizzato da Dio. […] quando noi, invece di cercare la gloria di Dio, cerchiamo la gloria che viene dagli altri, ci mettiamo nell’impossibilità di credere, e anche se diciamo di credere, la nostra fede è vuota: in realtà non ci interessa nulla di Dio. […]
San Giovanni Crisostomo sviluppa un concetto che avrà molto seguito nella spiritualità monastica: il demonio attacca proprio chi compie opere buone, inducendo astutamente il giusto a compiacersi con se stesso di essere ritenuto santo dal prossimo e a cercare il plauso della gente. Egli scrive: “gli altri vizi crescono in noi a causa della nostra negligenza; l’orgoglio si sviluppa anche quando noi agiamo bene. Nulla è così propizio alla crescita dell’orgoglio come la compiacenza di essere giusti, per cui occorre stare continuamente in guardia”. Perfino l’umiltà, quando non è veramente sincera, e invece di cercare l’approvazione di Dio cerca quella degli uomini, apre spiragli all’orgoglio. A volte pratichiamo l’umiltà per essere lodati e perché si abbia una buona opinione di noi. Ecco le parole di San Giovanni Crisostomo in proposito: “hai compiuto un atto di umiltà: non esserne fiero, perché il frutto sarebbe bacato. Infatti, inorgoglirsi per le buone azioni compiute significa perderne il beneficio, come se si gettassero tutte le ricchezze dalla finestra”.

Tratto da: Padre Livio Fanzaga, I Vizi Capitali e Le Contrapposte Virtù. Ed. Sugarco

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Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.
Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero.

Tratto da: Filotea di San Francesco di Sales

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La preghiera è luce per l’anima

Posté par atempodiblog le 14 septembre 2010

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« La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.

Non bisogna infatti innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende, sia nella cura verso i poveri, sia nelle altre attività, impreziosite magari dalla generosità verso il prossimo, abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché, insaporito dall’amore divino, come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere continuamente di questo vantaggio, anzi per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo.

La preghiera è luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo. L’anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore con amplessi ineffabili. Come il bambino, che piangendo grida alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori ad ogni essere visibile.

La preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché appaga le sue aspirazioni. Parlo, però, della preghiera autentica e non delle sole parole.

Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia divina. Di essa l’Apostolo dice: Non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8, 26b). Se il Signore dà a qualcuno tale modo di pregare, è una ricchezza da valorizzare, è un cibo celeste che sazia l’anima; chi l’ha gustato si accende di desiderio celeste per il Signore, come di un fuoco ardentissimo che infiamma la sua anima.

Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà mediante la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza ».

Dalle « Omelie » di san Giovanni Crisostomo, vescovo

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Santi Angeli Custodi

Posté par atempodiblog le 30 septembre 2008

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Nella storia della salvezza, Dio affida agli Angeli l’incarico di proteggere i patriarchi, i suoi servi e tutto il popolo eletto. Pietro in carcere viene liberato dal suo Angelo. Gesù a difesa dei piccoli dice che i loro Angeli vedono sempre il volto del Padre che sta nei Cieli.
Figure celesti presenti nell’universo religioso e culturale della Bibbia – così come di molte religioni antiche – e quasi sempre rappresentati come esseri alati (in quanto forza mediatrice tra Dio e la Terra), gli angeli trovano l’origine del proprio nome nel vocabolo greco anghelos =messaggero. Non a caso, nel linguaggio biblico, il termine indica una persona inviata per svolgere un incarico, una missione. Ed è proprio con questo significato che la parola ricorre circa 175 volte nel Nuovo Testamento e 300 nell’Antico Testamento, che ne individua anche la funzione di milizia celeste, suddivisa in 9 gerarchie: Cherubini, Serafini, Troni, Dominazioni, Potestà, Virtù celesti, Principati, Arcangeli, Angeli. Oggi il tema degli Angeli, quasi scomparso dai sermoni liturgici, riecheggia stranamente nei pulpiti dei media in versione new age, nei film e addirittura negli spot pubblicitari, che hanno voluto recepirne esclusivamente l’aspetto estetico e formale.

Martirologio Romano: Memoria dei santi Angeli Custodi, che, chiamati in primo luogo a contemplare il volto di Dio nel suo splendore, furono anche inviati agli uomini dal Signore, per accompagnarli e assisterli con la loro invisibile ma premurosa presenza.

La memoria dei Santi Angeli, oggi espressamente citati nel “Martirologio Romano” della Chiesa Cattolica, come Angeli Custodi, si celebra dal 1670 il 2 ottobre, data fissata da papa Clemente X (1670-1676); la Chiesa Ortodossa li celebra l’11 gennaio.
Ma chi sono gli Angeli e che rapporto hanno nella storia del genere umano? Prima di tutto l’esistenza degli Angeli è un dogma di fede, definito più volte dalla Chiesa (Simbolo Niceno, Simbolo Costantinopolitano, IV Concilio Lateranense (1215), Concilio Vaticano I (1869-70)).
Tutto ciò che riguarda gli Angeli, ha costituito una scienza propria detta ‘angiologia’; e tutti i Padri della Chiesa e i teologi, hanno nelle loro argomentazioni, espresso ed elaborato varie interpretazioni e concetti, riguardanti la loro esistenza, creazione, spiritualità, intelligenza, volontà, compiti, elevazione e caduta.
Come si vede la materia è così vasta e profonda, che è impossibile in questa scheda succinta, poter esporre esaurientemente l’argomento, ci limiteremo a dare qualche cenno essenziale.

Esistenza e creazione
La creazione degli angeli è affermata implicitamente almeno in un passo del Vecchio Testamento, dove al Salmo 148 (Lode cosmica), essi sono invitati con le altre creature del cielo e della terra a benedire il Signore: “Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nell’alto dei cieli. Lodatelo, voi tutti suoi angeli, lodatelo, voi tutte sue schiere… Lodino tutti il nome del Signore, perché al suo comando ogni cosa è stata creata”.

Nel nuovo Testamento (Col. 1.16) si dice: “per mezzo di Cristo sono state create tutte le cose nei cieli e sulla terra”. Quindi anche gli angeli sono stati creati e se pure la tradizione è incerta sul tempo e nell’ordine di questa creazione, essa è ritenuta dai Padri indubitabile; certamente prima dell’uomo, perché alla cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva, era presente un angelo, posto poi a guardia dell’Eden, per impedirne il ritorno dei nostri progenitori.

Spiritualità
La spiritualità degli angeli, è stato oggetto di considerazioni teologiche fra i più grandi Padri della Chiesa; s. Giustino e s. Ambrogio attribuivano agli angeli un corpo, non come il nostro, ma luminoso, imponderabile, sottile; s. Basilio e s. Agostino furono esitanti e si espressero non chiaramente; s. Giovanni Crisostomo, s. Gerolamo, s. Gregorio Magno, asserirono invece l’assoluta spiritualità; il già citato Concilio Lateranense IV, quindi il Magistero della Chiesa, affermò che gli Angeli sono spirito senza corpo.
L’angelo per la sua semplicità e spiritualità è immortale e immutabile, privo di quantità non può essere localmente presente nello spazio, però si rende visibile in un luogo per esplicare il suo operato; non può moltiplicarsi entro la stessa specie e s. Tommaso d’Aquino afferma che tante sono le specie angeliche quanti sono gli stessi angeli, l’uno diverso dall’altro.
Nella Bibbia si parla di angeli come di messaggeri ed esecutori degli ordini divini; nel Nuovo Testamento essi appaiono chiaramente come puri spiriti.
Nella credenza ebraica essi furono talvolta avvicinati a esseri materiali, ai quali si offriva ospitalità, che essi ricambiavano con benedizioni, promesse di prosperità, ecc.

Intelligenza e volontà
L’Angelo in quanto essere spirituale non può essere sprovvisto della facoltà dell’intelligenza e della volontà; anzi in lui debbono essere molto più potenti, in quanto egli è puro di spirito; sulla prontezza e infallibilità dell’intelligenza angelica, come pure sull’energia, la tenace volontà, la libertà superiore, il grande Dottore Angelico, s. Tommaso d’Aquino, ha scritto ampiamente nella sua “Summa Theologica”, alla quale si rimanda per un approfondimento.

Elevazione
La Sacra Scrittura suggerisce più volte che gli Angeli godono della visione del volto di Dio, perché la felicità alla quale furono destinati gli spiriti celesti, sorpassa le esigenze della natura ed è soprannaturale.
E nel Nuovo Testamento frequentemente viene stabilito un paragone fra uomini, santi e angeli, come se la meta cui sono destinati i primi, altro non sia che una partecipazione al fine già conseguito dagli angeli buoni, i quali vengono indicati come ‘santi’, ‘figli di Dio’, ‘angeli di luce’ e che sono ‘innanzi a Dio’, ‘al cospetto di Dio o del suo trono’; tutte espressioni che indicano il loro stato di beatitudine; essi furono santificati nell’istante stesso della loro creazione.

Caduta
Il Concilio Lateranense IV, definì come verità di fede che molti Angeli, abusando della propria libertà caddero in peccato e diventarono cattivi.
San Tommaso affermò che l’Angelo poté commettere solo un peccato d’orgoglio, lo spirito celeste deviò dall’ordine stabilito da Dio e non accettandolo, non riconobbe al disopra della sua perfezione, la supremazia divina, quindi peccato d’orgoglio cui conseguì immediatamente un peccato di disobbedienza e d’invidia per l’eccellenza altrui.
Altri peccati non poté commetterli, perché essi suppongono le passioni della carne, ad esempio l’odio, la disperazione. Ancora s. Tommaso d’Aquino specifica, che il peccato dell’Angelo è consistito nel volersi rendere simile a Dio.
La tradizione cristiana ha dato il nome di Lucifero al più bello e splendente degli angeli e loro capo, ribellatosi a Dio e precipitato dal cielo nell’inferno; l’orgoglio di Lucifero per la propria bellezza e potenza, lo portò al grande atto di superbia con il quale si oppose a Dio, traendo dalla sua parte un certo numero di angeli.
Contro di lui si schierarono altri angeli dell’esercito celeste capeggiati da Michele, ingaggiando una grande e primordiale lotta nella quale Lucifero con tutti i suoi, soccombette e fu precipitato dal cielo; egli divenne capo dei demoni o diavoli nell’inferno e simbolo della più sfrenata superbia.
Il nome Lucifero e la sua identificazione con il capo ribelle degli angeli, derivò da un testo del profeta Isaia (14, 12-15) in cui una satira sulla caduta di un tiranno babilonese, venne interpretata da molti scrittori ecclesiastici e dallo stesso Dante (Inf. XXIV), come la descrizione in forma poetica della ribellione celeste e della caduta del capo degli angeli.
“Come sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora! Come sei stato precipitato a terra, tu che aggredivi tutte le nazioni! Eppure tu pensavi in cuor tuo: Salirò in cielo, al di sopra delle stelle di Dio innalzerò il mio trono… salirò sulle nubi più alte, sarò simile all’Altissimo. E invece sei stato precipitato nell’abisso, nel fondo del baratro!”

L’esercito celeste
La figura dell’Angelo come simbolo delle gerarchie celesti, in genere appare fin dai primi tempi del cristianesimo, collocandosi in prosecuzione della tradizione ebraica e come trasformazione dei tipi precristiani delle Vittorie e dei Geni alati, che avevano anche la funzione mediatrice, tra le supreme divinità e il mondo terrestre.
Attraverso l’insegnamento del “De celesti hierarchia” dello pseudo Dionigi l’Areopagita, essi sono distribuiti in tre gerarchie, ognuna delle quali si divide in tre cori.
La prima gerarchia comprende i serafini, i cherubini e i troni; la seconda le dominazioni, le virtù, le potestà; la terza i principati, gli arcangeli e gli angeli.
I cori si distinguono fra loro per compiti, colori, ali e altri segni identificativi, sempre secondo lo pseudo Areopagita, i più vicini a Dio sono i serafini, di colore rosso, segno di amore ardente, con tre paia di ali; poi vengono i cherubini con sei ali cosparse di occhi come quelle del pavone; le potestà hanno due ali dai colori dell’arcobaleno; i principati sono angeli armati rivolti verso Dio e così via.
Più distinti per la loro specifica citazione nella Bibbia, sono gli Arcangeli, i celesti messaggeri, presenti nei momenti più importanti della Storia della Salvezza; Michele presente sin dai primordi a capo dell’esercito del cielo contro gli angeli ribelli, apparve anche a papa s. Gregorio Magno sul Castel S. Angelo a Roma, lasciò il segno della sua presenza nel Santuario di Monte S. Angelo nel Gargano; Gabriele il messaggero di Dio, apparve al profeta Daniele; a Zaccaria annunciante la nascita di s. Giovanni Battista, ma soprattutto portò l’annuncio della nascita di Cristo alla Vergine Maria; Raffaele è citato nel Libro di Tobia, fu guida e salvatore dai pericoli del giovane Tobia, poi non citato nella Bibbia, c’è Uriele, nominato due volte nel quarto libro apocrifo di Ezra, il suo nome ricorre con frequenza nelle liturgie orientali, s. Ambrogio lo poneva fra gli arcangeli, accompagnò il piccolo s. Giovanni Battista nel deserto, portò l’alchimia sulla terra.

L’angelo nell’arte
Ricchissima è l’iconografia sugli angeli, la cui condizione di esseri spirituali, senza età e sesso, ha fatto sbizzarrire tutti gli artisti di ogni epoca, nel raffigurarli secondo la dottrina, ma anche con il proprio estro artistico.
Gli artisti, specie i pittori, vollero esprimere nei loro angeli un sovrumano stato di bellezza, avvolgendoli a volte in vesti sacerdotali o in classiche tuniche, a volte come genietti dell’arte romana, quasi sempre con le ali e con il nimbo (nuvoletta); dal secolo IV e V li ritrassero in aspetto giovanile, efebico, solo nell’epoca barocca apparirà il tipo femminile.
Gli angeli furono raffigurati non solo in atteggiamento adorante, come nelle magnifiche Natività o nelle Maestà medioevali, ma anche in atteggiamento addolorato e umano nelle Deposizioni, vedasi i gesti di disperazione per la morte di Gesù, degli angeli che assistono alla deposizione dalla croce, nel famoso dipinto di Giotto “Compianto di Cristo morto” (Cappella degli Scrovegni, Padova).
Poi abbiamo angeli musicanti e che cantano in coro, che suonano le trombe (tubicini); gli angeli armati in lotta con il demonio; angeli che accompagnano lo svolgersi delle opere di misericordia, ecc.

L’angelo nella Bibbia
Specifici episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, indicano la presenza degli Angeli: la lotta con l’angelo di Giacobbe (Genesi 32, 25-29); la scala percorsa dagli angeli, sognata da Giacobbe (Genesi, 28, 12); i tre angeli ospiti di Abramo (Genesi, 18); l’intervento dell’angelo che ferma la mano di Abramo che sta per sacrificare Isacco; l’angelo che porta il cibo al profeta Elia nel deserto.
L’annuncio ai pastori della nascita di Cristo; l’angelo che compare in sogno a Giuseppe, suggerendogli di fuggire con Maria e il Bambino; gli angeli che adorano e servono Gesù dopo le tentazioni nel deserto; l’angelo che annunciò alla Maddalena e alle altre donne, la resurrezione di Cristo; la liberazione di s. Pietro, dal carcere e dalle catene a Roma; senza dimenticare la cosmica e celeste simbologia angelica dell’Apocalisse di s. Giovanni Evangelista.

L’Angelo Custode
Infine l’Angelo Custode, l’esistenza di un angelo per ogni uomo, che lo guida, lo protegge, dalla nascita fino alla morte, è citata nel Libro di Giobbe, ma anche dallo stesso Gesù, nel Vangelo di Matteo, quando indicante dei fanciulli dice: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”.
La Sacra Scrittura parla di altri compiti esercitati dagli angeli, come quello di offrire a Dio le nostre preghiere e sacrifici, oltre quello di accompagnare l’uomo nella via del bene.

Il nome di ‘angelo’ nel discorrere corrente, ha assunto il significato di persona di eccezionale virtù, di bontà, di purezza, di bellezza angelica e indica perfezione.

Autore: Antonio Borrelli – santiebeati.it

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Il nuovo Calendario universale della Chiesa ha conservato, a questa data, non la festa, ma la memoria degli Angioli Custodi.
Abbiamo già parlato, il 5 maggio, dell’unico Santo che ripete, nei calendari, il nome di Angelo, il carmelitano Martire in Sicilia. Ma tra i moltissimi fedeli che ripetono questo nome così diffuso non mancheranno quelli che preferiscono celebrare il loro onomastico nel giorno dedicato proprio agli Angioli, non di nome ma di fatto.
Un tempo questa festa veniva celebrata il 29 settembre, insieme con quella di San Michele, custode e protettore per eccellenza. Tre giorni fa, a quella data, abbiamo ricordato i tre Arcangeli principali, e diciamo così prototipi, ognuno con il loro nome: Michele, Gabriele e Raffaele.
L’uso di una festa particolare dedicata agli Angioli Custodi si diffuse nella Spagna nel ’400, e nel secolo successivo in Portogallo, più tardi ancora in Austria. Nel 1670, il Papa Clemente X ne fissò la data al 2 ottobre.
La devozione per gli Angioli è più antica di quella per i Santi: prese particolare importanza nel Medioevo quando i monaci solitari ricercarono la compagnia di queste invisibili creature e le sentirono presenti nella loro vita di silenzioso raccoglimento.
Dopo il concilio di Trento, la devozione per gli Angioli fu meglio definita e conobbe nuova diffusione. Nella vita attuale, però, gli uomini trascurano sempre di più la propria angelica compagnia, e non avvertono ormai la presenza di un puro spirito, testimone costante dei pensieri e delle azioni umane.
Di solito si parla dell’Angiolo Custode soltanto ai bambini, e per questo anche l’iconografia si è fissata sulla figura dell’Arcangiolo Raffaele, che guida e conduce il giovane Tobiolo.
Gli adulti, invece, dimenticano facilmente il loro adulto testimone e consigliere, il loro invisibile compagno di viaggio, il muto testimone della loro vita. E anche questo aumenta il senso della desolazione e addirittura dell’angoscia che caratterizza il nostro tempo, nel 4uale si sono lasciate cadere, come infantili fantasie, tante consolanti e sostenitrici verità di fede.
R infatti verità di fede che ogni cristiano, dal Battesimo, riceve il proprio Angiolo Custode, che lo accompagna, lo ispira e lo guida, per tutta la vita, fino alla morte, esemplare perfetto della condotta che si dovrebbe tenere nei riguardi di Dio e degli uomini.
L’Angiolo Custode è dunque il luminoso specchio sul quale ogni cristiano dovrebbe riflettere la propria condotta giornaliera.
Per questo la Chiesa ha dettato una delle più belle preghiere che dice: « Angiolo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla pietà celeste. Così sia ».

Fonte: Archivio Parrocchia – santiebeati.it

 

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Perché pregare in latino?

Posté par atempodiblog le 13 juin 2008

Una lingua « antica », quindi non più correntemente parlata, è sottratta all’inevitabile mobilità della vita e garantisce quindi una certa fissità del linguaggio. Una fissità che non guasta quando l’argomento riguarda ciò che è eterno… «Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor 4,18).

di Don Pietro Cantoni

L’elfo Gildor dice a Frodo: «È bello sentir frasi dell’Antica Lingua sulle labbra di altri viandanti in giro per il mondo» Una delle pochissime, forse l’unica « preghiera » nel Signore degli Anelli è in elfico: « Gilthoniel A Elbereth! [Salve Stella del Vespro!]« .

Qui incontriamo il concetto di lingua sacra. La lingua sacra può essere concepita come mezzo per esprimere e quindi partecipare ad un « mistero », cioè ad una azione che trascende l’agire comune, banale, « profano »; oppure come strumento di una azione magica. Da una parte espressione di fede, dall’altra di tecnica e di potere. Cfr. l’episodio degli esorcisti ambulanti ebrei (i figli di Sceva) raccontato nel capitolo 19 degli Atti degli Apostoli, dove il santo nome di Gesù, che comprende l’ineffabile nome di Dio accanto al termine « salva », è usato come talismano per scacciare gli spiriti, quindi senza fede.

Il Cristianesimo non dispone propriamente di una lingua sacra. In ciò si differenzia dal Giudaismo, dall’Islam e dall’Induismo. Le parole di Gesù sono tradotte in greco nel testo canonico del Nuovo Testamento e anche l’Antico Testamento è citato nella traduzione dei LXX, il cui valore e il cui significato per il Cristianesimo è difficilmente sopravvalutabile. Ciò non toglie che anche il Cristianesimo conosca delle « antiche lingue »: le lingue liturgiche. Le grandi tradizioni apostoliche dell’antichità cristiana si cristallizzano attorno a delle lingue liturgiche e alla lingua in cui è tradotta la Bibbia.

Tradizione Antiochena: siriaco (aramaico), la lingua della traduzione detta Peshitta. A questa tradizione appartengono le liturgie siro-occidentale e siro-orientale (detta anche « assira » o « caldea »), che – in India – è divenuta la liturgia siro-malabarese.

Tradizione Bizantina: greco, la lingua della traduzione dei LXX. A questa tradizione appartengono le liturgie di S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo.

Tradizione Alessandrina: copto. Il copto deriva dall’antica lingua degli egiziani e si divide in « dialetti »: bohirico e sahidico. In questa lingua è celebrata la liturgia di S. Marco, detta anche – appunto – liturgia « copta ». Da questa liturgia deriva la liturgia etiopica, celebrata nell’etiopico antico, il gheez. In gheez abbiamo anche una traduzione della Bibbia, nel cui canone sono inclusi anche diversi apocrifi che ci sono giunti solo attraverso questa traduzione.

Tradizione Romana, a cui corrisponde ovviamente il latino con la traduzione Vetus Latina e la più nota Vulgata. In questa lingua sono (o furono) celebrate venerabili liturgie: romana, ambrosiana, celtica, gallicana, visigotico-mozarabica.

La prassi della Chiesa rispetto alle « antiche lingue » nelle varie tradizioni è stata diversa. La Chiesa latina ha mantenuto il latino in modo pressoché esclusivo dai tempi del pontificato di S. Damaso (366-384) fino al concilio Vaticano II. La Chiesa bizantina ha sempre ammesso la possibilità di traduzioni totali o parziali. Sono così nate le liturgie bizantino-slava, bizantino-rumena, ecc.

Le Chiese orientali hanno ammesso – nel tempo – traduzioni parziali. Sia i copti, per es., che i Maroniti, passano alternativamente dall’arabo alla lingua liturgica copta o siriaca.

Si pone qui il non facile problema della traduzione. Che cosa vuol dire tradurre? Il greco hermeneuô significa sia interpretare che tradurre. Come il latino interpretari. Tradurre è – in ultima analisi – un dispositivo linguistico finalizzato a « far comprendere ». Ma appunto, « che cosa far comprendere »?

Si tratta di un mistero: questo è ciò che deve essere capito. Ma non è contraddittorio « capire il mistero »? Qui sono indispensabili alcune premesse. Innanzitutto il mistero della rivelazione biblica non è propriamente una « cosa », ma una azione. Un’ azione la si capisce propriamente se – almeno in qualche modo – vi si partecipa. Non dobbiamo poi intendere il mistero come ciò in cui « non c’è niente da capire », ma esattamente come il contrario: « ciò in cui vi è troppo da capire ». Non quindi mistero come « buco nero », come somma di oscurità, ma come eccesso di luce. Il buio è – secondo l’efficace metafora usata da Aristotele – l’effetto che fa la luce del sole sull’occhio della « nottola » cioè l’animale notturno, il pipistrello o la civetta…

Davanti all’effetto di buio del mistero si rimane stupiti e quindi silenziosi. Myô in greco vuol dire « tacere » (è un verbo che sprime bene lo sforzo di due labbra che premono l’una contro l’altra) e di lì viene il termine mysterion.

Si tratta quindi di un mistero, ma di un mistero da capire almeno un po’, perché bisogna parteciparvi. Anche qui sarebbe opportuna una distinzione tra capire (o sapere) e comprendere, che non sono affatto la stessa cosa…

A questo proposito abbiamo il caso limite della Chiesa etiopica dove il gheez ormai non è più capito neppure dal sacerdote. Ore ed ore a pregare e cantare in una lingua incomprensibile… Non può costituire certo un modello da imitare, induce però a riflettere sui limiti del dispositivo « traduzione ». Una Chiesa ha continuato a mantenere viva la sua tradizione di fede praticando la liturgia in una lingua sconosciuta e d’altra parte è illusorio pensare che ogni problema di partecipazione sia magicamente risolto mediante una semplice traduzione linguistica… Si capisce tutto! Ma che cosa si capisce?

Una affermazione può quindi e deve essere fatta in tutta sicurezza: la Chiesa in tutte le sue tradizioni ammette come plausibile pregare in una lingua che non tutti conoscono. La lingua « antica » e sconosciuta diventa cioè un simbolo liturgico. Un « oggetto » liturgico che si affianca agli altri: altare, vesti, vasi, ecc. Come la traduzione è un dispositivo al servizio della comprensione, la lingua un po’ « sconosciuta » diventa un dispositivo al servizio del mistero.

Naturalmente – posto la natura del mistero, che abbiamo cercato di lumeggiare – ci dobbiamo chiedere fino a che punto una lingua può essere « sconosciuta » per servire alla bisogna. Una lingua assolutamente sconosciuta rischia di assumere la funzione dell’abracadabra delle favole o del sala gadula mencigabula, bibidi bobidi bù dei film di Walt Disney…

Il mistero si profila nel « chiaroscuro » della fede. Il problema della lingua liturgica va quindi visto almeno in una duplice prospettiva: una lingua antica, dal sapore « arcano », ma non « astruso », che sia quindi ancora uno strumento comunicante.

Possiamo allora valutare serenamente i pregi e i difetti di una lingua liturgica diversa da quella corrente.

Tra i pregi dobbiamo certamente ascrivere il collegamento che essa assicura con le radici proprie di una data tradizione liturgica, che è sempre anche tradizione teologica e spirituale. Si vive così in una comunione che è insieme diacronica e sincronica. Ricordo ancora con emozione il giorno che – durante una lunga giornata di confessioni all’aperto (si era nel 1987) accanto alla chiesa di Me?ugorje – mi si avvicinò un anziano signore dicendomi: «Ego sum sacerdos hungaricus, volo confiteri…».

Una lingua « antica », quindi non più correntemente parlata, è sottratta all’inevitabile mobilità della vita e garantisce quindi una certa fissità del linguaggio. Una fissità che non guasta quando l’argomento riguarda ciò che è eterno… «Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor 4,18).

Un’antica lingua conserva dunque una connaturale simpatia – sintonia con il mistero.

Tra gli inconvenienti dobbiamo ascrivere soprattutto la pratica scomparsa del latino dai programmi scolastici. Perché una lingua liturgica « funzioni » non è indispensabile che tutti la capiscano, ma che qualcuno la capisca sì…

Bobbio, 17 agosto 2002
Tratto da: rassegnastampa.totustuus.it

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Il funzionamento del mondo

Posté par atempodiblog le 20 mai 2008

Solo la provvidenza può spiegare il funzionamento del mondo

« Si interrogano gli ingrati e gli insensati: «Non dovrebbe esser proprio della bontà di Dio concedere per tutti uguaglianza di onori?». Dimmi, o ingrato, quali sono le cose che tu affermi non esser proprie della bontà di Dio, e che cosa intendi per «uguaglianza di onori»? Uno è storpio da fanciullo, un altro diventa pazzo ed è invasato da un demonio; un altro, che giunge al limite della vecchiaia, ha trascorso tutta la vita nella povertà; un altro in gravissime malattie: sono queste le opere della provvidenza? Uno è sordo, un altro muto; uno è povero; un altro, infame e scellerato e pieno d’innumerevoli vizi, guadagna denaro e mantiene meretrici e fannulloni, possiede una casa bellissima e conduce una vita senza mai lavorare. E raccolgono molti esempi del genere, tessendo un lungo discorso contro la provvidenza di Dio.

Che dunque? Non vi è nessuna provvidenza? Che cosa rispondiamo loro? Se fossimo greci e ci dicessero che il mondo è retto da qualcuno, anche noi diremmo loro le stesse cose: Perché non c’è nessuna provvidenza? Perché mai, allora, voi avete il culto degli dèi e adorate demoni ed eroi? Infatti, se esiste una provvidenza, essa si prende cura di tutto. Se vi fossero alcuni, cristiani o anche greci, che si scoraggiassero e vacillassero, che cosa diremmo loro? Tante cose, dimmi, ti prego, sarebbero dunque sorte buone per caso? La luce del giorno, l’ordine predisposto nelle cose, il movimento circolare degli astri, l’eguale corso dei giorni e delle notti, l’ordine della natura tanto nelle piante quanto negli animali e negli uomini? Chi è mai, domando, colui che governa tutte queste cose? Se nessuno le dirige ed esse dipendono tutte da se stesse, chi ha mai fatto questa volta così grande e bella, il cielo appunto, collocato tutt’intorno alla terra e anche sopra le acque? Chi dà alle stagioni dei frutti? Chi ha posto tanta vita nei semi e nelle piante? Ciò che avviene per caso, infatti, è assolutamente disordinato; ciò che presenta ordine e armonia, invece, è stato prodotto con ingegno.

Infatti, ti chiedo, quelle cose che da noi avvengono per caso, non sono piene di grande confusione, tumulto e turbamento? E non parlo soltanto di quanto avviene per caso, ma anche di ciò che è fatto da qualcuno, ma senza criterio. Ad esempio, vi siano legna e pietre, e vi sia anche la calce; ora, un uomo inesperto nell’arte di costruire, servendosi di questi, si accinga a edificare e a compiere qualcosa: costui non manderà forse in rovina e non distruggerà ogni cosa? E ancora, si dia una nave senza nocchiero, provvista di tutto quanto una nave debba possedere, tranne il nocchiero: potrebbe forse navigare? E la terra stessa, che è tanto estesa, posta com’è al di sopra delle acque, potrebbe rimanere tanto tempo immobile, se non vi fosse qualcuno in grado di sorreggerla? E tutto ciò è forse ragionevole? Non è ridicolo pensare queste cose?…

Se volessimo esporre esaurientemente, in tutto e per tutto, fin nei dettagli, tutte quelle cose della provvidenza, non ci basterebbero tutti i secoli. Domanderò, infatti, a chi abbia chiesto ciò: queste cose avvengono grazie alla provvidenza o senza la provvidenza? Se rispondesse: «Non sono della provvidenza», gli domanderei ancora: Come dunque sono state fatte? Ma non potrebbe rispondere in alcun modo. A maggior ragione, perciò, non devi investigare con curiosità intorno alle cose umane. Perché? Poiché l’uomo è l’essere più illustre e onorevole di tutti, e tutte le cose sono state create per lui, non lui per esse.

Se dunque non conosci la sapienza e il governo della provvidenza riguardo all’uomo, in che modo potresti mai scoprire quali siano le sue ragioni? Dimmi un po’, perché mai essa ha creato l’uomo così piccolo e così distante dall’altezza del cielo al punto che dubiti di quelle cose che si mostrano dall’alto? Perché le regioni australi e boreali sono inabitabili? Dimmi, perché la notte è stata fatta più lunga d’inverno e più corta in estate? Perché tanto freddo? Perché il caldo? Perché la mortalità del corpo? E altre innumerevoli cose voglio sapere da te; se tu vorrai, non smetterò d’interrogarti perché tu possa replicarmi in tutto.

Pertanto, la caratteristica più confacente alla provvidenza è questa: che le sue ragioni rimangano per noi ineffabili. Qualcuno, infatti, non avendo compreso il nostro pensiero, avrebbe potuto ritenere che l’uomo sia la causa di tutte le cose. «Tuttavia, direbbe qualcuno, quell’uomo è povero: e la povertà è un male». Ma che cos’è il male? Che cos’è la cecità, o uomo? Vi è un solo male: peccare; e solo di questo dobbiamo preoccuparci. Invece, tralasciando di scrutare le cause dei veri mali, ricerchiamo con curiosità altre cose. Perché nessuno di noi cerca mai di scoprire il motivo profondo per il quale ha peccato? È in mio potere di peccare, oppure no? Ma che bisogno c’è di usare un grande giro di parole? Cercherò tutto in me stesso: forse che sono riuscito qualche volta a vincere la passione? Ho vinto qualche volta l’ira per pudore o per timore umano? In tal modo, accertato questo, scoprirò che è in mio potere peccare. Nessuno si preoccupa di comprendere e di approfondire queste cose; al contrario, sconsideratamente, come si legge in Giobbe, l’uomo nuota disordinatamente nelle parole (Gb 11,12). »

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera agli Efesini, 19,3-4

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