La santità è offerta a tutti

Posté par atempodiblog le 21 août 2008

BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 agosto 2008

Cari fratelli e sorelle!

Ogni giorno la Chiesa offre alla nostra considerazione, uno o più santi e beati da invocare e da imitare. In questa settimana, ad esempio, ne ricordiamo alcuni molto cari alla devozione popolare. Ieri, san Giovanni Eudes, che di fronte al rigorismo dei giansenisti – siamo nel secolo XVII – promosse una tenera devozione, le cui fonti inesauribili egli indicò nei sacri Cuori di Gesù e di Maria. Quest’oggi ricordiamo san Bernardo di Chiaravalle che, dal Papa Pio VIII fu chiamato « dottore mellifluo », perché eccelleva « nel far distillare dai testi biblici il senso che vi si trova nascosto ». Questo mistico, desideroso di vivere immerso nella « valle luminosa » della contemplazione, fu condotto dagli eventi a viaggiare per l’Europa per servire la Chiesa, nelle necessità del tempo e per difendere la fede cristiana. È stato definito anche « dottore mariano » non perché abbia scritto moltissimo sulla Madonna, ma perché ne seppe cogliere l’essenziale ruolo nella Chiesa, presentandola come il modello perfetto della vita monastica e di ogni altra forma di vita cristiana.

Domani ricorderemo san Pio X, che visse in un periodo storico travagliato. Di lui Giovanni Paolo II ebbe a dire, visitandone il paese natale nel 1985: « Ha lottato e sofferto per la libertà della Chiesa, e per questa libertà si è rivelato pronto a sacrificare privilegi ed onori, ad affrontare incomprensione e derisione, in quanto valutava questa libertà come garanzia ultima per l’integrità e la coerenza della fede ». (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII, 1, 1985, pg. 1818)

Venerdì prossimo sarà dedicato alla Beata Maria Vergine Regina, memoria istituita dal Servo di Dio Pio XII nel 1955, e che il rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II ha posto a complemento della solennità dell’Assunta, poiché i due privilegi formano un unico mistero. Sabato, infine, pregheremo Santa Rosa da Lima, prima santa canonizzata del continente latinoamericano, del quale è patrona principale. Santa Rosa amava ripetere: « Se gli uomini sapessero che cos’è vivere in grazia, non si spaventerebbero di nessuna sofferenza e patirebbero volentieri qualunque pena, perché la grazia è frutto della pazienza » . Morì a 31 anni nel 1617, dopo una breve esistenza intrisa di privazioni e di sofferenza, nella festa di san Bartolomeo apostolo, del quale era molto devota, perché aveva patito un martirio particolarmente doloroso.

Cari fratelli e sorelle, giorno dopo giorno la Chiesa ci offre dunque la possibilità di camminare in compagnia dei santi. Scriveva Hans Urs von Balthasar che i santi costituiscono il commento più importante del Vangelo, una sua attualizzazione nel quotidiano e quindi rappresentano per noi una reale via di accesso a Gesù. Lo scrittore francese Jean Guitton li descriveva « come i colori dello spettro in rapporto alla luce », perché con tonalità e accentuazioni proprie ognuno di loro riflette la luce della santità di Dio. Quanto importante e proficuo è, pertanto, l’impegno di coltivare la conoscenza e la devozione dei santi, accanto alla quotidiana meditazione della Parola di Dio e a un amore filiale verso la Madonna!

Il periodo delle ferie costituisce certamente un tempo utile per prendere in mano la biografia e gli scritti di qualche santo o santa in particolare, ma ogni giorno dell’anno ci offre l’opportunità di familiarizzare con i nostri celesti patroni. La loro esperienza umana e spirituale mostra che la santità non è un lusso, non è un privilegio per pochi, un traguardo impossibile per un uomo normale; essa, in realtà, è il destino comune di tutti gli uomini chiamati ad essere figli di Dio, la vocazione universale di tutti i battezzati. La santità è offerta a tutti; naturalmente non tutti i santi sono uguali: sono infatti, come ho detto, lo spettro della luce divina. E non necessariamente è grande santo colui che possiede carismi straordinari. Ce ne sono infatti moltissimi i cui nomi sono noti soltanto a Dio, perché sulla terra hanno condotto un’esistenza apparentemente normalissima. E proprio questi santi « normali » sono i santi abitualmente voluti da Dio. Il loro esempio testimonia che, soltanto quando si è a contatto con il Signore, ci si riempie della sua pace e della sua gioia e si è in grado di diffondere dappertutto serenità, speranza e ottimismo. Considerando proprio la varietà dei loro carismi, Bernanos, grande scrittore francese che fu sempre affascinato dall’idea dei santi – ne cita molti nei suoi romanzi – nota che « ogni vita di santo è come una nuova fioritura di primavera ». Che ciò avvenga anche per noi! Lasciamoci per questo attrarre dal soprannaturale fascino della santità! Ci ottenga questa grazia Maria, la Regina di tutti i Santi, Madre e Rifugio dei peccatori!

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L’Eucarestia: diritto o dono?

Posté par atempodiblog le 19 août 2008

Chi può rivendicare un diritto a ricevere il Corpo di Cristo?
L'Eucarestia: diritto o dono? dans Fede, morale e teologia monsburkesacrocuoreps9

S.E. mons. Raymond L. Burke, finora arcivescovo di Saint Louis, è stato chiamato lo scorso giugno in Vaticano dal Santo Padre Benedetto XVI per dirigere il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Riportiamo il testo integrale dell’importante intervista pubblicata sull’ultimo numero di Radici Cristiane, nella quale mons. Burke affronta il fondamentale tema del rispetto dovuto all’Eucaristia da parte di ogni fedele che si accosti a riceverla e del diritto del ministro di rifiutarsi a dare la Comunione a chi persista nel peccato grave e pubblico.

Un’intervista « bomba »…

Intervista con S.E. Mons. Raymond L. Burke
L’Eucarestia: diritto o dono?

Eccellenza, sembra che oggi prevalga una visione lassista nei riguardi della ricezione dell’Eucaristia. Perché? Crede poi che questo influenzi i fedeli nel modo di vivere come cattolici?
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Mons. Burke riceve il Pallio dalle mani di Papa Giovanni Paolo II


Una delle ragioni per cui credo che questo lassismo sia andato sviluppandosi è l’insufficiente enfasi nella devozione eucaristica: in modo speciale mediante il culto al Santissimo con le processioni; con le benedizioni del Santissimo; con tempi più lunghi per l’adorazione solenne e con la devozione delle Quaranta Ore.
Senza devozione al Santissimo Sacramento la gente perde rapidamente la fede eucaristica. Sappiamo che c’è una percentuale elevata di cattolici che non crede che sotto le specie eucaristiche ci siano il corpo e il sangue di Cristo. Sappiamo inoltre esserci un’allarmante percentuale di cattolici che non partecipano alla Messa domenicale.
Un altro aspetto è la perdita del senso di collegamento fra il sacramento della Eucaristia e quello della Penitenza. Forse nel passato c’è stata un’enfasi esagerata al punto che la gente credeva che ogni volta che si riceveva l’Eucaristia si doveva prima confessare anche se non avevano un peccato mortale. Ma ora la gente va regolarmente a comunicarsi e forse mai, o molto di rado, si confessa.
Si è perso il senso della nostra propria indegnità per accostarci al Sacramento e del bisogno di confessare i peccati e far penitenza al fine di ricevere degnamente la Sacra Eucaristia.
Si somma a questo il senso sviluppatosi a partire dalla sfera civile che consiste nel credere che ricevere l’Eucaristia sia un diritto. Cioè che come cattolici abbiamo il diritto di ricevere la Comunione.
È vero che una volta che siamo stati battezzati e abbiamo raggiunto l’uso della ragione, dovremmo essere preparati per ricevere la Sacra Comunione e, se siamo ben disposti, dobbiamo riceverla. Ma d’altra parte noi non abbiamo mai un diritto di ricevere l’Eucaristia.
Chi può rivendicare un diritto a ricevere il Corpo di Cristo? Tutto è un atto senza misure dell’amore di Dio. Nostro Signore si rende Egli stesso disponibile nel suo Corpo e nel suo Sangue, ma non possiamo mai dire di avere diritto a riceverLo nella Santa Comunione. Ogni volta che ci accostiamo a Lui, dobbiamo farlo con un senso profondo della nostra indegnità.
Questi sarebbero alcuni degli elementi che spiegano l’atteggiamento lassista verso l’Eucaristia in genere. Lo vediamo anche nel modo con cui alcune persone vestono per ricevere la Sacra Comunione. Per esempio, vediamo gente che si avvicina alla Comunione senza unire le mani e persino a volte parlottando fra di loro. Alcuni perfino nel momento di ricevere l’Ostia, non dimostrano un’adeguata riverenza.
Tutto ciò è indicazione del bisogno di una nuova evangelizzazione nei riguardi della fede e della pratica eucaristica.

Ci sono leggi della Chiesa per impedire condotte inadeguate da parte dei fedeli a beneficio della comunità. Potrebbe commentarle e spiegarci fino a che punto la Chiesa e la Gerarchia hanno un obbligo di intervenire allo scopo di chiarire e correggere.
Nei riguardi dell’Eucaristia, per esempio, ci sono due canoni in particolare che hanno a che fare con la degna ricezione del Sacramento. Essi hanno come scopo due beni.
Un bene è quello della persona stessa, perché ricevere indegnamente il Corpo e il Sangue di Cristo è un sacrilegio. Se lo si fa deliberatamente in peccato mortale, è un sacrilegio. Quindi per il bene della persona stessa, la Chiesa deve istruirci dicendoci che ogni volta che riceviamo l’Eucaristia, dobbiamo prima esaminare la nostra coscienza.
Se abbiamo un peccato mortale sulla coscienza dobbiamo prima confessarci di quel peccato e ricevere l’assoluzione e, soltanto dopo, accostarci al sacramento eucaristico. Molte volte i nostri peccati gravi sono nascosti e noti solo a noi stessi e forse a pochi altri. In quel caso, dobbiamo essere noi a tenere sotto controllo la situazione ed essere in grado di disciplinarci in modo di non ricevere la Comunione.
Ma ci sono altri casi di persone che commettono peccati gravi deliberatamente e sono casi pubblici, come un ufficiale pubblico che con conoscenza e con sentimento sostiene azioni che sono contro la legge morale Divina ed Eterna.
Per esempio, pubblicamente appoggia l’aborto procurato, che comporta la soppressione di vite umane innocenti e senza difesa. Una persona che commette peccato in questa maniera è da ammonire pubblicamente in modo che non riceva la Comunione finché non abbia riformato la propria vita.
Se una persona che è stata ammonita persiste in un peccato mortale pubblico e si avvicina per ricevere la Comunione, allora il ministro dell’Eucaristia ha l’obbligo di rifiutargliela.
Perché? Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di compiere un sacrilegio. Ma anche per la salvezza di tutta la Chiesa, per impedire che ci sia scandalo in due maniere.
Primo, uno scandalo riguardante quale debba essere la nostra disposizione per ricevere la Santa Comunione. In altre parole, si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di peccato mortale e accostarsi all’Eucaristia.
Secondo, ci potrebbe essere un’altra forma di scandalo, consistente nell’indurre la gente a pensare che l’atto pubblico che questa persona sta facendo, che finora tutti credono sia un peccato serio, non debba esserlo tanto se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la Comunione.
Se abbiamo una figura pubblica che apertamente e deliberatamente sostiene i diritti abortisti e che riceve l’Eucaristia, che finirà per pensare la gente comune? Essa può essere portata a credere che è corretto in un certo qual modo sopprimere una vita innocente nel seno materno.
Ora la Chiesa ha queste discipline e sono molto antiche. In realtà risalgono ai tempi di san Paolo. Ma lungo la sua storia, la Chiesa ha sempre dovuto disciplinare la materia della ricezione della Comunione, che è il più sacro tesoro che essa possiede.
È il dono del Corpo e del Sangue di Cristo. Disciplinare questa pratica in modo che, primo, la gente non si avvicini né riceva la Santa Comunione indegnamente a costo del proprio danno morale e, secondo, che la fede eucaristica sia sempre rispettata e i fedeli non siano indotti in confusione, persino in errore, nei riguardi della sacralità del sacramento e della legge morale.

Eccellenza, ci sono casi in cui figure pubbliche vanno a Messa, ricevono i sacramenti e pubblicamente dicono di essere cattolici ma che, in pratica, sostengono legislazioni contrarie alla morale cattolica. Alcuni di loro, come scusante, sostengono di sentire in coscienza che non fanno niente di sbagliato e che comunque è una vicenda privata. Lei potrebbe spiegare perché questa posizione è erronea e come la formazione della propria coscienza non sia una questione soggettiva.
È vero che dobbiamo agire in modo conforme ai dettami della nostra coscienza, ma essa deve essere adeguatamente formata. La nostra coscienza deve conformarsi alla verità delle situazioni.
Essa non è una realtà soggettiva con cui giudico per me stesso cosa è bene e cosa è male. Anzi, essa è una realtà oggettiva per la quale devo conformare il mio pensiero alla verità.
A volte si sente parlare del primato della coscienza nel senso di dire « qualsiasi cosa io decida in coscienza, questo devo fare », e un tale assioma poi regola la vita. Certo, questo è vero se la coscienza è stata formata adeguatamente.
Amo ripetere quello che ha detto il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney: « anziché parlare di primato della coscienza dobbiamo parlare di primato della verità ». Cioè, la verità della legge morale di Dio con la quale la nostra coscienza deve conformarsi. Fatto questo, allora sì che la coscienza ha quel primato che le viene attribuito.

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Lo stemma episcopale di mons. Burke

Alcune persone dicono che è parte del diritto di ricevere la Comunione non sentirsi dire da nessuno, neppure da un vescovo, da un sacerdote o da un ministro dell’Eucaristia, cosa devono fare al riguardo. Cosa ne pensa?
Anzitutto bisogna dire che il Corpo e il Sangue di Cristo sono un dono dell’amore di Dio per noi. Il più grande dono, un dono che va oltre la nostra capacità di descriverlo. Dunque nessuno ha diritto a questo dono, esattamente come non abbiamo mai diritto a nessun dono che ci viene fatto.
Un dono è gratuito, causato dall’amore, e ciò è precisamente quanto Dio fa ogni volta che partecipiamo alla Messa e riceviamo la Sacra Eucaristia. Pertanto, dire che abbiamo diritto di ricevere la Comunione non è corretto.
Se vogliamo dire che, se siamo ben disposti, possiamo accostarci all’Eucaristia nella Messa che si sta celebrando, che abbiamo il diritto di ricevere la Comunione nel senso che abbiamo il diritto di avvicinarci per farlo, allora sì, questo è vero.
Orbene, nella ricezione della Sacra Eucaristia sono coinvolti Nostro Signore stesso, la persona che la deve ricevere, e infine il ministro del sacramento, che ha la responsabilità di assicurarsi che l’Eucaristia sia data solo alle persone degne di riceverla. Certamente la Chiesa ha il diritto di dire a chi persiste in un serio peccato pubblico, che non potrà ricevere la Comunione finché non sarà ben disposto per farlo.
Questo diritto del ministro di rifiutarsi a dare la Comunione a qualcuno che persiste nel peccato grave e pubblico è salvaguardato dal codice di Diritto Canonico sotto il canone 915. Altrimenti, se si vede negare il diritto del rifiuto a dare l’Eucaristia a un peccatore pubblico che si avvicini a riceverla dando scandalo a tutti, è il ministro che viene messo in situazione di violentare la propria coscienza al riguardo di una materia serissima. Ciò sarebbe semplicemente sbagliato.

Eccellenza, sembra che spesso la richiesta di adempire la legge canonica da parte di un vescovo, di un sacerdote e persino di un’autorità della Curia vaticana, è vista da alcuni come una crudeltà, come un atto prevaricatore nei riguardi dei fedeli. Non vedono questo come un atto di carità, finalizzato a evitare che qualcuno si accosti all’Eucaristia in modo indegno compromettendo la sua salvezza eterna. Per questa ragione la Chiesa ha le sue regole. Potrebbe commentare questo aspetto del ministero?
Sono d’accordo, certo. E il più grande atto di carità evitare che qualcuno faccia una cosa sacrilega. Prima si deve ammonire chi vuole farlo e poi si deve evitare di prendere parte a un sacrilegio.
È una situazione analoga a quella del genitore che deve opporsi a che il bambino giochi col fuoco. A chi verrebbe di dire che il genitore non è caritatevole perché lo richiama alla disciplina? Anzi, diremmo che questo è un genitore che veramente ama il figlio.
Lo stesso fa la Chiesa; nel suo amore Essa vieta di far cose gravemente offensive a Dio e gravemente dannose alle anime stesse.

Si dice a volte che quando un membro della Gerarchia ammonisce cattolici che sono figure pubbliche, stia usando la sua influenza per interferire nella politica. Come risponde a questa obiezione?
Il vescovo o l’autorità ecclesiastica, potrebbe essere anche il parroco, che interviene in queste situazioni, lo fa solo per il bene dell’anima della figura pubblica coinvolta. Non c’entra nulla la volontà di interferire nella vita pubblica, bensì nello stato spirituale del politico o dell’ufficiale pubblico che, se è cattolico, è tenuto a seguire la legge divina anche nella sfera pubblica. Se non lo fa, deve essere ammonito dal suo pastore.
Dunque, è semplicemente ridicolo e sbagliato cercare di zittire un pastore accusandolo di interferire in politica affinché non possa fare il bene all’anima di un membro del suo gregge.
Questo si desume anche da quanto ha denunciato il Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi, cioè il desiderio di alcune persone della nostra società di relegare completamente la fede religiosa nell’ambito privato, affermando che essa non ha niente a che fare con l’ambito pubblico. Questo è semplicemente sbagliato.
Dobbiamo dare testimonianza della nostra fede non soltanto nel privato dei nostri focolari ma anche nel nostro interagire pubblico con gli altri, per dare una forte testimonianza di Cristo. Quindi dobbiamo finirla con l’idea che in un certo qual modo la nostra fede è una materia completamente privata che non c’entra con la nostra vita pubblica.

Fonte: Radici Cristiane n. 37 – Ago/Set 2008
Tratto da:
lozuavopontificio.net

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La santa solitudine

Posté par atempodiblog le 16 août 2008

La santa solitudine dans Don Giustino Maria Russolillo Beato-Giustino-Maria-della-Santissima-Trinit-Russolillo

Per stabilire l’anima nella docilità di mente e di cuore richiesta per l’efficacia dell’azione santificatrice della grazia, il Signore le comunica sempre più viva l’attrazione alla solitudine.

Quando poi l’anima si è già stabilita nella docilità di mente e di cuore al Signore che le parla e opera in lei, l’anima sente un vero bisogno della solitudine. Quest’attrazione-bisogno, e questo bisogno-godimento della solitudine si riscontra non solo nelle anime contemplative propriamente dette, ma anche nelle anime più dinamicamente apostoliche, sia perché la solitudine non solo non impedisce ma anzi favorisce le forme più alte e potenti dell’apostolato, quali sono la preghiera e i patimenti, e sia perché la solitudine ben intesa ci fa evitare la relazione esterna con gli uomini solo quando nessun dovere di giustizia, carità, convenienza ci spinge a avvicinarli.

Una forma di oziosità e causa di dissipazione è quella di volersene stare col prossimo anche esternamente quando nulla si ha da fare. Per questa assenza di argomenti da trattare, il nemico ci presenta tante cose superflue da riferire o domandare, e ci si trova in tante complicazioni e ce ne usciamo con tanti difetti. I mondani, i superficiali e quanti, pur conservando una certa buona condotta e una certa pratica di cristianesimo, non hanno tuttavia ancora intrapresa risolutamente l’opera ascetica della propria santificazione, non sentono l’attrattiva, il bisogno e il godimento della solitudine; o la sentono a volte acre e amara per dispetto di amor proprio ferito, per soddisfazione di misantropia, per forma di occulta vendetta. È  la solitudine non del deserto che fiorirà di gigli e ospiterà il Signore, ma del deserto per cui smania il demonio senza requie, perché piazzale dell’anti-inferno. Solitudine esterna, raccoglimento interno; silenzio esterno, conversazione soprannaturale interna; quiete esterna, super-attività interna; tutto questo lo possiamo trovare sempre e ovunque, ed essere quindi solitari come eremiti estatici, raccolti come contemplativi autentici anche in mezzo agli uomini, nel mondo degli affari umani se vogliamo rispondere all’invito dell’amore divino, se ci offriamo con docilità di mente e di cuore al divino Amico, se evitiamo di entrare in relazione con le creature quando nessun motivo di giustizia o carità o convenienza ci spinge. Ora disponiamoci ad entrare in questa solitudine anche ad onore e imitazione e in unione della permanenza di Gesù nel deserto, ad onore e imitazione e in unione di Gesù sacramentato, che vive in tanto profondo ininterrotto silenzio e pure in tanta divina attività, ad onore e imitazione e in unione della solitudine dell’unità di Dio e pure Trinità di persone; e infine, direi, anche per seguire la natura stessa del nostro cuore.

VENERABILE DON GIUSTINO RUSSOLILLO
dalle Opere, vol. 6, pp. 301-302

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Francesco e Chiara due innamorati, ma di chi?

Posté par atempodiblog le 13 août 2008

Francesco e Chiara due innamorati, ma di chi? dans Antoine de Saint-Exupéry Santa-Chiara-e-San-Franscesco

È divenuto un luogo comune parlare dell’amicizia tra Chiara e Francesco in termini di amore umano. Nel suo noto saggio su Innamoramento e amore Francesco Alberoni scrive che “il rapporto fra santa Chiara e san Francesco ha tutti i caratteri di un innamoramento trasferito (o sublimato) nella divinità”. “Francesco e Chiara”di Fabrizio Costa, la fiction televisiva in onda su Rai Uno nei giorni 6 e 7 Ottobre, meglio forse di “Fratello Sole e sorella Luna” di Zeffirelli, ha saputo evitare questo cedimento al romanticismo, senza nulla togliere alla bellezza anche umana di un tale incontro.

Come ogni uomo, anche se santo, Francesco può aver sperimentato il richiamo della donna e del sesso. Le fonti riferiscono che per vincere una tentazione del genere una volta il santo si rotolò d’inverno nella neve. Ma non si trattava di Chiara! Quando tra un uomo e una donna sono uniti in Dio, questo vincolo, se è autentico, esclude ogni attrazione di tipo erotico, senza neppure che ci sia lotta. È come messo al riparo. È un altro tipo di rapporto. Tra Chiara e Francesco c’era certamente un fortissimo legame anche umano, ma di tipo paterno e filiale, non sponsale. Francesco chiamava Chiara la sua “pianticella” e Chiara chiamava Francesco “il nostro Padre”. L’intesa straordinariamente profonda tra Francesco e Chiara che caratterizza l’epopea francescana non viene “dalla carne e dal sangue”. Non è, per fare un esempio altrettanto celebre, come quella tra Eloisa ed Abelardo, tra Dante e Beatrice. Se così fosse stato, avrebbe lasciato forse una traccia nella letteratura, ma non nella storia della santità. Con una nota espressione di Goethe, potremmo chiamare quella di Francesco e Chiara una “affinità elettiva”, a patto di intendere “elettiva” non solo nel senso di persone che si sono scelte a vicenda, ma nel senso di persone che hanno fatto la stessa scelta.Antoine de Saint-Exupéry ha scritto che “amarsi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Chiara e Francesco non hanno davvero passato la vita a guardarsi l’un l’altro, a stare bene insieme. Si sono scambiati tra loro pochissime parole, quasi solo quelle riferite nelle fonti. C’era una stupenda riservatezza tra loro, tanto che il santo veniva a volte rimproverato amabilmente dai suoi frati di essere troppo duro con Chiara.

Solo alla fine della vita, vediamo questo rigore nei rapporti attenuarsi e Francesco cercare sempre più spesso conforto e conferma presso la sua “Pianticella”. È a San Damiano che si rifugia prossimo alla morte, divorato da malattie, ed è vicino a lei che intona il cantico di Frate Sole e di sorella Luna, con quell’elogio di “Sora Acqua”, “utile et humile et pretiosa et casta”, che sembra scritto pensando a Chiara.

Invece di guardarsi l’un l’altro, Chiara e Francesco hanno guardato nella stessa direzione. E si sa qual è stata per loro questa “direzione”. Chiara e Francesco erano come i due occhi che guardano sempre nella stessa direzione. Due occhi non sono solo due occhi, cioè un occhio ripetuto due volte; nessuno dei due è solo un occhio di riserva o di ricambio. Due occhi che fissano l’oggetto da angolature diverse danno profondità, rilievo all’oggetto, permettono di “avvolgerlo” con lo sguardo. Così è stato per Chiara e Francesco. Essi hanno guardato lo stesso Dio, lo stesso Signore Gesù, lo stesso Crocifisso, la stessa Eucaristia, ma da “angolature”, con doni e sensibilità propri: quelli maschili e quelli femminili. Insieme hanno colto di più di quanto avrebbero potuto fare due Francesco o due Chiara.
Se c’è una lacuna nella fiction su Francesco e Chiara è forse l’insufficiente rilievo dato alla preghiera e con essa alla dimensione soprannaturale della loro vita. Una lacuna forse inevitabile quando la vita dei santi è portata sullo schermo. La preghiera è silenzio, quiete, solitudine, mentre la parola “cinema” viene dal greco kinema che significa movimento! Ha fatto eccezione il film “Il grande silenzio” sulla vita dei certosini, ma anch’esso non reggerebbe sul piccolo schermo.

In passato si tendeva a presentare la personalità di Chiara troppo subordinata a quella di Francesco, appunto come “sorella Luna” che vive di riflesso della luce di “fratello Sole”. L’ultimo esempio in questo senso è il libro uscito nell’estate scorsa su “l’amicizia tra Francesco e Chiara” (John M. Sweeney, Light in the Dark Age: the Friendship of Francis and Clare of Assisi, Paraclete Press 2007 ).

Tanto più quindi è da lodare, nella fiction televisiva, la scelta di presentare Francesco e Chiara come due vite parallele, che si intrecciano e si svolgono in sincronia, con uguale spazio dato all’uno e all’altra. È la prima volta che avviene, in questa forma. Ciò risponde alla sensibilità attuale tesa a mettere in luce l’importanza della presenza femminile nella storia, ma nel caso nostro corrisponde alla realtà e non è una forzatura.

La scena che mi ha colpito di più vedendo, in anteprima, la fiction “Francesco e Chiara” è quella emblematica iniziale, una specie di chiave di lettura di tutta la storia. Francesco cammina su un prato, Chiara lo segue mettendo i suoi piedi, quasi per gioco, sulle orme lasciate da Francesco e alla domanda di lui: “Stai seguendo le mie orme?”, risponde luminosa: “No, altre molto più profonde”.

Tratto da: cantalamessa.org – Avvenire

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Le cose importanti

Posté par atempodiblog le 10 août 2008

Ci sono cose nella vita che sono importanti, ma non urgenti (nel senso che se non le fai, apparentemente non succede nulla); viceversa, ci sono cose che sono urgenti ma non importanti. Il nostro rischio è di sacrificare sistematicamente le cose importanti per correre dietro a quelle urgenti, spesso del tutto secondarie.

 

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Un giorno, un vecchio professore fu chiamato come esperto per parlare sulla pianificazione più efficace del proprio tempo ai quadri superiori di alcune grosse compagnie nordamericane. Decise allora di tentare un esperimento. In piedi, davanti al gruppo pronto a prendere appunti, tirò fuori da sotto il tavolo un grosso vaso di vetro vuoto. Insieme prese anche una dozzina di pietre grosse quanto palle da tennis che depose delicatamente una ad una nel vaso fino a riempirlo. Quando non si poteva aggiungere più altri sassi, chiese agli allievi: “Vi sembra che il vaso sia pieno?” e tutti risposero “Si!”. Attese qualche istante e aggiunse: “Siete sicuri?”

Si chinò di nuovo e tirò fuori da sotto il tavolo una scatola piena di breccia che versò accuratamente sopra le grosse pietre, muovendo leggermente il vaso perché la breccia potesse infiltrarsi tra le pietre grosse fino al fondo. “È pieno questa volta il vaso?”, chiese. Divenuti più prudenti, gli allievi cominciarono a capire e risposero: “Forse non ancora”. “Bene!”, rispose il vecchio professore. Si chinò di nuovo e tirò fuori questa volta un sacchetto di sabbia che con precauzione versò nel vaso. La sabbia riempì tutti gli spazi tra i sassi e la breccia. Quindi chiese di nuovo: “È pieno ora il vaso?”. E tutti senza esitare risposero: “No!”. Infatti rispose il vecchio e, come si aspettavano, prese la caraffa che era sul tavolo e ne versò l’acqua nel vaso fino all’orlo.

A questo punto egli alza gli occhi verso l’uditorio e domanda: “Quale grande verità ci mostra questo esperimento?”. Il più audace, pensando al tema del corso (la pianificazione del tempo), rispose: “Questo dimostra che anche quando la nostra agenda è completamente piena, con un po’ di buona volontà, si può sempre aggiungervi qualche impegno in più, qualche altra cosa da fare”. “No, rispose il professore; non è questo. Quello che l’esperimento dimostra è un’altra cosa: se non si mettono per primo le grosse pietre nel vaso, non si riuscirà mai a farvele entrare in seguito. Un attimo di silenzio e tutti presero coscienza dell’evidenza dell’affermazione. Quindi proseguì: “Quali sono le grosse pietre, le priorità, nella vostra vita? La salute? La famiglia? Gli amici? Difendere una causa? Realizzare qualcosa che vi sta a cuore? La cosa importante è mettere queste grosse pietre per prime nella vostra agenda. Se si da la priorità a mille altre piccole cose (la breccia, la sabbia), si riempirà la vita di sciocchezze e non si troverà mai il tempo per dedicarsi alle cose veramente importanti. Dunque non dimenticate di porvi spesso la domanda: “Quali sono le grosse pietre nella mia vita?” e di metterle al primo posto nella vostra agenda”. Poi con un gesto amichevole il vecchio professore salutò l’uditorio e abbandonò la sala.

Alle “grosse pietre” menzionate dal professore –la salute, la famiglia, gli amici…- bisogna aggiungerne due altre, che sono le più grosse di tutte: i due più grandi comandamenti: amare Dio e amare il prossimo. Veramente, amare Dio, più che un comandamento, è un privilegio, una concessione. Se un giorno lo scoprissimo, non cesseremmo di ringraziare Dio per il fatto che ci comanda di amarlo e non vorremmo far altro che coltivare questo amore.

Raccontata da Padre Raniero Cantalamessa

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Il gusto per le ‘cattive’ notizie

Posté par atempodiblog le 9 août 2008

Fa più rumore l’albero che cade che la foresta che cresce

Il gusto per le ‘cattive’ notizie dans Articoli di Giornali e News tvmondowt4

I mass media preferiscono sempre mostrare l’albero che cade piuttosto che la foresta che cresce… Alla lunga questo ha finito col produrre l’impressione che tutto stia andando peggio e che l’impegno personale e collettivo, anche se giusto, non dia frutti e sia “ormai” divenuto inutile.

Tratto da: BuoneNotizie.it

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Due decaloghi per i papà

Posté par atempodiblog le 5 août 2008

 Due decaloghi per i papà dans Don Bruno Ferrero Decaloghi-per-i-pap

Un decalogo per il papà
di Bruno Ferrero

1. Il primo dovere di un padre verso i suoi figli è amare la madre. La famiglia è un sistema che si regge sull’amore. Non quello presupposto, ma quello reale, effettivo. Senza amore è impossibile sostenere a lungo le sollecitazioni della vita familiare. Non si può fare i genitori « per dovere ». E l’educazione è sempre un « gioco di squadra ». Nella coppia, come con i figli che crescono, un accordo profondo, un’intima unione danno piacere e promuovono la crescita, perché rappresentano una base sicura. Un papà può proteggere la mamma dandole in « cambio », il tempo di riprendersi, di riposare e ritrovare un po’ di spazio per sé.

2. Il padre deve soprattutto esserci. Una presenza che significa « voi siete il primo interesse della mia vita ». Affermano le statistiche che, in media, un papà trascorre meno di cinque minuti al giorno in modo autenticamente educativo con i propri figli. Esistono ricerche che hanno riscontrato un nesso tra l’assenza del padre e lo scarso profitto scolastico, il basso quoziente di intelligenza, la delinquenza e l’aggressività. Non è questione di tempo, ma di effettiva comunicazione. Esserci, per un papà vuol dire parlare con i figli, discorrere del lavoro e dei problemi, farli partecipare il più possibile alla sua vita. E’ anche imparare a notare tutti quei piccoli e grandi segnali che i ragazzi inviano continuamente.

3. Un padre è un modello, che lo voglia o no. Oggi la figura del padre ha un enorme importanza come appoggio e guida del figlio. In primo luogo come esempio di comportamenti, come stimolo a scegliere determinate condotte in accordo con i principi di correttezza e civiltà. In breve, come modello di onestà, di lealtà e di benevolenza. Anche se non lo dimostrano, anche se persino lo negano, i ragazzi badano molto di più a ciò che il padre fa, alle ragioni per cui lo fa. La dimostrazione di ciò che chiamiamo « coscienza » ha un notevole peso quando venga fornita dalla figura paterna.

4. Un padre dà sicurezza. Il papà è il custode. Tutti in famiglia si aspettano protezione dal papà. Un papà protegge anche imponendo delle regole e dei limiti di spazio e di tempo, dicendo ogni tanto « no », che è il modo migliore per comunicare: « ho cura di te ».

5. Un padre incoraggia e dà forza. Il papà dimostra il suo amore con la stima, il rispetto, l’ascolto, l’accettazione. Ha la vera tenerezza di chi dice: « Qualunque cosa capiti, sono qui per te! ». Di qui nasce nei figli quell’atteggiamento vitale che è la fiducia in se stessi. Un papà è sempre pronto ad aiutare i figli, a compensare i punti deboli.

6. Un padre ricorda e racconta. Paternità è essere l’isola accogliente per i « naufraghi della giornata ». E’ fare di qualche momento particolare, la cena per esempio, un punto d’incontro per la famiglia, dove si possa conversare in un clima sereno. Un buon papà sa creare la magia dei ricordi, attraverso i piccoli rituali dell’affetto. Nel passato il padre era il portatore dei « valori », e per trasmettere i valori ai figli bastava imporli. Ora bisogna dimostrarli. E la vita moderna ci impedisce di farlo. Come si fa a dimostrare qualcosa ai figli, quando non si ha neppure il tempo di parlare con loro, di stare insieme tranquillamente, di scambiare idee, progetti, opinioni, di palesare speranze, gioie o delusioni?

7. Un padre insegna a risolvere i problemi. Un papà è il miglior passaporto per il mondo  » di fuori ». Il punto sul quale influisce fortemente il padre è la capacità di dominio della realtà, l’attitudine ad affrontare e controllare il mondo in cui si vive. Elemento anche questo che contribuisce non poco alla strutturazione della personalità del figlio. Il papà è la persona che fornisce ai figli la mappa della vita.

8. Un padre perdona. Il perdono del papà è la qualità più grande, più attesa, più sentita da un figlio. Un giovane rinchiuso in un carcere minorile confida: « Mio padre con me è sempre stato freddo di amore e di comprensione. Quand’ero piccolo mi voleva un gran bene; ci fu un giorno che commisi uno sbaglio; da allora non ebbe più il coraggio di avvicinarmi e di baciarmi come faceva prima. L’amore che nutriva per me scomparve: ero sui tredici anni… Mi ha tolto l’affetto proprio quando ne avevo estremamente bisogno. Non avevo uno a cui confidare le mie pene. La colpa è anche sua se sono finito così in basso. Se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato diversamente. Non avrei abbandonato mio figlio nel momento più delicato della sua vita. Lo avrei incoraggiato a ritornare sulla retta via con la comprensione di un vero padre. A me è mancato tutto questo ».

9. Il padre è sempre il padre. Anche se vive lontano. Ogni figlio ha il diritto di avere il suo papà. Essere trascurati o abbandonati dal proprio padre è una ferita che non si rimargina mai.

10. Un padre è immagine di Dio. Essere padre è una vocazione, non solo una scelta personale. Tutte le ricerche psicologiche dicono che i bambini si fanno l’immagine di Dio sul modello del loro papà. La preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre Nostro. Una mamma che prega con i propri figli è una cosa bella, ma quasi normale. Un papà che prega con i propri figli lascerà in loro un’impronta indelebile.

Divisore dans Riflessioni

Un decalogo per il papà, proposto da un bambino
di Antonio Mazzi

1. Non viziarmi. So benissimo che non dovrei avere tutto quello che chiedo. Voglio solo metterti alla prova.2. Non essere incoerente: questo mi sconcerta e mi costringe a fare ogni sforzo per farla franca ogni volta che posso.

3. Non fare promesse: potresti non essere in grado di mantenerle. Questo farebbe diminuire la mia fiducia in te.

4. Non correggermi davanti alla gente. Ti presterò molta più attenzione se parlerai tranquillamente con me a quattr’occhi.

5. Non brontolare continuamente: se lo fai dovrò difendermi facendo finta di essere sordo.

6. Non badare troppo alle mie piccole indisposizioni. Potrei imparare a godere di cattiva salute se questo attira la tua attenzione.

7. Non preoccuparti per il poco tempo che passiamo insieme. È come lo passiamo che conta.

8. Non permettere che i miei umori suscitino la tua ansia perché allora diventerei ancora più pauroso. Indicami il coraggio.

9. Non dimenticare che non posso crescere bene senza molta comprensione ed incoraggiamento… ma non ho bisogno di dirtelo, vero?

10. Ricordati, io imparo di più da un esempio che da un rimprovero.

Tratto da: Il Centro culturale Gli scritti

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Il silenzio

Posté par atempodiblog le 4 août 2008

Il silenzio dans Don Bruno Ferrero Il-silenzio

Un uomo si recò da un monaco di clausura.
Gli chiese: « Che cosa impari mai dalla tua vita di silenzio? ».
Il monaco stava attingendo acqua da un pozzo e disse al suo visitatore:
« Guarda giù nel pozzo! Che cosa vedi? ».
L’uomo guardò nel pozzo. « Non vedo niente ».
Dopo un po’ di tempo, in cui rimase perfettamente immobile, il monaco disse al visitatore: « Guarda ora! Che cosa vedi nel pozzo? ».
L’uomo ubbidì e rispose: « Ora vedo me stesso: mi specchio nell’acqua ».
Il monaco disse: « Vedi, quando io immergo il secchio, l’acqua è agitata.
Ora invece l’acqua è tranquilla.
E questa l’esperienza del silenzio: l’uomo vede se stesso! ».

« Quando non ce la faccio più, vado a sedermi vicino a mia nonna mentre lavora a maglia… Mia nonna profuma di cipria e ha un respiro lento lento. Di tanto in tanto alza gli occhi e sorride un poco, di solito però si limita a lavorare e respirare… Beh, mi fa sentire cullata… ». ( Amelia, 14 anni )

Oggi scegliti un angolo tranquillo e lasciati cullare dal silenzio.

di Bruno Ferrero – Il canto del grillo

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L’ecologismo integrista

Posté par atempodiblog le 30 juillet 2008

Sporcano l’universo. Smettete di far figli

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L’ultima dalla Gran Bretagna: fate meno bambini, perché inquinano…

L’ultima dalla Gran Bretagna: fate meno bambini, perché inquinano. Il British Medical Journal pubblica l’appello del professor John Guillebaud, professore emerito di Pianificazione familiare all’University College di Londra, che esorta i suoi connazionali di andarci piano, con la riproduzione:
«Un bambino che nasce nel Regno Unito produrrà gas serra in misura 160 volte maggiore a un bambino etiope», denuncia il docente emerito, e spiega che se si vuole lasciare un pianeta abitabile ai nipoti «è opportuno non avere più di due figli». In realtà, quest’ansia pare inattuale, visto che a oggi il tasso di fecondità delle inglesi è di 1, 8 figli per donna, dunque di un figlio a coppia, al massimo due, più o meno come nel resto d’Occidente.
Ma questo non soddisfa i professori dell’«Optimum population trust», dediti ad alacri brain storm (tempeste di cervelli) sulla potenzialità inquinante di quell’invadente animale chiamato uomo. Basta fare due conti: quanto latte in polvere, quanti omogeneizzati e relativi vasetti, quanto detersivo fa consumare ogni nuovo arrivato, mentre ci distrae con quel suo candido sorriso? E i pannolini, vogliamo parlare dei pannolini, sintetici e orribilmente antiecologici? Ogni neonato ne consuma almeno cinque al giorno, per due anni fanno 3650 pannolini da riciclare – senza contare che qualcuno tarda anche di più, a imparare a non farsela addosso. E poi, crescendo, tricicli, biciclette, computer, moto. Plastica, chip, carta, ed energia, e carburante: è una massa opprimente, a pensarci, ciò che consumerà ogni nuovo venuto – con quella sua aria falsamente innocente.
E dunque, dicono dalle aule austere dell’University College, piantatela di fare tanti bambini. Bucano l’ozono, rodono le foreste amazzoniche, surriscaldano il pianeta, squagliano i ghiacci del Polo. Occorre essere responsabili, e pianificare il figlio unico come modello corretto di Famiglia Ecologicamente Sostenibile.
Un’amenità, quella del British Medical Journal, da stampa di mezza estate, quando si tirano fuori dai cassetti i resti che finora non si è osato pubblicare? No, all’«Optimum population trust» fanno sul serio.
L’appello possiede una sua logica, anche se declinata all’estremo: quella di un ecologismo integralista, che individua nell’uomo il distruttore del pianeta, e si affanna a contrastarlo in difesa di un ideale di natura incontaminata, senza strade né case né fabbriche. Un pianeta di foreste vergini, e pinguini e gnu felicemente prolificanti: dove tutte le creature si riproducono liete, tranne l’homo sapiens. L’uomo, che produce gas, e scava discariche, e inquina i cieli – l’uomo, che sporca.
È un idolo la natura per questo ambientalismo, un Eden da restaurare, ma espellendo Adamo. Che è un animale, sì, ma fastidiosamente, ostinatamente diverso: animale che immagina e crea, sempre teso ad andare oltre ciò che ha ereditato dai padri. Come da un altro stampo ricavato. Certo, l’uomo, anche, distrugge. E tuttavia, dalle palafitte al Partenone, alla scoperta del Dna, non tutto il fare dell’uomo può essere ridotto a un parassitario depredare. Ma, l’idolatria di certo ambientalismo sta proprio in questa divinizzazione di una natura intangibile, in antitesi all’operare umano, quasi che del Creato fossimo gli intrusi.
Forse, se gli accorati appelli dei Guillebaud britannici e nostrani venissero integralmente raccolti, secoli dopo l’implosione demografica e il crollo dell’economia sui ruderi delle autostrade tornerebbero a verdeggiare le foreste, e i fiumi scorrerebbero trasparenti come al principio. Un pianeta di nuovo vergine e selvaggio. Peccato che a guardarlo, e a raccontarlo, e a domandarsi chi ha creato tutto questo, non ci sarebbe più nessuno.

image11ha6 dans Marina Corradi di Marina Corradi – Avvenire

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Quando vediamo i nostri cari soffrire…

Posté par atempodiblog le 30 juillet 2008

Atteggiamento di fronte alla sofferenza dei nostri cari

Rischiamo spesso di perdere la pace, nel caso in cui una persona a noi vicina venga a trovarsi in una situazione difficile. A volte siamo molto più toccati e preoccupati per la sofferenza di un familiare o di un bambino che per la nostra. Questo in sé è molto bello, ma non deve costituire motivo di disperazione. Quali inquietudini, talvolta eccessive, regnano in alcune famiglie quando uno dei componenti è provato nella salute, disoccupato, vive un momento di depressione, ecc. Quanti genitori si lasciano consumare dalla preoccupazione per un problema di un loro figliolo.
Tuttavia il Signore ci invita, anche in questo caso, a non perdere la pace interiore. Il nostro dolore è legittimo, purché mantenuto in una condizione di tranquillità. Il Signore non potrebbe abbandonarci: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se questa donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (ls 49,15).
Un punto sul quale vorremmo insistere è il seguente: così come è importante saper distinguere tra la vera e la falsa umiltà, tra il vero pentimento (pacifico e fiducioso) ed il falso (l’inquieto rimorso che para­lizza), si rende necessario saper distinguere tra quelle che po­tremmo chiamare la vera e la falsa compassione.
È pur certo che più avanziamo nella vita cristiana, più la nostra compassione cresce. Mentre noi siamo per natura tanto indifferenti e duri, lo spettacolo della miseria del mondo e la sofferenza dei fratelli strappano lacrime ai santi, ai quali l’intimità con Gesù ha reso il cuore «liquido», secondo l’espressione del Curato d’Ars, San Domenico passava le sue nottate a supplicare il Signore, pregando e piangendo: «Mia Misericordia, cosa ne sarà dei peccatori?». Potremmo arro­gare il diritto di mettere seriamente in dubbio la validità della vita spirituale di una persona che non manifestasse una vera compassione per il prossimo.
La compassione dei santi è profonda, pronta a sposare tutte le miserie e ad alleviarle, ma è anche sempre dolce, calma e fiduciosa. Essa è un frutto dello Spirito Santo.
Mentre la nostra compassione è spesso intrisa di preoccupazione e turbamento. Abbiamo un modo di coinvolgerci nella sofferenza dell’ altro che talvolta non è giusto, perché motivato più dall’amor proprio che da un vero amore. Riteniamo sia giusto preoccuparsi eccessivamente per qualcuno in difficoltà e che questo sia un segno evidente dell’ amore che nutriamo nei suoi confronti. Ciò è falso. Spesso in questo atteggiamento nascondiamo un grande amore per noi stes­si: non sopportiamo la sofferenza degli altri perché noi stessi abbiamo paura di soffrire, ci sentiamo minacciati da questa sofferenza dell’ altro, mancando per primi di fiducia in Dio. E normale essere profondamente toccati dalla sofferenza di qualcuno che ci è caro, ma se a causa di questo ci tormentiamo fino a perdere la pace, significa che il nostro amore per questa persona non è ancora pienamente spirituale e puro, non è ancora fondato in Dio. E un amore troppo umano, un po’ egoista e che non ha sufficiente fondamento in un’incrollabile fiducia in Dio.
Per essere veramente una virtù cristiana, la compassione deve procedere dall’amore (che consiste nel desiderare il bene di una persona, nella volontà di aiutarla alla luce di Dio e in accordo con i suoi disegni) e non dal timore (paura della sofferenza, di perdere qualcosa o qualcuno). Di fatto, dobbiamo riconoscere che troppo spesso il nostro atteggiamento di fronte ai nostri cari, che sono nella sofferenza, è più condizionato dalla paura che fondato sull’ amore.
Diciamoci chiaramente una cosa: Dio ama infinitamente più di noi e meglio di noi quelli che ci sono vicini. Egli desidera che crediamo a questo amore ed anche che sappiamo abbandonare tra le sue mani gli esseri a noi cari. Così facendo li aiuteremo in modo ben più valido. I nostri fratelli e sorel­le che soffrono hanno bisogno di avere attorno a loro perso­ne serene, fiduciose e gioiose. Saranno da esse aiutati molto più efficacemente che da persone preoccupate ed ansiose.
Spesso la nostra falsa compassione non fa che aggiungere tri­stezza alla tristezza e smarrimento allo smarrimento. Essa non è fonte di pace e di speranza per coloro che soffrono.

 Vorrei riportare, come esempio concreto. Una giovane donna soffre molto a causa di una forma di depressione, con paure angosciose che le impediscono spesso di uscire sola in città. Ho parlato con la madre: scoraggiata, in lacrime, ha supplicato che si pregasse per la guarigione della figlia. Ho rispetto infinitamente il dolore comprensibile di una madre.
Naturalmente abbiamo pregato per questa figlia, ma ciò che mi ha colpito è che più tardi, avendo avuto l’occasione di parlare con la giovane, mi sono reso conto che viveva la sua sofferenza nella pace.
Mi diceva: «Sono incapace di pregare, ma la sola cosa che non smetto mai di dire a Gesù è la parola del Salmo: Tu sei il mio pastore, non manco di nulla». Diceva anche di vedere dei frutti positivi della sua malattia, in particolare in suo padre che, un tempo tanto lontano da lei e dal Signore, cambiava ora atteggiamento.
Ho incontrato spesso casi del genere: una persona è nella prova e la vive molto meglio di quanti, tra quelli che la circondano, si agitano e si preoccupano per lei!
C’è, a volte, la tendenza a moltiplicare in modo esagerato le preghiere di guarigione, perfino di liberazione, ricercare tutti i modi possibili ed immaginabili per ottenere la guarigione della persona, e non ci si rende conto che la mano di Dio è su di lei in modo del tutto evidente.
Si devono accompagnare le persone che soffrono con una preghiera perseverante, sperarne la guarigione, e fare il possibile per ottenerla, ma occorre farlo in un clima di pace e di abbandono in Dio.

Fonte: comeunafonte

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Perline

Posté par atempodiblog le 25 juillet 2008

Perline dans Riflessioni perlinema2

L’Africa nera fu lentamente colonizzata da uomini bianchi che truffavano i superstiziosi indigeni offrendo loro specchietti e perline in cambio di oro e gemme. Oggi, l’uomo bianco si vergogna del suo passato, tanto da accettare tranquillamente la legge del contrappasso.

Nelle nostre strade e sulle nostre piazze uomini neri ci vendono perline e specchietti e nastrini, che noi acquistiamo e indossiamo perché «portano fortuna». Pensate quanto sangue, quante rivoluzioni, quanti rivolgimenti ci sono voluti perché superstiziosi e creduloni diventassero i bianchi.

di Rino Cammilleri

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L’abbronzatura, il lifting e la « Bella ragazza » di Nazareth…

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2008

Guardatevi attorno: tutto è un grido verso quel 15 agosto…

L’abbronzatura, il lifting e la

Sembra ieri che abbiamo vinto il campionato del mondo di calcio e già le belle bandiere tricolori messe a sventolare sulle finestre, sulle terrazze, nei bar o nei bagni al mare si sono scolorite. Erano così scintillanti. Ora sono inguardabili. Ne vedi alcune sfilacciate e strappate dal vento, altre consunte dal sole, altre ancora sporcate dalla pioggia. E’ incredibile come facciano presto, le bandiere, a sciuparsi. Tutte le bandiere. Non fai in tempo a crepare per loro che sono già diventate un cencio indecente. Da vessilli garruli e trionfanti in poco tempo diventano stracci tristi e smorti. E’ la parabola inevitabile delle cose. E anche dei sogni.

Eppure c’è una speranza. Splenderà proprio a Ferragosto e molti non se ne accorgeranno. E’ vero che le bandiere si consumano, i vestiti si sgualciscono, il giornale di ieri è già ingiallito e illeggibile, i campi di grano appena ieri pieni di spighe dorate, sembrano già steppe autunnali. I boschi cominciano a ingiallire e anche i fiori appassiscono. “Se son rose sfioriranno” dice una fulminante battuta di Montanelli. Una polvere impalpabile si posa incessantemente su tutte le cose. Guardi casa tua, ti sembra solida e robusta e invece ha bisogno di continua manutenzione, perché tutto invecchia e si guasta, si corrompe. Tutto tende al disordine, tutto decade e s’incasina, dice un fondamentale principio della fisica. Tutto si consuma.

Di solito evitiamo distrattamente di pensarci. Ma la prima cosa a decadere, consumarsi, guastarsi è il nostro stesso corpo. Osservare gli esseri umani sulla spiaggia, in questi giorni d’estate, è impressionante. Il vigore e la formosa armonia dei corpi giovani, orgogliosamente esibiti, fanno pensare alla scultura gotica, quella che rende leggero il marmo delle cattedrali e dà quasi la sensazione che lo proietti nel cielo vincendo la forza di gravità. Ma nel giro di qualche anno la forza di gravità si prenderà la sua rivincita: tutto cala, cade, si affloscia, si sforma, si usura. La terra chiama la terra verso di sé. Polvere sei e polvere tornerai. E allora cominciano i poderosi e continui lavori di manutenzione: tingere quei capelli imbiancati, tirar su quei glutei cadenti, stirare quelle rughe, consumare quel grasso in eccesso, cancellare quelle borse sotto gli occhi. Lavori interminabili, continui, costosi, instancabili come per tirar su ogni giorno un muro che la notte crolla. E poi la visita dall’oculista perché non si legge più bene senza occhiali e i capelli che cadono. E quei doloretti alle spalle.Si tenta di fermare in ogni modo (vanamente) l’invecchiamento. Si vorrebbe fermare l’attimo come il Faust di Goethe, ma svaniscono perfino gli imperi millenari, figuriamoci i singoli. “Tutto al mondo passa e quasi orma non lascia”, avverte Leopardi. Gli attimi della vita quotidiana sembrano non passare mai, ma sono gli anni che corrono imperterriti. Implacabili. In un batter d’occhio. E un sottile strato di polvere copre tutte le cose. Quella noia impalpabile che alla fine ammoscia perfino gli amori più ardenti e gli ideali più infiammati. E’ il peso della natura decaduta. La forza di gravità.

D’altra parte perfino i giovani investono giornate e sforzi sovrumani nell’immane quanto vana opera di manutenzione: a “scolpirsi” in palestra, a profumarsi e abbronzarsi. Poveretti, è come costruire i castelli sulla sabbia, come scrivere un nome amato sul bagnasciuga, questo illusorio fuggire dall’offesa del tempo. In fin dei conti è della carnalità del nostro essere che abbiamo terrore. Tutto ci ricorda il suo continuo corrompersi. Sudare è segno del degrado biologico a cui siamo sottoposti, l’odore stesso del corpo deve essere bandito, la nostra società è asettica: è proibito sudare, i corpi devono emanare solo profumo, nulla che sia segno di putrefazione.

L’epoca apparentemente più “materialista” ed edonista, la nostra, in realtà ha orrore della carne. Siamo tutti gnostici senza saperlo. Lo dimostrano l’enorme crescita delle nostre spese per cosmetici e l’orrore che abbiamo per il corpo malato, per la carne sofferente. Lo sconvolgente crocifisso di Grunewald, il più drammatico di tutta la storia dell’arte, fu concepito dal pittore tedesco del Quattrocento per i malati di lebbra e di Fuoco di S. Antonio che affollavano quella cappella disperatamente per pregare, ritrovando sulle carne devastata del Dio-Uomo, le proprie stesse piaghe, il proprio strazio.

Alla fine gli unici trionfalmente “materialisti” restano i cristiani. “E’ una Carne che salva la carne”, diceva un padre della Chiesa come s. Ambrogio. Nei “Fratelli Karamazov” – ottima lettura per l’estate – Dostoevskij racconta la storia di un parricidio che è più di un parricidio. Il vecchio Fedor Pavlovic Karamazov, padre dei tre fratelli, esprime infatti al massimo la terrestre carnalità che ci fa orrore: viene descritto volgare e violento, meschino e cinico, un “misero buffone”. E’ fisicamente calvo, nasone, bocca larga, doppio mento. Provoca ripulsa fisica nei tre figli. Ma mentre Ivan e Dimitrij lo disprezzano apertamente, Alioscia si fa monaco e pensa di evitare l’odio della carne scegliendo lo spirito e scegliendo un “padre spirituale” come il santo starets Zosima. Però il monaco gli dà la lezione più importante morendo: il suo corpo infatti comincia subito a emanare cattivo odore. Alesa prima ne è scioccato, sconvolto, poi comprende che anche quel santo è fatto di carne come suo padre: esce dalla stanza, scoppia in un pianto dirotto e gettandosi a terra abbraccia tutto il creato. Comprende che la fede in Cristo non è una fuga nello spirituale, ma è la certezza sull’unico Dio che ha preso la carne umana e il suo dolore vincendo la forza di gravità della natura decaduta, che ha manifestato con i miracoli il suo dominio sul creato, sulla malattia e perfino sulla putrefazione della carne con la resurrezione.

Alioscia comprende che il destino dell’uomo non è la decomposizione buia e disperata del corpo e non è neanche solo la “salvezza dell’anima”, ma è la resurrezione della carne, la glorificazione di tutto il nostro essere e la “divinizzazione”. E capisce che questa forza è entrata nella storia e questa nuova storia è già cominciata. Con la prima creatura che vive già questa glorificazione della carne, questa eterna giovinezza, questa bellezza che non si corrompe e non passa: Maria.

Nel paesetto dove mi trovo, sulla costa toscana vicino a Bolgheri, la chiesina è in mezzo alla pineta, vicino al mare. La parrocchia celebra la sua festa il 15 agosto: l’Assunta, cioè l’Assunzione di Maria in cielo in corpo e anima. Così a ferragosto si porta in processione per le vie, normalmente popolate di gente in costume, alle prese con le guerre dei corpi, la raffigurazione della “Bella Ragazza” di Nazareth, del suo corpo che è già in Cielo, glorificato, del suo volto eternamente giovane, bellissimo. Come il suo cuore. I cristiani sono considerati strani soggetti. Ma in realtà danno corpo alla segreta speranza di tutti.

di Antonio Socci – © “Libero” 25 luglio 2006

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Guidare bene

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2008

Non bastano le punizioni
Guidare bene è un problema di
coscienza

di S.E. Mons. COSMO FRANCESCO RUPPI

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Le recenti disposizioni governative che hanno inasprito le pene di chi guida in stato di ebbrezza, venendo meno alle norme essenziali del Codice dalla strada, hanno fatto pensare molti autisti ed hanno anche stimolato i gestori delle discoteche ad affiggere cartelli, in cui si ammonisce chi guida a tenersi lontano dalle sostanze alcoliche o stupefacenti.

Tutto giusto, tutto bene, anche la sorveglianza accresciuta sulle strade, specie il sabato notte, il ritiro di patente, la minaccia del carcere e dei cosiddetti lavori forzati per i più incalliti.

Nessuna legge, però, sarà valida, se non trova all’interno dell’uomo la sua doverosa accoglienza; nessuna pena sarà veramente, come dev’essere, «medicinale» se non trova all’interno della coscienza di ciascuno il suo più profondo radicamento.

Forse per questo ci si chiedeva giorni addietro qual è il radicamento di tutto questo nella legge naturale, nella legge della coscienza e la risposta è più che facile: il Codice della strada si fonda sul quinto comandamento, che dice: non uccidere, cioè, non mettere in pericolo la tua e l’altrui vita, non ferire, non esporti al pericolo di perdere la tua vita o di insidiare la vita degli altri.

Tra i dieci comandamenti, che sono patrimonio di tutto il genere umano, dopo quello di onorare i genitori, c’è quello di «non uccidere», cioè non ucciderti e non uccidere neppure l’altro. Non solo non uccidere, ma anche non ferire, non danneggiare la vita altrui, non esporti al pericolo di danneggiare e di ferire, ciò che fa l’autista spericolato, quello che guida in stato di ebbrezza, con scarsa coscienza e responsabilità.

Questo non è un problema religioso, ma civile e soprattutto morale, di quella morale che chiamiamo «naturale» cioè patrimonio di ogni uomo, di ogni tempo, di ogni latitudine.

La vita umana è sacra sin dal suo concepimento e fino alla morte; è sacra e pertanto deve essere rispettata nella propria e nella altrui esistenza. Attentare alla vita, con una guida spericolata o incauta, minacciare di andare o mandare fuori strada, costituisce non solo un reato civile e penale, ma anche un vero e proprio peccato, di cui bisogna pentirsi e confessarsi.

Forse nessuno, anche di quelli che si confessano abitualmente, nel suo esame di coscienza, si interroga sul modo come guida l’automobile o il motorino, invece dobbiamo cominciare a farlo, per radicare nella nostra coscienza il dovere di rispettare la nostra vita e la vita degli altri.

Si tratta, in parole semplici, di «un peccato sociale» pari, se non più grave di quello di non pagare lo tasse, perché non attiene a un dovere civile, ma un dovere morale fondamentale per l’umana esistenza.

Molto può fare la famiglia per rafforzare la coscienza di «guidare con prudenza» se i genitori e gli adulti insegnano ai bambini a conoscere e rispettare le leggi della strada e della guida: molto può fare la scuola e sappiano che lo fa, con l’aiuto dei vigili e della polizia, che volentieri si prestano a svolgere lezioni sul Codice della strada; molto possono fare i pastori delle anime, richiamando i fedeli su un dovere essenziale della vita e del vivere sociale.

Nessuno però può influire seriamente come se stesso. È dentro di noi, che dobbiamo radicare il dovere del rispetto scrupoloso della legge della strada. Tutti dobbiamo aver più rispetto della nostra vita e della vita degli altri.

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Lezioni di “pietas”?

Posté par atempodiblog le 20 juillet 2008

“CASO ELUANA”: SE I COMUNISTI ACCUSANO LE SUORE DI CRUDELTA’ PERCHE’ LA AMANO……

Comunisti che danno lezioni di “pietas” ? Da che pulpito! Ormai siamo nel mondo alla rovescia: il mondo dell’ideologia dove il Bene è Male e il Male è Bene. E’ la prova che, come disse un giorno Adenauer, “anche in politica soltanto Cristo ci può salvare”.

Lezioni di “pietas”? dans Antonio Socci antoniosocci

A proposito di Eluana Englaro, ieri La Stampa, in prima pagina, pubblicava l’articolo di Marina Garaventa che vive “più o meno nella stessa situazione in cui era Piergiorgio Welby”. A un certo punto la signora Garaventa si rivolge polemicamente a chi difende il diritto alla vita di Eluana e scrive: “propongo a questi signori di prendersi un anno sabbatico e offrirlo a Eluana: passare con lei giorni e notti, lavarla, curarle le piaghe, nutrirla, farla evacuare, urinare, girarla nel letto, accarezzarla, parlarle nell’attesa di una risposta che non verrà mai”.
E’ una provocazione salutare (NOTA 1). Ma forse la signora Garaventa non lo sa: ci sono suore, donne cristiane, che per Eluana stanno già facendo tutto questo da 14 anni, in silenzio e con gioia, e chiedono solo di poter continuare ad amarla. Suor Rosangela – leggo in una cronaca del Corriere – la conosce così bene da “intuire all’istante se ha mal di pancia o mal d’orecchio”. Eluana ogni mattina viene “alzata da letto, lavata, messa in poltrona. Quotidianamente la portiamo in palestra dove c’è un fisioterapista che le pratica la riabilitazione passiva”. Poi c’è la musica, le passeggiate in giardino e “qualche volta, soprattutto se le parla suor Rosangela, muove gli occhi”.

Proprio queste suore, queste fantastiche e umili donne del Cielo, senza fare alcuna polemica, senza lanciare “guerre ideologiche”, con dolcezza hanno detto: “vorremmo tanto dire al signor Englaro, se davvero la considera morta, di lasciarla qui da noi. Eluana è parte anche della nostra famiglia”. Le suore per tutti questi anni si sono prese cura di lei “come di una figlia”. Esprimono il “massimo rispetto” per “la sofferenza dei genitori di Eluana”, ma “con discrezione” chiedono loro di poter continuare ad accudirla e amarla. “Liberazione”, giornale di Rc, parla di Eluana come di “un corpo”. Invece la suora dice: “Per noi è semplicemente una persona e viene trattata come tale… E’ una ragazza bellissima”. L’editoriale di “Liberazione”, firmato da Angela Azzaro, ha dell’incredibile. Esordisce accusando la Chiesa di essere venuta meno al sentimento della pietas, “quel sentimento che ci rende partecipi del dolore e delle sofferenze altrui, che non ci fa girare le spalle, ma ci aiuta a uscire dall’egoismo, dal nostro bieco interesse”.

Con questa surreale premessa la Azzaro sentenzia: “Il massimo gesto di crudeltà lo hanno compiuto le suore Misericordine presso cui Eluana si trova. Conoscono il padre. Dicono di rispettarlo. Ma gli hanno chiesto di lasciare lì il corpo della figlia. Come se niente fosse. Come se in tutti questi anni la sua vita non fosse stata appesa a un filo, il filo che tiene in vita un corpo non più senziente e che a lui ha impedito di pensare ad altro, di elaborare il lutto, di ripensare forse più serenamente agli occhi di Eluana quando capivano”.

Viene da chiedersi se il direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, non pensa di dover chiedere scusa per questo editoriale intitolato “Il sadismo alla scuola di Benedetto” ? E cosa ne pensano i Bertinotti e i Vendola? Le povere suore bersagliate dall’articolista non hanno sequestrato Eluana: fu portata lì dal padre e dalla madre nel 1994 perché era nata lì. Le suore rimasero perplesse, non sapevano se erano in grado di assisterla. Poi si resero conto che aveva bisogno solo di essere alimentata e amata, accudita come una bimba, e la presero nella loro famiglia, con tenerezza e dedizione.

Queste donne umili, che per 14 anni, in silenzio, l’hanno amata, lavata, alimentata, aiutata, meritano di prendersi lo schiaffo di “Liberazione” che parla di “crudeltà”? Le suore non impongono nulla, non sono loro a disporre della sorte di Eluana, né possono o vogliono trattenerla: hanno semplicemente dichiarato che sarebbero liete di continuare a prendersi cura di lei. Con discrezione e semplicità, rispettando tutti. Queste povere donne non hanno potere di decisione, hanno solo il loro amore da offrire. Ebbene secondo il “giornale comunista” (così si definisce), questo è “il massimo gesto di crudeltà”.

Sarebbe questa la cultura laica? Sulla Stampa si sfidano i “pro life” a prendersi cura di Eluana. Appurato poi che le suore lo fanno, da “Liberazione” si bersagliano con l’accusa di crudeltà. Mi pare evidente che il pregiudizio e l’ideologia accecano, cambiano il Bene in Male e il Male in Bene.

Certo, per chi si dice comunista l’amore cristiano (che è “amore del prossimo” e perfino “amore dei nemici”) è roba pericolosa. Casomai la storia comunista ha trafficato con la categoria e la pratica dell’ “odio di classe”. Loro credevano di poter sistemare il mondo e eliminare l’ingiustizia così, con l’ “odio”, l’antagonismo, la lotta, la rivoluzione. Il marxismo pretendeva di essere una “scienza”, non aveva bisogno di amare nessuno, neanche il proletariato: le stesse leggi ferree dell’economia avrebbero necessariamente portato al comunismo, il “paradiso in terra”. Così hanno costruito i loro inferni (dove sono stati macellati milioni di cristiani).

Oggi i contenuti delle diverse ideologie sembrano accantonati, ma restano certi furori, certi metodi e pregiudizi. Certe astrazioni. Ieri per esempio a pagina 10 dell’Unità, dove si esponevano le discutibili dichiarazioni della “Consulta di bioetica”, si diceva che definire con espressioni come “omicidio di stato” il lasciar morire Eluana significa pronunciare “parole al di là della decenza o della semplice ‘educazione’ ”.

Voltando pagina sempre l’Unità definiva però “assassinio di Stato” l’eventuale condanna a morte ed esecuzione di Tareq Aziz per le imputazioni relative agli anni in cui era dirigente del regime di Saddam Hussein. L’Unità intervista Marco Pannella che si batte perché “nessuno tocchi Caino” e – denunciando lui stesso le responsabilità di Aziz – definisce appunto “assassinio di stato” e “delitto” la sua eventuale esecuzione.

Premesso che siamo tutti contro la pena di morte e che nessuno deve toccare Caino, chiediamo a Pannella e all’Unità: invece Abele sì? Pannella parla di questa sua “battaglia di civiltà”, definisce un “misfatto” l’eventuale esecuzione capitale di Aziz, seppure colpevole, perché la vita umana non è a disposizione degli stati, ma poi, leggo in una agenzia, definisce la sentenza che autorizza la sospensione dell’alimentazione per Eluana come “affermazione della civiltà giuridica, umana e civile”. Stiamo parlando della eventuale morte di una ragazza per fame e per sete. E’ pur vero che non è autosufficiente e non pare cosciente, ma è viva.

Io non posso credere che Pannella e l’Italia, i quali rivendicano la moratoria dell’Onu sulle esecuzioni capitali come una conquista di civiltà, possano poi accettare una simile morte per Eluana. E’ pur vero che in quest’epoca di sbandamento si definisce conquista di civiltà anche l’aborto, ovvero la soppressione – tramite legge di stato – di migliaia e migliaia di piccole vite innocenti. Ma perché la vita di Caino va sempre e comunque protetta, qualunque cosa abbia fatto, e quella di Abele no?

La presenza silenziosa di quelle suore ci fa sapere che da 2000 anni, da quando è venuto Gesù, qualunque essere umano è amato. Un giornalista disse una volta a Madre Teresa di Calcutta che lui non avrebbe fatto ciò che faceva lei per tutto l’oro del mondo e lei rispose: “neanche io”. Ma per Gesù sì. Al di là della sentenza su Eluana, com’è possibile non provare rispetto e ammirazione per queste suore? Non è stupendo che esistano persone così? Sono appassionate a ogni essere umano com’era Gesù che ascoltava tutti, accoglieva tutti e “guariva tutti”. Sono capaci di questo amore per la vita umana perché amano, testimoniano e donano ciò che vale più della vita: Gesù stesso, la Grazia. Cioè la vita eterna, l’unica vera speranza che rende vittoriosi sul dolore e su “sorella morte”.

di Antonio Socci

(1) Verrebbe da proporre però, analogamente, che quanti ritengono giusto lasciar morire Eluana secondo la sentenza che consente di fermare l’alimentazione e l’idratazione, le stessero accanto minuto dopo minuto per tutto il tempo in cui avrà fame e sete, fino alla morte.

Da “Libero” 19 luglio 2008

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Nostro figlio vuol vivere

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2008

Cieco, muto e infermo: nostro figlio vuol vivere
 

Un bambino cieco, muto e infermo, testimone e maestro di vita
Da una lettera a Il Giornale

Alberto Gentili e Gabriella Mambelli

Siamo i genitori di Andrea (e di altri 3 ragazzi) e, colpiti da quanto deciso ultimamente sulla vita di Eluana, vorremo fornire attraverso Il Giornale un contributo in merito alla comprensione della realtà.
Andrea, il nostro primogenito, ha quasi 16 anni, è handicappato grave con disabilità al 100%, non parla, non vede, non si muove volontariamente… insomma, come recita un suo certificato medico «necessita e necessiterà di assistenza continua per tutti gli atti quotidiani della vita».
Da qualche anno, grazie all’inserimento in un progetto sperimentale, ha iniziato a «dialogare» faticosamente con il mondo esterno con la tecnica della comunicazione facilitata.
Il brano che le inviamo è parte della trascrizione di un dialogo tra Andrea ed uno dei suoi dottori. «Grigio periodo di dolore è il mio. Fermamente ho chiesto a Dio di aiutarmi e di benedirmi. Ho personalmente già più volte offerto le mie sofferenze per altri e questa volta una parte devolvo a te, dottore. (…) ho tanta voglia di fare esperienze belle interiori e di amicizia ma sono dentro una condizione tale di dolore e fisica che non mi permette di fare tutto ciò che vorrei. Questo sono io: dolore e gioia allo stesso tempo. Grato sono alla vita e voglio che si sappia. Grato sono a te per le cure ed a tutti coloro che si preoccupano per me, per il mio presente e per il mio futuro. Sono dell’idea che bisogna dare più spazio a ciò che aiuta interiormente e spiritualmente. Lotta, sì, ma con meta il cielo e la nostra grande anima da coltivare. (…) Ci tengo a dire che non disdegno le cure e ciò che porta un benessere fisico e questo va tutelato, ma bene interiore porta anche benessere fisico quindi è primariamente da considerare. Grazie, ti voglio dire che sono felice di oggi e ti dono il mio grazie di cuore».
Non vogliamo giudicare assolutamente il padre di Eluana. Capiamo bene il suo dolore e, come lui subiamo la stessa lacerazione interiore quando guardiamo, ahimè troppo spesso, un figlio che soffre steso in un letto e gli siamo vicini. Non accettiamo e ci fa rabbrividire il triste moralismo infantile ed inconsapevole di tanti che giudicano la vita degna solo se di «qualità». Anche noi, presi, impregnati, dalla «mentalità dominante», riusciamo solo per brevi istanti ad intuire che le parole di nostro figlio «questo sono io: gioia e dolore allo stesso tempo» sono vere non solo per lui ma anche per noi. Esse rappresentano la realtà della condizione umana. Realtà dura, spigolosa, inaccettabile non solo per chi ha una coscienza di sé inconsapevolmente nichilista e gaudente, ma pur sempre strada per la felicità e non per una inutile spensieratezza. Sempre riprendendo le parole di Andrea: «Lotta, sì, ma con meta il cielo e la nostra grande anima da coltivare».
La battaglia è qui. È possibile essere felici come Andrea dice di essere quando tutto intorno dice che non serve cercare la felicità ma solo il divertimento e l’assenza di problemi? Rimuovere il dolore dalla vita è eliminare la Croce, sola realtà capace di trasfigurarlo in gioia. Come sempre è la Croce il vero scandalo. E quale metodo più efficace per rimuovere la Croce che eliminare chi ad essa è più vicino?

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