Le giaculatorie più comuni: le chiacchiere

Posté par atempodiblog le 22 décembre 2013

“Noi giustamente insistiamo molto sul valore dell’obiezione di coscienza, ma forse dobbiamo esercitarla anche per difenderci da una legge non scritta dei nostri ambienti che purtroppo è quella delle chiacchiere. Allora facciamo tutti obiezione di coscienza; e badate che non voglio fare solo un discorso morale! Perché le chiacchiere danneggiano la qualità delle persone, danneggiano la qualità del lavoro e dell’ambiente”.

 Le giaculatorie più comuni: le chiacchiere dans Citazioni, frasi e pensieri divieto_di_chiacchiera

Tante volte ho trovato comunità, seminaristi, religiosi, o comunità diocesane dove le giaculatorie più comuni sono le chiacchiere! E’ terribile! Si “spellano” uno con l’altro… E questo è il nostro mondo clericale, religioso… Scusatemi, ma è comune: gelosie, invidie, parlare male dell’altro. Non solo parlare male dei superiori, questo è un classico! Ma io voglio dirvi che questo è tanto comune, tanto comune. Anche io sono caduto in questo. Tante volte l’ho fatto, tante volte! E mi vergogno! Mi vergogno di questo! Non sta bene farlo: andare a fare chiacchiere. “Hai sentito… Hai sentito…”. Ma è un inferno quella comunità! Questo non fa bene. E perciò è importante la relazione di amicizia e di fraternità. Gli amici sono pochi. La Bibbia dice questo: gli amici, uno, due… Ma la fraternità, fra tutti. Se io ho qualcosa con una sorella o con un fratello, lo dico in faccia, o lo dico a quello o a quella che può aiutare, ma non lo dico agli altri per “sporcarlo”. E le chiacchiere, è terribile! Dietro le chiacchiere, sotto le chiacchiere ci sono le invidie, le gelosie, le ambizioni. Pensate a questo. Una volta ho sentito di una persona che, dopo gli esercizi spirituali – una persona consacrata, una suora… Questo è buono! Questa suora aveva promesso al Signore di non parlare mai male di un’altra. Questa è una bella, una bella strada alla santità! Non parlare male di altri. “Ma, padre, ci sono problemi…”: dillo al superiore, dillo alla superiora, dillo al vescovo, che può rimediare. Non dirlo a quello che non può aiutare. Questo è importante: fraternità!  Ma dimmi, tu parlerai male della tua mamma, del tuo papà, dei tuoi fratelli? Mai. E perché lo fai nella vita consacrata, nel seminario, nella vita presbiterale? Soltanto questo: pensate, pensate… Fraternità! Questo amore fraterno.

Papa Francesco
Tratto da: La Santa Sede

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Confessione

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2013

Confessione dans Citazioni, frasi e pensieri Confessione

Vorrei confessarmi, vado in chiesa. I due confessionali sono vuoti, il prete sta confessando una attempata signora seduto con lei su uno dei banchi. La signora parla concitata, il prete ascolta. Si sente praticamente tutto. I fedeli fanno finta di nulla. Sto a debita distanza. Dopo un quarto d’ora, a gesti faccio capire che vorrei confessarmi anch’io. Il prete annuisce. Dopo mezz’ora la confessione non è ancora finita, così prendo e me ne vado. Alcuni giorni dopo, entro in una chiesa milanese dove, da tal ora a tal altra, confessano. Lucetta rossa accesa, mi siedo e aspetto il mio turno. Il confessionale è una moderna cabina con la porta di vetro smerigliato. Intravedo una signora che parla. Attendo, anche qui, mezz’ora abbondante. Finalmente tocca a me, entro e mi trovo faccia a faccia col prete. Scarico l’elenco e in tre minuti sono fuori. Ora, io sono una persona conosciuta nell’ambiente ecclesiale e non mi va di raccontare le mie miserie a un prete col quale potrei trovarmi, in seguito, a dover polemizzare per motivi professionali. Dunque, avrei necessità della grata interposta tra il mio viso e quello del confessore. Si chiama privacy, l’aveva inventata la Chiesa ma vi ha rinunciato [...] certo clero. E’ quest’ultimo, infatti, a scoraggiare il ricorso alla confessione in quei pochi che, in tempi di cristianizzazione, vorrebbero ritornarvi.

di Rino Cammilleri – Antidoti

Divisore dans San Francesco di Sales

Freccia dans Viaggi & Vacanze Elogio del confessionale (di Paolo Rodari)

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La scelta della modalità di confessione

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2013

La scelta della modalità di confessione dans Citazioni, frasi e pensieri Confessionale-con-grata

“Voglio ricordare che non si deve far pesare sul penitente il proprio gusto, ma rispettare la sua sensibilità per quanto concerne la scelta della modalità di confessione, cioè se faccia a faccia o attraverso la grata del confessionale”.

Giovanni Paolo II, Il Sacramento della penitenza – Libreria editrice Vaticana, pag. 47

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Sede per le confessioni e Diritto canonico

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2013

Sede per le confessioni e Diritto canonico dans Fede, morale e teologia Confessionale-con-grata

Il fatto di non usare più i confessionali tradizionali è un abuso attuato da alcuni sacerdoti.
Di fatto la Chiesa vuole che ci siano sempre anche confessionali muniti di grata.
La presenza del confessionale è un segno importante e di sua natura eloquente: è capace di richiamare alla memoria l’esistenza del Sacramento e la necessità di celebrarlo.

Ecco quanto dispone il Codice di diritto canonico:
“Relativamente alla sede per le confessioni, le norme vengano stabilite dalla Conferenza episcopale, garantendo tuttavia che si trovino sempre in luogo aperto i confessionali, provvisti di una grata fissa tra il penitente e il confessore, cosicché i fedeli che lo desiderano possano liberamente servirsene” (can. 964,2).
Tuttavia per qualsiasi motivo serio, il sacramento può essere celebrato anche altrove (can. 964,3).

di Padre Angelo Bellon O.P. – Amici Domenicani

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Confessarsi come Dio comanda

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2013

Confessarsi come Dio comanda dans Fede, morale e teologia confessionali

Alla fine del documento Misericordia Dei si chiede alle Conferenze episcopali che emanino disposizioni in cui, tra l’altro, si garantisca che i confessionali siano collocati “in luogo visibile” e siano provvisti anche “di grata fissa”.

BERTONE: È una disposizione saggia. La garanzia di non essere riconosciuti quando ci si va a confessare è una garanzia di libertà di coscienza dei fedeli. E questa garanzia deve essere accordata a tutti coloro che la desiderano. Altra cosa è se si tratti di una direzione spirituale o di un fedele che abbia un confessore stabile.

Tratto da: 30Giorni (Confessarsi come Dio comanda, 2002)

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Se Dio esiste non può che perdonare

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2013

Se Dio esiste non può che perdonare
di Don Fabio Bartoli - La fontana del villaggio

Se Dio esiste non può che perdonare dans Misericordia 25yufs4

Oggi ho aiutato un uomo a morire.

Non è una cosa così straordinaria.

Succede ogni tanto nella vita di un prete.

Non era un uomo buono, anzi. Nella vita ne ha fatte più di Bertoldo, diciamolo. Una volta perfino, tanti anni fa, mi cacciò via da casa con una doppietta in mano.

Ma oggi in punto di morte ha chiesto di me.

E il Signore si è preso cura di lui, ha steso sulla sua paura e sulla sua sofferenza il velo della santa unzione e tutti i suoi peccati sono stati perdonati, ma proprio tutti.

Ed è entrato nella Gloria, e dalla porta principale, come fosse un san Pietro o un san Paolo, come una madonna portata in processione. Portato in processione dagli angeli e dai santi, e da tutti quelli che nella sua vita ha fatto soffrire, e ha umiliato e disprezzato e forse perfino ucciso.

Lo hanno portato loro perché nella comunione dei Santi le cose funzionano così e non c’è tra loro alcun rancore né vendetta, ma solo la gioia del perdono reciproco. E lo stupore di fronte alla manifestazione dell’amore incondizionato di Dio nella vita di uno che li ha fatti morire, eppure era loro fratello.

Oggi ho aiutato un uomo a morire.

Ho recitato su di lui una breve formula, ho steso sulla sua fronte un velo d’olio. Ed è entrato nella Gloria. Con la naturalezza di un “cucchiaio” di Totti, di una “voleé” di Federer, come se fosse nato per quello. Ed era nato per quello in effetti.

Anni ed anni di rancore, di rabbia, di sofferenze subite ed inflitte, di umiliazioni subite ed inflitte, di coltellate date e ricevute. Anni di violenza, di soprusi, di contraffazioni, di meschinità, di bugie colossali, di doppiezza e di inganno cancellati in un giorno, in un’ora, in un minuto.

Tutto così facile? Sì tutto così facile, ed anche di più. Perché la Fatica non l’ha fatta lui, ma un Altro al posto suo e il dolore, la paura, l’angoscia, il male l’ha preso su di sé, tutto su di sé e per lui, e per me, e per te che leggi non è rimasto più.

Non c’è più male, non c’è. Ne resta solo l’eco forse, il ricordo, una cicatrice magari, ma che dopo il perdono non è più memoria di un dolore, ma di una vittoria, non è più il segno di una sconfitta, ma la celebrazione dell’amore.

Tutto così facile? Sì, così. Come per Dizma, quel ladrone che poi non doveva essere tanto buono, visto che in croce andavano i terroristi e gli assassini, eppure con quell’unico e solo gesto di pietà in punto di morte si è guadagnato l’onore di essere l’unico santo canonizzato in diretta. E da Gesù stesso.

Non c’è stato bisogno di complicate penitenze per Dizma, nè per il mio penitente. Nessun percorso di riabilitazione, nessun bisogno di rieducazione, nessuna fatica, nessuna dilazione. Accoglienza piena, perdono totale ed incondizionato.

E pensavo che se Dio esiste non può che agire così.

Se Dio c’è non può che perdonare in questo modo.

Per questo esistono i sacramenti. Questa logica meravigliosa e scioccante di Dio che a un certo punto mette tutto da parte e nella sua fame di salvarti dimentica ogni calcolo che giustamente diciamo umano, ogni ragionamento di convenienza e prudenza, perfino ogni sapienza teologica (e che se ne fa Dio della teologia dopotutto?).

Dio ci ama incondizionatamente e ci perdona sempre, ci perdona prima. Ci ha perdonato ancor prima del nostro peccato. E tutto ciò che dobbiamo fare è accorgercene, e stendere la mano per prenderlo questo perdono e farlo nostro.

Sia pure in punto di morte, sia pure dopo una vita sbagliata dal principio alla fine.

Se non fossi cattolico impazzirei, non potrei vivere senza credere al Dio che ha inventato la confessione. E l’unzione degli infermi.

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Necessità di una migliore selezione dei candidati al sacerdozio

Posté par atempodiblog le 27 novembre 2013

Necessità di una migliore selezione dei candidati al sacerdozio dans Citazioni, frasi e pensieri 34erivl

In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine. Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione. D’altra parte, nonostante la scarsità di vocazioni, oggi abbiamo una più chiara coscienza della necessità di una migliore selezione dei candidati al sacerdozio. Non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione, tanto meno se queste sono legate ad insicurezza affettiva, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere economico.

Papa Francesco – Evangelii Gaudium

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«Anche il Papa è un peccatore e si confessa ogni 15 giorni»

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2013

«Anche il Papa è un peccatore e si confessa ogni 15 giorni»
Francesco all’udienza ha parlato della remissione dei peccati: «La Chiesa non è padrona ma serva del ministero della misericordia». E poi ha pregato per la Sardegna

di Domenico Agasso jr – Vatican Insider

«Anche il Papa è un peccatore e si confessa ogni 15 giorni» dans Articoli di Giornali e News papa_misericordioso

«Ciao Francesco!». «Ti voglio bene Francesco!». Sono sempre tante le persone che, sentendo realmente vicino il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo», non esitano a urlare i loro saluti e affetto rivolgendosi al Pontefice con il “tu”. È avvenuto anche questa mattina mentre il Papa faceva il suo consueto giro tra la folla accorsa in piazza San Pietro per l’udienza generale, durante la quale Francesco ha continuato la catechesi sul tema della remissione dei peccati, riferendosi oggi al cosiddetto “potere delle chiavi”, simbolo biblico della missione che Gesù Cristo ha consegnato agli Apostoli.

«Anzitutto», ha affermato, «dobbiamo ricordare che il protagonista del perdono dei peccati è lo Spirito Santo. Lui è il protagonista! Nella sua prima apparizione agli Apostoli, nel cenacolo… Gesù risorto fece il gesto di soffiare su di loro dicendo: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22-23)».

Il Figlio di Dio, «trasfigurato nel suo corpo, ormai è l’uomo nuovo, che offre i doni pasquali frutto della sua morte e risurrezione»; e questi doni sono «la pace, la gioia, il perdono dei peccati, la missione, ma soprattutto dona lo Spirito Santo che di tutto questo è la sorgente».

Francesco si è soffermato poi su un secondo aspetto: «Gesù dà agli Apostoli il potere di perdonare i peccati». Questo elemento «è un po’ difficile»: è complesso «capire come un uomo può perdonare i peccati. Gesù dà il potere. La Chiesa è depositaria del potere delle chiavi: così da aprire o chiudere, di perdonare. Dio perdona ogni uomo nella sua sovrana misericordia, ma Lui stesso ha voluto che quanti appartengono a Cristo e alla sua Chiesa, ricevano il perdono mediante i ministri della Comunità».

Il Pontefice qui ha precisato e sottolineato: «La Chiesa non è padrona del potere delle chiavi: non è padrona, ma è serva del ministero della misericordia e si rallegra tutte le volte che può offrire questo dono divino».

Il Papa ha notato che «tante persone, forse, non capiscono la dimensione ecclesiale del perdono, perché domina sempre l’individualismo, il soggettivismo, e anche noi cristiani ne risentiamo. Certo, Dio perdona ogni peccatore pentito, personalmente, ma il cristiano è legato a Cristo, e Cristo è unito alla Chiesa. E per noi cristiani c’è un dono in più, e c’è anche un impegno in più: passare umilmente attraverso il ministero ecclesiale».

Senza leggere il testo preparato ha aggiunto: «E questo dobbiamo valorizzarlo! E’ un dono, è anche una cura, è una protezione e anche la sicurezza di quello che noi diciamo sempre: “Dio sempre ci perdona! Non si stanca di perdonare!”». E poi ha ribadito un appello: «Noi dobbiamo non stancarci di andare a chiedere perdono. “Ma, padre, a me dà vergogna andare a dire i miei peccati…”. “Ma, guarda, le nostre mamme, le nostre donne dicevano che è meglio diventare una volta rosso e non mille volte giallo!”», e, sorridendo, ha detto: «E tu diventi rosso un volta, ti perdona i peccati e avanti».

«Il sacerdote strumento per il perdono dei peccati» è l’ultimo ambito approfondito dal Pontefice. «Il perdono di Dio che ci viene dato nella Chiesa, ci viene trasmesso per mezzo del ministero di un nostro fratello, il sacerdote», il quale, anche lui, è «un uomo che come noi ha bisogno di misericordia».

«Il servizio che il sacerdote presta da parte di Dio nel sacramento della confessione è un servizio molto delicato, che esige che il suo cuore sia in pace, che abbia il cuore in pace, che non maltratti i fedeli ma che sia amico fedele e misericordioso, che sappia seminare speranza nei cuori e soprattutto sia consapevole che il fratello e la sorella cerchi il perdono e lo faccia come le tante persone che si accostavano a Gesù perché le guarisse». «Il sacerdote che non ha questa disposizione di spirito – ha avvertito – è meglio che, finché non si corregga, non amministri questo sacramento». «I fedeli penitenti hanno il dovere? – ha chiesto il Papa – No, hanno il diritto di trovare nei sacerdoti dei servitori del perdono di Dio».

E, di nuovo a braccio, ha messo in evidenza: «Anche i sacerdoti devono confessarsi, anche i vescovi: tutti siamo peccatori». E «anche il Papa si confessa ogni quindici giorni, perché il Papa anche è un peccatore! E il confessore sente le cose che io gli dico, mi consiglia e mi perdona, perché tutti abbiamo bisogno di questo perdono».

Al termine dell’udienza ha dedicato un momento ai morti della Sardegna: «Non possiamo non ricordare le vittime dell’alluvione. Preghiamo per loro e per i familiari», ha detto, invitando a essere «solidali con quanti hanno subito dei danni». Il Papa ha pregato in silenzio e recitato un Ave Maria «perché la Madonna aiuti tutti i fratelli e le sorelle sardi».

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«Non si evangelizza andando a imporre un nuovo obbligo»

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2013

«Non si evangelizza andando a imporre un nuovo obbligo»
Nel videomessaggio di Francesco all’incontro di Guadalupe in Messico una sintesi del pontificato: «Presentare l’essenziale, l’amore di Dio. Serve tanta pazienza. Il vescovo guidi con tenerezza il suo gregge»
di Andrea Tornielli - Vatican Insider

«Non si evangelizza andando a imporre un nuovo obbligo» dans Andrea Tornielli guadalupeÈ un videomessaggio indirizzato all’America Latina, ma buon ben dirsi una sintesi efficace di otto mesi di pontificato e il preannuncio dei contenuti dell’esortazione post-sinodale sulla nuova evangelizzazione: rivolgendosi ai partecipanti al Pellegrinaggio-Incontro presso il santuario di Guadalupe a Città del Messico, indetto per l’Anno della fede dalla Pontificia commissione per l’America Latina e dai Cavalieri di Colombo, Papa Francesco ha spiegato che cosa significa annunciare il Vangelo oggi.

Bergoglio ha ricordato che la Chiesa è «in stato permanente di missione» e che «tutta l’attività abituale delle Chiese particolari» deve avere un carattere missionario. «L’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, suppone un uscire da se stessi, un camminare e seminare sempre di nuovo, sempre più in là – ha aggiunto Francesco – È vitale per la Chiesa non chiudersi, non sentirsi già soddisfatta e sicura con quel che ha raggiunto. Se succede questo, la Chiesa si ammala, si ammala di abbondanza immaginaria, di abbondanza superflua, in certo modo “fa indigestione” e si debilita. Bisogna uscire dalla propria comunità e avere l’audacia di arrivare alle periferie esistenziali che hanno bisogno di sentire la vicinanza di Dio».

Dio, spiega il Papa, «non abbandona nessuno e mostra sempre la sua tenerezza e la sua misericordia inesauribile, quindi, questo è ciò che bisogna portare a tutta la gente». Bisogna cercare di «arrivare a tutti, senza escludere nessuno e tenendo in gran considerazione le circostanze di ognuno». «Si deve arrivare a tutti – continua Francesco – e si condividerà la gioia di essersi incontrati con Cristo. Non si tratta di andare come chi impone un nuovo obbligo, come chi si limita al rimprovero o al lamento dinanzi a quel che si considera imperfetto o insufficiente».

Evangelizzare «esige molta pazienza, molta pazienza», l’evangelizzatore «cura il grano e non perde la pace per la presenza della zizzania. E sa anche presentare il messaggio cristiano in maniera serena e graduale, con il profumo del Vangelo, come faceva il Signore. Sa privilegiare, in primo luogo, l’essenziale e più necessario, cioè la bellezza dell’amore di Dio che ci parla in Cristo morto e risorto. Dall’altra parte, deve sforzarsi di essere creativo nei suoi metodi, non possiamo rimanere rinchiusi nel luogo comune del “si è fatto sempre così”».

Francesco torna a parlare del vescovo, che «conduce la pastorale nella Chiesa particolare» e lo fa «come il pastore che conosce per nome le sue pecore, le guida con vicinanza, con tenerezza, con pazienza, manifestando effettivamente la maternità della Chiesa e la misericordia di Dio». Il vero pastore non ha l’atteggiamento «del principe o del mero funzionario attento principalmente alla disciplina, alle regole, ai meccanismi organizzativi». Perché «questo porta sempre ad una pastorale distante dalla gente, incapace di favorire ed ottenere l’incontro con Cristo e l’incontro con i fratelli».

«Il popolo di Dio a lui affidato ha bisogno che il vescovo vegli per lui, prendendosi cura soprattutto di quello che lo mantiene unito e promuove la speranza nei cuori. Ha bisogno che il vescovo sappia discernere, senza spegnerlo, il soffio dello Spirito Santo che viene da dove vuole, per il bene della Chiesa e la sua missione nel mondo».

E questi atteggiamenti del vescovo, spiega ancora Francesco, «devono anche essere partecipati molto profondamente dagli altri agenti di pastorale, soprattutto dai presbiteri. La tentazione del clericalismo, che tanto danno fa alla Chiesa in America Latina, è un ostacolo per lo sviluppo della maturità e della responsabilità cristiana di buona parte del laicato».

Il clericalismo «implica un atteggiamento autoreferenziale, un atteggiamento di gruppo, che impoverisce la proiezione verso l’incontro del Signore e verso gli uomini che aspettano l’annuncio». Il Papa ha quindi accennato all’importanza di formare preti «capaci di prossimità, di incontro, che sappiano infiammare il cuore della gente, camminare con loro, entrare in dialogo con le sue speranze ed i suoi timori». Un lavoro che i vescovi «non possono delegare» ma «lo devono assumere come qualcosa di fondamentale per la vita della Chiesa, senza risparmiare sforzi, attenzioni e accompagnamento». La cultura di oggi «esige una formazione seria, bene organizzata» e Bergoglio si chiede se seminari molto piccoli, con «carenza di personale formativo», siano in grado di far fronte a questa esigenza.

Il Papa parla poi dei religiosi e delle religiose chiedendo loro «di essere fedeli al carisma ricevuto, che nel loro servizio alla Santa Madre Chiesa gerarchica», non lasciando «svanire quella grazia che lo Spirito Santo diede ai loro fondatori e che devono trasmettere in tutta la sua integrità».

Infine, l’invito alla missione è rivolto a ciascuno dei credenti battezzati: «Vi prego, come padre e fratello in Gesù Cristo, che vi facciate carico della fede che avete ricevuto nel Battesimo. E, come fecero la mamma e la nonna di Timoteo, trasmettiate la fede ai vostri figli e nipoti, e non solo a loro. Questo tesoro della fede non è dato per uso personale. È per donarlo, per trasmetterlo, e così crescerà. Fate conoscere il nome di Gesù. E se fate questo, non vi meravigliate che in pieno inverno fioriscano le rose di Castilla (un riferimento a quanto accadde all’indios Juan Diego di fronte alla Madonna di Guadalupe, ndr). Perché sapete, sia Gesù sia noi abbiamo la stessa Madre!».

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I riflessi morenti di un fuoco che deve incendiare il mondo

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2013

I riflessi morenti di un fuoco che deve incendiare il mondo dans Citazioni, frasi e pensieri I-riflessi-morenti-di-un-fuoco-che-deve-incendiare-il-mondo

“Il portiere della storia non guarda le loro ragioni, ma guarda i loro visi. Per cancellare di colpo tante immagini deprimenti bastano dieci visi di monaci perduti in fondo  ad un monastero o quella contadina spagnola che intravidi un giorno nel più fitto segreto di una chiesetta di Toledo con le braccia allargate in un gesto sovrano, eretta come una regina, mentre pregava in ginocchio. Ma bisogna dunque frugare nei monasteri e nelle cappelle castigliane per raccogliere i riflessi morenti di un fuoco che deve incendiare il mondo?”.

Léon Bloy

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Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

L’Innominato e il Cardinal Federigo
Proviamo ad immedesimarci con lo stato d’animo dell’Innominato; anzi entriamo nella scena sostituendoci a lui.
di Maria Vittoria Pinna. Curatore: Don Gabriele Mangiarotti – Cultura Cattolica

Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa dans Alessandro Manzoni ynjeIl cuore è sconvolto, non capisco nulla, quell’uggia iniziale si è trasformata, dopo l’incontro con la fragile Lucia, in disperazione. Poi, quando tutto sembrava finire in una resa totale al nulla, quello strano duplice pensiero: e se l’altra vita non esiste?… e se invece esiste?
Era un’oscurità davvero insopportabile che un colpo di rivoltella non avrebbe risolto… Poi quell’immagine inspiegabilmente autorevole che sembrava schiacciarmi e ripeteva a voce non più supplichevole, ma decisa, autorevole e foriera di una strana speranza: Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia… Quindi il proposito di liberare la giovane: ma la pace all’animo tormentato non arrivava. Non ho nemmeno fatto in tempo a ripiombare nella disperazione che quello scampanio, quella folla gioiosa per le strade proprio sul far dell’alba, lungi dall’infastidirmi come un ostacolo al mio rimuginare, mi incuriosisce, nonostante il dispetto. Il bravo incaricato, mi spiega l’arcano: è in visita pastorale al paese il cardinal Federigo… un uomo… ma chissà cosa avrà quest’uomo che sembra dar tanta gioia alla gente… Ma… può darsi che abbia la capacità di dirmi qualcosa che plachi anche il mio tormento… (che strano: sono tanti piccoli fatti, ma passano in un secondo e mi resta soltanto il cuore pieno di angoscia e… di una speranza inspiegabile…)

Ebbene, ci andrò. Cammino inquieto senza la mia solita scorta e non mi importa della stranezza della cosa per chi mi vede: nessuno ha in cuore il diavolo che mi tormenta…
Son qui nell’atrio in mezzo a una brigata di tonache nere che mi guardano con sospetto. A dire il vero nemmeno me ne accorgo, meglio: non mi preoccupo affatto. Voglio vedere quest’uomo e lo vedrò (ho sempre fatto quello che volevo e nessuno me lo ha impedito!)
Ecco che il Cappellano crocifero mi introduce nella stanza in cui il Cardinale aspetta di celebrare gli uffizi divini. Non so cosa farò, non so cosa dirò, ma ora sono davanti a lui . Un attimo e lui mi viene già incontro con fare premuroso e pieno d’affetto a braccia spalancate, come con una persona desiderata.
Non ho parole, ma anche lui mi guarda e tace: ma perché sono qui? Il tormento mi dilania… ma non ho nemmeno voglia di parlare. Sollevo lo sguardo e… avverto un… sentimento di venerazione imperioso e insieme soave, che, aumentando la fiducia, mitiga il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatte, e… gli impone silenzio.
Ha anche lui uno sguardo penetrante e dopo un po’ mi dice: “Oh!(…) Che preziosa visita è questa! E quanto vi devo esser grato di questa preziosa risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!”.
“Rimprovero” ,
ma cosa mi dice… “Certo, m’è un rimprovero (…) ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io”.
Ma lo sa chi sono io? Sì, lo sa, ma come può essere così accogliente per me? Ecco, mi parla: ma cos’è questo strano sentimento che mi allarga cuore e polmoni togliendomi quella oppressione insostenibile? e come mai non mi indispettisce il sentirmi ricordare le mie malefatte?… Nella sua voce non c’è rimprovero, c’è una dolcezza, una pacatezza, una sicurezza che nemmeno la mia cattiveria possono turbare… Mi accoglie per quello che sono!!! No, non lo merito… che faccio: piango? Ma come è liberante questo pianto… mi conosco… ora, ora capisco cosa sono stato veramente… Dio mio, perdono… ma come potrò rimediare a tanto male fatto?

Ormai la conversione per l’Innominato ha avuto il sigillo del confronto con una Presenza carica di messaggio: dentro la Chiesa questo tipo di conforto avviene dentro un sacramento, segno efficace del perdono di Dio alla nostra miseria.

Ciò detto invito tutti a leggere con attenzione queste pagine bellissime che testimoniano la tenerezza della Chiesa, incaricata da Dio di accogliere e abbracciare nel perdono tutti i suoi figli.
Con una raccomandazione. Non lasciatevi impressionare dalle espressioni del cardinale, che paiono un po’… auliche: tenete presente che siamo nel ’600 e gli ecclesiastici parlavano allora così. Quello che conta e commuove e dà speranza a chiunque è quell’atteggiamento pieno di premura, di attenzione, di accoglienza, di perdono, che solo la presenza di Cristo, vivo e presente nella Chiesa può dare.

divisore dans Medjugorje

Capitolo XXIII de I Promessi Sposi freccetta.jpg L’Innominato e il Cardinal Federigo

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Rolando Rivi è beato. «Siamo qui per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male»

Posté par atempodiblog le 6 octobre 2013

“Io sono di Gesù!”.
Beato Rolando Rivi

Rolando Rivi è beato. «Siamo qui per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male»
L’omelia del cardinale Angelo Amato alla Messa per la beatificazione del giovane seminarista assassinato nel 1945 da partigiani «imbottiti di odio e indottrinati a combattere il cristianesimo»
Tratto da: Tempi.it

Rolando Rivi è beato. «Siamo qui per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male» dans Misericordia wtiuj4

Tratto dall’Osservatore Romano – Una delle più dolorose pagine della  storia italiana recente, a pochi giorni dalla fine del secondo conflitto mondiale, fu la barbara uccisione del quattordicenne Rolando  Rivi (1931-1945). Un ragazzo che preferì morire per «onorare e difendere la sua identità  di seminarista». Per questo, il suo martirio per la fede è «una  lezione di esistenza evangelica». All’odio dei suoi carnefici, infatti, rispose «con la mitezza dei martiri, che inermi offrono la vita perdonando e pregando per i loro persecutori». È quasi commosso il cardinale Angelo Amato, prefetto  della Congregazione delle Cause dei Santi, quando durante il rito di  beatificazione del giovane Rivi – presieduto in rappresentanza di Papa  Francesco, sabato pomeriggio, 5 ottobre, a Modena – racconta i drammatici e  ultimi giorni di vita del nuovo beato.

«Era – ha sottolineato il porporato – troppo piccolo per avere nemici, erano  gli altri che lo consideravano un nemico. Per lui tutti erano fratelli e  sorelle. Egli non seguiva una ideologia di sangue e di morte, ma professava il Vangelo della vita e della carità». Nonostante fosse ancora un bambino, Rolando  aveva già ben compreso il messaggio del Vangelo: «Amare non solo i genitori e i  fratelli, ma anche i nemici, fare del bene a chi lo odiava e benedire chi lo  malediceva». Celebrare il martirio del piccolo Rolando, ha detto il cardinale, è  anche un’occasione per «gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero  cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno. L’unica  legge del cristiano è l’amore di Dio e l’amore del prossimo». Infatti, le  ideologie umane «crollano, ma il Vangelo dell’amore non tramonta mai perché è  una buona notizia». E la beatificazione di Rivi è «una buona notizia per tutti.  Di fronte alla sua bontà e alla sua gioia di vivere, siamo qui riuniti per piangere sì il suo sacrificio, ma soprattutto per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della carità sull’odio».

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Fin da piccolo, Rolando aveva un sogno: quello di  diventare sacerdote. A undici anni entrò in seminario, come ha ricordato il  porporato, e come si usava allora, indossò la veste talare, che da quel giorno «diventò la sua divisa». La portava «con orgoglio. Era il segno visibile del suo amore sconfinato a Gesù e della sua totale appartenenza alla Chiesa. Non si  vergognava della sua piccola talare. Ne era fiero», tanto che la portava in  seminario, in campagna, in casa. «Era il suo tesoro da custodire gelosamente – ha aggiunto – era il distintivo della sua scelta di vita, che tutti potevano vedere e capire». A causa della guerra, molti consigliavano a Rolando di togliersi la talare, perché era pericoloso indossarla, visto il clima di odio contro il clero. Davanti ai timori anche dei familiari, Rolando rispondeva: «Non  posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono orgoglioso di portarla. Non posso nascondermi. Io sono del Signore». Ma il 10 aprile 1945, dei  partigiani «imbottiti di odio e indottrinati a combattere il cristianesimo», catturarono Rolando. Il ragazzo, ha ricordato il porporato, venne «spogliato,  insultato e seviziato con percosse e cinghiate per ottenere l’ammissione di una  improbabile attività spionistica». Dopo tre giorni di sequestro, «con una  procedura arbitraria e a insaputa dei capi, il 13 aprile 1945, il ragazzo fu  prima barbaramente mutilato e poi assassinato con due colpi di pistola, uno alla  tempia sinistra e l’altro al cuore». Dal sacrificio di Rolando, ha aggiunto il  porporato, vengono quattro consegne per tutti noi: perdono, fortezza, servizio e pace. In modo particolare, ha concluso, egli «si rivolge ai seminaristi d’Italia e del mondo, esortandoli a rimanere fedeli a Gesù, a essere fieri della loro vocazione sacerdotale e a testimoniarla senza rispetto umano, con gioia, serenità e carità».

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Bontà e carità

Posté par atempodiblog le 30 août 2013

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Gesù all’anima:

Sono tre anni che sei Sacerdote, e che ti rivesti di me, inondati della mia luce e del mio amore.
Ti ho dato a pascolare le mie pecorelle, e non puoi pascolarle che nella dolcezza e nella carità.
Inondale di questa luce che parte dal mio Cuore mansueto ed umile. Se le trovi cattive, non irrompere, non gridare, perché così la pecorella cattiva si smarrisce lontano dall’ovile.
Fatti amare con la bontà, col disinteresse, col compatimento e con la carità, perché allora la pecorella si sente carezzata e, vicina al tuo cuore sacerdotale, ascolta il tuo richiamo e obbedisce alla tua voce. Le anime sfuggono a me, perché i Sacerdoti non sanno attrarle con la bontà e con la carità.

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Ti trovi in tempesta, figlio mio? Ricorri a Maria con un cuore puro e una preghiera ardente, e Maria farà cessare la tempesta. Fa’ una promessa speciale di onorare in modo particolare Maria nella tua Parrocchia, eleva a Lei un trono di amore e vedrai come prospererà ogni tua iniziativa. Non puoi togliere i disordini in un momento. Se pulisci un vasello incrostato di melma resinosa senza prima a lungo ammollirla, tu spezzi il vasello e non lo pulisci.
Abbi prudenza nel tuo zelo, e avvicina le anime all’Eucaristia perché io le nutrisca e le sani. Formale con la tua preghiera, con la tua pietà, col tuo esempio, e le vedrai tutte strette al tuo cuore, non con vincoli umani ma con i vincoli della grazia e della carità.
Non ti scoraggiare. La croce è un bene per te, e le tue lacrime fecondano il tuo campo.

da una lettera del servo di Dio Don Dolindo del 16 luglio 1953 al Sac. L. B.

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Della predicazione

Posté par atempodiblog le 30 août 2013

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“Non si offendano le persone con ironie o invettive; specialmente nelle piccole borgate non si dica parola che possa essere giudicata allusiva alla condotta di qualche individuo.

Il predicatore badi a non inasprire menomamente gli erranti. Le sue parole spirino sempre carità e benignità.

Le invettive non ottengono le conversioni: l’amor proprio si ribella. Era questo il metodo che teneva S. Francesco di Sales e che era da lui consigliato. Egli narrava che i protestanti correvano in folla ad udirlo e dicevano che loro piaceva, perché non lo vedevano infuriarsi come i loro Ministri”.

San Giovanni Bosco

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È il Signore che opera. Padre Leopoldo Mandic

Posté par atempodiblog le 30 juillet 2013

“Preferisco sbagliare per troppa bontà che per troppo rigore”.
San Francesco di Sales

È il Signore che opera. Padre Leopoldo Mandic dans Fede, morale e teologia 90rn9l
San Leopoldo Mandic

È il Signore che opera
«… nel confessionale, non dobbiamo fare sfoggio di cultura, né dobbiamo dilungarci in spiegazioni, altrimenti roviniamo quello che il Signore va operando». Così raccomandava padre Leopoldo Mandic, il confessore della misericordia di Dio
Fonte: di Stefania Falasca – 30giorni
Tratto da: Sursum Corda

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Una delle ultime foto di padre Leopoldo Mandic

Confessarsi da lui era cosa breve. Anzi brevissima. Non si dilungava mai in parole, spiegazioni, discorsi. Aveva imparato dal Catechismo di san Pio X che la brevità è una delle caratteristiche di una buona confessione. Eppure il suo confessionale è stato per più di quarant’anni una specie di porto di mare per le anime. Tanti erano quelli che andavano, che assiduamente lo frequentavano. Padre Leopoldo era sempre lì, dodici, tredici, quindici ore al giorno. Confessava e assolveva oves et boves, cioè tutti. E di quella sua amabile delicatezza, di quell’umiltà semplicissima, fiduciosa nell’infinita misericordia di Dio e nell’azione della grazia che opera attraverso i sacramenti, sono testimoni quanti lo conobbero. La sua celletta confessionale è rimasta com’era, lì dove tuttora si trova, accanto alla chiesa di Santa Croce, nel convento dei frati Cappuccini a Padova. Una piccola stanza con tutte le poche cose che hanno fatto la sua vita: un inginocchiatoio, un crocifisso, un’immagine della Madonna, la stola, la sedia. Neanche la furia dei bombardamenti, che nel maggio del 1944 rasero al suolo la chiesa e il convento, è riuscita a demolirla. Da tanta distruzione solo quel confessionale rimase miracolosamente illeso. Due anni prima della sua morte, avvenuta il 30 luglio 1942, padre Leopoldo, confidandosi con un amico, aveva predetto i bombardamenti che avrebbero colpito Padova. «E questo convento?», chiese quel signore; «padre, anche questo convento sarà colpito?». «Purtroppo, anche il nostro convento sarà duramente colpito» rispose con un filo di voce padre Leopoldo. «… Ma questa celletta no, questa no. Qui il Padrone Iddio ha usato tanta misericordia alle anime… deve restare a  monumento della Sua bontà».
Leopoldo Mandic è stato proclamato santo il 16 ottobre 1983. Elevato vox populi agli onori degli altari. Dalla morte alla canonizzazione sono trascorsi solo quarantun anni: una delle canonizzazioni più rapide del nostro secolo.

Di nobile stirpe bosniaca
Nato nel 1866 in Dalmazia, a Castelnuovo di Cattaro, Adeodato Mandic era di nobile stirpe bosniaca. Prese nome di fra Leopoldo entrando nel seminario dei frati Cappuccini a Bassano del Grappa. A ventiquattro anni è ordinato sacerdote e da questo momento in poi, prima a Venezia, poi a Bassano, Thiene e dal 1909 stabilmente a Padova, non fa altro che attendere al sacramento della penitenza. Per i suoi superiori  non poteva fare altro: statura un metro e trentotto, costituzione debolissima, stentato e un po’ goffo nel camminare… Fisicamente era un nulla e per di più anche impacciato nella lingua poiché aveva lo “sdrùcciolo”, cioè mangiava le parole, e questo difetto si sentiva soprattutto quando pregava o doveva ripetere le formule a memoria, tanto che in pubblico non poteva dire neanche un «oremus». Cosa non da poco in un ordine di predicatori qual è quello dei Cappuccini! «Tante volte» ricordò al processo un suo confratello «si meravigliava egli stesso che  professori universitari, uomini importanti, persone molto qualificate venissero proprio da lui, “povero frate”; e tutto egli, con grande umiltà, attribuiva alla grazia del Signore che per mezzo suo, “meschino ministro pieno di difetti”, si degnava di fare del bene alle anime». Tutti quelli che lo hanno conosciuto ricordano questa sua umiltà sincera, piena di riconoscenza e gratitudine. A Padova, a tarda sera di un giorno di Pasqua, un giovane sacerdote incontrò padre Leopoldo che quasi non si teneva in piedi dalla stanchezza per le tante ore passate in confessionale. Con tono di filiale compassione gli disse: «Padre, quanto sarà stanco…»; «e quanto contento…», riprese lui con dolcezza. «Ringraziamo il Signore e domandiamogli perdono, perché si è degnato di permettere che la nostra miseria venisse a contatto con i tesori della sua grazia».
Davanti alla porticina del suo confessionale ogni giorno un folto gruppo di persone di tutte le classi sociali era lì ad attenderlo. Analfabeti e rozzi contadini, professionisti, sacerdoti e religiosi, magnati dell’industria e professori, tutti aspettavano in silenzio il loro turno e tutti padre Leopoldo accoglieva sempre con la stessa premura, la stessa delicata discrezione, specialmente chi si riavvicinava alla confessione dopo tanto tempo. «Eccomi, entri pure, s’accomodi… l’aspettavo sa… » si sentì dire un signore di Padova che da molti anni non si accostava ai sacramenti. E tanto era impacciato e confuso che, entrato nel confessionale, invece di mettersi in ginocchio andò a sedersi sulla sedia del prete; padre Leopoldo non disse niente, si mise lui in ginocchio al posto del penitente e  ascoltò così la sua confessione. Ed era, la sua, una delicatezza attenta a non umiliare inutilmente, comprensiva della fragilità umana: «Non abbia riguardo, veda, anch’io, benché frate e sacerdote, sono tanto misero» disse a un altro. «Se il Padrone Iddio non mi tenesse per la briglia farei peggio degli altri … Non abbia nessun timore». E a quel tale che aveva grosse colpe da confessare e a cui costava molto vuotare il sacco, dire certe miserie: «Siamo tutti poveri peccatori: Dio abbia pietà di noi…». Glielo diceva con un tono tale che quell’uomo si sentì immediatamente incoraggiato ad accusarsi con sincerità. Spesso ripeteva ai penitenti: «La misericordia di Dio è superiore a ogni aspettativa», «Dio preferisce il difetto che porta all’umiliazione piuttosto che la correttezza orgogliosa».

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La chiesa e il convento dei Cappuccini a Padova, fotografati prima della loro distruzione nel bombardamento aereo del 14 maggio 1944 

«Non roviniamo con le nostre spiegazioni ciò che il Signore opera»
Credendo fermamente nell’efficacia della grazia che il  Signore stesso comunica attraverso i sacramenti, padre Leopoldo su di un punto solo fu costantemente irremovibile: la brevità della confessione. Delle volte, è vero, nei giorni di scarso concorso, si intratteneva con una persona magari mezz’ora, o perché s’interessava dei suoi studi o del suo ufficio o per intrattenersi con quei chierici o quelle anime che lo chiedevano come guida spirituale. Ma la confessione, come tale, era sempre breve. E i penitenti testimoniano questa sua brevità e semplicità di parole. Scrive un monsignore di Padova: «La confessione con il padre Leopoldo era ordinariamente brevissima. Egli ascoltava, perdonava, non molte parole, spesso anche in dialetto quando si rivolgeva a persone non istruite, qualche motto, uno sguardo al crocifisso, talvolta un sospiro. Sapeva che in via ordinaria le confessioni lunghe sono a scapito del dolore, e sono, il più delle volte, accontentamento di amor proprio, pertanto sulla modalità della confessione si atteneva a quanto indicato nel catechismo della dottrina cristiana». In una lettera indirizzata a un sacerdote, padre Leopoldo scrive: «Mi perdoni padre, mi perdoni se mi permetto… ma vede, noi, nel confessionale, non dobbiamo fare sfoggio di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alla capacità delle singole anime, né dobbiamo dilungarci in spiegazioni, altrimenti, con la nostra imprudenza, roviniamo quello che il Signore va in esse operando. È Dio, Dio solo che opera nelle anime! Noi dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento nelle misteriose vie della loro salvezza e santificazione».
Sempre esortava i suoi penitenti ad avere fede, a pregare, ad accostarsi frequentemente ai sacramenti. Ma il piccolo frate, nelle penitenze, inutile dirlo, era magnanimo e diceva a chi gli obiettava di darle facili: «Oh è vero… e bisogna che dopo soddisfi io… ma è sempre meglio il purgatorio che l’inferno. Se chi viene da noi a confessarsi, col dargli poca penitenza deve poi andare in purgatorio, dandogliela grave non c’è pericolo che si disgusti e vada a finire all’inferno?». E così ordinariamente dava tre Ave Maria e tre Gloria Patri. Poco dava ai laici lontani dalla vita della Chiesa e poco dava anche alle anime che per loro vocazione hanno tante preghiere da dire ogni giorno. Un sacerdote un giorno gli chiese se non fosse il caso di assecondare il desiderio di una brava figliola di portare addosso qualche strumento di penitenza. Il buon padre subito rispose che non era affatto un desiderio da assecondare. «Ma scusi, padre, lei non la conosce: non è un’anima qualunque, è un’anima d’oro, seria…». E padre Leopoldo rimaneva ancora più deciso nel rifiuto. E l’altro insisteva. Allora il prudente confessore fece questa domanda: «Mi permetta, mi permetta: lei porta il cilicio?». «No!». «E allora? Caro padre, abituiamo i penitenti a ubbidire ai comandamenti di Dio e al loro dovere. Ce n’è abbastanza, ce n’è abbastanza! E i grilli via!».
Magnanimo, padre Leopoldo, lo era anche nell’assoluzione: non la negava davvero a nessuno. E di quelle rarissime volte che l’ebbe fatto si pentì sempre. Alcuni giorni prima di morire un sacerdote gli chiese: «Padre, c’è stata qualche cosa che vi ha procurato tanto dispiacere?». Egli rispose: «Oh! Sì… purtroppo sì. Quando ero giovane, nei primi anni di sacerdozio, ho negato tre o quattro volte l’assoluzione».

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L’esterno della celletta-confessionale  di padre Leopoldo, rimasta indenne dopo il bombardamento che distrusse la chiesa dei Cappuccini a Padova  nel 1944

«Che riposino… lo farò io per loro»
Tutti lo conoscevano per la sua bontà: el padre Leopoldo, o benedeto! Queo sì ch’el xe bon! L’è un santo diceva la gente. Tanto che quando nel 1923 i superiori lo trasferirono a Fiume, per i padovani fu lutto cittadino. Ma tanto fecero, tanto insistettero che i superiori dovettero ritornare sulle decisioni prese e rimandarlo dopo breve tempo a Padova. Anche i giovani chierici gli volevano bene. Nel 1910, l’anno seguente al suo arrivo a Padova, padre Leopoldo fu infatti nominato direttore dei chierici del seminario maggiore dei Cappuccini. Incarico dal quale fu poi presto esonerato. Racconta un suo confratello: «Per i seminaristi nutriva un grande affetto e si mostrava assai paterno con loro e li incoraggiava sempre sollecitandoli nella speranza. La nostra regola era molto austera. All’una di notte ci si alzava per la recita del mattutino e d’inverno, col freddo rigido, costava assai… E lui pensava a quei giovani poverini… Più di una volta ricordo che padre Leopoldo andava dal padre superiore perché anticipasse la recita del mattutino alla sera: “Superiore, guardi che stanotte farà freddo…”. “Ma padre, la temperatura non è scesa sotto lo zero”. “Oh, ma questa notte lo farà…”. “Lasciamoli dormire”, diceva al superiore, “che riposino… lo farò io per loro”. E si curava che stessero in salute, che mangiassero bene, che non fossero  ripresi dai superiori per qualche manchevolezza durante il pranzo, com’era costume fare». Scrive l’allora superiore generale dei Cappuccini: «Sapendo egli quanto bene gli volevo, aveva in me grande confidenza e spesso mi diceva: “Padre provinciale, se mi permette, veda di non gravare la coscienza dei frati, soprattutto dei giovani frati, con prescrizioni che non siano proprio necessarie, perché, vede, poi bisogna osservarle le prescrizioni dei superiori. Se non sono proprio necessarie sono un laccio per i deboli… Mi perdoni sa, mi perdoni…”».
Di quanta misericordia, di quanto amore fosse capace il cuore del piccolo frate, anche per coloro che non lo meritavano, lo dice questa dolorosa circostanza che riguarda un chierico espulso bruscamente dal convento per aver compiuto deliberatamente atti gravissimi. A raccontarla è un sacerdote: «Portatomi in convento, incontrai padre Leopoldo che era appena uscito dall’ospedale. Mi chiamò nel suo confessionale e mi scongiurò, in nome di Dio, di accogliere quel “poveretto” e di pregare il superiore della casa di trattarlo bene per salvare in lui almeno la fede. Piangendo mi disse più volte: “Si salvi la fede, si salvi la fede!”. Poi, inceppandosi ogni tanto per l’emozione, continuò: “Dica, dica a quel poveretto che io pregherò per lui. Gli dica che domani nella santa messa mi ricorderò di lui, anzi… anzi gli dirà che la celebrerò tutta proprio per lui e lo benedirò sempre. Gli dirà che padre Leopoldo gli vuol sempre bene!…”. Rimasi commosso anch’io al sentire un cuore così ripieno di evangelica carità. Solo le madri trovano espressioni così accorate quando un figlio degenere si allontana da loro». Ma a qualcuno intanto, questa bontà senza misura, cominciò a sembrare eccessiva accondiscendenza, e iniziò a storcere il naso.

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Padre Leopoldo nella sua celletta-confessionale

«Paron benedeto, questo cattivo esempio me l’avete dato voi»
Cominciarono così le critiche per la larghezza con cui trattava i penitenti, anche i più recidivi nella colpa, per  la generosità del perdono. Lo rimproveravano di essere troppo sbrigativo contentandosi persino di sommaria accusa, tanto da tacciarlo di lassismo di principi morali. Ai chierici venne perciò sconsigliato apertamente di confessarsi da lui. Le critiche giunsero all’orecchio del piccolo frate e un giorno un sacerdote gli disse: «Padre, ma lei è troppo buono… ne renderà conto al Signore!… Non teme che Iddio le chieda ragione di eccessiva larghezza?». E padre Leopoldo indicando il crocifisso: «Ci ha dato l’esempio Lui!  Non siamo stati noi a morire per le anime, ma ha sparso Lui il Suo sangue divino. Dobbiamo quindi trattare le anime come ci ha insegnato Lui col Suo esempio. Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?». E allargando le braccia aggiunse: «E se il Signore  mi rimproverasse di troppa larghezza potrei dirgli: “Paron benedeto, questo cattivo esempio me l’avete dato voi, morendo sulla croce per le anime, mosso dalla vostra divina carità”».
«Mi dicono che sono troppo buono» scrive a un sacerdote suo amico «ma se qualcuno viene a inginocchiarsi davanti a me, non è questa sufficiente prova che vuole avere il perdono di Dio?».
Le critiche furono ben presto spazzate via. L’allora canonico teologo di Padova monsignor Guido Bellincini  inviò subito una lettera al convento di padre Leopoldo: «Grande larghezza di cuore la vostra, carissimo padre, che non  è lassitudine di principi morali, ma comprensione dell’umana fragilità e fiducia negli inesauribili tesori della grazia: che non è acquiescenza o indifferenza alle colpe, ma longanimità concessa al peccatore, perché non disperi delle sue possibilità di ricupero e si rassodi nei buoni propositi. Ringraziamo Iddio che fa le cose giuste: ha voluto che fosse confessore e giudice un semplice uomo e non un Angelo del cielo. Guai a noi se il confessore fosse un Angelo: quanto sarebbe rigoroso e terribile! L’uomo invece capisce l’uomo, e i sacramenti sono per gli uomini!».
Nel maggio del ’35 padre Leopoldo festeggia il suo cinquantesimo anno di vita religiosa. Inutile dire quante le manifestazioni di affetto ricevute in quel giorno. Mai si pensava di esser  trattato così, lui che era la discrezione in persona. Honor sequitur fugientes! Mai infatti, né in vita né dopo la morte, la diffusa fama di santità suscitò attorno alla sua figura chiassosa pubblicità o fanatismo. E i doni straordinari e le grandi opere che per suo mezzo il Signore si è degnato di compiere, accadevano nel silenzio, senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Tanto che molti dei suoi stessi confratelli, come testimoniarono al processo, se ne accorsero solo dopo la morte: «Io stesso non avrei mai creduto, perché durante la sua vita non mi risultava nulla di straordinario. Padre Leopoldo appariva un frate esemplare, ma nulla di più».
Per quel «nulla di più» quanti ottennero da lui, anche quando era in vita, grazie e miracoli, quanti “pesci grossi” il pentimento fino al dono delle lacrime, quanti innominati entrarono per quella porticina del suo confessionale… Quanti ricorderanno per tutta la vita quell’abbraccio, quello sguardo… E lui tutti affidava a Maria, colei a cui tutto è stato perdonato in anticipo. Quante ore della notte passò pregando per quelle anime? Quante volte il padre guardiano lo aveva trovato prima dell’alba in ginocchio per terra, nella penombra della cappella davanti alla statua della Madonna? Per lei aveva gesti di tenerezza infantile e la baciava e l’implorava con le lacrime agli occhi, come un bambino.
Negli ultimi tempi, malato di cancro all’esofago, le preghiere alla sua «cara Parona celeste» sono ancora più piene di commovente tenerezza: «Ho estremo bisogno» scrive a un amico «che Lei, la mia dolcissima Madre celeste, si degni di avere pietà di me. Il Suo cuore di madre si degni di guardare a questo povero me; si degni di avere pietà di me». E ai suoi confidenti chiedeva che la pregassero perché la sofferenza provocata dal male non fosse d’impedimento per attendere alle confessioni: «E La supplichi», chiedeva «supplichi il Suo cuore di madre ch’io possa servire umilmente Cristo Signore secondo la natura del mio ministero fino alla fine… Tutto, tutto per la salvezza delle anime… Tutto a gloria di Dio!».
All’alba di quel 30 luglio volle celebrare la messa ma per la debolezza venne riportato a letto. Sentendo venir meno le sue forze chiese ai suoi confratelli di intonare il Salve Regina. Ai versi finali si sollevò con gli occhi pieni di lacrime… Dulcis Virgo Maria, oh dolce Vergine Maria. Fu questo l’ultimo suo respiro. La sera prima aveva confessato cinquanta persone! L’ultima a mezzanotte.

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