La monaca santa dei Ponti Rossi

Posté par atempodiblog le 16 février 2025

La monaca santa dei Ponti Rossi
La Beata Maria Giuseppina di Gesù crocifisso. Padre Pio le disse: “Ci santificheremo insieme”.
di Francesco Bosco – Voce di Padre Pio

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Una bambina come tante
Giuseppina Catanea nasce a Napoli il 18 febbraio 1896, da Francesco, impiegato ferroviario a Benevento, e Concetta dei marchesi Grimaldi. Terzogenita di una famiglia devota e amorevole, viene battezzata pochi giorni dopo la nascita. “Pinella”, così viene affettuosamente chiamata in famiglia, si distingue per la sua salute delicata, ma per il resto appare una bambina come tutte le altre, dimostrando una profonda spiritualità.
Nonostante sia solo una bambina, frequenta da sola la Chiesa di Santa Caterina e si dedica ad aiutare i bisognosi. Sebbene la sua salute fragile la costringa spesso ad assentarsi da scuola, riesce comunque a eccellere negli studi.
Nel settembre 1908, la sorella maggiore Antonietta entra nel monastero carmelitano dei Santi Giovanni e Teresa. Giuseppina l’accompagna, e quel momento segna l’inizio di una forte attrazione verso la vita monastica. Tuttavia, decide di accantonare temporaneamente l’idea, legata com’è alla madre alla quale è molto affezionata. Per un periodo pensa persino di costruirsi una vita matrimoniale, ma ben presto si rende conto che il suo destino è altrove, vicino a Dio. Riceve alcune proposte di matrimonio che rifiuta con cortesia. Tuttavia, uno dei suoi pretendenti, risentito dal rifiuto, arriva persino a ferirla con un’arma da caccia. Invece di denunciare l’accaduto, Giuseppina decide di tacere, coprendo ferita con un’immagine della Madonna e lasciando che guarisse da sola.
Nel frattempo la sorella Antonietta, costretta a lasciare il monastero per motivi di salute, viene scelta dal suo direttore spirituale, padre Romualdo di Sant’Antonio, per fondare un nuovo Carmelo a Napoli. Viene considerata una missione voluta da Dio e accolta con fede dalla famiglia.
Il 15 agosto 1910 Antonietta inizia la sua nuova vita religiosa in due modeste stanze prese in affitto dalle suore Betlemite a Santa Maria dei Monti, sui Ponti Rossi. Qui, il 22 ottobre, riceve l’abito carmelitano e prende il nome di suor Maria Teresa.

Quadro-Miracoloso-di-san-Giuseppe-ai-Ponti-Rossi-di-Napoli dans Fede, morale e teologia

Una irresistibile chiamata
Anche Giuseppina è presente alla cerimonia, celebrata nella Chiesa di Santa Teresa al Museo, e avverte nuovamente il richiamo alla vita consacrata.
Il 2 aprile 1913, viene benedetta la cappella della nuova casa, un segno che il sogno del Carmelo di Napoli si sta realizzando.
Dopo lunghe preghiere e riflessioni, Giuseppina comprende che deve seguire il suo cuore e rispondere alla chiamata di Dio. Comunica la sua decisione alla madre e alle zie, che si oppongono fermamente, ma lei risponde con determinazione: “Non posso più far attendere Colui che mi chiama”. Decide quindi di unirsi al Terz’Ordine Carmelitano, ricevendo lo scapolare come segno di appartenenza alla famiglia carmelitana.
Il 10 marzo 1918, prende la decisione definitiva. Chiede alla madre il permesso di andare ai Ponti Rossi per partecipare alla novena in onore di san Giuseppe. La madre acconsente, pensando che il cambio d’aria possa aiutarla a guarire definitivamente dagli attacchi d’angina. Tuttavia, Giuseppina non tornerà mai più a casa: la sua permanenza nel monastero si prolunga a causa dei bombardamenti della Prima Guerra Mondiale e dell’epidemia della “spagnola”.
A Natale si ammala. Il medico le diagnostica una bronco-pleurite che si aggrava fino a diventare polmonite doppia. Le condizioni peggiorano ulteriormente quando sviluppa una broncoalveolite, ma non perde la speranza, e sopporta le sofferenze offrendo tutto a Dio.
Nel novembre del 1920, decide di entrare definitivamente in monastero, nonostante le pressioni dei familiari per farla tornare a casa.
Poco dopo, la sua salute subisce un ulteriore colpo: viene colpita da tubercolosi alla spina dorsale, paralisi completa e meningismo spinale. Nonostante queste prove dolorose, Giuseppina cerca di abbracciare la volontà di Dio con serenità, mentre le sue consorelle pregano per la sua guarigione.

Quel misterioso vento
Nella primavera del 1923, ha un sogno che segna un punto di svolta nella sua vita: le appare un santo vestito di nero e una voce che accompagna la visione dice: “San Francesco ti ha guarita dal tuo male”. Quando padre Romualdo le porta un’immaginetta di san Francesco Saverio, Giuseppina riconosce immediatamente il Santo del sogno.
Il 26 giugno, la reliquia del braccio del Santo viene portata nella sua cella: subito dopo un misterioso vento la spinge a rialzarsi. Quella che sembrava una paralisi permanente scompare, e Giuseppina riesce a stare in piedi e a camminare, tra le grida di gioia delle sue consorelle. E’ un vero miracolo.
Da quel momento, inizia per lei, un nuovo tipo di apostolato. In parlatorio accoglie persone di ogni ceto sociale, offrendo conforto, consigli e preghiere.
Dopo un lungo percorso, che condusse Giuseppina anche a Roma in udienza da Papa Pio XI, arrivò l’approvazione pontificia del monastero nel 1932.
Un anno più tardi, Giuseppina e le altre monache ricevono ufficialmente l’abito carmelitano, e lei diventa suor Maria Giuseppina di Gesù Crocifisso. La sua missione è quella di portare la luce di Dio a tutti coloro che la cercano.
Maria Jose, la futura regina d’Italia, viene a raccomandarle la sua creatura che sta per nascere. I suoi prediletti però sono i poveri e gli infelici.
È solita dire: “Lo dico a Gesù”.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Carmelo sperimenta, grazie a suor Giuseppina, una speciale protezione di Dio. Nonostante le bombe che cadono, tanta gente va da lei a chiedere la sua preghiera e notizie dei soldati lontani. Ella soffre l’indicibile e chiede continuamente a Dio la fine del conflitto armato. Consola, prega, ottiene l’impossibile. Vede il futuro il crollo del fascismo, l’Italia che rinasce.

Per Padre Pio era l’eletta di Dio
Sicuramente la santa monaca già conosceva Padre Pio, ma è dal 1940 che affiorano documenti che segnalano un rapporto di figliolanza spirituale quando dopo aver lanciato il suo grido di aiuto, Padre Pio dal Gargano le rispondeva tramite i comuni amici: “L’amato Padre Pio vi ha nel cuore quale eletta di Dio”.
All’inizio del 1944 dolori atroci stritolano il suo corpo lentamente, perde la vista, ma il suo sguardo rimane bello e luminoso.
La notte del 28 settembre Gesù le anticipa: “Sarà stentata la tua vita”.
I medici diagnosticano la sua nuova malattia: sclerosi a placche.
Continua a pregare: “Gesù, trasfigurami in Te”. Nonostante le sue condizioni, nel 1945 viene eletta priora e guida la comunità con dolcezza e determinazione.
Madre Giuseppina mantiene sempre il sorriso e la forza d’animo e continua ad accogliere i fedeli con parole di conforto e speranza.
Nel 1947, una donna napoletana dopo essersi confessata da Padre Pio, gli domanda: “Madre Giuseppina le manda a dire che vuole salvarsi l’anima. Se crede, le dica una parola per l’anima sua”. Padre Pio sorride e risponde: “Vuole salvarsi l’anima?”, poi con tono di voce appassionato, afferma: “Dille che le mando una fiumana di benedizioni, tutti i sorrisi degli angeli del Paradiso, e che ci santificheremo insieme”.
Le sue ultime parole mostrano una profonda accettazione della volontà di Dio: “E’ infermità della volontà di Dio”.
Riceve gli ultimi Sacramenti.
Offre le sofferenze atroci, le preghiere, la vita, per i sacerdoti, per i più lontani da Dio, per l’avvenire dell’Italia, per la Chiesa.
Prega intensamente: “Gesù, sii per me Gesù, sii per tutti Gesù”.
Muore serenamente il 14 marzo 1948, domenica di Passione. Pochi giorni prima, Padre Pio da Pietrelcina le aveva mandato a dire: “Prego tanto il Signore che l’aiuti nel suo olocausto, che sia sempre merito per sé, per le anime, per la gloria del Signore. Un giorno quando ci sarà dato di vedere la luce del pieno meriggio allora conosceremo quale valore e quali tesori siano state le sofferenze terrene che ci avranno fatto guadagnare tanto per la patria che non avrà fine. Dalle anime generose e innamorate, aspetta eroismi per giungere dopo l’ascesa al Calvario, al monte dell’Ascensione”.
Nel 1987 Papa Giovanni Paolo II la dichiarò Venerabile, mentre nel 2008 Papa Benedetto XVI la proclamò Beata. Oggi è conosciuta come la “monaca santa” dei Ponti Rossi.

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San Francesco Saverio: a Goa è iniziata l’esposizione delle reliquie

Posté par atempodiblog le 22 novembre 2024

San Francesco Saverio: a Goa è iniziata l’esposizione delle reliquie
Evento solenne che si ripete ogni dieci anni richiamando migliaia di pellegrini che pregano davanti alle spoglie del grande evangelizzatore dell’Asia. “Siamo messaggeri della Buona Novella”, il tema scelto per l’evento che proseguirà fino al 5 gennaio. Accompagnato da una catena umana di mille giovani il tragitto dell’urna dalla basilica del Bom Jesus alla cattedrale.
di Nirmala Carvalho – AsiaNews

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Nella città vecchia di Goa si è aperta solennemente oggi l’esposizione delle reliquie di san Francesco Saverio, grande evento spirituale che ogni dieci anni vede convergere migliaia di pellegrini in questa città del sud dell’India che custodisce le spoglie del grande missionario dell’Asia. Popolarmente conosciuto come “Gõycho Saib” – cioè il patrono di Goa – il gesuita spagnolo Francesco Saverio, tra i primi compagni di Ignazio di Loyola, proprio qui sbarcò nel 1542 e ne fece poi la base per i suoi viaggi missionari, fino alla morte sopraggiunta il 3 dicembre 1552 sull’isola di Shangchuan, alle porte della Cina.

L’esposizione iniziata oggi durerà per 45 giorni fino al 5 gennaio 2025, andandosi così a intrecciare con l’inizio del Giubileo della Chiesa universale. Le reliquie – abitualmente custodite nella basilica del Bom Jesus – sono state portate oggi solennemente in processione alla cattedrale, dove resteranno esposte ogni giorno dalle 7 alle 18 al culto dei fedeli, rinnovando così una lunga tradizione di venerazione spirituale. “Siamo messaggeri della Buona Novella” è il tema scelto per l’esposizione di quest’anno, che si riflette nelle Messe quotidiane celebrate in lingua konkani e in inglese per i milioni di devoti attesi.

Accolti dal card. Filipe Feri Ferrao, arcivescovo di Goa e Darman, numerosi vescovi indiani e oltre 400 sacerdoti hanno concelebrato nella liturgia eucaristica inaugurale presieduta nella basilica del Bom Jesus dall’arcivescovo di Delhi, mons. Anil Joseph Couto, davanti a più di 40mila fedeli. Nella sua omelia il presule ha descritto san Francesco Saverio come “un uomo in missione”, sottolineando come la sua vita fosse una testimonianza vivente della proclamazione della salvezza in Cristo. L’arcivescovo ha esortato i fedeli a trarre ispirazione dalla sua dedizione, imitandone il fervore nella discepolanza e la sua coraggiosa testimonianza del Vangelo.

Prima dell’inizio delle celebrazioni religiose anche il governatore di Goa P S Sreedharan Pillai e il capo del governo locale Pramod Sawant hanno reso omaggio alle reliquie, che al termine del rito sono state poi trasportate fino alla cattedrale a bordo di un veicolo elettrico appositamente progettato. Ad accompagnarle sono stati il clero, rappresentanti selezionati di vari settori della società e una catena umana formata da 1.000 giovani, simbolo di unità.

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Il Giappone cristiano tra santi, martiri e samurai

Posté par atempodiblog le 13 novembre 2021

Il Giappone cristiano tra santi, martiri e samurai
Dall’arrivo di san Francesco Saverio ai martiri di Nagasaki, dai due secoli e mezzo di epopea dei cristiani nascosti fino ai giorni nostri con i missionari di padre Kolbe e la venerabile “Maria delle Formiche”. Gabriele Di Comite ripercorre la storia del Giappone cristiano nel saggio Santi, martiri e samurai.
di Fabio Piemonte – La nuova Bussola Quotidiana

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Il Giappone è una terra di santi, martiri e samurai. Il cristianesimo comincia ad affermarsi nell’isola soltanto dal 1549 con l’arrivo di san Francesco Saverio (†1552) e di altri missionari che, giunti contestualmente alle navi dei commercianti portoghesi, in pochi decenni e pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane, contribuiscono alla conversione alla fede cattolica di oltre 600.000 persone, tra le quali anche signori feudali, guerrieri e monaci buddisti. Seguono due secoli e mezzo di atroci persecuzioni che causano la morte di oltre 5.000 credenti, durante i quali si forma il popolo dei “cristiani nascosti”, custodi in clandestinità di una fede senza sacerdoti, né chiese, né sacramenti.

La storia del Giappone cristiano è raccontata in maniera avvincente e attraverso una narrazione particolarmente documentata da Gabriele Di Comite nel suo recente saggio Santi, martiri e samurai (La Fontana di Siloe 2021, pp. 308).

«Io mi sento animato da un tal sentimento nel cuore circa l’andata al Giappone, che non sarei per mutar pensiero, né pur quando di certo sapessi di dovermi trovar in pericoli assai maggiori […]. Tanta è la speranza che […] Iddio stesso m’ha posta in cuore di propagare la Religion Cristiana». Francesco Saverio scrive così a Ignazio di Loyola riguardo al suo zelo apostolico nel Paese del Sol Levante. Egli si muove in un contesto difficile sia per la lingua particolarmente ostica, sia per le lotte intestine tra i signori feudali (daimyō) dei diversi territori. Eppure riesce, attraverso la strada della bellezza, ossia donando un dipinto di una Madonna con il Bambino a uno di costoro, a ottenere l’autorizzazione per predicare il Vangelo a Kagoshima. Di lì, poi, la città di Yamaguchi diventerà la sede generalizia dei gesuiti. Questo non senza essere osteggiato dai bonzi buddhisti, la cui predicazione era tanto radicata sul territorio quanto lontana dalla dottrina cattolica sul piano teologico.

Alessandro Valignano, altro missionario gesuita, constata che per convertire i giapponesi bisogna conoscere e rispettare le loro usanze, adattarsi alle abitudini locali e parlare la loro lingua. Era opportuno insomma che anche i missionari mangiassero su tavoli bassi, seduti su stuoie di tatami e avessero nelle proprie case la sala per la cerimonia del tè. Allievo di Valignano, Matteo Ricci sposa il suo metodo d’inculturazione della fede.

Accanto ai gesuiti vi sono anche diversi samurai, guerrieri che arrivano a sostituirsi all’aristocrazia nel controllo delle province per la loro forza militare, tra i quali Takayama Ukon. Egli, rinunciando ai privilegi feudali, si adopera in prima persona per la costruzione di chiese, orfanatrofi, ospedali, cimiteri e la diffusione della fede, anche attraverso la trasformazione della stanza della cerimonia zen del tè in eremo cristiano, la fondazione di scuole teologiche e del seminario di Azuchi. «Io non cerco la mia salvezza con le armi ma con la pazienza e l’umiltà, in accordo con la dottrina di Gesù Cristo che io professo», scrive in un messaggio a chi gli veniva incontro in armi, prima di salpare esule nel 1614 per l’attività missionaria nelle Filippine, alla cui comunità dona una statua della Madonna del Rosario. Soprannominato “Giusto Takayama” e “samurai di Cristo”, è stato un vero martire della fede, riconosciuto come tale già da sant’Alfonso. È stato infatti poi beatificato nel 2017.

Verso la fine del Cinquecento giungono sull’isola anche missionari francescani, domenicani e agostiniani. Il diffondersi della fede cristiana preoccupa però i daimyō, per cui diverse ordinanze ne proibiscono il culto. Ne derivano punizioni esemplari per chi le infrange. Così san Paolo Miki e altri 25 fratelli nella fede, religiosi e laici, spagnoli, portoghesi e giapponesi sono crocifissi a Nagasaki.

Altri cristiani vengono indotti ad apostatare, costretti a calpestare immagini sacre (fumi-e), pena le torture più atroci, «infilzando aghi di metallo sotto le unghie» del reo o calandone il corpo in una fossa a testa in giù dove viene lasciato per giorni, fino alla crocifissione. «Con l’editto del 1641 inizia il periodo del Sakoku», ossia il Giappone diviene un Paese blindato per duecento anni e ai cristiani non resta che professare la propria fede in clandestinità. «Alla scoperta di un cristiano occulto, sarebbe stato punito tutto il villaggio». Di qui, a parte il tentativo isolato di riportare il Vangelo in Giappone del sacerdote siciliano Giovanni Battista Sidoti, per due secoli il Paese rimane senza l’ombra di un sacerdote. Relativamente a tale periodo di bando del cristianesimo, la documentazione storica racconta di 5000 martiri, anche se sono stati di fatto sicuramente molte migliaia di più.

Poi il Giappone conosce l’occidentalizzazione, implementa la rete ferroviaria e il progresso tecnologico, ma vive altresì l’orrore delle due bombe atomiche. Eppure ancora una volta non mancano mirabili testimonianze di fede. I cristiani escono gradualmente dalla clandestinità; soltanto nel 1947 la Costituzione del Paese esplicita la libertà religiosa. Tra le maggiori figure di rilievo del XX secolo basti ricordare il missionario polacco Fra Zeno della Milizia dell’Immacolata di san Massimiliano Kolbe che, insieme alla venerabile Satoko “Maria delle Formiche”, si prodiga per sottrarre gli orfani a un destino di povertà e miseria estrema tra cumuli d’immondizia.

Insomma, sebbene attualmente i cristiani in Giappone siano l’1% e i cattolici lo 0,5% (500.000, di cui solo a Nagasaki il 4,5%), il sangue dei martiri, tra i quali 42 santi e 396 beati, continua a essere seme di nuovi cristiani, «capace di rinnovare e far ardere continuamente lo zelo evangelizzatore» (Papa Francesco).

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San Lorenzo Ruiz

Posté par atempodiblog le 28 septembre 2021

San Lorenzo Ruiz
Fonte: Comunità Cenacolo

San Lorenzo Ruiz dans Fede, morale e teologia san-Lorenzo-Ruiz
28 settembre – Memoria Facoltativa

Lorenzo Ruiz, laico
Domenico Ibáñez de Erquicia, O.P.
Giacomo Kyushei Tomonaga, O.P.
e 13 compagni filippini, martiri in Giappone

Questo gruppo di 16 Martiri, tutti collegati a diverso titolo con l’Ordine dei Frati Predicatori nella Provincia missionaria del S. Rosario sorta nel 1587, fu beatificato il 18 febbraio 1981. Il rito, presieduto da Giovanni Paolo II e celebrato per la prima volta fuori Roma nella storia delle beatificazioni, ebbe luogo a Manila, città con la quale la maggior parte dei Martiri aveva avuto relazione. In modo particolare Lorenzo Ruiz, nativo di quel luogo e protomartire delle Filippine.

Dei 16 Beati, 9 sono giapponesi, 4 spagnoli, 1 italiano, 1 francese, 1 filippino. I sacerdoti domenicani sono 9, i fratelli cooperatori 2, le terziarie 2, e 3 altri laici. Tranne Marina di Omura e Antonio Gonzàlez, tutti morirono sulla collina detta Nishizaka, a Nagasaki, dove già erano stati crocifissi nel 1597 i 26 Santi protomartiri del Giappone, e avevano patito molti dei 205 Beati uccisi tra il 1617 e il 1632.

Essi sono i continuatori di questa schiera (16331637) e con molti altri sono quasi gli epigoni del cosiddetto “secolo cristiano” del Giappone, inaugurato dalla predicazione di S. Francesco Saverio (1549-1650 ca.). Il periodo della loro passione corrisponde al tempo in carica di Tokugawa Yemitsu, shógun o supremo capo militare del Giappone: che il 28 febbraio 1633 e il 22 giugno 1636 aveva emanato due editti per estinguere il cristianesimo in quell’impero. Erano punibili con la sentenza capitale i missionari stranieri o autoctoni, quelli che li ospitavano o che non erano disposti ad abiurare la fede cristiana.

Vari i supplizi con cui venivano torturati i confessori di Cristo durante gli interrogatori presso il tribunale di Nagasaki. Uno consisteva nell’acqua fatta trangugiare violentemente in grande quantità e quindi fatta espellere con altrettanta violenza, con effetto talora di far fuoriuscire il sangue dalla bocca, narici ed orecchie. Un’altra tortura la procuravano punte acuminate di canna di bambù o di ferro conficcate tra i polpastrelli e le unghie delle mani fin quasi a metà dito. Quindi mano ed avambraccio venivano spinti ad urtare contro il suolo. Il tormento più terribile e definitivo fu escogitato appunto durante questo periodo di persecuzione ed era chiamato ana-tsurushi. Il condannato a morte veniva appeso ad un palo con il capo rivolto in basso e con tutto il busto dentro una fossa piena di sudiciume e rinchiusa con tavole di legno che stringevano il corpo all’altezza della cintola. L’appeso con tale sistema era soggetto al deflusso del sangue nel capo con difficoltà a riprendere la circolazione; si sentiva soffocare per la mancanza di aerazione della fossa, resa per di più nauseabonda per il sudiciume che conteneva.

In tali condizioni penosissime il condannato poteva durare da uno a più giorni, secondo le capacità di resistenza fisica. A volte veniva estratto dalla fossa e dalla forca per essere istigato a rinnegare la fede cristiana e quivi rimesso in caso di perseveranza. Sopraggiunta la morte, il cadavere era subito bruciato e le ceneri gettate in mare nel porto di Nagasaki.

san-Lorenzo-Ruiz dans Preghiere

Preghiera a San Lorenzo Ruiz

Glorioso San Lorenzo Ruiz,
catechista e padre di famiglia,  
missionario del Vangelo
nelle Isole Filippine e in Giappone,
sostieni il generoso servizio
di chi anche oggi annuncia e testimonia la fede
nel mondo, soprattutto nelle terre
più lontane, più povere di Dio e più tribolate.

Martire di Gesù e primo Santo del popolo filippino,
che hai proclamato con coraggio la tua prontezza
a donare anche mille volte la tua vita
per la fede cristiana, donaci il coraggio
e la freschezza di una fede viva, luminosa e gioiosa.
Intercedi dal Cielo tante e sante vocazioni missionarie,
perché il Vangelo sia annunciato a tutte le genti.

Alla tua intercessione affidiamo particolarmente
la nostra missione nelle Filippine:
proteggi, custodisci e sostieni i primi passi
della nostra Comunità nella tua amata terra.

San Lorenzo Ruiz,
prega per noi!

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Preghiera a San Francesco Saverio per il Giappone

Posté par atempodiblog le 3 décembre 2019

Preghiera a San Francesco Saverio per il Giappone dans Preghiere San-Francesco-Saverio
San Francesco Saverio  – 3 dicembre memoria liturgica

Oh amabilissimo ed amatissimo San Francesco Saverio, vi chiediamo con la più profonda devozione di ottenere per il Giappone ogni benedizione, e per ogni giapponese la grazia di conoscere Gesù Cristo nostro Signore.
Inoltre Vi preghiamo di intercedere affinché ogni sofferenza patita da quel paese sia immersa nel Sangue Divino di Gesù.
Per la tua intercessione, San Francesco, cessi ogni sofferenza nel Giappone e possa ogni uomo abbracciare la fede cristiana.
Pregate per il Giappone San Francesco Saverio!
Per il nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

  • Padre nostro
  • Ave Maria
  • Gloria

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“Non ci indurre in tentazione”, Papa Benedetto XVI lo spiegò 10 anni fa…

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2017

“Non ci indurre in tentazione”, Papa Benedetto XVI lo spiegò 10 anni fa…
di Cantuale Antonianum

“Non ci indurre in tentazione”, Papa Benedetto XVI lo spiegò 10 anni fa... dans Fede, morale e teologia Benedetto_XVI_e_Papa_Francesco

Per recenti parole di Papa Francesco si è riaccesa la bagarre di chi vuole cambiare anche il Padre Nostro, a proposito della “traduzione” (in realtà “un calco”) dell’espressione “non c’indurre in tentazione”.

Riproponiamo con l’occasione – a vantaggio degli smemorati cronici – le pagine del primo tomo del libro “Gesù di Nazaret” di Benedetto XVI che, ben 10 anni fa, spiegava per bene, senza semplificazioni televisive, i termini della questione:

E non c’indurre in tentazione

Le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certo in tentazione! Di fatto, san Giacomo afferma: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13).

 Ci aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola del Vangelo: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1). La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo modo la via della salvezza. Così, non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo «discendere negli inferi», nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l’alto. La Lettera agli Ebrei ha sottolineato in modo tutto particolare questo aspetto, mettendolo in risalto come parte essenziale del cammino di Gesù:

«Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18). «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).

Uno sguardo al Libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti si delinea già il mistero di Cristo, può fornirci ulteriori chiarimenti. Satana schernisce l’uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole. Quanto in essa sembra bene, è invece solo facciata.

In realtà all’uomo – a ogni uomo – interessa sempre e solo il proprio benessere. Questa è la diagnosi di Satana, che l’Apocalisse definisce «l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte» (Ap 12,10). La diffamazione dell’uomo e della creazione è in ultima istanza diffamazione di Dio, giustificazione del suo rifiuto.

Satana vuole dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto: se solo gli venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la sua religiosità. Così Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l’uomo, ma permette che venga messo alla prova. Qui traspare già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia 53: le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell’uomo. Mediante la sua  fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l’onore dell’uomo. Così le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo, che ristabilisce l’onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere, neppure nell’oscurità più profonda, la fede in Dio.

Il Libro di Giobbe può anche esserci d’aiuto nel discernimento tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova. Come il succo dell’uva deve fermentare per divenire vino di qualità, così l’uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e a Dio. L’amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione. Se Francesco Saverio poté pregare Dio dicendo: «Ti amo, non perché puoi donarmi il paradiso o l’inferno, ma semplicemente perché sei quello che sei – mio re e mio Dio», era stato certamente necessario un lungo percorso di purificazioni interiori per giungere a quest’ultima libertà – un percorso di maturazioni, in cui era in agguato la tentazione, il pericolo della caduta – e tuttavia un percorso necessario.

Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po’ più concreta. Con essa diciamo a Dio: «So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me». In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo «e non c’indurre in tentazione», esprimiamo la consapevolezza «che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà» (De dom. or. 25).

E poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione, egli spiega che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al Maligno un potere limitato. Può accadere come penitenza per noi, per smorzare la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere, sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al fariseo che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver bisogno di alcuna grazia. Cipriano, purtroppo, non specifica poi il significato dell’altro tipo di prova: la tentazione che Dio ci impone ad gloriam - per la sua gloria. Ma in questo caso non dovremmo ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso di tentazioni sulle spalle delle persone a Lui particolarmente vicine, i grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio mondo del suo Carmelo? Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come apologia dell’uomo, che è al contempo difesa di Dio. Ancor più: sono in modo del tutto particolare in comunione con Gesù Cristo, che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni. Sono chiamate a superare, per così dire, nel proprio corpo, nella propria anima le tentazioni di un’epoca, a sostenerle per noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé il gravame di tutti noi.

Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani. Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13).

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La Chiesa beatifica il martire giapponese Ukon, samurai di Cristo

Posté par atempodiblog le 6 février 2017

La Chiesa beatifica il martire giapponese Ukon, samurai di Cristo
Domani sarà beatificato il martire giapponese Justus Takayama Ukon, signore feudale e samurai, vissuto nel XVI secolo. Sposato e padre di 5 figli, scelse la via dell’esilio piuttosto che abiurare la fede cristiana. La Messa di Beatificazione ad Osaka, in Giappone, sarà presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Radio Vaticana ripercorre la figura di Ukon con il servizio di Debora Donnini

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Un guerriero con la katana, la spada dei guerrieri giapponesi, rivolta verso il basso, sormontata da una croce. La statua di Ukon, il samurai di Cristo, rappresenta la parabola della sua vita: da daimyo, grande signore feudale, potente in battaglia, a povero ed esiliato fino alla morte. Nato nel 1552, viene battezzato a 12 anni quando suo padre abbraccia la fede cristiana attraverso la predicazione del gesuita san Francesco Saverio. Signori feudali, i Takayama arrivano a dominare la regione di Takatsuki e Ukon si impegna per la diffusione del cristianesimo con la fondazione di seminari e la formazione di missionari e catechisti: nei suoi territori su una popolazione di 30mila persone, circa 25 mila abbracciarono la fede. Il cardinale Angelo Amato:

“Aveva colto il messaggio centrale di Gesù, che è la legge della carità. Per questo era misericordioso con i suoi sudditi, aiutava i poveri, dava il sostentamento ai samurai bisognosi. Fondò la confraternita della misericordia. Visitava gli ammalati, era generoso nell’elemosina, portava assieme al padre Dario la bara dei defunti, che non avevano famiglia, e provvedeva a seppellirli. Tutto ciò provocava stupore e desiderio di imitazione”.

Le persecuzioni iniziarono nel 1587 quando lo shogun Hideyoschi ordina l’espulsione dei missionari. Ukon e suo padre rinunciano agli onori, scegliendo la povertà. Vennero poi le crocifissioni, infine nel 1614, quando lo shogun Tokugawa bandì definitivamente il cristianesimo, Ukon per non abiurare va in esilio nelle Filippine assieme a 300 cristiani. Morirà circa 40 giorni dopo il suo arrivo. Ancora il cardinale Amato:

“Educato all’onore e alla lealtà, fu un autentico guerriero di Cristo, non con le armi di cui era esperto, ma con la parola e l’esempio. La fedeltà al Signore Gesù era così fortemente radicata nel suo cuore, da confortarlo nella persecuzione, nell’esilio, nell’abbandono. La perdita della sua posizione di privilegio e la riduzione a una vita povera e di nascondimento non lo rattristarono, ma lo resero sereno e perfino gioioso perché si manteneva fedele alle promesse del Battesimo”.

Justus_Takayama_Ukon dans Fede, morale e teologia

“’Via della Spada, Via della Croce… Tante domande mi risuonavano in testa giorno e notte…”. Sono parole del film-documentario ‘Ukon il samurai – La via della spada, la via della Croce’ descrive proprio questo cammino di spoliazione. Ma come avviene il processo di conversione per Ukon? La regista del film, Lia Beltrami:

“La vita di Ukon percorre, possiamo dire, tre fasi di conversione: il Battesimo, quando era ancora piccolo, assieme al padre, il momento in cui si trova in mezzo ad un combattimento, in cui capisce che non è quella la sua via e quando si trova a scegliere tra due grandi signori feudali. La scelta di uno avrebbe provocato una persecuzione contro la Chiesa nascente, mentre la scelta dell’altro l’avrebbe portato a perdere due suoi familiari che erano stati sequestrati. Lui sceglie di non entrare nella logica del mondo, ma di rinunciare a tutto, di rinunciare allo stato di signore, di rinunciare al castello per seguire la Via della Croce”.

Ukon non abbandona la cultura giapponese, che anzi valorizzerà sempre. Ancora Lia Beltrami:

“Ukon vive pienamente e fino in fondo il suo essere giapponese e non pone mai in conflitto la nuova religione, il cristianesimo. Takayama Ukon è conosciuto in tutto il Giappone, anche non cristiano, come ‘Gran Maestro della Cerimonia del Thè’: là dentro, nella stanza spogliata di tutto, dove ci si trova di fronte al proprio interlocutore, quella è la via per annunciare il Vangelo, quella è la via della missione negli ultimi anni della sua vita”.

Affascinato dal messaggio di Gesù che dona la sua vita per amore, Ukon capì che quello era il vero sacrificio e il vero onore.

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Papa Francesco: rigidità e mondanità, un disastro per i sacerdoti

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2016

Papa Francesco: rigidità e mondanità, un disastro per i sacerdoti
I sacerdoti siano mediatori dell’amore di Dio, non intermediari che pensano al proprio interesse. E’ il monito di Papa Francesco nell’omelia alla Messa mattutina a Casa Santa Marta, tutta incentrata sulle tentazioni che possono mettere a rischio il servizio dei sacerdoti. Il Papa ha messo in guardia dai “rigidi” che caricano sui fedeli cose che loro non portano. Ancora, ha denunciato la tentazione della mondanità che trasforma il sacerdote in un funzionario e lo porta ad essere “ridicolo”.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

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Sono come bambini ai quali offri una cosa e non gli piace, gli offri il contrario e non va bene lo stesso. Papa Francesco ha preso spunto dalle parole di Gesù che, nel Vangelo odierno, sottolinea l’insoddisfazione del popolo, mai contento. Anche oggi, ha subito osservato il Pontefice, “ci sono cristiani insoddisfatti – tanti – che non riescono a capire cosa il Signore ci ha insegnato, non riescono a capire il nocciolo proprio della rivelazione del Vangelo”. Quindi, si è soffermato sui preti “insoddisfatti” che, ha avvertito, “fanno tanto male”. Vivono insoddisfatti cercano sempre nuovi progetti, “perché il loro cuore è lontano dalla logica di Gesù” e per questo “si lamentano o vivono tristi”.

No ai sacerdoti intermediari, sì a sacerdoti mediatori dell’amore di Dio
La logica di Gesù, ha ripreso, dovrebbe dare invece “piena soddisfazione” a un sacerdote. “E’ la logica del mediatore”. “Gesù – ha sottolineato – è il mediatore fra Dio e noi. E noi dobbiamo prendere questa strada di mediatori”, “non l’altra figura che assomiglia tanto ma non è la stessa: intermediari”. L’intermediario, infatti, “fa il suo lavoro e prende la paga”, “lui mai perde”. Totalmente diverso è il mediatore:

“Il mediatore perde se stesso per unire le parti, dà la vita, se stesso, il prezzo è quello: la propria vita, paga con la propria vita, la propria stanchezza, il proprio lavoro, tante cose, ma – in questo caso il parroco – per unire il gregge, per unire la gente, per portarla a Gesù. La logica di Gesù come mediatore è la logica di annientare se stesso. San Paolo nella Lettera ai Filippesi è chiaro su questo: ‘Annientò se stesso, svuotò se stesso’ ma per fare questa unione, fino alla morte, morte di croce. Quella è la logica: svuotarsi, annientarsi”.

Il sacerdote autentico, ha soggiunto, “è un mediatore molto vicino al suo popolo”, l’intermediario invece fa il suo lavoro ma poi ne prende un altro “sempre come funzionario”, “non sa cosa significhi sporcarsi le mani” in mezzo alla realtà. Ed è per questo, ha ribadito, che quando “il sacerdote cambia da mediatore a intermediario non è felice, è triste”. E cerca un po’ di felicità “nel farsi vedere, nel far sentire l’autorità”.

La rigidità porta ad allontanare le persone che cercano consolazione
Agli intermediari del suo tempo, ha aggiunto, “Gesù diceva che piaceva loro passeggiare per le piazze” per farsi vedere e onorare:

“Ma anche per rendersi importanti, i sacerdoti intermediari prendono il cammino della rigidità: tante volte, staccati dalla gente, non sanno che cos’è il dolore umano; perdono quello che avevano imparato a casa loro, col lavoro del papà, della mamma, del nonno, della nonna, dei fratelli… Perdono queste cose. Sono rigidi, quei rigidi che caricano sui fedeli tante cose che loro non portano, come diceva Gesù agli intermediari del suo tempo. La rigidità. Frusta in mano col popolo di Dio: ‘Questo non si può, questo non si può…’. E tanta gente che si avvicina cercando un po’ di consolazione, un po’ di comprensione viene cacciata via con questa rigidità”.

Quando il sacerdote rigido e mondano diventa funzionario finisce nel ridicolo
Tuttavia, ha ammonito, la rigidità “non si può mantenere tanto tempo, totalmente. E fondamentalmente è schizoide: finirai per apparire rigido ma dentro sarai un disastro”. E con la rigidità, la mondanità. “Un sacerdote mondano, rigido – ha detto Francesco – è uno insoddisfatto perché ha preso la strada sbagliata”:

“Su rigidità e mondanità, è successo tempo fa che è venuto da me un anziano monsignore della curia, che lavora, un uomo normale, un uomo buono, innamorato di Gesù e mi ha raccontato che era andato all’Euroclero a comprarsi un paio di camicie e ha visto davanti allo specchio un ragazzo – lui pensa non avesse più di 25 anni, o prete giovane o (che stava) per diventare prete – davanti allo specchio, con un mantello, grande, largo, col velluto, la catena d’argento e si guardava. E poi ha preso il ‘saturno’, l’ha messo e si guardava. Un rigido mondano. E quel sacerdote – è saggio quel monsignore, molto saggio – è riuscito a superare il dolore, con una battuta di sano umorismo e ha aggiunto: ‘E poi si dice che la Chiesa non permette il sacerdozio alle donne!’. Così che il mestiere che fa il sacerdote quando diventa funzionario finisce nel ridicolo, sempre”.

Un buon sacerdote si riconosce se sa giocare con un bambino
“Nell’esame di coscienza – ha detto poi il Papa – considerate questo: oggi sono stato funzionario o mediatore? Ho custodito me stesso, ho cercato me stesso, la mia comodità, il mio ordine o ho lasciato che la giornata andasse al servizio degli altri?”. Una volta, ha raccontato, una persona mi “diceva che lui riconosceva i sacerdoti dall’atteggiamento con i bambini: se sanno carezzare un bambino, sorridere a un bambino, giocare con un bambino… E’ interessante questo perché significa che sanno abbassarsi, avvicinarsi alle piccole cose”. Invece, ha affermato, “l’intermediario è triste, sempre con quella faccia triste o troppo seria, faccia scura. L’intermediario ha lo sguardo scuro, molto scuro! Il mediatore – ha ripreso – è aperto: il sorriso, l’accoglienza, la comprensione, le carezze”.

Policarpo, San Francesco Saverio, San Paolo: tre icone di sacerdoti mediatori
Nella parte finale dell’omelia il Papa ha quindi proposto, tre “icone” di “sacerdoti mediatori e non intermediari”. Il primo è il “grande” Policarpo che “non negozia la sua vocazione e va coraggioso alla pira e quando il fuoco viene intorno a lui, i fedeli che erano lì, hanno sentito l’odore del pane”. “Così – ha detto – finisce un mediatore: come un pezzo di pane per i suoi fedeli”.

L’altra icona è San Francesco Saverio, che muore giovane sulla spiaggia di San-cian, “guardando la Cina” dove voleva andare ma non potrà perché il Signore lo prende a Sé.

E poi, l’ultima icona: l’anziano San Paolo alle Tre Fontane. “Quella mattina presto – ha rammentato – i soldati sono andati da lui, l’hanno preso, e lui camminava incurvato”. Sapeva benissimo che questo accadeva per il tradimento di alcuni all’interno della comunità cristiana ma lui ha lottato tanto, tanto, nella sua vita, che si offre al Signore come un sacrificio”.

I sacerdoti e il desiderio di terminare la vita in croce
“Tre icone – ha concluso – che possono aiutarci. Guardiamo lì: come voglio finire la mia vita di sacerdote? Come funzionario, come intermediario o come mediatore, cioè in croce?”.

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I “cristiani nascosti” del Giappone, una storia protetta dal manto di Maria

Posté par atempodiblog le 17 mars 2015

I “cristiani nascosti” del Giappone, una storia protetta dal manto di Maria dans Articoli di Giornali e News 15i215z

Tokyo (AsiaNews) – Si concludono oggi i quattro giorni di solenni celebrazioni che la Chiesa giapponese ha indetto per ricordare i 150 anni dalla riemersione dei “cristiani nascosti” di Nagasaki. La portata storica e cattolica di quell’evento, tante volte citato da papa Francesco, è una “grande grazia” per la comunità del Sol Levante: tutto il 2015 dei cattolici giapponesi sarà dedicato alla memoria di questi antenati nella fede. Di seguito pubblichiamo una riflessione sul tema di p. Mario Bianchin, Superiore regionale del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime).

La portata storica di quanto avvenne il 17 marzo 1865 nell’appena costruita chiesa di Oura, su una collina sovrastante il porto, certamente passò inosservata alla popolazione di Nagasaki, anche se forse non alle autorità, a motivo delle quali non tarderanno ad arrivare anche i guai. Perché in Giappone erano ancora vigenti le leggi che proibivano la religione cristiana. Esse saranno tolte a fatica solo nel 1873, non prima di un nuovo infierire della persecuzione che causò nuovi martiri a noi ancora poco noti, come i martiri di Tsuwano.

Ma la rilevanza dell’avvenimento è tale che la Chiesa in Giappone lo ricorda nel suo calendario liturgico,  e quest’anno lo celebra come Festa, sotto il titolo di “Nippon no Shinto Hakken no Seibo” (Santa Madre della scoperta dei Cristiani del Giappone).

L’avvenimento, si racconta, causò tanta gioia da commuovere fino alle lacrime il beato Papa Pio IX. Ma sappiamo come la sua portata ecclesiale non passò inosservata a Papa Francesco, che ce lo additava come esempio eloquente dell’importanza capitale del Battesimo, come del sacramento che ci radica e ci rende capaci di testimoniare e trasmettere autenticamente la Fede santa.

I fatti di quel giorno sono narrati negli annali (o cronache) della Società delle Missioni Estere di Parigi (cfr. Bulletin de la Societe des Missions-Etrangeres), che il Seminario Lombardo per le Missioni Estere (ora Pime) appena fondato, incominciò subito a tradurre e pubblicare in italiano con il titolo “Le Missioni Cattoliche” e che ora si chiama “Mondo e Missione”. Essi si trovano nel “Journal” di p. A.Renaut Mep, del 13 settembre 1875. Qui li ricorderò come sono citati nel libro di p.Joseph Leonard Van Hecken Cicm “The Catholic Church in Japan, since 1859” .

Il p. B.Petitjean , che arrivava a Nagasaki nell’agosto 1864, aveva appena completato la costruzione della chiesa di Oura, iniziata dal suo predecessore p. L.Furet arrivato l’anno prima, e “di proposito si muoveva in città e fuori città vestendo la sua sottana, intendendo in questo modo informare la popolazione che erano tornati i sacerdoti cattolici”. I “cristiani nascosti”, che a centinaia vivevano nei villaggi attorno a Nagasaki, ben presto notarono la presenza di questi stranieri diversi dagli altri anche nell’apparenza, e cominciarono a chiedersi se non fossero ritornati i “Bateren” (i Padri) che avevano insegnato la religione di Gesù ai loro antenati.

Certo, la croce sopra la bella chiesa di Oura era il segno della redenzione di Cristo! E cominciarono a discutere tra di loro sul significato che avrebbero dovuto dare all’arrivo di questi stranieri. Essi sarebbero stati pronti a riconoscerli come gli autentici successori degli antichi “Bateren” – conclusero – se costoro erano uniti al Pontefice di Roma, se onoravano l’immagine della Vergine Maria e se vivevano nel celibato perpetuo.

Fu così che, a cercare il primo contatto, si mossero in piccolo gruppo da Urakami la mattina del 17 marzo 1865 e arrivarono a Oura verso mezzogiorno. P. Petitjean li accolse e li portò in chiesa, con l’intenzione di parlare loro della Fede. “E mentre faceva un breve atto di adorazione davanti all’altare, si sentì toccare la spalla: si girò. Era una donna, che gli dice: ‘Il nostro cuore è come il vostro’ ! E notando il volto sorpreso del padre, insiste chiedendo dove sia Santa Mariasama. Il padre la guida all’altare della Madonna, e vedendo il Bambino in braccio alla Vergine Madre Maria, la donna dice: ‘E’ Jesussama – dice la donna – dove abitiamo noi, ci sono ancora 1300 che hanno il nostro stesso cuore. Alcuni giorni fa siamo entrati nella stagione di Quaresima. Iesususama è nato nell’undicesimo mese (il mese di dicembre)’. Il nome della donna era Elisabetta Tsuru, una ostetrica proveniente da Hamaguchi” (op.cit. pg.15).

Questi i fatti noti, che ci riempiono tutt’oggi di gratitudine, di stupore e di gioia. Forse meno noti sono invece i fatti che fanno da sfondo a questo avvenimento, e che può essere utile brevemente ricordare. Si tratta infatti di un desiderio profondo e reciproco di ricerca: da parte cioè sia dei nuovi missionari che da parte dei fedeli cristiani, che per i 240 anni di persecuzione e di chiusura del Paese avevano conservato e trasmesso la Fede dei loro padri, arrivata in Giappone con la prima predicazione di S. Francesco Saverio nel 1549 .

Ma che cosa aveva reso possibile l’incontro che realizzava il desiderio profondo comune? In breve, ecco la successione degli avvenimenti.

Ciò che aveva scosso il Giappone dal suo isolamento era stata la visita del Commodoro Perry nel 1853, che si era presentato nel porto di Tokyo con una piccola flotta e aveva consegnato a rappresentanti dello Shogunato (il governo del Giappone di allora) una lettera da parte del Presidente degli Stati Uniti. La visita maturò in un Trattato di Amicizia (Treaty of Kanagawa) firmato il 31 marzo 1854 , che concedeva agli Stati Uniti l’accesso ai porti di Shimoda e di Hakodate.

Fu invece opera del primo Console americano Townsend Harris, residente a Shimoda fin dal 1856, preparare la strada per la conclusione del primo Trattato Commerciale e di Amicizia con le Potenze Occidentali noto come “Ansei Treaty” , che sarà firmato per gli Stati Uniti il 20 luglio 1858. Simili Trattati saranno firmati nei giorni successivi dall’Inghilterra e dalla Francia .

Sarà poi il trattato con la Francia a mettere in moto gli eventi che portano al ritorno dei missionari in Giappone e in definitiva alla scoperta dei cristiani nascosti . Basterà qui avervi appena accennato, ma la storia di quest’epoca missionaria è così intensa di avvenimenti significativi per la Missione che varrà la pena ritornarvi.

Una digressione conclusiva mi porta a rilevare un’interessante coincidenza tra questi avvenimenti e le apparizioni della Madonna a Lourdes, che avvengono in questo stesso anno 1858. Soprattutto se si tiene conto del fatto che il Vescovo Theodore Forcade (Mep), primo Vicario Apostolico del Giappone, ma impossibilitato a mettervi piede a motivo dei decreti di persecuzione ancora vigenti, sarà vescovo di Nevers, e si adopererà non solo per l’accoglienza di santa Bernardetta al Convento di Nevers, ma anche per difendere l’autenticità di quegli avvenimenti. La riproduzione della grotta di Lourdes presso le chiese e nei conventi è una scena familiare in Giappone fino ad oggi.

Non saranno segni della protezione particolare di Maria per questa Chiesa del Giappone, la Madre tanto venerata nel periodo di proibizione dai fedeli nascosti sotto le sembianze di “Maria-Kannon”, la cui immagine veniva collocata davanti alla Chiesa di Oura con il titolo “Nostra Signora del Giappone”, nel secondo anniversario di questo giorno memorabile? 

di Mario Bianchin (Superiore regionale del Pime in Giappone)
Fonte: AsiaNews

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Figli di Dio non si nasce. Si diventa

Posté par atempodiblog le 9 décembre 2011

Figli di Dio non si nasce. Si diventa
L’articolo che qui ripubblichiamo può essere riassunto nelle due prime risposte del Catechismo maggiore di san Pio X: «Siete voi cristiano? Sì, io sono cristiano per grazia di Dio. Perché dite voi: per grazia di Dio? Io dico: per grazia di Dio, perché l’essere cristiano è un dono tutto gratuito di Dio, che noi non abbiamo potuto meritare
»
Tratto da: 30Giorni

Figli di Dio non si nasce. Si diventa dans Commenti al Vangelo Cappella-Brancacci-Battesimo-dei-neofiti
Masaccio Il battesimo dei neofiti, nella Cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze

La Chiesa ha da poco celebrato col santo Natale la nascita nel tempo dell’unigenito eterno Figlio di Dio. Secondo una teologia sempre più diffusa, con l’incarnazione del Figlio deriverebbe in maniera automatica l’attribuzione immediata a ogni uomo della figliolanza divina. Nel senso che ogni uomo, che lo sappia o no, che lo accetti o no, vive già radicalmente in Cristo. Secondo tale teologia, Cristo, prima ancora di essere il capo della Chiesa, è il capo di tutto il creato. Ogni uomo gli appartiene prima ancora di essere raggiunto e trasformato dal suo Spirito.

Questa concezione pretende trovare un avallo nell’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui «considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi» (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes dell’ultimo Concilio: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (22). Ma se si togliessero dalla frase della Summa theologica e dalla frase della Gaudium et spes gli incisi «secondo gradi diversi» e «in certo modo» non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica.
Se, con l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza: la missione della Chiesa nel mondo sarebbe solo quella di far prendere coscienza a tutti gli uomini di questa salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, “l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano anonimo”.
Già Erik Peterson, il famoso esegeta tedesco convertitosi alla Chiesa cattolica dal luteranesimo, nel suo saggio del 1933 Die Kirche aus Juden und Heiden (La Chiesa composta da Giudei e da Gentili), commentando i capitoli 9-11 della lettera di san Paolo ai Romani, spiegava che non può esserci un cristianesimo ridotto all’ordine meramente naturale, in cui gli effetti della redenzione operata da Gesù Cristo verrebbero trasmessi geneticamente, per via ereditaria, a ogni uomo, per il solo criterio di condividere con il Verbo incarnato la natura umana. La figliolanza divina non è l’esito automatico garantito dall’appartenenza al genere umano. La figliolanza divina è sempre un dono gratuito della grazia, non può prescindere dalla grazia donata gratuitamente nel battesimo e riconosciuta e accolta nella fede. Un brano di san Leone Magno, letto nella liturgia dell’Avvento, chiarisce con precisione il rapporto tra l’incarnazione e il battesimo: «Se colui, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura. A causa di questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi il sacramento della rigenerazione, perché, in virtù dello stesso Spirito per opera del quale fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale». E sant’Agostino nel De civitate Dei scrive: «La natura corrotta dal peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste. Perciò i primi sono chiamati vasi d’ira; gli altri sono chiamati vasi di misericordia. Se ne ha un simbolo anche nei due figli di Abramo. L’uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava Agar, l’altro, Isacco, nacque secondo la promessa da Sara, che era libera. Entrambi sono stirpe di Abramo, ma un rapporto puramente naturale ha fatto nascere il primo, invece la promessa che è segno della grazia ha donato il secondo. Nel primo caso si rivela un comportamento umano, nel secondo caso si rivela la grazia di Dio».
Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede («Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», Gv 15, 16).
Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1, 12) che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3, 1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1Gv 3, 6-9; 1Gv 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così “impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono significativi soprattutto i primi due passi sopra citati.
Nel Prologo (Gv 1, 12-14), Giovanni scrive: «A quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato. Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito venuto da presso il Padre pieno della grazia della verità».
È importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo divenire, sul quale i commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è «generati dall’alto», cioè quando si è «generati dall’acqua e dallo Spirito». E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo e la fede ci introducono in una nuova dinamica dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo nella nostra esistenza. Questo tesoro fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. È piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l’immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria.
L’altro termine chiave del brano del Prologo è la parola potere, che indica anch’essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di natura, ma per la fede. È la fede il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi «crede nel suo nome». Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel «credere nel nome del Figlio unigenito di Dio» (Gv 3, 18). Ne segue che la nostra figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si è manifestato tra noi come «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepoli. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua a operare nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli dà (cfr. Gv 17, 2).
Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l’insistenza sull’azione dello Spirito Santo nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: «Se uno non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Quindi la via d’accesso al diventare «figli nel Figlio» è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell’acqua).
Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione.
Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un’entità separata e indipendente, che opera nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione di Gesù Cristo Figlio di Dio.
Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: «Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito». E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla Samaritana: «“Bisogna adorare nello Spirito e nella verità” (Gv 4, 23) chiaramente definendo se stesso “la verità”».
Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo Spirito «insegnerà», facendo ricordare quello che ha detto Gesù (Gv 14, 26); «renderà testimonianza» a Gesù (Gv 15, 26); «non parlerà da sé stesso, ma dirà quello che ascolta» (Gv 16, 13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità («Lo Spirito ispira dove vuole», Gv 3, 8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l’insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è «lo Spirito della verità» (Gv 15, 26; Gv 16, 13), quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: «Io sono la verità» (Gv 14, 6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso la verità intera (Gv 16, 13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: «Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue» (48).
Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio «la fede che abbiamo ricevuto» è un «dono dall’Alto senza nostro merito».
L’esperienza della figliolanza è invece tutta piena solo di gratitudine, per il dono immeritato, e di speranza nei confronti di tutti. Per cui non si tratta di giudicare i miscredenti, i lontani, o addirittura quelli che possono sembrare avversari. Anche perché ognuno di loro può, quando meno se lo aspetta, incontrare il fatto cristiano. Come scriveva Charles Péguy, commentando un verso di Corneille, «Dio tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta. È la formula stessa del morso, è la formula dell’attacco, del colpo, della penetrazione della grazia. Ma essa implica anche che colui che vi pensa, che ha l’abitudine di pensarci, che è ricoperto dallo strato dell’abitudine è anche colui che si espone di meno e per così dire dà meno possibilità alla presa».
Questa gratitudine non giudica nessuno, ma è magnanima e misericordiosa anche davanti all’errore e al peccato. Come accadde a san Francesco Saverio, il discepolo prediletto che Ignazio di Loyola aveva mandato a evangelizzare il lontano Oriente. Davanti ai peccati anche turpi dei pagani, Francesco Saverio si stupiva che senza la fede, i sacramenti e la preghiera filiale non ne facessero di più gravi. Come scrive in una lettera inviata ai suoi compagni da Cochin, nel 1552: «Io non mi meraviglio per i peccati che esistono fra bonzi e bonze, quantunque ve ne siano in grande quantità. Anzi, mi meraviglio che non ne facciano più di quelli che fanno…».

di Padre Ignace de la Potterie

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Cosa resta dei No Global cattolici?

Posté par atempodiblog le 21 juillet 2011

Cosa resta dei No Global cattolici? dans Piero Gheddo pierogheddo

Dieci anni  fa (20-22 luglio 2001) si svolgeva a Genova il G8. Gli otto Grandi del mondo si riunivano per discutere su come, nel tempo della globalizzazione, aiutare i “paesi in via di sviluppo”, specialmente quelli dell’Africa nera. Però in quei giorni vennero alla ribalta non i poveri che soffrono la fame, ma i “No Global” che manifestavano contro gli 8 Grandi e nelle frange estreme mettevano a ferro e fuoco la città di Genova.
Nel movimento No Global, circa il 60% dei 200.000 manifestanti erano cattolici, venivano da parrocchie e associazioni cattoliche. Le guide, Vittorio Agnoletto, Luca Casarini e altri si proclamavano cattolici, ma l’ideologia che i No Global esprimevano non era certamente ispirata dalla fede. D’altra parte, il “Manifesto delle Associazioni cattoliche ai leaders del G8”, firmato il 7 luglio da decine di associazioni cattoliche e istituti religiosi e anche missionari, era la chiara prova di una sudditanza dei cattolici alla corrente dei contestatori di professione, che si ispirano al marxismo e al laicismo. Si ripeteva lo schema del Sessantotto. I cattolici all’origine della protesta del 1968, come del 2001; all’inizio, in ambedue i casi, le gerarchie cattoliche tentano il dialogo con i giovani contestatori, mostrando una notevole apertura alle loro ragioni. Ma poi, nel 1968 come nel 2001, la Chiesa si accorge ben presto che la buona fede e l’indubbia generosità dei giovani  non bastano a moderare gli eccessi della protesta e l’apporto culturale dei cattolici viene fagocitato dalle altre componenti del movimento. Era successo nelle assemblee di occupazione delle università nel Sessantotto, succede nei cortei e nelle manifestazioni del luglio 2001 a Genova.
Oggi, dieci anni dopo, i No Global sono praticamente scomparsi, la storia ha dimostrato che la globalizzazione non è un’invenzione dei paesi ricchi per opprimere meglio quelli poveri, ma è “il treno dello sviluppo”: i popoli che riescono a salirci sopra si sviluppano (specie in Asia e America Latina), gli altri rimangono indietro, cioè i popoli di gran parte dell’Africa nera, che nel 1970 partecipavano al 3% del mercato globale, oggi fra l’uno e il due per cento!
Il sociologo cattolico Paolo Sorbi, passato attraverso le esperienze del Sessantotto e di Lotta continua, stigmatizzava i No Global cattolici perché la loro fede e identità era stata del tutto oscurata: “I contestatori cattolici corrono il rischio di trasformarsi nei reggicoda di una grande razionalizzazione borghese”. Beppe del Colle scriveva su Famiglia Cristiana: “L’impressione più forte suscitata dal terribile G8 di Genova è di generale sconfitta… Hanno perso i Grandi, ma hanno perso anche i piccoli, i presunti ‘nemici della globalizzazione’, che si sono rivelati furiosi demoni del Nulla, vandali odiatori di tutto quello che ha senso per le persone civili”.
Ferdinando Adornato denunziava su Il Giornale “l’inganno culturale” in cui erano caduti i cattolici: “Non si sfugge alla sensazione che alcuni settori del mondo cattolico rischino di restar vittime di un grande inganno culturale già commesso nei dintorni del Sessantotto, quando migliaia di ragazzi furono portati a confondere la Fede con la Rivoluzione, la Testimonianza evangelica con la Violenza… L’inganno consiste nell’annacquare totalmente l’identità cristiana nei riti di una comune e indistinta protesta contro l’egoismo e le disuguaglianze sociali”. Il sociologo Giuseppe De Rita si chiedeva ironicamente su Avvenire: “A cosa è servita la presenza cattolica nelle manifestazioni e nei cortei di Genova? E cosa ne resta dopo il calor bianco raggiunto in quei giorni?”. Gianni Baget Bozzo scriveva sul Giornale: “Genova ha raggiunto due vertici: la più violenta manifestazione del nichilismo anti-occidentale e un singolare impegno dei movimenti cattolici italiani per le tesi antiG8… Così la Chiesa ha offerto ai nichilisti antioccidentali una copertura religiosa e al tempo stesso una massa numerica che è servita a coprire l’azione dei violenti”.
Ero a Genova nel luglio 2001 (nella casa del Pime a Nervi), ho partecipato all’inizio della prima manifestazione e alla sera ho avuto, allo stadio Carlini, una animata  conversazione con un buon gruppo di giovani, sotto uno striscione che dichiarava: “Un altro mondo è possibile”. Io suggerivo: “Il mondo nuovo è possibile, ma solo a partire da Cristo”. Un discorso che suscitava ironia e opposizione: noi crediamo in Cristo, ma cosa c’entra questo nei problemi politici e economici del G8? Mi torna alla mente il grande e caro Davide Turoldo, che in un dibattito sul Vietnam, a Torino  nel 1973, tuonava: “Ricordati Gheddo, che il socialismo è l’unica speranza dei poveri!”. Dopo il G8 di Genova, in un dibattito alla televisione su questo tema, alla mia proposta di convertirci a Cristo come modello di amore al prossimo, che ha donato la sua vita per gli altri, una personalità dichiaratamente cattolica (vivente), ha commentato: “La conversione a Cristo è un fatto personale e non è importante. L’importante è amare l’uomo …”. Ma come “amare l’uomo”? Per noi cristiani la verità sull’uomo ha un nome preciso e nessun altro nome: Cristo.

Ripensando alle discussioni infuocate di quegli anni, il motivo fondamentale di dissenso che ancor oggi mi separa dagli epigoni cattolici del movimento No Global è questo. I cattolici dovrebbero sapere che l’unica vera e decisiva rivoluzione che salva l’uomo e l’umanità l’ha compiuta Cristo duemila anni fa. L’esperienza dei missionari conferma che il contributo essenziale della Chiesa alla crescita di un popolo e alla sua liberazione da ogni oppressione non è l’aiuto materiale o tecnico, quanto l’annunzio di Cristo: una famiglia, un villaggio, diventando cristiani passano da uno stato di passività, negligenza, divisione, ad un inizio di cammino di crescita e di liberazione. Il perché mi pare evidente e andrebbe ripreso e approfondito dai No Global cattolici e portato coraggiosamente alla ribalta nelle manifestazioni.
Non capisco perché in Italia, anche nelle riviste missionarie, questi discorsi si fanno poco o nulla e sembra quasi che noi ci siamo fatti missionari per distribuire cibo, costruire scuole, condividere la vita dei poveri, protestare contro il debito estero e la vendita delle armi ai paesi poveri… Insomma non mi risulta chiaro, nell’animazione e nella stampa missionaria in Italia, che il primo vero dono che noi portiamo ai popoli è la fede in Cristo, che trasforma la vita e la società, creando un modello nuovo e più umano di sviluppo. I cari e illusi confratelli e suore missionarie, che hanno recentemente manifestato in Piazza San Pietro, qualificandosi come tali, contro la politica italiana che vuol privatizzare la gestione dell’acqua, hanno solo contribuito ancora una volta a far apparire i missionari come “operatori sociali”. E’ solo un esempio di una tendenza generale che, nata nel Sessantotto, è riemersa a Genova nel 2001 e continua tuttora.
Il 2 dicembre 1992 l’arcivescovo di Milano card. Carlo Maria Martini, parlando ai missionari del Pime impegnati nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, citava le lettere di San Francesco Saverio, dicendo che “ancor oggi quelle lettere hanno una forza comunicativa straordinaria. Noi vorremmo che la nostra stampa missionaria fosse sempre così, cioè che avesse questa forza comunicativa del Vangelo, proprio attraverso le notizie sulla diffusione del Vangelo… Ridateci lo stupore del primo annunzio del Vangelo, ridatelo alle nostre comunità, non soltanto ai cristiani delle terre di missione, ma anche a noi, perché questo stupore riscaldi il cuore di tutti”.

Padre Piero Gheddo

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