La storia di Nick Vujicic
Posté par atempodiblog le 27 mai 2009
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Posté par atempodiblog le 27 mai 2009
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Posté par atempodiblog le 18 mai 2009
Quando si parla male alle spalle di qualcuno è come se si attaccassero, dietro questa persona, tanti bigliettini a sua insaputa, con su scritto quello che noi pensiamo lui sia. Le altre persone li leggeranno e, magari senza neanche conoscere questa persona, senza avergli mai parlato, si faranno una idea di lui che non risponde alla realtà… magari lo isoleranno, lo faranno piangere…
Se abbiamo parlato male di qualcuno possiamo ancora rimediare… togliamo quei bigliettini mettendone degli altri nuovi, parliamo bene di loro con coloro a cui ne avevamo parlato male… e se ci parlano male, invece, di qualcuno non diamo subito credito a ciò che ci viene detto…
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Posté par atempodiblog le 14 mai 2009
Nei discorsi pubblici su «cosa ci vorrebbe» si vola alto, si parla di bisogno di civiltà, umanità, accoglienza. Tutto vero naturalmente, ma a molti sembra spesso vago. Le civiltà sono molte e diverse; le idee sull’«umano» anche; l’accoglienza forse dovrebbe essere reciproca, l’autoctono deve accogliere lo straniero, ma anche questo ultimo deve accogliere chi è già lì, le sue idee, norme e costumi.
C’è però un bisogno più semplice, elementare, condiviso da tutti: quello di gentilezza.
Basta ascoltare le vecchie canzoni, e confrontarle con gran parte dei rap di oggi, per capire che è in atto un indurimento dell’esistenza. La vita appare intrisa di un’aggressività esagerata, a volte caricaturale. Che i giovani per primi denunciano, anche se spesso proprio loro vi indulgono (come il gruppo tedesco di Kannibal Instinct). Anche i media, amplificando ogni cosa, danno però molto più spazio ai gesti di aggressività che a quelli di gentilezza. Fin da prima della crisi, ormai da molti anni nessuno dice più a una donna: «Ti amo», oppure: «Buon compleanno!», comprandosi una pagina di quotidiano. Mentre giornali e televisioni divulgano e amplificano accuse coniugali, privatissimi retroscena sentimentali, notizie e commenti rancorosi, dove ogni gentilezza è assente.
La mancanza di gentilezza continua poi nei gesti quotidiani di tutti, nel fare la spesa, nel modo di rivolgersi al cliente, al venditore, al fornitore. Migliaia di durezze, di sguardi taglienti, di commenti secchi, hanno nel corso degli anni preso il posto dei sorrisi, delle battute cordiali, delle occhiate sorridenti. Gli italiani, grandi e apprezzati protagonisti del sorriso e della battuta, non sorridono quasi più, e negli incontri di ogni giorno si tengono molto sulle loro. I soldi non c’entrano: tutto ciò è cominciato in anni di benessere senza precedenti, e da allora non si è più arrestato.
Tanta durezza non è affatto naturale. Anche se la vita non è un’infinita festa da ballo, e anzi proprio per questo, ogni società si è sempre impegnata ad accompagnare i suoi riti e momenti sociali con forme e modi di scambio più piacevoli, e meno distruttivi possibile. L’essere umano non regge una vita quotidiana incessantemente competitiva, sgradevole, dove l’altro che incontri non solo non ti ama (non è suo compito), ma ti attacca. Non ce la fa.
Dietro la moltiplicazione di disagi come gli attacchi d’ansia, quelli di panico, le diverse forme di fobia sociale (i ragazzi che non escono dalla propria camera, gli adulti asserragliati nel proprio tinello, o nel locale-cantina degli attrezzi), c’è anche questo: la fatica di vivere una socialità ostile, non amichevole, diffidente e chiusa.
La modernità ricca e sviluppata deve porsi il problema di come recuperare la gentilezza quotidiana delle società più povere e tecnicamente arretrate che l’hanno preceduta. Si tratta di un’operazione ormai indispensabile. Non per superiori ragioni morali, o dettami politici, ma perché la socialità senza gentilezza non funziona, si inceppa, crea problemi (e costi, anche sociali) infiniti. Il tranviere perennemente arrabbiato (come quelli di molte grandi città), che riparte senza badare alla vecchietta che sta ancora scendendo, diffonde aggressività e malessere, anche se è sindacalmente tutelato. Altrettanto, naturalmente, vale per l’industriale o il politico arrogante che non si fa carico dei bisogni dei dipendenti, e dei cittadini. Basta poco.
Un po’ di gentilezza: un sorriso, uno sguardo di simpatia, una mano tesa. Coloro che faranno spontaneamente questi gesti, saranno i protagonisti di domani.
di Claudio Risé
Tratto da “Il Mattino di Napoli”
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Posté par atempodiblog le 20 avril 2009
Lo stadio? Se lo conosci, lo eviti.
di Gigi Garanzini
Da anni non metto piede in uno stadio. Da una serata a San Siro in cui l’accoglienza della curva interista alla coppia Totti-Cassano fu tale che ad un certo punto semplicemente me ne andai. Sarei felice di sapere che qualcuno l’altra sera a Torino ha fatto altrettanto. Mica per altro: per rispetto di se stessi, per non dover condividere lo stesso spazio, lo stesso ambiente, lo stesso (presunto) spettacolo con gente ripugnante.
Quello che lo stadio Olimpico – a proposito – ha vomitato addosso a Balotelli va al di là di qualsiasi dialettica tifoidea. Che quello provoca, che gli schiaffi se li tira, che il ratto di Ibra, che lo scudetto di cartone, che ne abbiamo 29, che sapete solo rubare. Normale dialettica tifoidea, per l’appunto, non più becera di quella coltivata ormai in ogni angolo del paese. Ma è andata talmente al di là sabato sera, la curva juventina ( e non solo la curva), che a qualcuno è persino tornata in mente una regola, codificata dall’Uefa, che prevede in casi di particolare aberrazione la pura e semplice sospensione della partita.
La Juve si è scusata, per iscritto. Un bel passo avanti rispetto a un anno fa, quando scriveva in Fgci per denunciare una congiura arbitrale. Anche un bel gesto, si capisce, forse ancor più apprezzabile fosse arrivato a caldo, di getto: non quando si è cominciato a parlare di squalifica del campo.
Ma sono dettagli. Quello che conta è la prevenzione: E il mio slogan, dopo mezzo secolo di calcio gustato dal vivo, è diventato: se li conosci (gli stadi, e i loro frequentatori) li eviti.
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Posté par atempodiblog le 7 avril 2009
Il dono più grande
di Anna
Tratto dal blog di Anna
Non ho mai avuto occasione di fermarmi e pensare a tutto quello che sono capace di fare.
Ma c’è stato un momento in cui ho dovuto rivalutare me stessa, forse per il semplice motivo che avevo bisogno di una piccola pillola di autostima per ingranare quella marcia che si è rivelata alquanto decisiva e che ha dato così più gas al mio motore.
E così pensando, mi sono stesa su erba fresca primaverile, ho messo le mani dietro la nuca e, con l’ipod nelle orecchie, ho chiuso gli occhi facendo scorrere diapositive nella mia mente.
Tutte rigorosamente a colori.
Il soggetto principale?! IO
Mi rivedo così seduta dietro una scrivania tra odore di inchiostro e forti emozioni sprigionate da singole parole.
Mi rivedo dietro una fila di appunti e libri enormi.
Mi rivedo seduta ad una sedia a correggere un verbo coniugato male.
Mi rivedo circondata da occhi che hanno voglia di esplorare le meraviglie del mondo.
Mi rivedo a pigiare tasti neri e bianchi intonando un motivetto che a volte mi ritrovo a definire melodia.
Mi rivedo seduta in un bar a ridere di un’avventura bizzarra di un caro amico.
Mi rivedo attaccata ad un telefono a promettere che sarà per sempre.
Mi ritrovo in ginocchio con le mani congiunte respirando il dolce incenso della pace spirituale.
Mi ritrovo con le lacrime agli occhi quando un saluto diventa un addio.
Mi ritrovo col naso infarinato e in compagnia di pentole e mestoli.
Mi ritrovo in una stanza di musica ed un corpo vellutato di note.
Un collage di diapositive che ritraggono « pieces of me ».
A quanto pare non riesco a starmene con le mani in mano.
Ma ho dovuto fare stop sul film della mia vita per rendermi conto delle mie capacità.
Ripensare che sono state molte le volte in cui mi sono ripetuta, convincendomi anche, che non sono in grado di fare nulla.
Forse dovuto anche alle influenze negative.
Sono contenta di aver rivalutato il tuttoe credo di essere, tutto sommato, abbastanza soddisfatta.
Ora non c’è giorno in cui non mi ripeta che ce la posso fare, anche da sola!!
E concedetemi un piccolo ma dovutissimo ringraziamento.
Un ringraziamento che non si espanderà a tutti coloro che voglio bene e che mi sono vicini.
No, questa volta il mio ringraziamento va ben oltre, senza nulla togliere agli affetti cari.
Il ringraziamento dovuto è al Signore.
Colui che ha dovuto sopportare i miei lamenti, le mie eterne insicurezze, le diecimila paure che mi hanno resa fragile dove c’era bisogno di sostenere e non essere sostenuti.
Colui che ha ascoltato le mie lacrime, che ha dato sfogo alla mia rabbia.
Colui che ha fatto sentire il calore di una carezza data da un angelo che ha mandato sulla terra per me.
Ho sempre dubitato delle mie, come si suol dire, doti.
Molte le volte in cui non mi sono sentita all’altezza.
Ma Lui non ha perso mai la speranza e ora credo di capirlo anche io.
Ripensando alle volte in cui mi sono arrabbiata con Lui quando le cose mi andavano a rovescio mi fa sentire un pò stupida.
Come pensare che sia Lui la causa dei miei errori?!
Fortunatamente sono crescuita, anche sotto molti aspetti.
E quindi mi ritrovo quì, sperduta tra i colori delle mie diapositive, a ringraziare Colui che mi ha dato il dono più grande: la VITA!!
Semplicemente grazie!!
Anna
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Posté par atempodiblog le 6 avril 2009
NON SIAMO SOLI
Le catastrofi naturali, che ogni tanto si verificano in varie parti del mondo, portando distruzioni e morti, suscitano sempre angoscianti interrogativi cui è difficile dare una risposta. L´uomo si sente smarrito, inquieto, tormentato da dubbi. Padre Tommaso Toschi, francescano di Bologna, prendendo spunto dai recenti terremoti, ha scritto questo articolo, che, denso di umana comprensione, è ammirevole per chiarezza e precisione dottrinale. E´ una di quelle pagine illuminate da conservare e leggere spesso.
Tratto da: Medjugorje Torino – medjugorje.it
Dinanzi alla tragedia dei recenti terremoti si resta increduli e sgomenti. Poi, segretamente, ci si interroga sui limiti della condizione umana. Nati per vivere e con l´anelito alla felicità, ci illudiamo di essere arbitri del nostro destino e di avere il dominio del mondo. Invece, la morte inattesa è sempre in agguato.
Nessuno ha lumeggiato questa realtà con maggiore efficacia di Giacomo Leopardi, il poeta più lucido, più rigoroso, più amaro d´Italia. Nel Canto notturno di un pastore errante dell´Asia così si esprime: « Che fai tu, luna in ciel? Dimmi che fai silenziosa luna? ». Il poeta si rassegna alla « infinita vanità del tutto ». Traspare però in lui un´appassionata nostalgia di una luce che illumini e giustifichi la vita effimera dell´uomo.
Le scene crudeli dei terremoti, come il dolore e la morte degli innocenti, pongono un serio interrogativo. Lo esprimeva con concretezza in questi giorni un amico, mostrandomi la foto di una mamma e di una bimba sotto le macerie e additando il cielo: « Come vedi, Egli tace ». « Egli » evidentemente era Dio che dinanzi al dolore innocente tace, non interviene.
Il problema del silenzio e del non intervento di Dio da sempre ha angustiato il credente. Qual è la risposta secondo la fede cristiana? Procediamo con chiarezza e brevità. Primo: Dio ha creato l´uomo per la felicità. Non ha voluto e non vuole la sofferenza umana.
L´uomo è stato creato libero. Ne ha abusato, disobbedendo a Dio. E´ il peccato originale. Da questa disobbedienza derivano il male e la morte, che hanno assunto talvolta forme spaventosamente crudeli.Ma Dio è venuto in aiuto agli uomini. Dio nella persona del Verbo incarnato, Gesù di Nazareth, ha sofferto ed è morto nella sua natura umana. In senso vero e non metaforico.
La croce di Gesù è la risposta di Dio al problema della sofferenza umana. Egli, innocente, ha associato a sé gli uomini nel suo dolore.
Così nessuna lacrima è versata invano e nessun grido di dolore si perde nel nulla. Come dice Blaise Pascal: « Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo ».
Con Gesù agonizzante ogni uomo è salvato e, con la sua sofferenza, contribuisce al miglioramento del mondo.
Gesù è il Salvatore unico e universale: la salvezza è anche per i maomettani e per i seguaci di ogni religione, perché tutti sono figli di Dio.
Dopo la morte in croce di Gesù, la sofferenza umana è riscattata dalla sua assurdità. Per quale ragione? Semplice. Colui che è morto, è risorto ed è veramente, realmente, corporalmente vivo. Ha detto: « Chi vive e crede in me, non morrà in eterno ». L´ultima e definitiva parola della fede non è la morte, ma la vita. Una vita eterna nella gioia.
Sulle scene terrificanti dei terremoti d´oggi, così come, oltre mezzo secolo fa, sui campi di sterminio nazisti e comunisti di Auschwitz e delle isole Solovki, riecheggia un interrogativo: « assenza di Dio? ». La ragione, da sola, non ha una risposta. La dà Colui che affermò: « Io sono la via, la verità, la vita ». Con la sua morte e con la sua risurrezione Gesù risolve tutte le difficoltà. Cristo è tutto per l´uomo di ieri, di oggi, di domani.
Nelle cupe disperazioni brilla una certezza: l´uomo non è lasciato solo al suo tragico destino. C´è una data decisiva nella vicenda umana. E´ quella delle ore 15 del venerdì santo. In quell´ora il Figlio di Dio, morì perché gli uomini di tutti i tempi potessero vivere. Diego Fabbri così conclude il suo capolavoro « Processo a Gesù »: « E´ certo che Lui, Lui solo, alimenta e sostiene da quel giorno tutte le speranze del mondo ».
di Padre Tommaso Toschi
medjugorje.it/nss/data/81/eventi/extpage_8438.html
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Posté par atempodiblog le 26 mars 2009
Per uscire da ogni difficoltà, si deve passare attraverso di essa!
Tratto da: webalice.it/gospodine/QUARESIMA_2009.html
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Posté par atempodiblog le 4 février 2009
[...] negli ultimi mesi i messaggi della Regina della pace hanno assunto un tono di preoccupazione materna sulla quale non possiamo sorvolare.Nel messaggio del 25 ottobre ci invitava a pregare “perché si fermi il piano di satana su questa terra, che é ogni giorno più lontana da Dio, e mette se stesso al posto di Dio e distrugge tutto ciò che è bello e buono nell’anima di ognuno di noi”.
Nel messagio de 25 novembre ci invitava a pregare “senza sosta per questo mondo turbolento senza speranza”.
Nel messaggio del 25 dicembre ci invitava a pregare Gesù perché ci “aiuti a comprendere che senza di lui non avete futuro”.
Nel messaggio del 2 gennaio la Madre ci ammoniva dicendo: “Mentre la grande grazia celeste si spande su di voi, il vostro cuore rimane duro e senza risposte”.
Nel messaggio del 25 gennaio squilla l’allarme: “Io sono con voi così a lungo perché siete sulla strada sbagliata. Soltanto col mio aiuto, figlioli, aprirete gli occhi”.
Nel messaggio del 2 febbraio la Madonna ci avverte che il tempo della pazienza di Dio ha un termine e ci ammonisce: “Non perdete tempo, figli, perché non ne sieti padroni”.
Che fare? Stare vicini al suo Cuore e a quello di Gesù, con la preghiera, la fede, la vita cristiana. “Dio vi ha scelto – ci ricorda la Madonna – per realizzare i suoi grandi progetti” (02-12-08). Coraggio!
di Padre Livio Fanzaga
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Posté par atempodiblog le 24 janvier 2009
Costruire una vita felice nella forza elementare della vita
di Claudio Risé
Tratto da: ilmattino.it
I bravi ragazzi ci sono ancora. Le loro buone azioni, però, fanno notizia per un solo giorno, diventano un breve spot pubblicitario sul «bene», per lasciar subito spazio alle consuete celebrazioni dei soliti «cattivi e cattive ragazze» che, come dicono molte pubblicità: «Vanno dappertutto».
Come mai questo diverso trattamento del sistema di comunicazione, che a parole deplora il male, ma poi non si occupa granché di chi lo contrasta, non presenta la sua vita come esempio per gli altri? Prendiamo la storia di Ermir.
Diciassette anni, vive e studia al quartiere Laurentino di Roma, dove è arrivato dall’Albania 10 anni fa con la mamma, che ha potuto allora ricongiungersi al marito, meccanico. Ermir qualche giorno fa ha rischiato di farsi ammazzare per difendere un compagno, aggredito sul campo di basket del liceo da tre bulli con coltello e pistola. Un fendente gli ha perforato il polmone; è grave, ma ce la farà.
«Non potevo restare fermo e lasciarlo solo», ha raccontato uscendo dalla sala operatoria, «volevano fare del male al mio amico». Questa è la visione della vita del bravo ragazzo: il male da contrastare, il bene da favorire, gli affetti, come, appunto, l’amicizia, da mettere sempre al primo posto. Una visione molto semplice, netta, senza tante storie e tanti ragionamenti.
Anche se non la conosce, né ci pensa, un ragazzo così mette in pratica istintivamente l’esortazione di Gesù nel vangelo di Matteo: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il resto viene dal diavolo».
Forse è proprio per questa semplicità, così lontana dagli intorcinamenti pseudo psicologici dei trionfatori dei reality show, che il sistema delle comunicazioni punisce questi eroi di tutti i giorni, lasciandoli affacciare alla cronaca quando salvano la vita a qualcuno, ma poi condannandoli rapidamente al silenzio. Come si fa, infatti, a costruire una «tendenza» sulla semplice bontà?
Per fare tendenza ci vogliono (si pensa) cose complicate: bizzarrie sessuali, pettegolezzi, dispetti, carognate di cui i media possano parlare a lungo; raccogliendo testimonianze, personaggi di contorno; promuovendo consumi, gadgets, luoghi di ritrovo, meglio se un po’ ambigui e «maledetti».
Nel personaggio Ermir, invece, tutto questo manca. Qui non c’è nulla di superfluo, non ci sono optional. Una storia di autenticità: la lotta per la sopravvivenza nella povertà, il padre meccanico che viene da Durazzo a Roma, la famiglia che lo raggiunge, tutti che fanno la loro parte, con intelligente prontezza, e, di nuovo, senza far storie.
Ermir, per esempio, che è bravissimo a smontare e rimontare i motorini, per ora impara a scuola tutto quello che c’è da imparare, e poi farà l’ingegnere meccanico. Tutto semplice e lineare. Com’è caratteristico della forza vitale: una volta riconosciuta, e nutrita con gli affetti e le spinte elementari dell’esistenza (la fame, l’amore, la volontà di affermarsi per come si è), si sviluppa e si esprime. Il resto, il superfluo (che spesso è la materia prima dei commenti mediatici), qui manca del tutto.
Infatti, la forza è, da sempre, nelle cose, sentimenti e personaggi, semplici. «O sole mio», canzone tra le più amate e cantate in tutto il mondo, è semplicissima: «’O sole mio sta nfronte a te». Elementare, ogni innamorato lo pensa, da sempre.
«Non potevo restare fermo e lasciarlo solo, volevano fargli del male». Quintali di discorsi inutili polverizzati da un sentimento, e un comportamento conseguente. Persone così, fedeli alla forza elementare della vita, possono andare più lontano che da Durazzo a Roma: possono, con qualche rischio, costruire una vita felice.
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Posté par atempodiblog le 29 décembre 2008
Perché anche i cristiani a Natale si scambiano i regali?
di Don Dario Criscuoli (Parrocchia di San Ireneo, Roma)
Quella dello scambio di doni è un’antica tradizione che appartiene non solo alla fede cattolica. I Romani, ad esempio, avevano l’abitudine di scambiarsi regali nei primi giorni del nuovo anno e così pure avveniva nel periodo medioevale durante la festa di San Nicola. La tradizione dello scambio dei doni ha, quindi, un’antica e consolidata tradizione e non va pertanto condannata. Oggi molti, soprattutto in occasione del Natale, vivono però quello che definirei uno “stress da regali”. Per la fede cattolica la novità consiste nel fatto che il gesto di fare il regalo è la risposta ad un inestimabile Dono che il Cristiano ha ricevuto e accolto e da cui è stato appagato. E’ Dio stesso infatti che a Natale si dona all’uomo regalandogli il suo Figlio Gesù. E’ Cristo che vuole placare quella fame e quella sete che con disinvoltura l’uomo tenta di saziare attingendo a fonti impure e nocive.
A Natale viene il Signore e si dona a noi! Non possiamo dimenticarlo!!! Viene a svegliarci dal sonno, a strapparci dal torpore, a sostenerci nella fatica, a vincere inutili tristezze. Viene a combattere con noi e per noi. Viene per illuminare gli angoli oscuri della nostra vita, per strapparci dalla disperazione, per spalancare le porte della Speranza. Ci invita a dargli spazio, ad accoglierlo nella nostra “grotta interiore”. Dio si regala a noi! Viene a riaprirci il cielo, a colmare i nostri vuoti, a sanare le ferite, a guarire i traumi , a vincere paure e terrori, a svegliarci dalla superficialità. “E’ ormai tempo di svegliarsi dal sonno” dice San Paolo. Forse stiamo dormendo, stiamo immersi nella notte, stiamo attraversando momenti bui nell’amore, nel matrimonio, in famiglia, nel lavoro, o anche nella fede. Cristo nasce e si dona a noi per portare la sua luce. Accogliamo questo dono e attendiamo Cristo che viene. Solo se accogliamo Cristo come un regalo per noi potremo esprimere la gioia del dono ricevuto facendo regali agli altri. Nessuno di noi può dare ciò che non possiede. Mettiti allora nell’attesa di Cristo che viene! Che non ti succeda che viene il Signore e tu non te ne accorga! Che non ti capiti che nello stress del regalo non ti accorga che Dio ne ha pensato UNO per te! Auguri di buon Natale a te e alla famiglia.
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Posté par atempodiblog le 18 décembre 2008
Natale di persone… che hanno la statura dei propri desideri…
Tracce – ’96
Quando inizia un anno nuovo ci si profonde in auguri di ogni felicità, di bene, ecc. Potremmo dire che si tratta, in genere, di una consuetudine poco seria. Nel senso che raramente quelle parole – bene, felicità – vengono prese seriamente. Sono un modo di dire.
Quando in un popolo le parole più serie e importanti, che esprimono ciò per cui vale la pena vivere e anche offrire la propria vita, divengono vuoti modi di dire, allora significa che quel popolo è diventato schiavo, e schiavo nel cuore. La schiavitù del cuore si chiama «plagio». E, infatti, viviamo in una società invasa, attraverso i media, da una cultura per cui la felicità e il bene sono dei sogni o dei momenti effimeri; al massimo, sono cose di cui provare una struggente, ma sterile nostalgia.
Siamo tutti plagiati e proprio nella concezione di ciò che è più caro all’uomo. Non a caso questa è l’epoca di maggiore schiavitù: un uomo plagiato nella concezione di felicità si adatta molto facilmente a ciò che il potere e la mentalità dominanti gli presentano come simulacro della felicità.
In una cultura così – che si manifesta innanzitutto come costume – chi ancora conferisce un significato a certe parole e persegue ciò che esse indicano risulta un po’ matto e come tale va isolato, se possibile espulso.
Il cristiano è l’uomo che ricorda al mondo il valore vero di ciò che indicano quelle parole. Entra in polemica col mondo poiché ricorda ciò che tutti, plagiati, vorrebbero scordare. Non ha intenzioni polemiche: la Chiesa, nei Cori da « La Rocca » di Eliot, non entra in scena polemizzando, ma considerando e condividendo «l’infinita fatica» di essere uomini. Ma è il mondo a stabilire i termini inevitabili della polemica, intimando al cristiano, come già a Paolo nell’Areopago, di lasciar stare certi discorsi e di non toccare certe questioni. Già Nietzsche si scagliava contro «l’ardente desiderio del vero».
Non si tratta di una polemica ideologica: innanzitutto, il cristiano non oppone al mondo una certa «idea» di felicità, né organizza tavole rotonde per mettersi d’accordo sui termini di un discorso. Egli propone un’esperienza di bene e di felicità così come gli è resa possibile dall’incontro con la persona di Cristo, viva oggi nella storia in persone che hanno la statura dei propri desideri. È un incontro che libera da qualsiasi schema del mondo sul bene e sulla felicità, proprio perché in esso si registra, ragionevolmente, una corrispondenza inedita con ciò che il cuore, pur sepolto nel plagio generale, non cessa di desiderare. Così, anche la madre nella discrezione della sua casa e il timido ragazzino nella sua classe, per il fatto stesso di aver incontrato Cristo e di aver ripetuto nella penombra del loro cuore lo stesso «sì» di san Pietro, realizzano una ribellione contro la schiavitù del mondo e fissano il punto di riscossa della libertà. Si tratta di una riscossa che può estendersi fino agli estremi confini del mondo – dall’Argentina alla Siberia – e ai più capillari aspetti del vivere personale e sociale.
In un’epoca in cui l’odio del mondo non cessa di attaccare con sempre maggiore astuta pervicacia la presenza viva del Dio fatto uomo, l’alternativa quotidiana dinanzi a cui siamo messi è quella tra plagio e libertà. E l’essere stati scelti per un’esperienza di libertà non è un ergersi guerresco contro il mondo, quanto piuttosto l’esercizio di una inesausta pietà, per una battaglia, pur così piena di limiti e di mancanze, per il mondo.
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Posté par atempodiblog le 16 décembre 2008
Natale
Tutto in quella notte
Andrea Tornielli – Tracce
Il viaggio a Betlemme di Maria e Giuseppe. La ricerca di un posto dove vivere la nascita di Gesù in riserbo e segretezza. L’avvenimento che divide in due la storia dell’uomo
«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città» (Lc 2,1-4). Sono tutte in queste scarne righe del Vangelo di Luca le notizie riguardanti la data di nascita di Gesù, le circostanze storiche dentro le quali l’Eterno è entrato nel tempo assumendo in tutto, fuorché nel peccato, la nostra natura umana.
Il senatore Sulpicio Quirinio, citato da duemila anni nelle letture delle liturgie natalizie, era nato a Lanuvio, vicino a Tuscolo, e aveva governato a Creta e a Cirene. Lo storico romano Tacito conferma che, divenuto console nel 12 a.C., Quirinio fu governatore di Siria come legato imperiale, però colloca lo svolgimento di questo suo incarico negli anni 6-7 d.C., cioè diverso tempo dopo la nascita del Salvatore. Per risolvere il problema alcuni esegeti hanno pensato di tradurre in questo modo il brano di Luca: «Questo censimento avvenne prima (di quello avvenuto) governando la Siria Quirinio». Ma un’iscrizione frammentaria scoperta a Tivoli alla fine del Settecento, secondo l’abate Giuseppe Ricciotti (autore della Vita di Gesù Cristo), offre una base sufficiente per affermare che Quirinio era già stato una volta legato in Siria qualche anno prima dell’era volgare e che aveva indetto il primo censimento, protrattosi per più anni e portato a termine dal suo successore Senzio Saturnino. La registrazione di tutti gli abitanti della Palestina avvenne secondo il modo giudaico: tutti i censiti dovevano iscriversi nei propri luoghi di origine e non nel territorio dove vivevano, come invece sarebbe accaduto se si fosse adottato il metodo romano.
«Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazareth e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa che era incinta» (Lc 2,4-5). Le tribù ebraiche si dividevano in grandi famiglie e queste ultime in casati paterni; e ovunque andassero ad abitare, i nuovi gruppi familiari conservavano con tenacia il ricordo del ceppo originario. Betlemme (Beth-lehem, originariamente Beth-Lahamu, cioè “casa del dio Lahamu”, divinità babilonese, poi interpretata in senso ebraico beth-lehem cioè “casa del pane”) era un piccolo centro che distava nove chilometri da Gerusalemme e all’epoca di Gesù non doveva contare più di mille abitanti, per lo più pastori e contadini. Era però un luogo di passaggio per le carovane che da Gerusalemme si dirigevano in Egitto, tanto che fin dai tempi antichi il figlio di un amico del re Davide, Chamaam, vi aveva costruito un caravanserraglio (in ebraico geruth, “foresteria”).
In viaggio per il censimento
Betlemme dista da Nazareth circa 150 chilometri e il viaggio di Giuseppe e Maria non deve essere durato meno di tre-quattro giorni. Non sappiamo se l’obbligo di legge prevedeva anche la presenza della sposa, oltre a quella del capofamiglia. Ma dalle parole di Luca si può intuire che la gravidanza avanzata doveva aver consigliato, comunque, il fatto che la madre del Salvatore non fosse lasciata sola. Inoltre già l’angelo dell’annunciazione aveva predetto a Maria che al nascituro «il Signore Dio darà il trono di Davide suo padre», e ciò rappresentava una ragione in più perché il parto avvenisse proprio a Betlemme, la città che il profeta Michea nelle Scritture aveva indicato come patria del messia d’Israele. Si può immaginare che le strade fossero in condizioni abbastanza disastrate e affollate da famiglie in movimento a causa del censimento. Nella migliore delle ipotesi – osserva il Ricciotti – i due coniugi avranno avuto a disposizione un asino, caricato delle cibarie e delle vettovaglie necessarie per il viaggio. Un viaggio non facile per Maria, che stava ormai per partorire. I tre o quattro pernottamenti saranno stati fatti in qualche casa di amici o più probabilmente nei luoghi pubblici di sosta, a cielo aperto, fianco a fianco con gli altri viandanti, gli asini e i cammelli. Giunti a Betlemme, Giuseppe e Maria trovarono la città di Davide stracolma di gente. Anche il caravanserraglio, tradizionale luogo di ospitalità per i viaggiatori, era sovraffollato. «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7). L’albergo o locanda (to kataluma nel greco di Luca) altro non era che il caravanserraglio: uno spazio a cielo aperto, circondato da un muro piuttosto alto. All’interno, attorno al cortile, correva un portico che offriva riparo ed era a tratti chiuso da muretti. Si creavano così delle stanzette, riservate a chi poteva permettersi di pagare per avere una maggiore intimità. L’evangelista nota che «non c’era posto per essi nell’albergo». Secondo l’abate Ricciotti questa frase è più studiata di quanto appare a prima vista. È difficile immaginare che nel caravanserraglio o in tutta Betlemme non vi fosse un angolo per accogliere i due sposi. Quel «per essi» potrebbe però indicare che in quei giorni e in quelle circostanze, con il sovraffollamento e la totale promiscuità che si viveva nei luoghi pubblici e nelle povere abitazioni di Betlemme, ciò che mancava a Maria era un posto dove vivere la nascita di Gesù in riserbo e segretezza. Luca si limita a scrivere che «Maria diede alla luce suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia». La mangiatoia suppone una stalla e le stalle, nella povera città di Davide, erano piccole grotte scavate nella roccia nei dintorni delle case o nelle colline che circondavano Betlemme.
Quei gesti materni
Giuseppe e Maria si accomodarono “alla bell’e meglio” in una di queste tetre grotte accanto a qualche bestia. Dalle parole dell’evangelista si deduce che il parto avvenne senza l’aiuto di altre persone. La madre stessa accudisce il neonato, lo avvolge nelle fasce e lo depone nella mangiatoia, dove Giuseppe, che neppure è nominato, avrà disposto della paglia pulita. «Il testo lascia intuire un parto facile e ben condotto. E i primi gesti materni Maria li sa fare d’istinto, come ogni donna», scrive René Laurentin nella sua Vita autentica di Gesù Cristo. L’accenno al «figlio primogenito» non deve trarre in inganno e far supporre che la Madonna abbia avuto altri bambini: “figlio primogenito” (in ebraico bekor) è, infatti, un termine tecnico, di particolare importanza giuridica, perché il primogenito ebreo doveva essere presentato al Tempio, circostanza che Luca descrive nei capitoli successivi.
Il Messia d’Israele viene, dunque, al mondo nella semioscurità di un’appartata grotta scavata nella roccia. È un sovrano così diverso dall’Erode che regna su Gerusalemme circondato di lussi nel suo palazzo dorato. Ma anche quel bambino indifeso, quel re d’Israele nato in circostanze così umili, ebbe l’omaggio dei suoi primi “cortigiani”. Sudditi di condizione sociale non molto differente da quella dello stesso re Davide, già pastore di pecore. Betlemme sorgeva e sorge al limitare della steppa. Se è vero che molti capi di bestiame la notte venivano fatti rientrare nelle grotte, è altrettanto vero che molte greggi rimanevano continuamente all’aperto, giorno e notte, estate e inverno. Gruppi di uomini li sorvegliavano e vivevano con loro per tutto il tempo. «Pecorai di tal genere – scrive il Ricciotti – riscuotevano una pessima reputazione presso i Farisei e gli Scribi: in primo luogo la loro stessa vita nomade nella steppa scarseggiante d’acqua li rendeva lerci, fetenti, ignari di tutte le fondamentalissime leggi sulla lavanda delle mani, sulla purità delle stoviglie, sulla scelta dei cibi. Essi più di chiunque altro costituivano quel “popolo della terra” che era degno per i Farisei del più cordiale disprezzo; inoltre passavano per ladri tutti quanti, e si consigliava di non comperare da loro né lana né latte che potevano essere cose refurtive».
Il bambino in fasce
«C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano tra loro: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Andarono dunque senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che di quel bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,8-20). L’Altissimo fatto carne, l’avvenimento (Luca usa il termine rhema, che ricalca l’ebraico dabar e ha il doppio significato di “parola” e “avvenimento”) che divide in due la storia dell’uomo, il Messia tanto atteso dal fedele popolo d’Israele si manifesta innanzitutto ai pastori “lerci e fetenti”, progenie di quel re-pastore che fu Davide. È l’imperscrutabile metodo di Dio, così diverso e lontano da ogni immaginazione umana: l’infinitamente grande abbraccia l’infinitamente piccolo. Avvertiti dall’angelo, i pastori accorrono alla grotta. «Essendo poveri di denaro ma signori di spirito – fa osservare ancora il Ricciotti – non chiedono nulla, e ritornano senz’altro alle loro pecore: soltanto sentirono un gran bisogno di lodare Dio e di far sapere ad altri del posto quanto era accaduto». Avranno lasciato, ai piedi del neonato, un po’ di lana e un po’ di latte. Quei prodotti che i Farisei consideravano refurtiva.
Dall’omelia di Giovanni Paolo II a Betlemme nella piazza della Mangiatoia, antistante la Basilica della Natività. 22 marzo 2000
«Non temete, ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
La gioia annunciata dall’angelo non è qualcosa che appartiene al passato. È una gioia di oggi, dell’oggi eterno della salvezza di Dio, che comprende tutti i tempi, passato, presente e futuro. All’alba del nuovo millennio siamo chiamati a comprendere più chiaramente che il tempo ha un senso perché qui l’Eterno è entrato nella storia e rimane con noi per sempre.Il bambino appena nato, indifeso e totalmente dipendente dalle cure di Maria e di Giuseppe, affidato al loro amore, è l’intera ricchezza del mondo. Egli è il nostro tutto!
L’opera della nostra redenzione si dispiega nella debolezza.
Dov’è dunque il dominio del «Consigliere ammirabile, Dio potente e Principe della pace» di cui parla il profeta Isaia? Qual è il potere al quale si riferisce Gesù stesso quando afferma: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18)? Il Regno di Cristo «non è di questo mondo» (Gv 18,36). Il suo Regno non è il dispiegamento di forza, di ricchezza e di conquista, che sembra forgiare la storia umana. Al contrario si tratta del potere di vincere il Maligno, della vittoria definitiva sul peccato e sulla morte. È il potere di guarire le ferite che deturpano l’immagine del Creatore nelle sue creature. Quello di Cristo è il potere che trasforma la nostra debole natura e ci rende capaci, mediante la grazia dello Spirito Santo, di vivere in pace gli uni con gli altri e in comunione con Dio. «A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). È questo il messaggio di Betlemme, oggi e sempre. È questo il dono straordinario che il Principe della Pace ha portato nel mondo duemila anni fa.
Nella grotta di Betlemme, è «apparsa infatti la grazia di Dio» (Tt 2,11). Nel Bambino che è nato, il mondo ha ricevuto «la misericordia promessa ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (cfr. Lc 1,54-55).
Un seme nella terra non si riconosce, non si riconosce da tutti gli altri pezzetti di terra, perché un seme nella terra è come un grano di terra. E il Signore è entrato nel mondo come un seme dentro la terra. Lo stupore e il brivido che abbiamo provato a Nazareth di fronte alla grotta dell’Annunciazione, o nella casetta di San Giuseppe, o qui nella grotta di Betlemme, è che tutto è avvenuto senza alcun clamore umano.
Questo seme prorompe dapprima in modo apparentemente insensibile, ma poi, dopo duemila anni, ne siamo investiti umanamente, ragionevolmente, affettivamente; attivamente investiti, e trasformati da esso innanzitutto nella mentalità. E infatti, la prima parola che dirà quel bambino diventato giovane sarà la parola metanoia, un modo di pensare e di sentire diverso. Ma non si può dire che sia un pensare e un sentire non umano: è un pensare e un sentire più umano, altrimenti noi non vi aderiremmo, non potremmo aderirvi, perché quello che cerchiamo è l’uomo.
Dove Dio costruisce la dimostrazione finale del Suo dominio? In ognuno di noi. È incominciato in noi come un cenno, come una parola, come un richiamo piccolo, fragile, quasi irriconoscibile nella sua verità e nella sua potenza irriducibile, come un seme dentro la terra. Il Signore usa questo metodo. E san Paolo lo ricorda tante volte. Il Signore usa questo metodo per dimostrare che la potenza non è nostra, non sta nella nostra intelligenza, non è una nostra forza, ma è Suo Potere.
Ma secondo quali modalità questo seme si è sviluppato e si è imposto agli occhi del mondo? È la seconda osservazione che volevo fare, e questa grotta dei Santi Innocenti ce la ricorda: la testimonianza. La testimonianza che è un atteggiamento, si tratti del vivere o del morire: vita e morte non avrebbero nessun significato se non ci fosse Cristo. Noi dobbiamo tendere a sviluppare il seme che è stato messo dentro la terra della nostra umanità, perché niente corrisponde alla nostra umanità più di questo seme.
(Don Giussani, in: Luigi Amicone, Sulle tracce di Cristo, Bur 2000)
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Posté par atempodiblog le 3 décembre 2008
I fuochi d’artificio non sono giocattoli
Nella maggior parte dei casi si tratta però di prodotti artigianali che non rispettano le norme di sicurezza.
Malgrado la campagna di sensibilizzazione negli ultimi anni, ancora molti sono gli accessi in Ospedale per danni conseguenti all’utilizzo di questi prodotti, quali traumi, lesioni da scoppio, ustioni, danni oculari.
Gli accessi ai Pronto Soccorso in età pediatrica rappresentano circa 1/3 di tutti gli accessi per danni conseguenti ad utilizzo di fuochi d’artificio e sono nettamente più frequenti nel sesso maschile.
Mentre gli incidenti negli adulti sono più concentrati intorno alla mezzanotte di Capodanno, nei bambini sono più frequenti il primo giorno dell’anno conseguentemente alla raccolta di fuochi inesplosi.
Oltre ai provvedimenti delle Forze dell’Ordine atte al sequestro di prodotti fuorilegge e alla campagna dei media per la prevenzione, la vigilanza dei genitori rimane fondamentale.
Dott. Antonino Reale
Unità Operativa di Pediatria dell’Emergenza
Dipartimento di Emergenza ed Accettazione
Qui di seguito vengono forniti da parte del dott. Giovanni Aliquò (Direttore Area Armi ed Esplosivi – Dipartimento della Pubblica Sicurezza) degli importanti consigli su come prevenire possibili incidenti.
Anche i prodotti pirotecnici all’apparenza più innocui possono, con i loro effetti, provocare lesioni di varia entità e natura in chi li utilizza.
È per questo motivo che è sempre vietata la vendita ai minori di 14 anni di qualsiasi prodotto pirotecnico (compresi quelli di « libera vendita ») ed, in ogni caso, il loro uso da parte di minori di 18 anni è consigliabile che avvenga sotto la supervisione diretta di un adulto.
Anche chi ha più di 18 anni, comunque, deve usare la massima prudenza nell’impiego di qualsiasi pirotecnico.
Prudenza fin dall’acquisto
Non comprate mai pirotecnici dagli sconosciuti. In particolare si deve diffidare delle bancarelle improvvisate, sulle quali spesso sono in vendita prodotti non conformi e vietati.
Chi vende prodotti pirotecnici deve essere munito di una licenza, sulla quale è sempre riportato il nome e cognome del titolare, il quale ha l’obbligo di esporla in modo ben visibile.
Se i fuochi d’artificio sono sprovvisti di una chiara e completa etichetta non comprateli ed avvertite subito il 113.
I fuochi sprovvisti di etichetta, per ciò solo, sono illegali e devono essere immediatamente ritirati dal commercio e distrutti.
Tutti i fuochi di artificio, e specialmente quelli di libera vendita, devono sempre essere provvisti di un etichetta chiara e facilmente leggibile sulla quale devono essere riportate, tra l’altro, le complete istruzioni per un uso sicuro del prodotto.
Leggete attentamente, prima dell’acquisto, le istruzioni e se non vi appaiono chiare non comprate il fuoco d’artificio.
Sull’etichetta, oltre agli estremi del provvedimento ministeriale di riconoscimento, deve essere anche presente il nome del produttore o quello dell’importatore, che sono i responsabili, per la sicurezza e la conformità del fuoco d’artificio, al modello depositato presso il « Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Ufficio per l’Amministrazione Generale – Ufficio Polizia Amministrativa – Area Armi ed Esplosivi ».
Sull’etichetta è riportata anche la « categoria » di appartenenza.
I fuochi di IV e V Categoria possono essere venduti, a particolari condizioni e da persone in possesso di una specifica licenza di polizia, solo a maggiorenni muniti di speciali autorizzazioni di polizia.
La loro vendita in forma ambulante è sempre vietata.
Questi fuochi, anche quando sono omologati, non sono mai destinati ad un uso interno (tra le pareti di casa) e, comunque, il loro corretto impiego, in relazione ai più elevati indici di pericolosità intrinseca agli oggetti, richiede speciali attenzioni ed esperienze.
In realtà i fuochi artificiali di IV e V Categoria sono per lo più destinati ad utilizzatori professionali e/o muniti di speciali competenze.
I fuochi di « libera vendita« , come detto, non possono comunque essere venduti ai minori di 14 anni.
Tale divieto è sempre riportato sull’etichetta.
Anche per l’uso di questi prodotti pirotecnici è sempre necessario usare la massima cautela, seguendo attentamente le istruzioni che devono essere riportate sull’etichetta o, in alcuni casi, sui fogli d’istruzioni che devono sempre seguire i prodotti.
In ogni caso, ricordate che i fuochi artificiali che hanno un più elevato indice di pericolosità sono quelli, non a caso normalmente chiamati “botti”, ad effetto scoppiante (raudi, tracchi, ecc.).
Prudenza nel maneggio e nell’uso
Seguite sempre, per il maneggio e l’uso, le istruzioni che devono essere riportate sull’etichetta o sugli eventuali fogli illustrativi che accompagnano il prodotto.
In ogni caso valutate attentamente le condizioni nelle quali state per utilizzare il prodotto, tenendo conto degli effetti.
I bambini non debbono maneggiare fuochi di alcun tipo (ed in particolare quelli di IV e V categoria). I fuochi di “libera vendita” possono essere utilizzati anche da maggiori di 14 anni, ma è sempre consigliabile la supervisione di un adulto.
Ricordate che anche le apparentemente più innocue « stelline » pirotecniche possono, se maneggiate senza le dovute attenzioni, causare lesioni anche gravi ad un bambino.
Non maneggiate mai fuochi di artificio in prossimità di fiamme libere di qualsiasi tipo (comprese le sigarette accese) e non collocateli né utilizzateli in prossimità di liquidi o contenitori di gas infiammabili.
Durante l’uso, se possibile, cercate di evitare di tenere in mano, in prossimità del viso o del corpo o nelle vicinanze di cose infiammabili (tende, divani, tappeti, sterpaglie secche, etc.), il fuoco artificiale.
Non dirigete mai un fuoco artificiale in direzione delle persone a voi vicine o, in caso in cui l’effetto pirotecnico preveda la proiezione a distanza (come per i razzi, ad es.), anche di case o costruzioni. Se possibile, cercate di fissare bene il fuoco artificiale ad un sostegno, controllando che la traiettoria dell’effetto pirotecnico sia libera, allontanandovi subito dopo l’accensione e godendovi a distanza lo spettacolo.
Stare distanti dai fuochi d’artificio dopo la loro attivazione non solo dà maggiore sicurezza all’utilizzatore, ma gli consente di godersi meglio gli effetti pirotecnici di luce e di suono.
Non raccogliete mai da terra fuochi artificiali apparentemente inesplosi.
Potrebbero essere difettosi ed attivarsi in condizioni tali da causare, a voi ed alle persone che vi sono vicine, gravi danni.
Dott. Giovanni Aliquò
Direttore Area Armi ed Esplosivi
Dipartimento della Pubblica Sicurezza
Ufficio per l’Amministrazione Generale
Servizio Polizia Amministrativa
Fonte: ospedalebambinogesu.it
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Posté par atempodiblog le 20 novembre 2008
A proposito di Buffon e delle suore…
di Antonio Socci – Libero
Cosa dà senso alla vita? Cosa le dà valore e gusto? Il soldi? Il successo? La salute? Per cosa vale la pena vivere? Mi ha colpito, in questi giorni, il casuale intrecciarsi sui giornali di storie apparentemente lontanissime. Tre storie.Quella di Gigi Buffon, il portierone della Juventus e della Nazionale, quella di Eluana Englaro e quella di altre due donne, Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, sequestrate cinque giorni fa in Kenia dove vivono come missionarie.
Buffon ha pubblicato un libro dove racconta la sua storia: “Numero 1”. Secondo il senso comune questo allegro giovanottone ha tutto per essere felice. Cosa gli manca? E’ il più grande portiere del mondo, ha la giovinezza, la salute, la celebrità, la prestanza fisica, il successo, i soldi, gli amori, gli amici, un lavoro che è la sua passione, perfino un carattere solare, la simpatia e il buonumore. Non gli manca niente.
Eppure proprio lui racconta come un giorno di dicembre del 2003 gli si è spalancato sotto i piedi l’abisso della depressione. Senza motivi particolari. Un velo scuro sempre più opprimente, uno smarrimento progressivo: “cosa mi succedeva?”. Racconta di momenti in cui si sentiva sprofondare: “ero impaurito… mi tremavano le gambe all’improvviso, un malessere continuo mi attraversava… come se fossi continuamente altrove”.
Quello di Buffon non è un caso strano. In forme diverse è quasi la normalità per i cosiddetti “uomini di successo”. Cesare Pavese diceva: “c’è qualcosa di peggio del fallire nei propri progetti: è riuscirci”. Perché è lì, quando sei “arrivato”, quando stringi fra le mani quello che volevi possedere, che avverti il nulla e ti scopri insoddisfatto, destabilizzato. Tanto da smarrirti.
Per superare questo senso “di paura e insicurezza” Buffon si è fatto aiutare. E comunque un giorno, d’improvviso, il sole è tornato: paradossalmente è tornato a splendere proprio con “l’orrenda partita Italia-Danimarca 0-0”, a dimostrazione che davvero il “male di vivere” non dipende da circostanze negative. Ma sta nell’anima.
L’uscita del tunnel
Oggi il celebre calciatore racconta cosa comprese all’uscita dal tunnel: “I soldi non sono tutto. In testa mi rimbalzavano queste parole. E all’improvviso capii quanto fossero vere. Mi resi conto che in certe situazioni i soldi con la tua vita non c’entrano nulla, non c’entrano coi tuoi valori, con quello che hai imparato, che impari ogni giorno e che puoi trasmettere a chi ti sta accanto”.
Quel gorgo oscuro – che sembrerebbe solo una disgrazia – in realtà gli ha lasciato un regalo prezioso, una consapevolezza più vera della vita, di ciò per cui vale la pena vivere. Tante cose possono farci capire meglio l’esistenza e renderci più umani e più saggi. Anche circostanze dolorose. Tutto può aprirci gli occhi e rivelarsi una carezza misteriosamente amica che dà una percezione più giusta della vita, che rende più autentici. Sì, perfino il dolore.
Proprio attraverso di esso alcuni hanno fatto incontri che hanno dato senso alla loro vita, sono diventati uomini eccezionali che danno speranza agli altri. Perle preziose. E’ il caso – per citare un altro campione del calcio – di Stefano Borgonovo che, a 44 anni, dopo la gloria dei prati verdi si è scoperto ammalato di Sla, una tremenda croce che gli impedisce ogni movimento, cosicché da tre anni vive su un letto, attaccato a un respiratore. La mentalità di oggi definirebbe tutto questo “un inferno”.
E invece chi ha incontrato Stefano, chi ha visto l’amore da cui è circondato dalla sua bella famiglia, chi ha potuto stupirsi dalla luce, dalla positività e dalla forza che emanano dal suo volto, come tanti amici calciatori (a partire da Roberto Baggio), commossi dalla sua umanità (due mesi fa gli hanno dedicato una partita allo stadio di Firenze, con lui a bordo campo) ebbene chi lo ha incontrato testimonia che è difficile trovare un uomo così vero, umano e appassionato alla vita. Uomini così sono la speranza del mondo.
Sembra incredibile, ma c’è un’impressionante quantità di persone così speciali che – nella malattia – vivono una vita più piena e umana di noi che magari scoppiamo di salute, ma non sappiamo perché siamo al mondo. Si può fare a meno di tutto, ma non del senso dell’esistenza. Che è la cosa essenziale e misteriosa che ti manca quando sembra non ti manchi niente. Tutto in noi lo desidera, lo cerca. Siamo come mendicanti, senza saperlo.
Non sapere chi sei e perché stai al mondo, non percepire l’utilità della tua esistenza, non sentirsi amati e non amare: questo è l’inferno. Non la mancanza di denaro o di salute.
Spettro della solitudine
Soldi, successo e salute non mettono al riparo dalla solitudine, dalla tristezza e dalla disperazione. Anzi, la nostra epoca mostra il contrario. Lo prova l’uso industriale che nelle società opulente si fa di psicofarmaci, alcol e droghe, cioè di trucchi chimici per eludere il “male di vivere”. L’uso compulsivo e congestionato del sesso, che caratterizza il nostro tempo di pornomania di massa, è un’altra droga per anestetizzare la solitudine, la sensazione d’inesistenza che ci avvolge.
Non c’è sciagura più grande, diceva Teilhard de Chardin, della perdita del gusto di vivere. Questa infelicità è un’epidemia dilagante. Nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più “colpita” sia il Nord-Est (Friuli 9,8 per cento), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 per cento). Prova ulteriore che davvero non è il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a definire l’infelicità.
Per questo mi chiedo se la rappresentazione del presente che continuamente facciamo su giornali e televisione sia giusta. Non parliamo che di soldi, di bollette, di mutui, di sprechi, di tagli, di questioni sociali. Cose importanti – sia chiaro – ma la realtà è tutta qui? Noi siamo solo i nostri problemi sociali?
La risorsa della speranza
Siamo sicuri che il benessere che inseguiamo, come meta unica e assoluta, sia veramente la felicità? Certi ripetitivi programmi di informazione fanno pensare a una battuta di Bruce Marshall: “Oggi la gente vive nel benessere senza gioia. In fondo a una lunga sfilata di bollette della luce, del telefono e del gas, non intravede altro che il conto delle Onoranze funebri”.
Eppure ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne veda la filosofia marxisteggiante ed economicista che ci domina: le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, per le quali si può dare tutto, di solito sono oscurate. Perché non parlarne? Perché non raccontare le tante persone che testimoniano una speranza più grande delle difficoltà e delle sofferenze?
Dal rapimento, cinque giorni fa, delle due suore italiane in Kenia, scopriamo che ci sono fra noi persone – di cui i media non si occupano – che sono capaci di scelte di vita eccezionali, di un eroismo quotidiano (così pure le suore che da anni assistono amorevolmente Eluana). Perché lo fanno? Da cosa sono mosse? Cos’hanno conosciuto loro che noi non sappiamo? Quale tesoro hanno trovato che sa trasformare il dolore in amore? Abbiamo bisogno di saperlo, perché scoprire la speranza, per un popolo, è più importante che scoprire il petrolio.
E’ la risorsa più preziosa, come dimostra la nostra storia. Come c’insegnò don Giussani all’indomani di Nassiriya, davanti alla testimonianza della moglie del brigadiere Coletta. Nel dopoguerra avevamo un paese in ginocchio, uno stato a pezzi, un popolo sconfitto. Ed eravamo già prima una terra povera, senza materie prime. Eppure la nostra gente seppe esprimere un’energia inaudita che, nel giro di pochi anni, ci ha trasformato in una grande potenza economica. Da quali radici dimenticate è venuta quell’energia morale? Da quale speranza? Quale sconosciuta gioia di vivere sa ricostruire sulle macerie?
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Posté par atempodiblog le 14 novembre 2008
Dopo aver appreso, ieri, che Eluana è stata condannata a morte, mi è tornata in mente mia nonna e una frase che mi disse un mio amico, anni fa, guardandola sulla sedia a rotelle, divorata dall’alzheimer e con lo sguardo perso nel vuoto: « dovreste sperare che muoia così smetterebbe di soffrire ». Fu una frase che mi spaventò. Forse l’orgine della frase va cercata nei banchi di scuola, dove ti insegnano che l’uomo deriva dalla scimmia, che tutto l’essere umano è ridotto al suo corpo e che con la morte finisce tutto. Quando guardo mia nonna, che ancora oggi è inchiodata tra la sedia a rotelle ed il letto, non risco proprio a vederla come una cosa. Se la guardo vedo una storia, una vita… Ma cos’è la vita? La vita è un cammino che dal tempo va all’eternità ed il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere. Se non riusciamo a capire questo, allora la vita perde il suo significato. Forse, se non ci fossero le sofferenze ci dimenticheremo di stare con il naso in su a guardare al Cielo, ci dimenticheremmo di Dio.
Santa Faustina Kowalska nel suo diario ha scritto che ‘la sofferenza è il tesoro più grande che ci sia sulla terra. Essa purifica l’anima. Nella sofferenza conosciamo chi ci è veramente amico. Il vero amore si misura col termometro della sofferenza’.
Davanti ad una persona cara che soffre (per malattia, per disoccupazione, ecc…) si rischia spesso di perdere la serenità e questo fa si che la nostra compassione sia imbevuta di preoccupazioni che ci portano ad analisi disperante. E quando non c’è più la speranza, viene meno anche la gioia di vivere. Ma il richiamo di Dio si sente ancora oggi: « si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se questa donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (ls 49,15).
L’uomo di oggi confina Dio fuori dalla sua vita perché senza Dio è il signore di se stesso, senza Dio è padrone della vita. Così prima di nascere e durante la vita si è in pericolo con l’aborto e l’eutanasia.
Ho sentito dire che l’eutanasia è una forma di amore. Ho sentito che Eluana avrà una dolce morte, ma non è vero: morirà per agonia senza acqua e cibo. Morirà di stenti.
L’avesse saputo prima forse avrebbe accettato questa fine, ma una volta che è entrata nella sofferenza le sue idee potrebbero essere diventate diametralmente opposte. Sperimentare le sofferenze su se stessi può cambiare le persone.
Da ieri è possibile, con una sentenza di tribunale, smettere di nutrire chi con le proprie forze non può farlo. Quanti malati possono rietrare in questa casistica? Mia nonna? Anni fa, alla radio, ascoltai di un padre, ormai anziano, che scoprendosi vecchio e con un figlio diversamente abile a cui badare, ebbe il terrore di pensare che un giorno il figlio si sarebbe ritrovato senza di lui, e proiettando nel futuro angosce e paure, pensò che il figlio poteva essere atteso da giorni di dolore, così prese una rivoltella e lo sparò.
Ma chi di noi può sentenziare quale vita può essere vissuta e quale invece può essere soppressa?
Mi hanno atterrito alcune dichiarazioni secondo cui le suore che hanno amato, nutrito e vegliato su Eluana per 14 anni sarebbero crudeli. Sono frasi così assurde da sembrare false; eppure, ritornando al mio orticello, c’è chi vedendo che la mia famiglia aiuta mia nonna dandole mani per farla bere, mani per nutrirla, mani per pulirla, braccia per sorreggerla, gambe per farla camminare e occhi per cullarla… ha detto la stessa cosa. Forse lo sguardo di alcune persone attraversa gli esseri umani, ma non si ferma dentro di loro.
Troppo spesso verso i nostri cari si ha più un sentimento di paura che di amore. Amore è fidarsi di Dio che ama queste persone a noi care infinitamente di più – e meglio – di noi. Quindi se Dio tollera – anche se non vuole – alcuni mali è per preparare sempre dei beni più grandi o per evitarci dei mali maggiori. Dio da ogni male può trarre un bene più grande.
Comunque, non tutte le sofferenze vengono da Dio. Molte ce le procuriamo noi stessi. Noi che facciamo fatica a capire il male perché questo è nato dagli angeli, noi che senza le sofferenze non cercheremmo Dio…
Ci consola sapere che la sofferenza è sempre foriera di grazie. Non soffriamo da soli perché Dio facendosi uomo ha attraversato la sofferenza.
Se le sofferenze servissero a mia nonna per raggiungere il Paradiso o per avvicinare a Dio chi le è accanto, allora spero che queste continuino anche perché so che non è sola, perché con lei c’è Dio che lo ha promesso. Ma poi una persona che potesse vivere, in piena salute, 200 anni… preferirebbe essere felice nel tempo o nell’eternità che quando saranno passati miliardi e miliardi e miliardi e miliardi e miliardi di anni sarà solo l’inizio?
La promessa della vita eterna non elimina la sofferenza dalla nostra vita però le dà un significato ed una prospettiva. La sola speranza che rende vincenti sul dolore, sulla malattia, sulla vecchiaia e sulla morte.
Leon Bloy diceva che « il dolore non è il nostro fine ultimo, è la felicità il nostro fine ultimo. Il dolore ci conduce per mano sulla soglia della vita eterna ».
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