Il Santo Rosario e la bomba atomica di Hiroshima

Posté par atempodiblog le 22 février 2010

Su Hiroshima è caduta una bomba atomica.

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Lo scopo era di annientare Hiroshima per distruggere il potere militare giapponese.
Ma la Madonna, la Regina del Rosario, ha protetto miracolosamente una piccola comunità di quattro padri gesuiti, che vivevano nella casa parrocchiale, a soltanto otto isolati dal centro dell’esplosione. Padre Hubert Schiffer aveva 30 anni elavorava nella parrocchia dell’Assunzione di Maria, a Hiroshima. Ha dato la sua testimonianza davanti a decine di migliaia di persone: “Attorno a me c’era soltanto una luce abbagliante. Tutto a un tratto, tutto si riempì istantaneamente da una esplosione terribile. Sono stato scaraventato nell’aria. Poi si è fatto tutto buio, silenzio, niente. Mi sono trovato su una trave di legno spaccata, con la faccia verso il basso. Il sangue scorreva sulla guancia. Non ho visto niente, non ho sentito niente. Ho creduto di essere morto. Poi ho sentito la mia propria voce. Questo è stato il più terribile di tutti quegli eventi. Mi ha fatto capire che ero ancora vivo e ho cominciato a rendermi conto che c’era stata una terribile catastrofe! Per un giorno intero i miei tre confratelli ed io siamo stati in questo inferno di fuoco, di fumo e radiazioni, finché siamo stati trovati ed aiutati da soccorritori. Tutti eravamo feriti, ma con la grazia di Dio siamo sopravvissuti”.
Nessuno sa spiegare con logica umana, perché questi quattro padri gesuiti furono i soli sopravvissuti entro un raggio di 1.500 metri. Per tutti gli esperti rimane un enigma, perché nessuno dei quattro padri è rimasto contaminato dalla radiazione atomica, e perché la loro casa, la casa parrocchiale, era ancora in piedi, mentre tutte le altre case intorno erano state distrutte e bruciate. Anche i 200 medici americani e giapponesi che, secondo le loro stesse testimonianze, hanno esaminato padre Schiffer, non hanno trovato nessuna spiegazione a perché mai, dopo 33 anni dallo scoppio, il padre non soffriva nessuna conseguenza dell’esplosione atomica e continuava a vivere in buona salute. Perplessi, hanno avuto tutti sempre la stessa risposta alle tante loro domande: “Come missionari abbiamo voluto vivere nel nostro paese il messaggio della Madonna di Fatima e perciò abbiamo pregato tutti i giorni il Rosario. Ecco il messaggio pieno di speranza di Hiroshima: La preghiera del Rosario è più forte della bomba atomica! Oggi, nel centro della città ricostruita di Hiroshima, si trova una chiesa dedicata alla Madonna. Le 15 vetrate mostrano i 15 misteri del Rosario, che si prega in questa chiesa giorno e notte.

Un altro racconto di padre Schiffer aggiunge che avevano appena finito di dire Messa, e si erano recati a fare colazione, quando la bomba cadde:
« Improvvisamente, una terrificante esplosione riempì l’aria come di una tempesta di fuoco. Una forza invisibile mi tolse dalla sedia, mi scagliò attraverso l’aria, mi sbalzò, mi buttò, mi fece volteggiare come una foglia in una raffica di vento d’autunno. » Quando riaprì gli occhi, egli, guardandosi intorno, vide che non vi erano più edifici in piedi, fatta eccezione per la casa parrocchiale. Tutti gli altri in un raggio di circa 1,5 chilometri, si racconta, morirono immediatamente, e quelli più distanti morirono in pochi giorni per le radiazioni gamma. Tuttavia, il solo danno fisico che padre Schiffer accusò, fu quello di sentire alcuni pezzi di vetro dietro il collo. Dopo la resa del Giappone, i medici dell’esercito americano gli spiegarono che il suo corpo avrebbe potuto iniziare a deteriorarsi a causa delle radiazioni. Con stupore dei medici, il corpo di padre Schiffer sembrava non contenere radiazioni o effetti dannosi della bomba. In realtà, egli visse per altri 33 anni in buona salute, e partecipò al Congresso Eucaristico tenutosi a Philadelphia nel 1976. In quella data,
tutti gli otto membri della comunità dei Gesuiti di Hiroshima erano ancora in vita. Questi sono i nomi degli altri sacerdoti gesuiti che sopravvissero all’esplosione: Fr. Hugo Lassalle, Fr. Kleinsorge, Fr. Cieslik.
Un miracolo simile avvenne anche a Nagasaki
, dove un convento francescano – « Mugenzai no Sono » (« Giardino dell’Immacolata ») – fondato da San Massimiliano Kolbe rimase illeso come a Hiroshima. Dal giorno in cui le bombe caddero, i gesuiti superstiti furono esaminati più di 200 volte dagli scienziati senza giungere ad alcuna conclusione, se non che la sopravvivenza degli otto gesuiti all’esplosione fu un evento inspiegabile per la scienza umana.

Sapevate che nel 1945 il 70% dei cattolici giapponesi viveva a Nagasaki? Era “la città cattolica del Giappone”.

Testimonianza del prof. Hikoka Vanamuri – sopravvissuto di Hiroshima nel 6 agosto 1945 (tratto da: nelcuoredimaria): Hikoka Vanamuri, già professore all’Università di Tokio in filosofia, è stato intervistato in occasione del suo pellegrinaggio a Fatima, e così ha risposto: «Non tornerò in Giappone. Dopo anni di studi, dopo anni di meditazione ho compreso che la vita nell’atmosfera viziata di Buddha è rimasta un’inacidita testimonianza storica di paganesimo vociferante e mi sono convertito alla religione cattolica. La decisione l’ho presa dopo lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima. Ero a Hiroshima per una ricerca storica. Lo scoppio della bomba mi trovò in biblioteca. Consultavo un libro portoghese e mi venne sott’occhio l’immagine della Madonna di Fatima. Mi sembra che questa si muovesse, dicesse qualcosa. All’improvviso una luce abbagliante, vivissima mi ferì le pupille. Rimasi impietrito. Era accaduto il cataclisma. Il cielo si era oscurato, una nuvola di polvere bruna aveva coperto la città. La biblioteca bruciava. Gli uomini bruciavano. I bambini bruciavano. L’aria stessa bruciava. Io non avevo portato la minima scalfittura. Il segno del miracolo era evidente. Non riuscivo tuttavia a spiegare quello che era successo. Ma il miracolo ha una spiegazione? Non riuscivo nemmeno a pensare. Solo l’immagine della Madonna di Fatima mi splendeva su tutti i fuochi, sugli incendi, sulla barbarie degli uomini. Senza dubbio ero stato salvato perché portassi la testimonianza della Vergine su tutta la terra. Il dott. Keia Mujnuri, un amico dal quale mi recai quindici giorni dopo stabilì attraverso i raggi X che il mio corpo non aveva sofferto scottature. La barriera del mistero si frantumava. Cominciavo a credere nella bellezza dell’amore. Imparai il catechismo ma sul cuore tenevo l’immagine di Lei, il canto soave di Fatima. Desideravo il Signore per confessarmi, ma lo desideravo per mezzo di Sua Madre».

Tratto da: La Signora di tutti i Popoli – Official Website: www.devrouwe.net
Fonte: Sursum Corda

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Davvero la vita è bella?

Posté par atempodiblog le 15 février 2010

Davvero la vita è bella? dans Marina Corradi lager

Ho una amica che dice che la vita è bella. Bella comunque.

Ho una amica che dice che la vita è bella. Bella comunque. Bella perché si respira. E ogni volta che mi vede, questa amica mi domanda sorridendo: allora, Marina, la vita è bella? Sono certa che lo fa, benevolmente, per farmi arrabbiare. E quando me lo dice, a me viene in mente quell’ultimo particolare che ho annotato, come in un segreto taccuino, insieme a tutte le slabbrature e gli squarci che ogni giorno vedo, in questa nostra vita che mi corre davanti. Non è solo Haiti, pure con la sua deflagrante atrocità. Non è solo il Darfur, né le migliaia di aborti ogni giorno serenamente praticati in Occidente. Né è solo il presente. Un sito ebraico ha messo online le foto di centinaia di ebrei italiani morti nei lager. Molti bambini. Le foto li ritraggono prima della “partenza”, ben vestiti, ridenti, le bambine con le trecce e i fiocchi nei capelli. In queste foto “normali” è ancora più evidente la mostruosità. Ti immagini quei bambini uguali ai tuoi strappati alle madri, spinti come pecore, tra urla straniere caricati in treni che partono per sempre. In queste nostre stesse città, poco più di 65 anni fa. La vita, Anna, era bella anche quel giorno? Ed era bella in quegli istituti per orfani e handicappati di Chisinau, in Moldavia, che a distanza di dieci anni rivedo ancora come fosse ieri – quegli occhi di bambini, grandi, attoniti, come ancora meravigliati, nella loro innocenza, di tanto dolore?
E, restando nel presente, di queste storie di inermi clochard bruciati o pestati a sangue così, per gioco, vogliamo parlarne? E senza andare neanche nella cronaca nera, certe sere mi restano in mente gli occhi di qualche vecchio che rincasa solo, adagio, con una magra borsa della spesa in mano; faccia anche lui di mille profonde solitudini, quiete tra le nostre case.
No, Anna, per me la vita non è bella, almeno non come intendi tu. A vent’anni ti avrei detto, dura, che a me stare al mondo non piaceva. Ci ho messo tanto tempo, ma ora comincio a capire dove stia la bellezza della vita, così a lungo incomprensibile. La bellezza per me sta in un Dio che ora intravedo, dentro e accanto a ogni uomo, compagno di ogni passo, e curvo insieme a lui sotto a ogni sofferenza. Un Dio che si è fatto compagno, che colma di sé ogni stanza di dolore. E parallelamente la bellezza sta in una recondita ansa dell’anima, per cui anche il peggiore degli uomini, senza saperlo, tuttavia attende. Spesso non sa cosa. E però una magari infinitesima parte di lui aspetta una bellezza che si riveli.
Ripenso a me liceale che, arrabbiata, dicevo ai miei compagni: ma non vedete che tutto è una illusione? Non avevo completamente torto, ma parlavo come un lucido pagano dell’anno 100 a.C. Perché c’è una bellezza possente nella vita, ma è in Cristo. È nell’andare, per strade pigre o banali o drammatiche, affaticati e mendicanti; magari ladri e bugiardi, magari invece facce di misericordia. In attesa però: che quella Bellezza incarnata, morta, risorta, infine pienamente si riveli. Come scrive Paolo ai Corinzi: «Oggi vediamo come in uno specchio, oscuramente; ma un giorno vedremo in modo chiaro, faccia a faccia».

di Marina Corradi – Tempi

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La casa della vita

Posté par atempodiblog le 10 février 2010

La casa della vita dans Riflessioni casasullenuvole

Prendete la vita come una nuvola che passa in fretta nel cielo dell’estate, o come la bellezza di un roseto profumato che non dura a lungo. Considerate la vita come una casa in cui non potete restare per molto tempo: potete abitarci dieci, cento o mille anni, ma alla fine arriverà il giorno in cui dovrete lasciarla. E date al denaro lo stesso valore che date ai sassi del sentiero, perché se lo spendete non vi resterà niente e se lo risparmiate sarà come se aveste risparmiato dei sassi. (Kader Abdolah) [...]
La lezione è comune a tutte le sapienze. La bellezza ben presto sfiorisce, la vita si dissolve in un moto inarrestabile, il denaro scivola via e non riesce a rendere veramente felici. C’è un’immagine sulla quale ci soffermiamo, quella della casa della vita. Essa non è fatta solo di mura, entro le quali si sta bene, di oggetti cari, di gioielli e di libri, ma anche di affetti, di piaceri, persino di realtà tristi a cui però ci si sente legati. Ecco, più spesso dovremmo immaginare e prefigurare il distacco da tutto questo, per trasmigrare verso quello che la tradizione musulmana designa come «la più importante di tutte le case», la tomba e l’oltrevita. Un richiamo severo ma salutare al distacco, con lo sguardo fisso a ciò che non perisce ed è eterno.

di Gianfranco Ravasi

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Genocidio: l’orrore sempre in agguato

Posté par atempodiblog le 2 février 2010

Genocidio: l’orrore sempre in agguato
di André Glucksmann – Corriere della Sera

Genocidio: l'orrore sempre in agguato dans Articoli di Giornali e News 2ez4wo5

Da Cracovia a Oswiecim, dove si trova il campo di Auschwitz, la strada costeggia la Vistola, a perdita d’occhio la neve monotona imbianca le paludi nascondendole allo sguardo. Il paesaggio è sconfinato. Passiamo davanti alla fabbrica chimica dove lavoravano fino allo sfinimento i deportati ritenuti validi. Il tempo è bello e freddo, un sole splendente illumina la banchisa e rapidamente scompare, lasciando ognuno di noi ai propri pensieri. Penso a Fred, che per me fu come un fratello maggiore. Aveva 17 anni, io 5, quando andò in Austria per organizzare la resistenza antinazista. Non lo rividi mai più. Arrestato all’arrivo del treno nella stazione di Vienna, fu torturato e spedito ad Auschwitz come carne da macello, poi scappò e venne ripreso da ragazzini della sua stessa età ingaggiati nella Hitlerjugend, che lo imprigionarono e lo dimenticarono. Morì su quella terra desolata bevendo la propria urina. Nel 1967, il poeta Paul Celan, durante una passeggiata, tentò di far assaporare al filosofo Heidegger il fascino ammaliante di simili paesaggi paludosi e ghiacciati, sperando di suscitare nel professore tedesco un esame di coscienza. Fu un fallimento. Il pensatore, che aveva regolarmente pagato le proprie quote al partito nazista dal 1933 al 1945, fece notare al poeta che i loro ricordi non erano gli stessi: la star delle università di quei tempi riteneva che «l’agricoltura meccanizzata» e i campi della morte fossero «la stessa cosa», cioè che fossero un effetto del regno mondiale della tecnica, e lui non provava tristezza né rimpianto, né sentiva alcuna responsabilità particolare. Un così supremo distacco oggi è fra i più condivisi, anche se le sottigliezze filosofiche (identificazione delle mietitrebbiatrici con le camere a gas) sono ignorate dai più. È possibile commemorare Auschwitz senza congelare la sua tragica storia, quasi fosse la traccia di un’epoca lontana, sepolta e svanita? È la domanda che si sono posti, dopo le cerimonie annuali, come tanti altri prima di loro, alcuni intellettuali inquieti, per la maggior parte polacchi e cattolici, in compagnia di Jerzy Buzek, presidente del Parlamento europeo. Reiterando la domanda che tormentava Giovanni Paolo II — come rifondare i diritti dell’uomo dopo Auschwitz?— si imbattevano di nuovo nella sfida più radicale che abbia scosso la cultura europea: «Eccoci tornati all’anno Mille» (Sartre nel 1945). Prima, «ogni uomo era al riparo in mezzo alla folla». Dopo la rivelazione di Auschwitz e di Hiroshima, «ogni mattina saremo alla vigilia della fine dei tempi». La capacità intima di sterminare fino al genocidio, la capacità materiale dell’arma assoluta proiettano la specie umana nell’orizzonte invalicabile della sua autodistruzione. Ogni anno sono più di un milione i nostri contemporanei— scuole, famiglie e persone da sole— che fanno il viaggio ad Auschwitz visitando i campi, fotografandoli e fotografando se stessi. Gli uni non sanno e si informano, gli altri verificano, altri ancora pregano. Malgrado l’emozione e la buona volontà, rischiano di ripartire senza risposta, come quando sono arrivati. Non è facile immaginare l’inimmaginabile quando la propria esistenza è lontana anni luce da quella realtà, quando si è ben nutriti, lavati, educati. Le persone più scosse dalla visita di Auschwitz che ho avuto occasione d’incontrare erano due studentesse, una ruandese e tutsi, l’altra cecena, Annick e Milana. Essendo sfuggite di poco alla crudeltà sterminatrice, il crimine nazista echeggiava dentro di loro, risvegliava l’incontro con l’inumano che avevano vissuto. Non evochiamo Auschwitz come se si trattasse di una vicenda chiusa, non visitiamo questo luogo della memoria come fosse un museo degli orrori, il mausoleo di un passato superato. E se bisogna proferire il «mai più!», che sia detto come impegno, allora sì. Non certo come constatazione. Il XX secolo si è concluso col genocidio portato fino in fondo dei tutsi del Ruanda, condotto alla velocità di un lampo, davanti agli occhi del pianeta intero: i giornalisti internazionali lavoravano sul posto, il generale Onu Dallaire informava ora dopo ora, fax dopo fax, Kofi Annan. Supplicava di inviargli rinforzi e di dargli il diritto d’intervenire. Nulla fu fatto. La Francia aveva scelto male i propri amici e la coscienza del mondo non dava segni di vita. Come la Chiesa, che non riuscì a trovar le parole per fermare gli assassini in un Paese del «Cristo Re», dove vittime e carnefici erano cattolici ferventi. Il risultato fu che 10 mila civili al giorno furono giustiziati, per tre mesi, donne e bambini innanzitutto. La logica di Auschwitz, sterminatrice di un popolo nella sua totalità, funzionava nuovamente. E così l’illogica indifferenza che la rende possibile. Sterminio degli ebrei d’Europa, sterminio dei tutsi del Ruanda. Non crediate che siano storie archiviate. Ci fu la Cambogia dei khmer rossi, ci fu Srebrenica. Le pulsioni genocidiarie imperversano nel Caucaso, dove un ceceno su cinque è stato ucciso dall’esercito russo in un silenzio quasi generale; nel Darfur, dove le vittime delle milizie sudanesi sono centinaia di migliaia e gli sfollati milioni. Quanto ai progetti per l’avvenire sbandierati qui e là, essi continuano ad apparire sinistri. Ahmadinejad a Teheran non minaccia forse, con la regolarità di un metronomo, di far scomparire nuclearmente Israele dalle carte geografiche? Non è il solo. I mostri genocidiari non appartengono al passato, ma all’attualità. La sfida del 1945 sussiste. Quando Napoleone e la sua Grande Armata scomparvero, l’Europa illuminata si addormentò sulla sua belle époque dimenticando Clausewitz: «Una volta abbattuti i limiti del possibile, che esistevano per così dire solo nel nostro inconscio, è difficile ristabilirli». Auschwitz è eternamente possibile, l’inaudita pulsione di morte rivelata dal secolo scorso incombe sul nuovo.

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I riccioli d’oro e il riso ignaro di un bimbo che va a morire

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2010

Nel Giorno della memoria la voce dei sopravvissuti italiani alla Shoah
I riccioli d’oro e il riso ignaro di un bimbo che va a morire
di Gaetano Vallini  (©L’Osservatore Romano – 26-27 gennaio 2009)

I riccioli d'oro e il riso ignaro di un bimbo che va a morire dans Articoli di Giornali e News 2wfuu4p

Ci sono pagine che tolgono il respiro. Ed è dura andare avanti. Nonostante ormai si conosca tutto o quasi della Shoah, l’orrore è tale – e quello che si percepisce è solo un’infinitesima parte di quanto provato da chi c’era – che si stenta a credere sia stato possibile. Eppure non riesci a fermarti, perché senti che lo devi alla memoria di quanti non ce l’hanno fatta; al coraggio di quanti hanno accettato di raccontare l’indicibile; e a una verità storica che qualcuno ogni tanto prova vergognosamente a rimettere in discussione. Sarà perché ti inchioda di fronte alla degradazione di cui è capace l’uomo; sarà perché le testimonianze sono riportate anche in dialetto per restituirle nella loro pienezza, frammentate e ricomposte per ricostruire, come mai prima, la pagina più terribile e vergognosa della storia del secolo scorso; sarà perché sembra quasi di sentirle dalla viva voce dei sopravvissuti, ma Il libro della Shoah italiana (Torino, Einaudi, 2009, pagine 490, euro 42) curato da Marcello Pezzetti, riesce davvero a precipitare il lettore sulla soglia dell’inferno. Quell’inferno di cui parla Shlomo Venezia: « L’inferno… qualsiasi persona lo conosce dai libri, noi l’abbiamo vissuto ». E lui, scelto a far parte del Sonderkommando di Birkenau – dove c’erano, scrive l’autore, « gli impianti omicidi più imponenti che l’uomo abbia edificato nel corso della storia » – sa quello che dice; lui stava all’inferno: doveva rimuovere i corpi dalle camere a gas, preparandoli per i crematori. Quella di Venezia è la più agghiacciante tra le testimonianze raccolte da Pezzetti, storico del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano, membro di diverse istituzioni dedicate alla ricerca sulla Shoah, consulente dei registi Spielberg e Benigni, coautore del film Memoria, nonché direttore del costituendo Museo della Shoah di Roma. L’autore ha tirato le somme di un lavoro iniziato alla fine degli anni Ottanta, quando il Cdec cominciò a effettuare alcune interviste audio ai sopravvissuti. In seguito furono contattate le comunità ebraiche italiane affinché offrissero un aiuto nella ricerca. E si pensò di realizzare dei video con ciascun testimone. La prima intervista filmata fu realizzata il 15 giugno 1995, a Milano, con Rachele Levi, della comunità ebraica italiana di Rodi. L’ultima, a fine 2008, a uno dei pochissimi superstiti della retata del 16 ottobre 1943, a Roma, ancora in vita: Enzo Camerino, residente a Montreal, di passaggio nella capitale. In totale sono stati intervistati – riportandoli per quanto possibile nei luoghi di prigionia – centocinque ebrei, sessanta donne e quarantacinque uomini, sopravvissuti alla deportazione dall’Italia, compreso il Dodecanneso, tra il 1943 e il 1945. Di essi, ottantotto finirono ad Auschwitz (dove il primo convoglio italiano arrivò il 23 ottobre 1943), quattro a Ravensbrück, tre a Bergen-Belsen, uno a Buchenwald e i restanti in altri luoghi. Il lavoro è stato lungo, complesso e doloroso. « Doloroso – sottolinea l’autore – innanzitutto per chi è stato intervistato, spesso consapevole di offrirci con grande generosità una parte importante della propria vita che aveva deciso di non rendere mai pubblica, in secondo luogo per i componenti delle loro famiglie, che in molti casi hanno assistito alle interviste e hanno appreso la sorte dei propri cari nei dettagli solo in quell’istante, infine per noi che abbiamo raccolto la loro storia e la loro memoria, dal momento che è stato estremamente difficile mantenere un equilibrio tra il necessario rigore scientifico che doveva contraddistinguere il nostro approccio e il coinvolgimento umano che la drammaticità delle testimonianze suscitava ». E il coinvolgimento umano non manca certo nella lettura di questo volume, pubblicato in occasione del Giorno della Memoria, che ripercorre le varie tappe del progetto di sterminio: la vita prima del fascismo, la convivenza con il regime, l’umiliazione delle leggi razziali, la violenza dell’occupazione nazista, gli arresti, gli interrogatori, la detenzione in carcere, il transito nei campi di concentramento italiani, il viaggio verso i lager, la prigionia nei campi della morte. È una lenta caduta nel tunnel della follia antisemita, nella peggiore delle abiezioni umane. Fino alla liberazione, al difficile ritorno a una vita che sembrava perduta, tra il lutto inconsolabile per i propri cari morti e il senso di colpa per essere sopravvissuti.

Ognuno di questi momenti viene introdotto da una breve scheda che inquadra i luoghi e i fatti. Il resto lo raccontano loro, i testimoni, senza sconti, senza concedere nulla alla fantasia. Quanto raccontato sembra prendere forma. E li vedi lì, nel ghetto di Roma, cercare di sfuggire alla caccia, impauriti e sorpresi per l’inattesa violenza. Cogli il sollievo e la gratitudine per l’insperato aiuto di un conoscente, magari un cattolico, a volte un prete o una suora; o al contrario l’incredulità e la rabbia per la delazione di un vicino di casa, fino ad allora considerato amico. Li immagini nelle carceri, mentre vengono seviziati durante gli interrogatori attraverso i quali gli aguzzini cercano di estorcere i nomi di parenti e conoscenti ebrei. Li osservi persi nel Campo di Fossoli, o alla Risiera di San Sabba, macerati dai dubbi sul loro futuro incerto, mentre cominciano a giungere alle loro orecchie notizie spaventose. Senti l’asfissiante oppressione delle centinaia di persone rinchiuse nei carri merci, ammassate come bestie, in un viaggio disumano verso quelli che ci si illude siano campi di lavoro, mentre i più anziani e i più deboli cominciano già a morire. E poi l’arrivo nei lager; per la stragrande maggioranza Auschwitz-Birkenau, un luogo sul quale tra i deportati già circolavano voci tanto terribili quanto inverosimili. Li vedi su quella banchina, smarriti, impauriti, piangenti e tremanti, con gli sguardi attratti dal sinistro bagliore di quelle oscure ciminiere fumanti, con quell’odore nauseante e sconosciuto che avvolge tutto. Cogli l’angoscia straziante di quanti sono subito separati dai familiari: genitori, fratelli, sorelle, mariti, figli, i più grandicelli. I più piccoli sono immediatamente avviati con le mamme verso le camere a gas, assieme ad anziani e malati. Senti le loro urla terrorizzate, impotenti, disperate. « Siamo arrivati alla mattina – ricorda Ida Marcheria – ed è stata subito una Babele: urla, grida, abbaiare di cani. C’hanno levato il papà e i nostri fratelli, poi ci hanno diviso dalla mamma. A mamma l’hanno fatta salire su un camion, dicevano che noi dovevamo andare a piedi perché eravamo giovani. È salita sul camion e ci ha raccomandato: « Bambine, state sempre insieme! ». Forse lo sentiva, non lo so… comunque non ha pianto la mia mamma, non piangeva. Non l’ho vista più. La mamma… è quella sera che è morta ». « Il momento più terribile? La separazione dai genitori. È stata – dice Trahamin Cohen – una cosa tremenda… È stato terribile, terribile! Molte volte purtroppo questa scena mi viene in mente in sogno. Ma il ricordo è peggio del sogno. Il ricordo a me mi ammazza. Non ci reggo… ». A Birkenau furono deportati circa duecentomila bambini, di loro seicento erano italiani. Tra questi c’era anche il più piccolo ebreo deportato dall’Italia. « Figlio di Marcella Perugia, nacque al Collegio militare di Roma il 17 ottobre 1943, il giorno prima della partenza. Questo bambino, forse nemmeno arrivato a Birkenau, è rimasto senza nome ». Il libro è dedicato a lui. La quasi totalità dei bambini venne uccisa nelle camere a gas il giorno stesso dell’arrivo. Il loro ricordo è il più straziante. « I bambini… i bambini che scendevano dai vagoni erano come i bambini di tutto il mondo: piccoli, assolutamente ignari del loro destino… In particolare – sono le parole di Nedo Fiano – io ricordo un servizio di notte, quando è arrivato dalla Francia un convoglio di bambini molto piccoli, credo che nessuno superasse i cinque anni. Il fatto unico è che questi ragazzi erano felici, contenti di scendere da questi vagoni dov’erano stati per giorni, avevano sottobraccio i loro giocattoli e si avviarono verso il crematorio. Si tenevano, ricordo, in file di tre… si tenevano per mano. Mi ricordo un bambino coi capelli biondi, dai riccioli meravigliosi, riccioli d’oro, così felice… Era straziante, una scena incredibile ». Tremendi sono anche i ricordi della vita del campo: l’angosciante rito delle selezioni – « È lì che abbiamo incontrato il dottore Mengele, il maledetto, e lui ha cominciato a separare gli uomini dalle donne con un cenno della testa », dice Arianna Szörényi – e il freddo, la fame, l’agonia dei malati, i Kinderblock dove finivano i bambini oggetto di sperimentazioni; e ancora le angherie, le violenze gratuite, brutali, inumane. « Davanti a me – ricorda Alberto Sed – c’era uno del Kommando che portava un regazzino verso un carretto; c’erano due tedeschi, uno dei quali gli ha detto: « Férmete! Il regazzino nun l’appoggiare, ma lancialo dentro il carretto! » ‘Sto regazzino poteva ave’ cinque, sette mesi… quando questo l’ha buttato, inaspettatamente uno dei due ha tirato fuori la pistola… e c’ha fatto il tiro a segno. Avevano scommesso dei marchi ». « C’era la violenza più totale, la violenza assoluta. La violenza fisica prima di tutto, poi la violenza psicologica. Era – racconta Piero Terracina – un vivere continuamente sotto la paura delle percosse, delle punizioni, delle selezioni. Lì sapevamo che dovevamo morire. Potevamo morire dopo un giorno, dopo una settimana, dopo un mese, non si andava oltre con il pensiero ». C’era la certezza di quell’inferno di cui parla Shlomo Venezia. Eppure, mentre tanti si lasciavano andare, altri si aggrappavano alla vita, spinti soprattutto dalla volontà di ritrovare un giorno i familiari da cui erano stati divisi. « Io vivevo soprattutto con l’idea di resistere per trovare le bambine, per ritornare con le bambine », dice Giulia Fiorentino Tedeschi. « Quello che mi spingeva a sopravvivere – è invece il ricordo di Virginia Gattegno – era l’idea di uscire di lì, cioè di morire magari appena fuori, ma non lì dentro a quell’inferno, non da prigioniera. Morire come un essere umano, insomma ». Qualcuno arrivò a vedere il giorno della liberazione dei campi, alcuni tuttavia morirono nei giorni successivi per le malattie e gli stenti patiti, senza poter assaporare la ritrovata libertà. Ma per molti il ritorno alla vita non è stato facile. Emblematiche le parole di Ida Marcheria e di Alberto Israel, che riassumono lo stato d’animo di tanti sopravvissuti: « Io maledico il giorno che sono uscita da quel lager. Non dovevo uscire, non dovevo mai tornare. Non so gli altri, può darsi che sono felici, non lo so ». « C’è una cosa che devo dire, con molta fatica: noi abbiamo un rimorso… perché noi siamo riusciti a vivere. Non avremo mai pace fino al giorno in cui non andremo a raggiungerli ». Ma per altri prevale il senso di riconoscenza, nonostante tutto, malgrado il ricordo che non si cancella mai, e che torna come un incubo ricorrente. Nonostante quel « dov’era Dio » che ancora angoscia molti. C’è tutto questo e molto altro nel lavoro di Pezzetti. Complessivamente, secondo i dati del Cdec, dall’Italia venne deportato circa un quinto degli ebrei residenti: poco meno di 7.800 – cui vanno aggiunti 1.819 ebrei dei possedimenti italiani del Dodecanneso. Solo 837 sono tornati. Il libro della Shoah italiana è un doveroso tributo alla memoria di quanti non ce l’hanno fatta e un monito per il futuro.

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Povertà: tenerezza di Dio

Posté par atempodiblog le 20 décembre 2009

Povertà: tenerezza di Dio dans Citazioni, frasi e pensieri Povert-tenerezza-di-Dio

Dopo Gesù Cristo il popolo di Dio siamo tutti noi: io, il falegname, il fabbro, l’impiegato, lo spazzino, il poeta.
Il popolo di Dio è tutto ciò che è povero, tutto ciò che soffre, tutto ciò che è profondamente umile.
E’ l’immenso gregge nella solitudine, la moltitudine dei cuori tristi alla ricerca del Paradiso.
Non ho subito la miseria, l’ho sposata per amore, avendo potuto scegliere un’altra compagna.
La miseria è la mancanza del necessario.
La povertà è la mancanza del superfluo.
Più andremo verso Dio e più saremo uniti, cioè avvicinati. Gli esseri umani non sono paralleli ma convergenti, e Dio è il loro fuoco.
Ogni anima è un raggio della Divinità, da cui è partita come da un sole e da cui un giorno deve essere riassorbita.
Nessuno sa chi è maggiormente il suo prossimo, nessuno lo saprà mai, se non nella Luce. Ed è una grazia immensa incontrare qua e là, dopo infiniti dolori, qualche probabile fratello, qualche supposto cugino del Paradiso.
Attendo ancora Qualcuno.
Qualcuno di molto povero, molto conosciuto e molto grande.
Qualcuno deve venire.
Qualcuno, che io sento galoppare sul fondo degli abissi, deve venire, in modo inaudito…

Léon Bloy

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Catechesi sul Natale

Posté par atempodiblog le 19 décembre 2009

Catechesi sul Natale dans Fede, morale e teologia Presepio

Sua Santità Benedetto XVI
“Catechesi sul Natale”
(Udienza generale 19.12.2007)

Cari fratelli e sorelle!

In questi giorni, via via che ci avviciniamo alla grande festa del Natale, la liturgia ci sprona a intensificare la nostra preparazione, ponendoci a disposizione molti testi biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento, che ci stimolano a ben focalizzare il senso e il valore di questa annuale ricorrenza. Se da una parte il Natale ci fa commemorare il prodigio incredibile della nascita del Figlio Unigenito di Dio dalla Vergine Maria nella grotta di Betlemme, dall’altra ci esorta anche ad attendere, vegliando e pregando, lo stesso nostro Redentore, che nell’ultimo giorno “verrà a giudicare i vivi e i morti”. Forse noi oggi, anche noi credenti, aspettiamo realmente il Giudice; tutti però aspettiamo giustizia. Vediamo tanta ingiustizia nel mondo, nel nostro piccolo mondo, nella casa, nel quartiere, ma anche nel grande mondo degli Stati, delle società. E aspettiamo che sia fatta giustizia. La giustizia è un concetto astratto: si fa giustizia. Noi aspettiamo che venga in concreto chi può fare giustizia. Ed in questo senso preghiamo: Vieni, Signore, Gesù Cristo come Giudice, vieni secondo il modo tuo. Il Signore sa come entrare nel mondo e creare giustizia. Preghiamo che il Signore, il Giudice, ci risponda, che realmente crei giustizia nel mondo. Aspettiamo giustizia, ma questo non può essere solo l’espressione di una certa esigenza nei confronti degli altri. Aspettare giustizia nel senso cristiano indica soprattutto che noi stessi cominciamo a vivere sotto gli occhi del Giudice, secondo i criteri del Giudice; che cominciamo a vivere in presenza sua, realizzando la giustizia nella nostra vita. Così, realizzando la giustizia, mettendoci alla presenza del Giudice, aspettiamo nella realtà la giustizia. E questo è il senso dell’Avvento, della vigilanza. Vigilanza dell’Avvento vuol dire vivere sotto gli occhi del Giudice e preparare così noi stessi e il mondo alla giustizia. In questo modo, quindi, vivendo sotto gli occhi del Dio-Giudice, possiamo aprire il mondo alla venuta del suo Figlio, predisporre il cuore ad accogliere “il Signore che viene”. Il Bambino, che circa duemila anni or sono i pastori adorarono in una grotta nella notte di Betlemme, non si stanca di visitarci nella vita quotidiana, mentre come pellegrini siamo incamminati verso il Regno. Nella sua attesa il credente si fa allora interprete delle speranze dell’intera umanità; l’umanità anela alla giustizia e così, benché spesso in modo inconsapevole, aspetta Dio, aspetta la salvezza che solo Dio può donarci. Per noi cristiani questa attesa è segnata dalla preghiera assidua, come ben appare nella serie particolarmente suggestiva di invocazioni che ci vengono proposte, in questi giorni della Novena di Natale, sia nella Messa, nel canto al Vangelo, sia nella celebrazione dei Vespri, prima del cantico del Magnificat.

Ciascuna delle invocazioni, che implorano la venuta della Sapienza, del Sole di giustizia, del Dio-con-noi, contiene una preghiera rivolta all’Atteso delle genti, affinché affretti la sua venuta. Invocare il dono della nascita del Salvatore promesso, significa però anche impegnarsi a prepararne la strada, a predisporne una degna dimora non soltanto nell’ambiente attorno a noi, ma soprattutto nel nostro animo. Lasciandoci guidare dall’evangelista Giovanni, cerchiamo pertanto di volgere in questi giorni la mente e il cuore al Verbo eterno, al Logos, alla Parola che si è fatta carne e dalla cui pienezza abbiamo ricevuto grazia su grazia (cfr 1,14.16). Questa fede nel Logos Creatore, nella Parola che ha creato il mondo, in Colui che è venuto come Bambino, questa fede e la sua grande speranza appaiono oggi purtroppo lontane dalla realtà della vita vissuta ogni giorno, pubblica o privata. Questa verità pare troppo grande. Noi stessi ci arrangiamo secondo le possibilità che troviamo, almeno così sembra. Ma in questo modo il mondo diventa sempre più caotico ed anche violento: lo vediamo ogni giorno. E la luce di Dio, la luce della Verità, si spegne. La vita diventa oscura e senza bussola.

Quanto è allora importante che noi siamo realmente credenti e da credenti riaffermiamo con forza, con la nostra vita, il mistero di salvezza che reca con sé la celebrazione del Natale di Cristo! A Betlemme si è manifestata al mondo la Luce che illumina la nostra vita; ci è stata rivelata la Via che ci conduce alla pienezza della nostra umanità. Se non si riconosce che Dio si è fatto uomo, che senso ha festeggiare il Natale? La celebrazione diventa vuota. Dobbiamo innanzitutto noi cristiani riaffermare con convinzione profonda e sentita la verità del Natale di Cristo, per testimoniare di fronte a tutti la consapevolezza di un dono inaudito che è ricchezza non solo per noi, ma per tutti. Scaturisce di qui il dovere dell’evangelizzazione che è proprio la comunicazione di questo “eu-angelion”, di questa “buona notizia”. È quanto è stato richiamato di recente dal documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, denominato Nota Dottrinale su alcuni aspetti dell’Evangelizzazione, che desidero consegnare alla vostra riflessione ed al vostro approfondimento personale e comunitario.

Cari amici, in questa ormai immediata preparazione al Natale la preghiera della Chiesa si fa più intensa, affinché si realizzino le speranze di pace, di salvezza, di giustizia di cui ancora oggi il mondo ha urgentemente bisogno. Chiediamo a Dio che la violenza sia vinta dalla forza dell’amore, le contrapposizioni cedano il posto alla riconciliazione, la volontà di sopraffazione si trasformi in desiderio di perdono, di giustizia e di pace. L’augurio di bontà e di amore che ci scambiamo in questi giorni raggiunga tutti gli ambiti del nostro vivere quotidiano. La pace sia nei nostri cuori, perché si aprano all’azione della grazia di Dio. La pace abiti nelle famiglie e possano trascorrere il Natale unite davanti al presepe e all’albero addobbato di luci. Il messaggio di solidarietà e di accoglienza che proviene dal Natale, contribuisca a creare una più profonda sensibilità verso le vecchie e le nuove forme di povertà, verso il bene comune, a cui tutti siamo chiamati a partecipare. Tutti i membri della comunità familiare, soprattutto i bambini, gli anziani, le persone più deboli, possano sentire il calore di questa festa, che si dilati poi per tutti i giorni dell’anno.

Il Natale sia per tutti festa della pace e della gioia: gioia per la nascita del Salvatore, Principe della pace. Come i pastori, affrettiamo fin d’ora il nostro passo verso Betlemme. Nel cuore della Notte Santa anche noi potremo allora contemplare il «Bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia», insieme con Maria e Giuseppe (Lc 2,12.16). Chiediamo al Signore di aprire il nostro animo, perché possiamo entrare nel mistero del suo Natale. Maria, che ha donato il suo grembo verginale al Verbo di Dio, che lo ha contemplato bambino tra le sue braccia materne, e che continua ad offrirlo a tutti quale Redentore del mondo, ci aiuti a fare del prossimo Natale un’occasione di crescita nella conoscenza e nell’amore di Cristo. E’ questo l’augurio che formulo con affetto a tutti voi, qui presenti, alle vostre famiglie e a quanti vi sono cari.

Buon Natale a voi tutti!

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Invito alla santità di Madre Teresa

Posté par atempodiblog le 8 décembre 2009

Invito alla santità di Madre Teresa dans Cardinale Angelo Comastri 15q2621

La Beata Madre Teresa di Calcutta, quando sentiva qualcuno che si lamentava perché vedeva poca santità nella Chiesa, prontamente e decisamente rispondeva: “Ti lamenti? Ti lamenti perché vedi poca santità nella Chiesa? Aiutala! Fatti santo!”.

E aggiungeva, con singolare sapienza: “Non serve a niente gridare: E’ buio! E’buio!, quando è buio; l’unica cosa che dobbiamo fare è accendere la luce; anzi l’unica cosa importante è diventare luce, lasciandosi accendere da Gesù”.

del Card. Angelo Comastri

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La pace verrà

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2009

La pace verrà dans Citazioni, frasi e pensieri Beato-Charles-de-Foucauld-Immagine

LA PACE VERRA’

Se tu credi che un sorriso è più forte di un’arma,

Se tu credi alla forza di una mano tesa,

Se tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide,

Se tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo,

Se tu sai scegliere tra la speranza o il timore,

Se tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l’altro, allora…

LA PACE VERRA’

Se lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore,

Se tu sai gioire della gioia del tuo vicino,

Se l’ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu,

Se per te lo straniero che incontri è un fratello,

Se tu sai donare gratuitamente un po’ del tuo tempo per amore,

Se tu sai accettare che un altro, ti renda un servizio,

Se tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora…

LA PACE VERRA’

Se tu credi che il perdono ha più valore della vendetta,

Se tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria,

Se tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza,

Se tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo,

Se tu credi che la pace è possibile, allora…

LA PACE VERRA’

Beato Charles de Foucauld

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Lavorare per il Cielo

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2009

Lavorare per il Cielo dans Citazioni, frasi e pensieri Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Vedete, figli miei, non bisogna dimenticare che abbiamo un’anima da salvare ed un’eternità che ci aspetta. Il mondo, le ricchezze, i piaceri, gli onori passeranno; il Cielo e l’Inferno non passeranno mai. Stiamo quindi attenti!
I santi non hanno cominciato tutti bene, ma hanno finito tutti bene. Noi abbiamo cominciato male: finiamo bene, e potremo un giorno congiungerci a loro in Cielo.

S. Giovanni M. Vianney – Curato d’Ars

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Mantenere vivo il fuoco dell’amore di Dio

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2009

Mantenere vivo il fuoco dell'amore di Dio dans Citazioni, frasi e pensieri Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Bisogna fare come i pastori nei pascoli durante l’inverno: accendono il fuoco, ma, di tanto in tanto, corrono di qua e di là e raccolgono legna per mantenerlo vivo. Se, allo stesso modo dei pastori, sapessimo mantenere sempre vivo nel nostro cuore il fuoco dell’amore di Dio con preghiere e opere buone, esso non si spegnerebbe mai.

S. Giovanni M. Vianney – Curato d’Ars

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Il canto dell’asino

Posté par atempodiblog le 22 octobre 2009

Il canto dell'asino dans Citazioni, frasi e pensieri Domenica-palme

«Il mio verso è ripugnante, ali erratiche le orecchie, sono una diabolica parodia ambulante di ogni quadrupede. Cencioso proscritto dal mondo, vecchia capoccia ostinata, affamami, frustami, deridimi: rimarrò muto, tenendo dentro di me il mio segreto. Stolti! Anch’io ho avuto la mia grande ora, un’ora dolce e fiera: sentivo acclamazioni nelle orecchie e avevo palme sotto i miei piedi!».

S’ititola The Wild Knight, ossia “il cavaliere selvaggio”, ed è una bella poesiola di quell’eccezionale scrittore cattolico inglese che è stato Gilbert K. Chesterton (1874-1936). A parlare, come nelle favole, è un animale, l’asino. Alle sue spalle c’è una storia non certo facile: brutto e sgraziato agli occhi di molti, parodia del ben più elegante e ammirato cavallo, vittima di ostinazioni sue e di violenze altrui, questa povera bestia è l’incarnazione del suddito un po’ fallito e un po’ oppresso. C’è, però, un “ma”. E gli ultimi versi lo dicono in modo evocativo: la domenica delle Palme fu un asino al centro della festa perché su di lui Cristo era salito, proprio come usavano fare in tempo di pace i re che optavano per il più pacato e trotterellante somaro durante i loro percorsi in città. La parabola è chiara: tante persone malvestite e brutte, messe ai margini o sfruttate, hanno chi le stima e pensa a loro. E noi dovremmo qualche volta di più rompere lo schema pubblicitario del bello e perfetto per andare oltre le apparenze e scoprire le anime, i valori nascosti, la bellezza interiore. Infatti, normalmente è più prezioso l’asino del cavallo, la gallina rispetto al pavone: metafora che tutti possono capire.

di Gianfranco Ravasi

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Dell’anima e del corpo

Posté par atempodiblog le 14 octobre 2009

Dell'anima e del corpo dans Fede, morale e teologia Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Comprendiamo il valore della nostra anima dagli sforzi  che il demonio fa per corromperla. L’Inferno si coalizza contro di lei, il Cielo per lei… Oh! Com’è grande!

Noi siamo molto e al tempo stesso siamo nulla. Non c’è nulla di più grande dell’uomo e nulla di più piccolo: nulla di più grande se guardiamo l’anima, nulla di più piccolo se guardiamo il corpo… Ci occupiamo del nostro corpo come se non avessimo altro di cui prenderci cura! Al contrario, non abbiamo che quello da disprezzare…

Per avere un’idea della nostra dignità, bisogna che ci rammentiamo spesso del Cielo, del Calvario e dell’Inferno.

S. Giovanni M. Vianney – Curato d’Ars

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Il vuoto dei valori

Posté par atempodiblog le 14 octobre 2009

Il vuoto dei valori dans Riflessioni vuoto

Dicono gli psicologi e i sociologi che la prima causa che spinge giovani ed adulti alla deleteria esperienza della droga è la mancanza di chiare e convincenti motivazioni di vita. Infatti, la mancanza di punti di riferimento, il vuoto dei valori, la convinzione che nulla abbia senso e che pertanto non valga la pena di vivere, il sentimento tragico e desolato di essere dei viandanti ignoti in un universo assurdo, può spingere alcuni alla ricerca di fughe esasperate e disperate. La nota pensatrice francese Raissa Maritain ha narrato le esperienze della sua giovinezza, all’inizio del secolo, quando ancora era studentessa alla Sorbona di Parigi, ed aveva perduto ogni fede. Una esperienza drammatica, sconvolgente: «Tutto diventava assurdo ed inaccettabile… – scriveva – L’assenza di Dio spopolava l’Universo. Se dobbiamo rinunciare a trovare un senso qualunque alla parola “verità”, alla distinzione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, non è più possibile vivere umanamente. Non volevo saperne di tale commedia… Avrei accettato una vita dolorosa, non una vita assurda… O la giustificazione del mondo era possibile, ed essa non poteva farsi senza una coscienza veritiera; o la vita non valeva la pena di un istante di attenzione». «Quest’angoscia metafisica che penetra alle sorgenti stesse del desiderio di vivere – concludeva la pensatrice – è capace di divenire una disperazione totale e di sfociare nel suicidio».

Sono parole che fanno pensare. Gli uomini hanno bisogno della verità; hanno la necessità assoluta di sapere perché vivono, muoiono, soffrono! Ebbene, voi sapete che “la verità” è Gesù Cristo! Lui stesso l’ha affermato… Amate dunque la verità! Portate la verità al mondo! Testimoniate la verità che è Gesù, con tutta la dottrina rivelata da Lui stesso ed insegnata, dalla Chiesa, divinamente assistita ed ispirata. E la verità che salva i nostri giovani: la verità tutta intera, illuminante ed esigente come è! Non abbiate paura della verità ed opponete solo e sempre Gesù Cristo ai tanti maestri dell’assurdo e del sospetto, che possono magari affascinare, ma che poi fatalmente portano alla distruzione.

Stiamo assistendo infatti al diffondersi e al radicarsi in tutti gli Stati di una “morale laica”, che prescinde quasi totalmente dalla morale oggettiva, cosiddetta “naturale”, e dalla morale rivelata dal Vangelo.

di Giovanni Paolo II – Tratto da: Holy Queen

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La solitudine dei nostri giovani

Posté par atempodiblog le 14 octobre 2009

La solitudine dei nostri giovani dans Fede, morale e teologia solitudine-giovani

Quante cure per un bambino! Sarebbe colpa imperdonabile per una mamma ed un papà, se per una loro trascuratezza, il bambino contraesse un difetto fisico, tale da restarne minorato per tutta la vita. Quanto abbandono invece per un giovane! Eppure è nella gioventù che si contraggono i difetti peggiori, non quelli fisici, ma quelli morali e spirituali. Tra i dodici ed i venticinque anni i giovani contraggono nel loro organismo spirituale i difetti più gravi e meno sradicabili, e nessuno se ne accorge, nessuno se ne vuole accorgere.

Il giovane è quasi sempre solo. Solo con se stesso nella sua cameretta, solo con se stesso nelle brigate di amici, sempre solo anche nelle lunghe e tenebrose nottate bianche dei “ravings” ovattati di suoni e di droga. Noi non ci dobbiamo illudere, come qualcuno sta suggerendo, che la soluzione consista nel creare per i giovani luoghi o occasioni di convegno non infestati dalla droga o dal crimine. Nel migliore dei casi riusciremmo solo a distrarli, e cioè ad alleviare momentaneamente la loro solitudine, ma non raggiungeremmo certamente il profondo del loro cuore.

I giovani cercano di dare un senso alla loro vita. Devono trovarsi un lavoro, un’occupazione che li aiuti a sognare per sè un futuro sicuro e brillante. Devono farsi una famiglia, che garantisca stabilmente il loro bisogno di amare, di donarsi e di essere amati. Quale speranza di occupazione offre loro la nostra società? Quale sicurezza esperimentano affacciandosi alla vita adulta? Quale ideale di famiglia vedono promosso dai media nella società in cui vivono?

Non rispondo a queste domande. Fatelo voi e poi ditemi se il giovane d’oggi non ha ragione, non solo a sentirsi solo, ma anche ad essere profondamente triste. Prima ancora di sedersi alla tavola della vita, vede calpestati attorno a sè tutti gli ideali più nobili e puri. Cinismo ed egoismo nel mondo del lavoro e della politica, cinismo ed egoismo nel mondo delle relazioni fra i membri della famiglia.

Questa giovane generazione che si stordisce nella droga e nel sesso e vaga nelle notti, senza scopo, da una discoteca all’altra, dove lo può trovare un modello da seguire che ispiri fiducia nel futuro e garantisca la gioia di vivere? Forse, nelle nostre famiglie? Il giovane, vive nelle nostre case, ma è solo. Dovremmo dirgli: « La vita viene da Dio. Egli ti ha assegnato una missione da compiere. Non sei solo: Lui ti darà la forza di portarla a termine ». Ed invece gli diciamo, coi fatti, se non a parole: « Non prendertela! Il mondo è tutto un arraffare. La bontà è un lusso. Perché te ne stai così pensieroso? Dimentica Dio. Buttati in acqua, lasciando sulla sponda ogni scrupolo; come ho fatto io e fan tutti ».

Fonte: Corriere Canadese


LA DEPRESSIONE E IL SUICIDIO GIOVANILE – Mai come oggi i ragazzi denunciano questa solitudine che li fa gridare, anche se la solitudine è un fenomeno adolescenziale tipico che sfugge all’opinione pubblica e che invece è carico di enorme drammaticità. L’aumento della depressione giovanile è un tragica conseguenza di questa incertezza di valori. Sullo stesso terreno affonda le radici il suicidio giovanile. Ogni anno quasi 900mila persone muoiono per suicidio; nel 2000 sono morte così circa un milione di persone, 16 per 100mila nel mondo, una morte ogni 40 secondi. Il dato è dell’Organizzazione mondiale della salute e dell’Associazione Internazionale per la prevenzione del suicidio: negli ultimi 45 anni la percentuale dei suicidi è aumenta del 60% nel mondo e, ad oggi. Sempre econdo l’Oms, il suicidio è la prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 25 anni.

Tratto da: Holy Queen

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