Papa: Confessione è abbraccio di Dio. Mons. Forte: riconciliamoci

Posté par atempodiblog le 31 mars 2015

Papa: Confessione è abbraccio di Dio. Mons. Forte: riconciliamoci
di Radio Vaticana

“La Confessione è il sacramento della tenerezza di Dio, il suo modo di abbracciarci”. È il messaggio per il Martedì Santo che Papa Francesco ha affidato a un tweet: un invito ad accostarsi al Sacramento della Riconciliazione, tante volte ripetuto in due anni di Pontificato. Alessandro De Carolis ha chiesto all’arcivescovo di Chieti-vasto, mons. Bruno Forte, cosa gli suggeriscano i richiami di Francesco alla Confessione come tenerezza e abbraccio di Dio:

Papa: Confessione è abbraccio di Dio. Mons. Forte: riconciliamoci dans Fede, morale e teologia Confessionale

R. – Suggerisce un’immagine evangelica e cioè quella del Padre del Figliol prodigo che sta alla finestra, vede il figlio tornare di lontano, gli corre incontro e lo abbraccia. Dunque, mi sembra che Papa Francesco abbia voluto evocare la profonda misericordia di Dio, il fatto che il Dio di Gesù Cristo è un Padre che ci ama, che ci rispetta anche quando noi scegliamo qualcosa che è contro la sua volontà ed egli è sempre pronto ad accoglierci, ad aspettare il nostro ritorno e a far festa quando torniamo. Dunque, piuttosto che la visione del tribunale – che a volte nel passato aveva dominato la visione del Sacramento della penitenza, dove il sacerdote era in qualche modo il giudice che doveva poi assolvere – siamo di fronte all’immagine di un incontro d’amore, di un’attesa, di un’accoglienza festosa, di una misericordia traboccante.

D. – Lei ricorda l’immagine di Dio come quella di un Padre che perdona sempre. Papa Francesco lo ha detto dall’inizio del Pontificato: “Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono”. Perché si perde la fiducia nel perdono di Dio?

R. – Il meccanismo del peccato è un meccanismo che intacca profondamente l’integrità della persona umana e l’effetto primo, devastante, del male è il male che si fa a se stessi. Si perde il senso della propria dignità e si smarrisce proprio per questo la fiducia nelle possibilità che Dio ci ha dato. Ecco perché il volto della misericordia è fondamentale per ritrovare la strada della riconciliazione. Un Dio giudice manterrebbe ancora lontani coloro che hanno peccato. Un Dio di misericordia infinita, come ama sottolineare Papa Francesco, è un Dio che ti attrae, che sollecita il tuo cuore ad aver fiducia di Lui nonostante tutto.

D. – Papa Francesco una volta, da Santa Marta, parlando della Confessione ha detto: bisogna avere semplicità e anche coraggio. Perché queste qualità tante volte sembra siano smarrite dai cristiani quando si avvicinano al Sacramento della Riconciliazione?

R. – La semplicità è necessaria perché essere semplici significa essere veri, cioè saperci porre davanti a Dio senza alibi e senza difese. Senza quelle sovrastrutture che a volte complicano i rapporti umani e a volte complicano anche il nostro rapporto con Dio. Ciò che Papa Francesco non si stanca di ricordare è che Dio è amore e che dunque ogni rapporto con Dio deve essere vissuto nel segno dell’amore, che significa della fiducia, dell’affidamento, della libertà dalla paura e del coraggio di ritrovare nell’amore la forza per essere se stessi secondo il disegno di Dio. In fondo, il coraggio è una virtù inseparabile dalla fiducia e dall’amore. Se non hai amore, se non hai fiducia, se non ti senti amato, anche il coraggio viene meno. Se invece c’è tutto questo, il coraggio ti fa aprire a quelle che un grande teologo evangelico come Karl Barth chiamava le “impossibili possibilità di Dio”: proprio quelle che nella Settimana Santa ci vengono rivelate.

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L’abbraccio del Padre Misericordioso

Posté par atempodiblog le 29 mars 2015

La confessione sacramentale
L’abbraccio del Padre Misericordioso

«Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia… Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto» (Papa Francesco).

“Padre con il figliol prodigo”, scultura di Ferdinando Perathoner.

La nostra vita è una continua battaglia contro quell’unico peccato, che è origine di tutti gli altri peccati: l’idolatria di sé. Una lotta dalla quale non si esce senza qualche ferita.

Dio ha mandato il suo Figlio «non per condannare, ma per salvare; non per curare i sani, ma i malati» (Gv 3,17; Mt 9,12). Con questa stessa missione il Risorto ha inviato nel mondo i suoi discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Si tratta di offrire la misericordia e il perdono di Dio a quanti, pur credendo a quei valori di vita incarnati da Gesù, devono umilmente riconoscere anche la propria infedeltà a quel modello di vita.

Il sacramento della Penitenza ( = confessione) non è omologabile ad un tribunale umano e tanto meno ad “una sala di tortura” (Papa Francesco).

Il sacramento della Penitenza è espressione visibile di quella Chiesa che è chiamata dal suo Fondatore ad «essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (Papa Francesco). Nel sacramento della penitenza, infatti, non è tanto importante ciò che si è fatto in passato, quanto piuttosto ciò che si intende fare per il futuro, per quanto possibile.

di Silvano Sirboni, liturgista
Nella foto: “Padre con il figliol prodigo”, scultura di Ferdinando Perathoner.
Tratto da: La Domenica

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Papa al clero: chi chiacchiera è terrorista che butta bombe

Posté par atempodiblog le 22 mars 2015

Papa al clero: chi chiacchiera è terrorista che butta bombe
Mettiamo Gesù “al centro della vita”, superando le chiacchiere che “distruggono”. Lo ha detto il Papa al Duomo di Santa Maria Assunta di Napoli, dove ha incontrato il clero e i religiosi locali, alla presenza anche delle claustrali della diocesi. Francesco ha quindi venerato le reliquie di San Gennaro e si è verificato l’evento della liquefazione del sangue del patrono della città. Arrivando alla cattedrale, il Pontefice aveva pure acceso un cero votivo alla Madonna del Principio.
di Giada Aquilino- Radio Vaticana

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Cardinale Sepe: “Segno che San Gennaro vuol bene al Papa, che è ‘napoletano’ come noi, il sangue è metà sciolto già”!

Papa Francesco: “Il vescovo ha detto che il sangue è metà sciolto: si vede che il Santo ci vuole a metà. Dobbiamo convertirci un po’ più tutti perché ci voglia più bene”.Papa Francesco, di fronte all’evento della liquefazione del sangue di San Gennaro, invita a compiere un cammino di conversione. Nel Duomo di Napoli, il suo intervento a braccio – perché, dice, i discorsi preparati “sono noiosi” – è stato una riflessione suscitata dalle domande di don Aldo Giosuè e padre Salvatore, sulla bellezza dell’essere preti e sui segni di speranza nella vita consacrata.

Gesù al centro
Da Francesco, l’esortazione a mettere Gesù al “centro della vita”:

“Il cammino nella vita consacrata è andare nella sequela di Gesù; anche la vita consacrata in genere, anche per i sacerdoti: andare dietro a Gesù e con voglia di lavorare per il Signore”.

Le chiacchiere distruggono
La strada, afferma il Papa, è quella di andare oltre le chiacchiere, che “distruggono”:

“Quello che chiacchiera è un terrorista che butta una bomba, distrugge e lui è fuori”.

Il diavolo, aggiunge, “ci tenta sempre con gelosie, invidie, lotte interne, antipatie”, cose che – spiega – “non ci aiutano a fare una vera fratellanza”, dando invece “testimonianza di divisione”. Se la vocazione significa lasciare o non avere una famiglia, i figli, l’amore coniugale, per finire a litigare col vescovo, con i fratelli sacerdoti, con i fedeli, “questa non è testimonianza”.

Fratellanza
La via, ricorda il Pontefice al clero partenopeo, è quella della fraternità diocesana, sacerdotale e delle comunità religiose. Ai seminaristi dice:

“Se voi non avete Gesù al centro, ritardate l’ordinazione. Se non siete sicuri che Gesù è il centro della vostra vita, aspettate un po’ più di tempo, per essere sicuri. Perché al contrario, incomincerete un cammino che non sapete come finirà”.

La preghiera alla Madonna
In Duomo ci sono anche le claustrali di 7 conventi della diocesi, che non contengono la loro gioia nell’abbracciare il Santo Padre. Francesco sollecita tutti i presenti a pregare la Madonna, perché – afferma – a chi non prega Maria, “la Madonna non gli darà il Figlio”:

“Dare testimonianza di Gesù e, per andare dietro a Gesù, un bell’aiuto è la Madre: è Lei che ci dà Gesù. Questa è una delle testimonianze”.

L’affarismo non entri nella Chiesa
Il Papa menziona poi lo spirito di povertà, “che non è – spiega – lo spirito di miseria”:

“Quando nella Chiesa entra l’affarismo, sia nei sacerdoti che nei religiosi, è brutto, brutto”…

Una vita mondana non aiuta
Quindi l’invito alle opere di misericordia e l’attenzione al pericolo “della mondanità”, al “vivere con lo spirito del mondo che Gesù non voleva”. Parla dell’eccesso di comodità e racconta di un collegio di suore “nella diocesi – dice – che avevo prima”, dove in ogni stanza era stato collocato un televisore: all’ora della telenovela “non trovavi una suora in collegio”, aggiunge. A proposito del problema del calo delle vocazioni, la testimonianza è una delle caratteristiche che attira, mentre “una vita comoda, una vita mondana non ci aiuta”.

Nella gioia, il Signore è sempre fedele
Altra testimonianza indicata dal Papa, la gioia che significa “vedere che il Signore è sempre fedele”:

“I consacrati o i sacerdoti noiosi, con amarezza di cuore, tristi hanno qualcosa che non va e devono andare da un buon consigliere spirituale, un amico, dire: ‘Ma, non so cosa succede nella mia vita’”.

Anche nel discorso preparato per l’incontro al Duomo e consegnato al cardinale Sepe, il Pontefice ispirandosi alla Lettera ai consacrati, scritta dal Papa stesso nel novembre scorso, aveva sollecitato a chiedersi se nelle comunità oggi ci sia gratitudine e “gioia di Dio che colma il nostro cuore” e non “volti tristi, persone scontente e insoddisfatte”. Nel testo il Santo Padre aveva invitato inoltre a “testimoniare, con umiltà e semplicità, che la vita consacrata è un dono prezioso per la Chiesa e per il mondo”, un dono “da condividere, portando Cristo in ogni angolo di questa città”.

Uscire, per andare fuori a predicare Cristo
Congedandosi da Santa Maria Assunta, Francesco raccomanda l’adorazione del Signore, l’amore per la “sposa” di Gesù – cioè la Chiesa che, ricorda, “non è una ong” – e lo zelo apostolico, la missionarietà: uscire da se stessi “per andare fuori” a predicare la rivelazione di Cristo.

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“Mi confesso – I confess”

Posté par atempodiblog le 16 mars 2015

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Mons. Gianfranco Girotti: Il confessore deve evitare il “complesso di colpa” nel penitente

Posté par atempodiblog le 11 mars 2015

I sacerdoti siano consapevoli di essere “depositari di un ministero prezioso e insostituibile”
Mons. Gianfranco Girotti: Il confessore deve evitare il “complesso di colpa” nel penitente
di Mirko Testa - Zenit

Mons. Gianfranco Girotti: Il confessore deve evitare il “complesso di colpa” nel penitente dans Fede, morale e teologia Confessionale-con-grata 

Il confessore deve evitare il pericolo di creare l’“angoscia del peccato” o il “complesso di colpa” nel penitente e rendere visibile l’amore misericordioso di Dio. E’ quanto ha detto mons. Gianfranco  Girotti, Reggente della Penitenzieria Apostolica [...].

[...] Girotti ha posto da subito l’accento sulla necessità che i sacerdoti siano consapevoli di essere “depositari di un ministero prezioso e insostituibile”.

Inoltre, ha aggiunto, “è assolutamente necessario che, per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, ogni confessore, con uno studio assiduo, sotto la guida del magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, deve procurarsi la scienza e la prudenza necessaria a questo scopo”.

“Nei seminari, è vero, l’approccio alla confessione è solo quello della teologia o della morale”, ha ammesso. Tuttavia,  per fare ben il confessore “occorrono anche conoscenze precise su quanto stabilisce la Chiesa riguardo a determinate situazioni che possono presentarsi in confessionale”.

Da qui la necessità per i sacerdoti “di prepararsi sotto il profilo culturale, psicologico e soprattutto ascetico, pensando che sono chiamati ad interessarsi di cose che non esaltano ma rivelano tutta la debolezza e talvolta la bassezza della condizione umana”.

Senza dimenticare, inoltre, che “la realtà umana è storica e dinamica, cosicché mentre il giudizio astratto può restare immutato, la valutazione degli atti concreti esige una sensibilità teologica e morale molto alta, per non accrescere l’evidente scollamento tra i fedeli e il Sacramento della Penitenza”.

In confessionale, ha continuato, si possono presentare anche i casi più impensati, che possono cogliere impreparato il sacerdote, come quando si affrontano i temi relativi alla bioetica.

Per questo ha invitato a non dimenticare “che il presbitero ha sempre una parola autorevole da dire nelle delicate questioni odierne riguardanti aspetti della pratica medica”.

“Può chiedere allora un po’ di tempo, di pronunziarsi sull’accusa, e consultare la Penitenzieria Apostolica, che entra in causa nelle situazioni in cui il sacerdote non ha la facoltà di assolvere, e nei casi in cui si può trovare impreparato o a disagio”, ha suggerito.

Tra i consigli offerti ai sacerdoti il Reggente della Penitenzieria Apostolica ha evidenziato il fatto che il penitente “ha bisogno di essere incoraggiato a riporre tutta la sua fiducia nell’infinita misericordia di Dio”, per cui ogni confessione dei peccati “deve prorompere in un canto gioioso di lode e di ringraziamento al Padre che ‘per primo ci ha amati’”.

Inoltre, ha ricordato, “nell’imporre la penitenza bisogna badare alla sua concreta fattibilità da parte del penitente, privilegiando quelle forme che aiutano a crescere spiritualmente, come l’assistere a una S. Messa, il fare la comunione, o anche aiutare il prossimo in difficoltà o contribuire a sostenere le opere parrocchiali, coniugando vita interiore e impegno sociale, come via maestra del cristiano impegnato”.

“Ad un penitente che torna a confessarsi dopo lunghi anni che è stato lontano dalla Chiesa è imprudente dare penitenze complesse e defaticanti, mentre ad una buona monaca di clausura ordinariamente si può assegnare una diuturna preghiera”, ha aggiunto.

Nel penitente occorre però anche “curare la consapevolezza del peccato e delle sue conseguenze e far nascere la ferma decisione di aprire un nuovo capitolo nei rapporti con Dio e con il prossimo nel cuore della Chiesa”.

“E’ bene poi ricordare che il fedele che ha raggiunto l’età della discrezione è tenuto a confessare i peccati gravi almeno una volta l’anno”, e che il penitente “ha la possibilità di confessare i peccati al confessore che preferisce, legittimamente approvato, anche di altro rito”.

In più, il penitente “ha la possibilità di servirsi di un interprete”, “evitati ovviamente gli abusi e gli scandali e fermo restando l’obbligo del segreto”.

Mons. Girotti ha quindi passato in rassegna gli obblighi legati al sigillo sacramentale e al segreto dei penitenti, un tema che la Chiesa ha avuto sempre a cuore e per la cui violazione stabilisce pene severissime che risalgono al IV Concilio Lateranense del 1125, che promulgò la prima legge universale in materia.

A questo proposito, ha sottolineato che il Codice di Diritto Canonico (Can. 1550, §2, 2°) esclude, infatti, “come incapaci dal rendere testimonianza in giudizio i sacerdoti, relativamente a tutto ciò che hanno appreso nella confessione sacramentale, anche nel caso in cui sia stato il penitente a chiedere la deposizione”.

Diversamente, ha osservato, il confessore “peccherebbe d’ingiustizia verso il penitente e di sacrilegio nei confronti del sacramento stesso”, tradendo “la fiducia che il fedele ripone in lui, in quanto ministro di Dio” e rendendo “odioso il Sacramento della Penitenza agli occhi dei fedeli”.

Mons. Girotti ha poi ricordato che il Nuovo Codice di Procedura Penale entrato in vigore in Italia nel 1989 “riconosce il sigillo sacramentale, come parte del segreto professionale accordandovi una particolare tutela” e vincola al sigillo sacramentale esclusivamente il confessore, mentre “tutte le altre persone che per qualsiasi ragione venissero a conoscenza del contenuto di una confessione, come per es. l’interprete o altri che eventualmente ascoltassero, sono vincolati, invece dal segreto”.

“Tale distinzione di responsabilità determina, infatti, in caso di violazione, una diversità di pena”, ha spiegato.

Inoltre, ha proseguito mons. Girotti, “il sacerdote è tenuto al sigillo sacramentale verso chiunque, compreso il penitente. Se, infatti, il confessore desidera parlare con il penitente dei peccati confessati occorrerà il suo permesso, a meno che ciò non avvenga immediatamente dopo la confessione – in tale ipotesi questo sarebbe da considerarsi come la continuazione morale della confessione - oppure il penitente stesso, in successivi incontri, ritorni su qualche considerazione relativa alla precedente confessione”.

Inoltre, ha precisato, “neppure la morte del penitente potrà sciogliere il confessore da questo vincolo.

Infine, mons. Girotti ha ricordato che la Chiesa, a partire da un decreto emanato nel 1988 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede,  punisce con particolare severità anche “chi viola il segreto relativo alla confessione, registrando per mezzo di strumenti tecnici oppure divulgando per mezzo di strumenti di comunicazione sociale, ciò che viene detto dal confessore e dal penitente”.

“In questo caso – ha concluso  –, l’interessato incorre nella pena specifica della scomunica latae sententiae”.

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Proteggere l’intimità della persona

Posté par atempodiblog le 11 mars 2015

Non è lecito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui uno gode, o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità.
Codice di Diritto Canonico n. 220 (Libro II – Il popolo di Dio. Parte I – I fedeli cristiani)

“Nulla disgusta maggiormente un’anima del fatto che si dica ad altri ciò che essa ha detto in fiducia, cioè in segreto”.
Santa Faustina Kowalska

“Compito del parroco, e di ogni sacerdote è quello di tutelare e difendere l’intimità di ogni persona, intesa come spazio vitale in cui proteggere la propria personalità oltre agli affetti più cari e più personali. Scopo del segreto, sia sacramentale, sia extra sacramentale, è proteggere l’intimità della persona, cioè custodire la presenza di Dio nell’intimo di ogni uomo. Chi viola questa sfera personalissima e ‘sacra’, compie non solo un atto di ingiustizia, un delitto canonico, ma un vero e proprio atto di irreligiosità”.
Card. Mauro Piacenza (Penitenziere Maggiore di Santa Romana Chiesa)

Proteggere l’intimità della persona dans Apparizioni mariane e santuari Santuario-di-Torreciudad

Il santuario di Torreciudad, dove nei confessionali la privacy è completamente assicurata

[…] E’ qui, in questa cornice spettacolare, al centro di un paesaggio di incredibile maestà e bellezza, circondato da pareti rocciose lambite dalle acque, che si eleva, come una fortezza celeste, il santuario mariano di Torreciudad, grazie all’amore per la Madre di Dio e allo zelo per le anime di San Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei.

[…] Scendo nella cripta del santuario dove incrocio tre cappelle dedicate rispettivamente alla Madonna di Loreto, alla Vergine del Pilar e alla Madonna di Guadalupe. Qui è il luogo che San Josemaría ha previsto per le confessioni. Ai lati di ogni cappella vi è una fila di confessionali dove, contrariamente a quello che succede un po’ ovunque, la privacy è completamente assicurata, mentre nel vestibolo di ingresso si trovano dei libretti che aiutano a preparare la confessione. Noto un po’ ovunque nel santuario una particolare attenzione per predisporre i servizi per gli invalidi e nella cappella del Pilar vi è un confessionale per i sordi e per i portatori di handicap.

Tratto da: Pellegrino a quattro ruote — Padre Livio Fanzaga

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«Oh no, la predica!». Decalogo per sacerdoti per fare un’omelia come Dio comanda

Posté par atempodiblog le 4 mars 2015

“Non si offendano le persone con ironie o invettive; specialmente nelle piccole borgate non si dica parola che possa essere giudicata allusiva alla condotta di qualche individuo.

Il predicatore badi a non inasprire menomamente gli erranti. Le sue parole spirino sempre carità e benignità.

Le invettive non ottengono le conversioni: l’amor proprio si ribella. Era questo il metodo che teneva S. Francesco di Sales e che era da lui consigliato. Egli narrava che i protestanti correvano in folla ad udirlo e dicevano che loro piaceva, perché non lo vedevano infuriarsi come i loro Ministri”.

San Giovanni Bosco

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Quando si cerca di ascoltare il Signore è normale avere tentazioni. Una di esse è semplicemente sentirsi infastidito o oppresso, e chiudersi; altra tentazione molto comune è iniziare a pensare quello che il testo dice agli altri, per evitare di applicarlo alla propria vita.

Papa Francesco – Evangelii Gaudium

«Oh no, la predica!». Decalogo per sacerdoti per fare un’omelia come Dio comanda dans Cardinale Robert Sarah 25690mx 

«Oh no, la predica!». Decalogo per sacerdoti per fare un’omelia come Dio comanda
«Non è un pezzo di oratoria, né uno spettacolo, né tanto meno una sfilza di rimproveri». Consigli ai nostri cari sacerdoti (talvolta un po’ logorroici)
di Tempi.it

«Oh no, la predica!». Dite la verità, quante volte, con spirito poco cristiano, vi sono scappate per la mente queste parole quando il sacerdote ha cominciato l’omelia durante la Messa? Non dev’essere un pensiero solo di molti fedeli se anche il Vaticano ha voluto [...] ribadire l’importanza dell’omelia durante le celebrazioni. La Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha pubblicato il Direttorio omiletico, un testo che vorrebbe aiutare i sacerdoti a recuperare il senso di questa parte così importante della funzione liturgica.

«Non è un pezzo di oratoria, né uno spettacolo, né tanto meno una sfilza di rimproveri», ha scritto l’Osservatore Romano, ricordando le parole del prefetto della Congregazione, il cardinale Robert Sarah: questo è un testo che «non nasce senza un perché». Già Benedetto XVI aveva parlato della necessità di un predicazione che deve essere «arte» e anche papa Francesco nell’Evangelii gaudium ha sottolineato l’importanza di questo «importante ministero».

LA LUNGHEZZA. Sia Sarah sia il segretario della Congregazione, l’arcivescovo Arthur Roche, hanno insistito sull’esigenza che l’omelia non sia improvvisata, ma preparata e che – come insegnato da grandi oratori come sant’Ambrogio e san Leone Magno – essa sia d’aiuto ai fedeli nella comprensione del contesto liturgico in cui è inserita. E quanto deve essere lunga? Non esiste un timer, anche perché, ha notato Sarah, «dipende dalle circostanze: in Europa forse venti minuti sembrano troppi, ma in Africa non bastano. Lì la gente arriva da lontano per ascoltare la parola di Dio». L’importante – e come dargli torto – è che «non sia noiosa», ha chiosato Roche.

IL DECALOGO. Avvenire ha schematizzato in un decalogo i suggerimenti dati ai sacerdoti (tra parentesi, la fonte).

  1. L’omelia va preparata accuratamente, ancorandola a una profonda conoscenza della Sacra Scrittura, in particolare del Vangelo. (Prop. 19, Sinodo dei Vescovi 2005) 
  2. Non è un discorso qualsiasi, ma un parlare ispirato dalla Parola di Dio. Si può ricorrere ad immagini o a leggende per non annoiare i fedeli. (Card. Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei sacramenti) 
  3. L’omelia non è uno spettacolo di intrattenimento, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione (Evangelii Gaudium, n. 138) 
  4. L’omelia non può essere improvvisata: al contrario merita “un tempo prolungato di studio, preghiera, riflessività e creatività pastorale” (Evangelli Gaudium, n. 145) 
  5. La predicazione deve essere positiva perché offra “sempre speranza” e non lasci “prigionieri della negatività” (Evangelii Gaudium). 
  6. Il buon omileta guida “a intendere e gustare ciò che esce dalla bocca di Dio, aprire i i cuori al rendimento di grazie a Dio, alimentare la fede, preparare a una fruttuosa comunione sacramentale con Cristo”. Sarà un cattivo omileta che “pur essendo magari un grande oratore, non sarà capace di suscitare questi effetti”. (Mons. Arthur Roche, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei sacramenti) 
  7. Il predicatore deve organizzare la sua omelia seguendo questa traccia: scegliere cosa dire, perché dirlo, come dirlo a “questa” assemblea specifica. Le omelie si differenziano a seconda della celebrazione: nella messa feriale si raccomanda una omelia breve. (Padre Corrado Maggioni, sottosegretario della Congregazione) 
  8. Una omelia efficace instilla in chi ascolta il desiderio di conoscere o ri-conoscere Dio, presentandolo nel modo più diretto e chiaro, non accartocciato o parziale (Filippo Riva, Officiale del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali) 
  9. Una omelia efficace mette in pericolo ciò che chi ascolta “sa già”. (Filippo Riva) 
  10. Il parlare di un sacerdote dovrà essere incarnato, dovrà cioè testimoniare un atteggiamento di fronte alla vita, una posizione umana. (Filippo Riva)

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La confessione

Posté par atempodiblog le 4 mars 2015

[Álvaro del Portillo] Confessava spesso di vedersi davanti a Dio con le mani vuote, incapace di rispondere a tanta generosità. Peraltro, la confessione della povertà umana non è frutto della disperazione, ma di un fiducioso abbandono in Dio che è Padre. È aprirsi alla sua misericordia, al suo amore capace di rigenerare la nostra vita. Un amore che non umilia, non fa sprofondare nell’abisso della colpa, ma ci abbraccia, ci solleva dalla nostra prostrazione e ci fa camminare con più decisione e allegria. Il servo di Dio Álvaro conosceva bene il bisogno che abbiamo della misericordia divina e spese molte energie per incoraggiare le persone con cui entrava in contatto ad accostarsi al sacramento della confessione, sacramento della gioia. Com’è importante sentire la tenerezza dell’amore di Dio e scoprire che c’è ancora tempo per amare.

Papa Francesco

La confessione  dans Beato Álvaro del Portillo 1z3nz4h

“Abbiate pazienza (con gli altri) come il Signore l’ha con ciascuno di noi. Accoglieteli sempre con affetto: possano ricorrere a voi per riacquistare l’entusiasmo dopo una sconfitta, perché si sentano compresi, stimolati, amati…”.

“Non dimenticate che la gioia è conseguenza della pace interiore, e che la vera pace è inseparabile dalla compunzione, dal dolore umile e sincero per le nostre mancanze e per i peccati che Dio perdona nel santo Sacramento della Penitenza”.

“Vi sono poche gioie tanto grandi come quella di provare, dopo una Confessione ben fatta, quello che provò il filgiol prodigo: l’abbraccio di Dio nostro Padre che ci perdona”.

Beato Álvaro del Portillo

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“In punta di piedi”, con discrezione e rispetto

Posté par atempodiblog le 27 février 2015

Benedizione delle famiglie: la chiesa a domicilio
La benedizione in punta di piedi: per conoscere le famiglie e far loro sapere che la parrocchia ha sempre le porte aperte.
Single e famiglie, studenti e anziani, diffidenti e devoti a padre Pio, immagini di santi e crocifissi appesi alle pareti, tra il gagliardetto della squadra di calcio e le foto delle vacanze. La benedizione pasquale offre un curioso spaccato della vita di un quartiere cittadino. All’arrivo del prete i più «aprono» ancora il loro cuore
di Graziella Teta – Toscana Oggi

“In punta di piedi”, con discrezione e rispetto dans Benedizione delle famiglie w2uiu

È  il tardo pomeriggio di un brumoso venerdì di febbraio. Don Luca Facchini, borsa a tracolla e aspersorio in mano, si avvia per il quotidiano incontro con gli abitanti dell’Unità Pastorale «Pisa Nova» (San Michele degli Scalzi e Sacra Famiglia). Come lui, in questo periodo tradizionalmente dedicato alla visita e alla benedizione delle famiglie prima della Pasqua, i sacerdoti delle parrocchie cittadine e della provincia dell’intera diocesi, si mettono «in cammino»: suonano campanelli di case e condomini, bussano ad ogni porta. Ma quante di quelle porte si aprono? Come sono accolti i preti? Come vivono le famiglie questa Chiesa che arriva «a domicilio»? Per trovare risposte, il cronista a sua volta ha bussato ad una parrocchia pisana, chiedendo di affiancare il sacerdote impegnato nelle visite per le benedizioni. L’appuntamento è davanti alla canonica: don Luca il vice parroco, uno dei numerosi laici che collaborano con la parrocchia e accompagnano nelle visite (stavolta è il turno di Paola Serraglini, catechista, insegnante neopensionata) e il cronista (in incognito).

Pronti, partiamo. Destinazione: il popoloso quartiere di Pisanova. Una signora affacciata alla finestra ci avvista: «Passate prima da me? Ho poco tempo, devo andare a lavorare». Accontentata. Presenta i figli: «Hanno terminato gli studi, ed ora sono alla ricerca di un’occupazione». I ragazzi osservano incuriositi il sacerdote, rimangono per la benedizione: don Luca asperge l’acqua benedetta e pronuncia la formula rituale – «la pace scenda su questa casa e su chi vi abita» – seguita da un momento di preghiera, recitando insieme un Padre nostro o un Gloria. Poi lascia un ricordo: la bella pubblicazione diocesana dedicata a San Ranieri, patrono della città e dell’Arcidiocesi di Pisa, realizzata per preparare i pisani a celebrare la ricorrenza dell’850° anniversario della morte (1160-2010). Le pagine, arricchite con riproduzioni a colori di opere d’arte, riportano il messaggio dell’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto, la sua preghiera di ringraziamento e una descrizione della vita del santo. Infine, i testi della benedizione della famiglia. Il piccolo dono è gradito. La signora ringrazia e porge al sacerdote la busta con un’offerta.

Alla porta successiva il campanello suona a vuoto: don Luca deposita sullo stuoino un cartoncino colorato, intitolato Benedizioni 2010, con il messaggio: «Ciao! Oggi siamo passati per incontrarti e per benedire la tua famiglia e la tua casa. Non ti abbiamo trovato, ma se vuoi possiamo ripassare. Puoi chiamarci in parrocchia». Seguono i recapiti telefonici, e le firme: don Piero, don Luca e la comunità delle suore.

Un’altra porta si apre, ma l’anziano non ci accoglie: «grazie, non mi interessa», dice laconico. Poi saranno tanti altri volti: di un operaio single che si prepara la cena («ed anche il pranzo da portare al lavoro domani, questa settimana faccio il turno di notte»), di una giovane mamma con tre figli e quarto in arrivo, di un’anziana vedova («sono piena di acciacchi», lamenta), di nonni e nipotini riuniti in cucina, davanti ad un piatto di pastasciutta («non aspettiamo i genitori per cenare, arrivano tardi dal lavoro, i bambini devono andare a nanna presto»). E ancora, il vedovo ben contento di ricevere una visita: «la solitudine si sente»; il sacerdote s’informa sulla sua salute: «sto bene, esco a camminare tutti i giorni»; forse, avrebbe bisogno di un aiuto domestico… «in casa mi arrangio da solo; la signora straniera che si occupava delle pulizie mi faceva sparire crocifissi e santini». La coppia di mezz’età ci accoglie con calore, mostrando con orgoglio le foto della numerosa famiglia, quattro figli e sette nipoti. L’uomo, immigrato dal Sud tanti anni fa, si commuove mentre racconta di aver affrontato una grave malattia («ho pregato tanto Padre Pio»). Un’altra coppia s’affanna a spiegare le peripezie affrontate per trovare casa («ma l’alloggio è piccolo, 45 metri quadrati, abbiamo dovuto dar via parte dei mobili, non c’è abbastanza spazio»). Un’anziana, devota a Giovanni Paolo II, ci riceve con il cappotto addosso perché fa freddo, il riscaldamento funziona male. Un’altra signora apre la porta ma, quando vede la tonaca, declina con un leggero sorriso, e richiude. «Lasci stare don, è di un’altra religione», non manca di far sapere la dirimpettaia. Ancora volti giovani e anziani, cani che abbaiano, televisori sempre accesi (talvolta anche durante la benedizione); ancora immagini di madonne, santi e cristi appesi alle pareti, tra il gagliardetto della squadra di calcio e le foto delle vacanze. Qui, annota don Luca, le persone sono accoglienti, semplici; non stupisce che la fede sconfini nella devozione.

Ovunque, aggiunge, entriamo in punta di piedi: per conoscere le famiglie e far loro sapere che la parrocchia ha sempre le porte aperte. Il bilancio alla fine del giro è positivo: su una trentina di visite, pochi gli assenti e i rifiuti. Ma oltre due ore, su e giù per le scale di questi palazzi popolari, tirati su oltre vent’anni fa, ci restituiscono tante storie di vite spesso difficili, afflitte da problemi diffusi: lavoro che manca, solitudine, malattie. Emergono tante povertà, materiali e spirituali. «Illuminate», per qualche istante, dal sacerdote che si fa prossimo a tutti.

Un’occasione preziosa per conoscere i più deboli
Se lo ricorda bene don Piero Dini, parroco di S. Michele degli Scalzi e Sacra Famiglia e direttore del Centro pastorale diocesano per l’evangelizzazione e la catechesi, il periodo quaresimale delle «benedizioni» di dieci anni fa. «Era il mio primo anno qui ed è stata un’esperienza forte. Andavo da solo, casa per casa, suonando ad ogni campanello: a chi mi apriva mi presentavo e dicevo “se credi, preghiamo insieme”. Se non erano credenti, era comunque un’occasione di conoscenza reciproca. Negli anni, ho trovato accoglienza anche da parte di famiglie di diverse fedi e paesi di provenienza. Ma non sono mancate, e non mancano, le porte chiuse: persone che, attraverso l’uscio – senza aprirlo – rifiutano la visita, accampando ogni genere di scusa. Per gli anziani è spesso un conforto ricevere il sacerdote (quando superano la diffidenza dell’estraneo che bussa alla porta), mentre con i giovani, gli studenti, è più difficile stabilire un contatto». Un’esperienza preziosa che don Dini ha riversato nel consiglio pastorale parrocchiale: «Quest’anno – spiega – abbiamo voluto dare un “taglio” diverso: non solo benedizioni per coloro che hanno fede, ma desiderio di incontrare e conoscere meglio le famiglie del territorio e, nel contempo, di far conoscere il “volto della chiesa”: di noi sacerdoti, delle suore, dei laici-testimoni. L’intento è offrire supporto (anche concreto, indicando casi particolari di povertà e solitudine al centro di ascolto della Caritas o alla San Vincenzo), manifestando alle persone il volto gioioso e semplice di una chiesa vicina, che si interessa ai loro problemi». Così ogni giorno (nel nuovo orario, dalle 17,30 in poi, in modo da incontrare anche chi lavora), si muovono tre gruppi che visitano un centinaio di famiglie. Don Piero è affiancato dal vice parroco don Luca Facchini, dalle suore francescane missionarie di Gesù Bambino che operano nella parrocchia della Sacra Famiglia e dai numerosi laici impegnati nelle attività delle due parrocchie, che costituiscono la vasta unità pastorale «Pisa Nova» (circa 14 mila abitanti, dalle Piagge ai quartieri più periferici), espressione delle più diverse situazioni economiche, sociali e culturali. Decine di strade, un lungo itinerario suddiviso in oltre cinquanta tappe, che si snoda attraverso un fitto calendario di visite (annunciate dalla lettera del parroco, già distribuita in anticipo nelle cassette della posta da una squadra di volontari). Altra novità di quest’anno, il questionario (curato da don Dini: cinque domande su fede, chiesa, preti), lasciato alle famiglie in occasione delle visite, da riconsegnare compilato in parrocchia: «Un’iniziativa di valore pastorale, più che un lavoro di ricerca, che vuole essere uno strumento per capire meglio come poter svolgere il mio ministero di sacerdote e parroco». Una «scintilla per far nascere un dialogo», la definisce don Piero.
Graziella Teta

La sfida? non scoraggiarsi davanti al «no, grazie»
Accoglienza, rifiuto, abitudine. Questo l’atteggiamento delle famiglie davanti al parroco che viene a benedire. Anche nei paesi di Pastina e Pomaia, dove i modi di vivere e di pensare si stanno lentamente adeguando a quelli della città. «Questo è il quarto anno che andrò nelle case – spiega don Amedeo Nannini -. Sono in tutto 250 o 300 quelle da visitare». Non molte, ma l’impegno è tanto per un prete che, 4 giorni su 7, vive a Pisa. «Trovo due categorie di persone: chi mi aspetta – a volte un po’ per “routine” - e chi si rifiuta totalmente di farmi entrare. Bisogna trovare motivi di nuovo interesse per chi è già “abituato”, e creare relazioni con chi proprio non vuole saperne…per prima cosa noi preti non dobbiamo cedere alla tentazione di non andare, per timidezza o per paura del “no”».

La campagna ormai non è più un’«oasi» di devozione: «trovo persone che in chiesa non vedo mai, ma che magari hanno delle richieste: “regolarizzare” una convivenza, battezzare un figlio… l’importante è non essere stavolta noi parroci a “chiudere la porta”, a non rompere queste fragili relazioni con dei “no” secchi: come potremmo altrimenti annunciare la “buona notizia”? Solo la visita alle famiglie ci consente di incontrare proprio tutti».
C.G.

«Mi muovo da solo. La gente si “confida” più volentieri»
«Sono arrivato qui quindici anni fa. Da allora le cose sono cambiate. In meglio. Piano piano la gente ha imparato a conoscermi e, generalmente, mi accoglie in casa volentieri». Il bilancio tracciato da monsignor Mario Stefanini, parroco di San Piero a Grado dal 1994, è positivo: «la benedizione delle famiglie è ancora l’unico mezzo veramente efficace per incontrare tutti gli abitanti del territorio». Sono 900 le case che don Mario visita tutti gli anni.

«Una visita che faccio da solo. Prima mi accompagnavano dei chierichetti, oggi gli impegni, la scuola, lo sport non lo permettono più. Ma forse è meglio così: la gente si sente meno imbarazzata se vuole parlare di qualche problema». E i problemi ci sono: il lavoro che manca, le malattie, le separazioni: se ne parla con il parroco, che ascolta e… «prende nota» dei piccoli e grandi drammi dei suoi parrocchiani: perché nessuno resti sconosciuto o venga dimenticato. Il calendario delle visite viene diffuso presto, a dicembre. Ciononostante qualcuno non apre: «ma non sono molti quelli che non si fanno trovare: in media uno ogni 4 o 5. In alcune case trovo una persona da sola – magari un figlio adolescente – lasciata ad aspettare il prete, mentre gli altri sono al lavoro: è segno che comunque la visita interessa».

E chi non crede? «Passo comunque. Li saluto, con tanti ho fatto amicizia». Benedizioni anche come mezzo per tenere aggiornato lo stato d’anime della parrocchia: «incontro famiglie nuove, appena arrivate, giovani sposi». Anche qui qualche coppia convivente, che non chiude la porta in faccia al prete: «a loro dico “vi aspetto in parrocchia, quando volete sono a disposizione…”».
Caterina Guidi

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Il Papa ai neo-cardinali: cercare i lontani senza pregiudizi, non isolarsi in una casta

Posté par atempodiblog le 15 février 2015

Il Papa ai neo-cardinali: cercare i lontani senza pregiudizi, non isolarsi in una casta
La “strada della Chiesa” è andare a “cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani”. E’ uno dei passaggi più forti dell’appassionata omelia di Francesco nella Messa, nella Basilica di San Pietro, con i 20 nuovi cardinali all’indomani del Concistoro. Il Papa ha esortato i porporati a seguire Gesù, che ha scosso la mentalità “chiusa nella paura e autolimitata dai pregiudizi”, impegnandosi nel servire gli emarginati del nostro tempo. Ancora, il Papa ha messo in guardia i neo-cardinali dalla tentazione di isolarsi in una casta, che, ha ammonito, non ha nulla di ecclesiale.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

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Gesù ha compassione di un lebbroso che supplica di purificarlo e lo guarisce. Francesco ha svolto la sua omelia muovendo dal passo del Vangelo domenicale che mostra una delle immagini più potenti della misericordia divina. Il lebbroso, ha infatti rammentato il Papa rivolgendosi innanzitutto ai 20 nuovi cardinali, era “abbandonato dai propri familiari, evitato dalle altre persone, emarginato dalla società”. Era considerato impuro e, dunque, la finalità del suo isolamento era “salvare i sani, proteggere i giusti” dal rischio del contagio.

Gesù vince i pregiudizi e reintegra il lebbroso emarginato
Gesù però, ha soggiunto, “si lascia coinvolgere nel dolore e nel bisogno della gente”, non si “vergogna di avere ‘compassione’”, “patire-con” il sofferente e per questo agisce in concreto per “reintegrare l’emarginato”. Così facendo, quindi, “rivoluziona e scuote con forza quella mentalità chiusa nella paura e autolimitata dai pregiudizi”:

“Gesù, nuovo Mosè, ha voluto guarire il lebbroso, l’ha voluto toccare, l’ha voluto reintegrare nella comunità, senza ‘autolimitarsi’ nei pregiudizi; senza adeguarsi alla mentalità dominante della gente; senza preoccuparsi affatto del contagio. Gesù risponde alla supplica del lebbroso senza indugio e senza i soliti rimandi per studiare la situazione e tutte le eventuali conseguenze! Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno!”

Gesù, ha proseguito Francesco in una Basilica petrina gremita di fedeli, “non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano addirittura per una guarigione, che si scandalizzano di fronte a qualsiasi apertura, a qualsiasi passo che non entri nei loro schemi mentali e spirituali”. Non pensa a quanti si scandalizzano difronte “a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica. Egli ha voluto integrare gli emarginati, salvare coloro che sono fuori dall’accampamento”.

Effondere la misericordia di Dio a chi la chiede con cuore sincero
Francesco ha così constatato che ci “sono due logiche di pensiero e di fede: la paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti”:

“Anche oggi accade, a volte, di trovarci nell’incrocio di queste due logiche: quella dei dottori della legge, ossia emarginare il pericolo allontanando la persona contagiata, e la logica di Dio che, con la sua misericordia, abbraccia e accoglie reintegrando e trasfigurando il male in bene, la condanna in salvezza e l’esclusione in annuncio”.

Queste due logiche, ha ribadito, “percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare”. E tuttavia, ha sottolineato, dal Concilio di Gerusalemme, la “strada della Chiesa” è “sempre quella di Gesù, della misericordia e dell’integrazione”: non “fare entrare i lupi nel gregge, ma accogliere il figlio prodigo pentito”:

“La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle “periferie” essenziali dell’esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio; di seguire il Maestro che disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Lc 5,31-32)”.

La strada della Chiesa è cercare i lontani senza paura e pregiudizi
Guarendo il lebbroso, ha annotato il Papa, “Gesù non reca alcun danno a chi è sano, anzi lo libera dalla paura; non gli apporta un pericolo ma gli dona un fratello; non disprezza la Legge ma apprezza l’uomo, per il quale Dio ha ispirato la Legge”. Ed ha evidenziato che la carità “non può essere neutra, asettica, indifferente, tiepida o imparziale”. La carità, piuttosto, “è creativa nel trovare il linguaggio giusto per comunicare con tutti coloro che vengono ritenuti inguaribili e quindi intoccabili”. “Il contatto – ha detto – è il vero linguaggio comunicativo, lo stesso linguaggio affettivo che ha trasmesso al lebbroso la guarigione”.

“Cari nuovi Cardinali, questa è la logica di Gesù, questa è la strada della Chiesa: non solo accogliere e integrare, con coraggio evangelico, quelli che bussano alla nostra porta, ma uscire, andare a cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani manifestando loro gratuitamente ciò che noi abbiamo gratuitamente ricevuto. «Chi dice di rimanere in [Cristo], deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato» (1 Gv 2,6). La totale disponibilità nel servire gli altri è il nostro segno distintivo, è l’unico nostro titolo di onore!”.

Servire chi soffre senza isolarsi in una casta
E sempre rivolgendosi ai nuovi porporati, nel giorno in cui hanno ricevuto il titolo cardinalizio, il Papa li ha esortati “a non avere paura di accogliere con tenerezza gli emarginati; a non avere paura della tenerezza” e “della compassione”. Maria, ha soggiunto, “ci rivesta di pazienza nell’accompagnarli nel loro cammino, senza cercare i risultati di un successo mondano”:

“Cari fratelli, guardando a Gesù e alla nostra Madre, vi esorto a servire la Chiesa in modo tale che i cristiani – edificati dalla nostra testimonianza – non siano tentati di stare con Gesù senza voler stare con gli emarginati, isolandosi in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale. Vi esorto a servire Gesù crocifisso in ogni persona emarginata, per qualsiasi motivo; a vedere il Signore in ogni persona esclusa che ha fame, che ha sete, che è nuda”.

Sul Vangelo degli emarginati si rivela la nostra credibilità
Il Signore, ha ripreso il Papa, è “presente anche in coloro che hanno perso la fede” o “che si dichiarano atei”. “Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l’emarginato”, ha poi ammonito ricordando “l’immagine di San Francesco che non ha avuto paura di abbracciare il lebbroso e di accogliere coloro che soffrono qualsiasi genere di emarginazione”. In realtà, ha concluso Francesco, proprio “sul Vangelo degli emarginati, si gioca, si scopre e si rivela la nostra credibilità!”.

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Concistoro. Francesco: cardinale è uomo di carità e speranza

Posté par atempodiblog le 14 février 2015

Concistoro. Francesco: cardinale è uomo di carità e speranza
Quella cardinalizia non è una dignità “decorativa”, perché chi vi è chiamato deve avere una sola “parola-guida”: la carità. È quanto Papa Francesco ha detto ai 20 nuovi cardinali creati durante il Concistoro presieduto nella Basilica di San Pietro. Alla cerimonia ha preso parte anche il Papa emerito, Benedetto XVI.
di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

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Una berretta rossa non è il fregio posto sul capo di un uomo di comando, ma il simbolo di un uomo chiamato a un servizio più grande. Grande come la carità cristiana, che trabocca di benevolenza, è orientata alla giustizia, è piena di speranza, è incline al perdono. Un uomo che non ha altro amore che la Chiesa e sostiene il Papa come un fratello.

Non siete decorativi
Papa Francesco pone se stesso e i 20 nuovi cardinali – 19 presenti in Basilica, unica eccezione l’ultranovantenne colombiano Pimiento Rodríguez – di fronte al manifesto dell’eccellenza cristiana, quella descritta da San Paolo nel suo “Inno alla carità”. Lì, afferma, un cardinale soprattutto trova il suo dover essere, poiché dice subito, nelle prime righe della sua allocuzione…

“…quella cardinalizia è certamente una dignità, ma non è onorifica. Lo dice già il nome – ‘cardinale’ – che evoca il ‘cardine’; dunque non qualcosa di accessorio, di decorativo, che faccia pensare a una onorificenza, ma un perno, un punto di appoggio e di movimento essenziale per la vita della comunità”.

Amate senza confini
La cerimonia inizia e si snoda con grande solennità. Banditi gli applausi, a rimarcare non l’assenza di gioia, ma il bisogno di raccoglimento. Davanti all’altare, sulla sinistra, lo spesso emiciclo scarlatto delle porpore culmina nel punto in bianco dove siede il Papa emerito Benedetto. L’ascolto è di un silenzio solido quando Francesco, scomponendo l’Inno paolino, ricorda quali sentimenti debbano battere in un “cardine” della Chiesa:

“Quanto più si allarga la responsabilità nel servizio alla Chiesa, tanto più deve allargarsi il cuore, dilatarsi secondo la misura del cuore di Cristo. Magnanimità è, in un certo senso, sinonimo di cattolicità: è saper amare senza confini, ma nello stesso tempo fedeli alle situazioni particolari e con gesti concreti. Amare ciò che è grande senza trascurare ciò che è piccolo; amare le piccole cose nell’orizzonte delle grandi (…) Saper amare con  gesti benevoli. Benevolenza è l’intenzione ferma e costante di volere il bene sempre e per tutti, anche per quelli che non ci vogliono bene”.

Vostro interesse sia il bene di tutti
La carità inoltre “non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio” – tentazioni, riconosce il Papa, dalle quali “non sono immuni” neanche le “dignità ecclesiastiche” – e poi non “non manca di rispetto” e “non cerca il proprio interesse”. In questo caso, osserva Francesco, il problema nasce in chi è troppo “autocentrato” su di sé da non badare alla dignità degli altri:

“Chi è auto-centrato cerca inevitabilmente il proprio interesse, e gli sembra che questo sia normale, quasi doveroso. Tale ‘interesse’ può anche essere ammantato di nobili rivestimenti, ma sotto sotto sotto è sempre il ‘proprio interesse’. Invece la carità ti de-centra e ti pone nel vero centro che è solo Cristo. Allora sì, puoi essere una persona rispettosa e attenta al bene degli altri”.

Dio ci scampi dal rancore
Trasparente Papa Francesco nel punto in cui si sofferma a considerare la carità che non si arrabbia, né tiene la contabilità del “male ricevuto”. Certo, ammette, “al pastore che vive a contatto con la gente non mancano le occasioni di arrabbiarsi”. E ancor più non gli difettano nel rapporto “tra confratelli”, perché “in effetti noi siamo meno scusabili”. Ma anche qui, ribadisce, “è la carità, e solo la carità, che ci libera”:

“Ci libera dal pericolo di reagire impulsivamente, di dire e fare cose sbagliate; e soprattutto ci libera dal rischio mortale dell’ira trattenuta, ‘covata’ dentro, che ti porta a tenere conto dei mali che ricevi. No. Questo non è accettabile nell’uomo di Chiesa. Se pure si può scusare un’arrabbiatura momentanea e subito sbollita, non altrettanto per il rancore. Dio ce ne scampi e liberi!”.

Uomini di perdono e speranza
Un uomo della carità, ancora, “non gode dell’ingiustizia e si rallegra della verità”, quest’ultima un’espressione che Francesco sottolinea con piacere perché chi è di Dio, dice, “è affascinato dalla verità” che ritrova nella carne di Gesù. Il commento finale è sulle ultime quattro virtù della carità, che “tutto” scusa, crede, spera e sopporta:

“L’amore di Cristo, riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo, ci permette di vivere così, di essere così: persone capaci di perdonare sempre; di dare sempre fiducia, perché piene di fede in Dio; capaci di infondere sempre speranza, perché piene di speranza in Dio; persone che sanno sopportare con pazienza ogni situazione e ogni fratello e sorella, in unione con Gesù, che ha sopportato con amore il peso di tutti i nostri peccati”.

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Il discepolo innamorato è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace

Posté par atempodiblog le 11 février 2015

“Per me la predicazione più efficace del sacerdote è sempre stata la sua vita. Un buon prete non ha nulla da dirmi: io lo guardo e ciò mi basta”.

François Mauriac

Il discepolo innamorato è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace dans Fede, morale e teologia Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Gli omileti che hanno inciso più profondamente nella vita dei fedeli sono precisamente i testimoni di questa intima, cordiale unione con il mistero di Dio.

Si pensi – solo per fare qualche esempio – a Francesco d’Assisi. E’ stato detto che del “profumo del Vangelo” sono a tal punto ripieni i suoi scritti (come lo erano, per quanto possiamo saperne, le sue omelie), che se si togliesse il Vangelo non vi rimarrebbe più nulla. Oppure si pensi a san Carlo Borromeo, e alla celebre Omelia 45, nella quale il santo vescovo si rivolge direttamente al Crocifisso: “Perché hai voluto nascere in così bassa condizione, vivere sempre in essa e morire tra le ignominie? Perché hai sofferto tante fatiche, tante offese, tanti oltraggi, tanti dolori e tante piaghe, e alla fine una morte così crudele, versando il tuo sangue fino all’ultima goccia?…”. E san Carlo conclude la sua omelia proclamando “veramente felici coloro che hanno impresso nel cuore Cristo crocifisso, e non svanisce mai”.

Si pensi ancora al santo Curato d’Ars, che sul più bello interrompeva la sua omelia, per rivolgersi con intensità ineffabile al Tabernacolo, dicendo semplicemente: “Ma che importa tutto questo? Egli è là!…”.

Ma forse l’esempio più impressionante viene da una singolare omelia di san Luigi M. Grignion de Monfort. Salito sul pulpito all’ora stabilita, il predicatore estrae il suo crocifisso, e senza dire parola si ferma a contemplarlo lungamente, dando sfogo al pianto. Il popolo, a sua volta, non riesce a trattenere le lacrime, quando il predicatore scende e presenta a ciascuno il crocifisso per il bacio. “La predica era stata corta”, commenta il biografo, “ma non occorre meno di tutta la vita di un santo per prepararla”.

[...]

Stando al loro magistero, il “caso serio” dell’omelia si colloca più sul versante della testimonianza di vita (ecco l’impegno penitenziale, di conversione) che non su quello della metodologia e delle tecniche (senza ovviamente sottovalutare questo secondo versante).

Può servire anche per il predicatore ciò che l’allora don Joseph Ratzinger scriveva in Introduzione al cristianesimo a proposito del teologo. Il predicatore non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte “per mestiere”. Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene – egli deve essere come il discepolo innamorato, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro, e da lì ricava il suo modo di pensare, di parlare e di agire.

Alla fine di tutto, il discepolo innamorato è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.

di Monsignor Enrico Dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense
Fonte: Zenit

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Dio perdona tutto e dimentica

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2015

“Perdonare vuol dire dimenticare per sempre”.
San Giovanni Bosco

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Dio perdona tutto e dimentica
La confessione non è un “giudizio”, ma un “incontro” con un Dio che perdona e dimentica ogni peccato alla persona che non si stanca di chiedere la sua misericordia. È il pensiero di fondo dell’omelia di Papa Francesco, pronunciata durante la Messa del mattino presieduta in Casa S. Marta.

di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

E’ il “lavoro” di Dio, ed è un lavoro “bello”: riconciliare. Perché “il nostro Dio perdona” qualsiasi peccato, lo perdona “sempre”, fa “festa” quando uno gli chiede perdono e “dimentica” tutto. Francesco riflette sul brano di Paolo agli Ebrei, nel quale l’Apostolo parla in modo insistito della “nuova alleanza” stabilita da Dio col suo popolo eletto, e l’omelia diventa un’appassionata meditazione sul perdono.

Dio perdona sempre
“Il Dio che riconcilia”, afferma il Papa, sceglie di mandare Gesù per ristabilire un nuovo patto con l’umanità e il caposaldo di questo patto è fondamentalmente uno: il perdono. Un perdono che ha molte caratteristiche:

“Prima di tutto, Dio perdona sempre! Non si stanca di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma Lui non si stanca di perdonare. Quando Pietro chiese a Gesù: “Quante volte io devo perdonare? Sette volte?” – “Non sette volte: settanta volte sette”. Cioè sempre. Così perdona Dio: sempre. Ma se tu hai vissuto una vita di tanti peccati, di tante cose brutte, ma alla fine, un po’ pentito, chiedi perdono, ti perdona subito! Lui perdona sempre”.

Dio perdona tutto e dimentica
Eppure, il dubbio che potrebbe sorgere nel cuore umano è sul “quanto” Dio sia disposto a perdonare. Ebbene, ripete Francesco, basta “pentirsi e chiedere perdono”: “non si deve pagare niente”, perché già “Cristo ha pagato per noi”. Il modello è il figliol prodigo della parabola, che pentito prepara un discorso da fare a suo padre, il quale invece non lo fa nemmeno parlare ma lo abbraccia e lo tiene stretto a sé:

“Non c’è peccato che Lui non perdoni. Lui perdona tutto. ‘Ma, padre, io non vado a confessarmi perché ne ho fatte tante brutte, tante brutte, tante di quelle che non avrò perdono…’ No. Non è vero. Perdona tutto. Se tu vai pentito, perdona tutto. Quando… eh, tante volte non ti lascia parlare! Tu incominci a chiedere perdono e Lui ti fa sentire quella gioia del perdono prima che tu abbia finito di dire tutto”.

Confessione non è giudizio ma incontro
E un’altra cosa, continua a elencare il Papa: quando perdona, Dio “fa festa”. E infine, Dio “dimentica”. Perché quello che importa per Dio è “incontrarsi con noi”.

E qui, Francesco suggerisce un esame di coscienza ai sacerdoti dentro al confessionale. “Sono disposto a perdonare tutto?”, “a dimenticarmi i peccati di quella persona?”. La confessione, conclude, “più che un giudizio, è un incontro”:
“Tante volte le confessioni sembrano una pratica, una formalità : ‘Po, po, po, po, po… Po, po, po… Vai”. Tutto meccanico! No! E l’incontro dov’è? L’incontro con il Signore che riconcilia, ti abbraccia e fa festa. E questo è il nostro Dio, tanto buono. Anche dobbiamo insegnare: che imparino i nostri bimbi, i nostri ragazzi a confessarsi bene, perché andare a confessarsi non è andare alla tintoria perché ti tolgono una macchia. No! E’ andare a incontrare il Padre, che riconcilia, che perdona e che fa festa”.

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L’importanza di fare bene le omelie

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2014

Rileggiamo con calma l’insegnamento del Romano Pontefice (Benedetto XVI) nel n.59 de la Verbum Domini: «Già nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, avevo ricordato che in relazione all’importanza della Parola di Dio si pone la necessità di migliorare la qualità dell’omelia. Essa infatti “è parte dell’azione liturgica”; ha il compito di favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli»

L’omelia non è l’occasione per rivolgersi ai fedeli e comunicare loro qualcosa di diverso dai testi sacri letti. È “parte dell’azione liturgica”, non una aggiunta opzionale. La sua finalità è quella di “favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli”.

Tratto da: Collationes

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L’importanza di fare bene le omelie
di Radio Vaticana

(20/12/2014) Con il benestare di Papa Francesco, è stato redatto dalla Congregazione del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti un “direttorio omiletico”. Costituito da due parti – una dedicata all’omelia in ambito liturgico e l’altra focalizzata sull’arte della predicazione – il documento ambisce a fornire a sacerdoti e seminaristi le coordinate metodologiche e contenutistiche da tener conto nel preparare e pronunciare un’omelia. Federico Piana ne ha parlato con Sergio Tapia-Velasco, docente alla Facoltà di Comunicazione sociale della Pontificia Università della Santa Croce e coordinatore del corso “Ars praedicandi”:

R. – In realtà, tutto inizia con Giovanni Paolo II quando nel 1990 convoca un Sinodo per studiare come si possa migliorare la formazione dei sacerdoti, dei seminaristi. Già in quel momento è venuta fuori  l’idea di fare qualcosa per aiutare i sacerdoti a predicare meglio. Poi, Papa Benedetto in due momenti importanti – sempre a conclusione di un Sinodo, quello dell’Eucaristia, che ha portato poi all’uscita dell’Esortazione “Sacramentum Caritatis” nel 2007 – parlò di queste omelie che risultavano noiose, perché in realtà erano troppo generiche o astratte e non parlavano ai fedeli. E’ stato lo stesso Benedetto che ha chiesto – dopo il Sinodo sulla Parola di Dio nel 2010, scrivendo questa Esortazione Apostolica “Verbum Domini”, al numero 60 – ai responsabili della Congregazione del Culto Divino l’opportunità di redigere un Direttorio Omiletico. Il Direttorio è un tipo di documento, diciamo così, speciale che viene non soltanto a studiare un argomento dal punto di vista teorico, ma cerca di dare una direzione.

D. – In concreto di cosa si tratta?
R. – Si tratta di linee guida che possono ispirare sia il sacerdote che già si trova a esercitare il ministero della Parola, e richiamano soprattutto la responsabilità dei rettori dei seminari nel preparare in questa bella ma anche difficile arte della predicazione i loro seminaristi. Senz’altro tutti possiamo migliorare, ma chi si sta preparando al sacerdozio deve prendersi sul serio nella preparazione in questo ambito.

D. – Come deve essere fatta una omelia “doc”?
R. – Porsi le domande giuste per strutturare l’omelia: che cosa interessa veramente i fedeli? Che cosa dice veramente il testo? Che cosa ha detto questa lettura al mio cuore? Come dice Papa Francesco, è importante non rispondere a domande che nessuno si pone: l’inter-lectio ha proprio lo scopo di “inter-leggere” e capire che cosa dice il testo, cosa hanno bisogno di ascoltare i fedeli e cosa ha detto il testo a me stesso? Altrimenti l’omelia risulta non autentica. L’importante è avere una domanda di partenza e poi si può strutturare il discorso seguendo la retorica classica, ma sempre attenti alle forme di comunicazione contemporanea.

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Vegliare sulle cattive letture, sulla perdita di tempo e sulle visite

Posté par atempodiblog le 23 novembre 2014

La Madonna chiede di vegliare sulle cattive letture, sulla perdita di tempo e sulle visite
Tratto da: Il Suo ritratto sul cuore, di p. Angelo Maria Tentori

Vegliare sulle cattive letture, sulla perdita di tempo e sulle visite dans Apparizioni mariane e santuari Rue-du-Bac

La Madonna chiede a Catherine di far sapere questo suo cruccio, provocato dal comportamento delle comunità al suo confessore; anche se al momento non è lui il superiore, in futuro lo diventerà, e che, allora, faccia tutto il possibile perché la regola sia messa in vigore.

Sappiamo, infatti, per esperienza che quando le regole non vigono più, gli abusi e le confusioni e le ingiustizie con le divisioni abbondano.

Qui la Madonna specifica alcuni di questi abusi, pochi in verità, e che a noi, oggi, sembrano di poca entità, anzi molto poca. Vuole che Catherine trasmetta al suo confessore, da parte sua, di vegliare sulle cattive letture, sulla perdita di tempo e sulle visite.

Le letture
A quel tempo, ci domandiamo, che letture cattive potevano avere a disposizione? Non erano i nostri tempi, eppure, qualche cosa anche in quelle letture non andava bene. La Madonna vuole che si sia più vigilanti, non si può trangugiare tutto, non vale la scusa che si è adulti e vaccinati, il virus del male morale è più forte di qualsiasi altro virus.

Quasi quasi non riusciamo, poi, a crederci sugli altri due punti richiamati dalla Madonna:

La perdita di tempo
Per il Cielo, dove vige solo l’eternità, ha grande valore il tempo di questa terra… per cui non può essere sprecato come tutti i doni di Dio. Ecco perché Maria SS. si preoccupa anche di come impieghiamo il nostro tempo; è prezioso ed è misurato. Il tempo sprecato vuol dire bene non compiuto, grazie perdute, santità non progredita e tante occasioni di bene mancate.

Anche questo richiamo, come tutta la vita di Catherine, ci sembra estemporaneo, “non vale per noi” – pensiamo – dato che il ritornello più frequente sulle nostre labbra è: “non ho tempo, sono talmente preso”, quindi almeno su questo possiamo stare tranquilli… personalmente non ne sarei tanto sicuro… prima di tutto perché alla pressione del tempo che ci scappa dalle mani sappiamo trovare momenti di vuotaggine, non per nulla positivi e costruttivi, magari coperti sotto l’etichetta di relax… tanto necessario per alleviare lo stress del vivere attuale e poi non è detto che impieghiamo sempre bene il tempo, nel rispetto della gerarchia dei valori.

Il tempo lo si può vivere intensamente per cose senza grande importanza e anche per futilità, non riuscendo poi a trovare per il Signore e per altri valori importanti quel tempo dovuto o  tutt’al più qualche infinitesimale ritaglio… forse si può perdere tempo anche così. Del resto chi non si fa questa domanda: “come facevano quelle suore e quei sacerdoti con tutta una giornata piena come un uovo nell’assistenza e sempre esigente dei poveri? Come facevano a perdere tempo? Come ci riuscivano?”. Eh sì che a quel tempo non c’era quella gamma di spettacoli e la possibilità di assistervi che abbiamo oggi. Eppure la Madonna lo fa notare esplicitamente ed è una di quelle cose che l’addolora.

Le visite
E’ facile capire che non vengono proibite le visite di parenti e persone care, ma senz’altro la Madonna si riferisce a quelle visite interminabili come tempo e con il conseguente codazzo di curiosità inutili, malignità, pettegolezzi, perdita di tempo, dissipazioni… in una parola: tempo sottratto ai propri doveri che di solito cadono, poi, sulle spalle degli altri.

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