Conforto per chi soffre

Posté par atempodiblog le 31 mai 2010

Conforto per chi soffre dans Fede, morale e teologia Madonna-e-sacerdoti

Oggi i pellegrinaggi portano migliaia di sofferenti ai santuari di Maria: Lourdes, Fatima, Pompei, Lo­reto e a tanti altri. Un popolo intero che chiede grazie, la sa­nità e la santità a Maria. Lo sanno bene: è Gesù che guan­sce, ma guarisce e compie il miracolo, mosso dalla pre­ghiera, dal desiderio della sua madre: Maria non prega in­vano! E la grazia, la guarigione la chiedono a Maria. La Madonna dei malati è presente non soltanto nei grandi san­tuari, ma nelle immagini venerate su tanti altari; nelle im­magini, in tante povere case. E’ sempre la Madonna che ve­glia e alla quale si rivolge chi soffre. Viene pregata duran­te il giorno, durante le notti senza sonno e senza sollievo. E chiedono un po’ di riposo, un po’ di pazienza, di rasse­gnazione.
Per quante persone la malattia è stata strumento di sal­vezza! In Paradiso spariranno certo tutti questi mali che ci travagliano. La sofferenza è lo strnmento con cui Gesù ci associa alla sua opera di redenzione, per la salvezza del­le anime. Dobbiamo accogliere volentieri questo messag­gio come una grazia particolare, con la quale ci chiama a seguirlo sulla via del Calvario, a portare la nostra croce di ogni giorno. La nostra vera infermità è l’incomprensione del valore della sofferenza cristianamente sopportato. Pre­ghiamo perché la sua carezza materna scenda sulle pal­pebre stanche, sulle membra indolenzite. E la sofferenza fisica e morale non lasci indifferente il cuore di Maria, no­stra madre.

FIORETTO: Osserverò Maria ai piedi della croce, penserò alle sue sofferenze. Ci darà forza, coraggio e fiducia nel­le nostre infermità.

GIACULATORIA: Dalla fame, dalle guerre, dalle malattie di questi tempi, proteggici o Maria.

Fonte: Viviamo maggio con Maria – Sacerdoti del S. Cuore (Dehoniani)

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Gli uomini non sanno scorgere l’anima

Posté par atempodiblog le 24 mai 2010

Gli uomini non sanno scorgere l'anima dans Citazioni, frasi e pensieri Santa-Faustina

Nessuna creatura umana comprende il mio cuore, ma ora non mi meraviglio più di questo, mentre in passato me ne meravigliavo, quando le mie intenzioni venivano condannate e male interpretate; ora non me ne meraviglio affatto. Gli uomini non sanno scorgere l’anima, essi vedono il corpo e secondo questo corpo giudicano. Ma per quanto è distante la terra dal cielo, così sono distanti i pensieri di Dio dai nostri pensieri.

Santa Faustina Kowalska

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Maria nostra Madre

Posté par atempodiblog le 13 mai 2010

La visitazione perpetua di Maria dans Citazioni, frasi e pensieri Maggio-con-Maria-Rosa-Mistica

Il mese di Maggio è con Ottobre il mese di Maria. Questo significa che in questo periodo dobbiamo avvicinarci in modo speciale al suo Cuore materno. Il mezzo che Lei stessa ci consiglia è la preghiera del santo rosario, recitato ogni giorno, sia personalmente come in famiglia.
Recitando il rosario col cuore entriamo in comunione con la Madonna e facciamo l’esperienza della sua pienezza di grazia e del suo amore materno. La Madonna è nostra Madre. E’ specialmente nella preghiera che la sentiamo vicina. Preghiamo il santo rosario contemplando con Maria il volto di Gesù.
Impariamo a farci accompagnare dalla Madonna nello svogimento della nostra giornata. Fin dal mattino, quando ci svegliamo, preghiamola di prenderci per mano, perchè ci accompagni nel lavoro e nel compimento dei nostri doveri. Lei ci proteggerà, ci terrà sulla retta via, ci guiderà nel discernimento della volontà di Dio.
Gesù ci ha donato sua Madre come Guida e Maestra. Il cammino della vita fatto con Lei è al riparo dagli inganni e dagli attacchi del mondo e del maligno. In questo mese possa ognuno di noi scoprire il suo incommensurabile amore.

Chiediamo alla Madonna la grazia di capire quanto ci è Madre. Gesù ce l’ha donata, ma non tutti ne approfittano. Quelli però che hanno scoperto la presenza di Maria, affrontano il cammino della vita con sicurezza e gioia.
La Madonna è una Madre che ci ama immensamente. « Se sapeste quanto vi amo, piangereste di gioia! », ha detto a Medjugorje. L’amore materno di Maria non è generico, ma personalizzato. Guarda a ognuo dei suoi figli come se esistesse lui solo. Conosce per nome tutti, uno ad uno, e legge nel cuore di ognuno di noi come nessun altro potrebbe.
Il suo amore materno è incondizionato. Non ama soltanto i figli buoni, ma anche quelli cattivi. Per Lei siamo tutti degni di amore, di compassione e di aiuto. Se ha una preferenza, è per i figli più lontani e versa lacrime di sangue per ognuno di loro che si perde nel peccato. Non c’è nessuno, per quanto sia caduto in basso, che non sia raggiunto dal suo sguardo pieno di dolcezza.
Accettiamo l’amore materno di Maria. E’ un atto di umiltà che ci rende cari a Dio. Guardando alla Madre come dei figli, resteremo piccoli e avremo il diritto al suo amore incommensurabile. Nessun essere umano è senza una Madre celeste che lo ama e lo protegge. Gesù ci ha fatto un grande dono!

Abbiamo visto che Lei è una madre che ci ama immesnamente, senza « se » e senza « ma ». Ora aggiungiamo che Il suo amore è dolce e paziente. Che cosa vuol dire?
Innanzi tutto che la Madonna, benché non cessi mai di esortarci alla santità, non perde mai la pazienza a causa delle nostre fragilità e dei nostri ritardi. Lei sa capire, sa scusare, sa aspettare e, soprattutto, non ci ritira mai la fiducia, se solo siamo pronti a rialzarci.
La Madonna è una madre dolce, perchè quando deve riprenderci, lo fa con delicatezza, senza ferirci e senza farci perdere d’animo. Il suo volto esprime sempre tenerezza, anche quando disapprova e corregge. Lei condisce di piccole gioie i nostri momenti più difficili e versa olio salutare sulle ferite che noi stessi ci infliggiamo.
Può capitare, e accade spesso, che la nostra mamma terrena non ci capisca o ci chiuda la porta in faccia. La Madonna non lo fa mai, a meno che non siamo noi a respingerla. La Madonna è una madre che ci capisce sempre e ci attende sul suo cuore per confortarci nei momenti dell’amarezza. Approfittiamone!

Maria è una Madre che ci prende per mano. Sulla via della santità non procediamo in solitudine al seguito di Gesù. Come ogni madre con i suoi figli, così la Madonna ci prende premurosamente per mano e non ci lascia mai soli nel cammino, ben sapendo quante insidie ci prepara il demonio.
Quando cadiamo Lei ci rialza, ci ripulisce e ci medica le ammaccature. Non ci rimprovera, non ci rinfaccia nulla. Vuole soltanto che ci rimettiamo in piedi e riprendiamo di nuovo la strada.
Quando siamo spossati e ci lasciamo andare, arriva fino a prenderci in braccio, come fanno i genitori con i loro bambini quando scalano una montagna. All’inizio della salita i piccoli corrono, mai poi, quando la stanchezza si fa sentire,  vogliono essere presi in braccio.
Quando lungo la via maestra si affacciano altre strade, apparentemente più percorribili, e noi siamo tentati di seguirle, la Madonna ci tiene stretti per mano e non lascia che l’ingannatore ci attiri nelle trappole che ci ha preparato.
La via della santità, sulla quale siamo invitati, a prima vista potrebbe spaventarci. E’ una via stretta e angusta e sono pochi quelli che la scelgono. Però con la Madonna è tutto più facile. Lei la spiana e la tapezza di tante piccole gioie. Lasciati prendere per mano e va avanti, ogni giorno un po’, insieme a Lei.

Vorrei che alla fine di questo mese dedicato a Maria tutti avessero la certezza di avere una Madre che ci ascolta sempre. Ascolta ciascuno in ogni ora del giorno. Non solo le parole arrivano diritte al suo Cuore, ma persino i nostri pensieri più reconditi non sfuggono alla sua trepidazione di Madre.
Maria ci ascolta col Cuore. Ci legge nell’intimo e ci capisce. Con Lei non abbiamo bisogno di usare molte parole. Ci basta alzare verso di Lei gli occhi supplichevoli. La Madonna è una madre sempre accessibile, sempre pronta a parlare con ognuno dei suoi figli. A Lei possiamo dire ogni cosa nella certezza che non Le sfuggirà neppure una parola.
Se noi conoscessimo questa possibilità ci sentiremmo meno soli, meno fragili e infinitamente più protetti. Affronteremmo la vita con la sicurezza e la gioia dei bambini che si sentono voluti, amati e ascoltati.

Padre Livio Fanzaga

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Cercare Gesù nel proprio cuore e non nei pettegolezzi

Posté par atempodiblog le 25 avril 2010

Cercare Gesù nel proprio cuore e non nei pettegolezzi dans Fede, morale e teologia Ges-confido-in-Te

Una volta durante la ricreazione una delle suore direttrici spinse a dire che le suore converse non avevano sentimenti, quindi potevano essere trattate con durezza. Mi rattristai per questo, perché le suore direttrici conoscevano così poco le suore converse e giudicavano solo dalle apparenze. Oggi ho parlato col Signore, il quale mi ha detto:

“Ci sono delle anime per le quali non posso far nulla; sono le anime che spiano continuamente le altre e non sanno quello che avviene nel loro proprio intimo. Parlano in continuazione delle altre, anche durante il silenzio rigoroso, che è destinato a parlare con Me. Povere anime, che non sentono le Mie parole, restano vuote nel loro intimo, non Mi cercano all’interno del proprio cuore, ma nei pettegolezzi, dove Io non ci sono mai.
Sentono il loro vuoto, ma non riconoscono la propria colpa e le anime nelle quali Io regno totalmente costituiscono per loro un continuo rimorso di coscienza. Esse invece di correggersi, hanno il cuore che si gonfia d’invidia, ma se non si ravvedono, affondano di più. Il loro cuore fino ad allora invidioso, comincia a coltivare l’odio. E sono già vicine al precipizio.
Invidiano i Miei doni alle altre anime, ma esse stesse non sanno e non vogliono accettarli”.

Santa Faustina Kowalska

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Al centro la Speranza

Posté par atempodiblog le 25 avril 2010

Al centro la Speranza dans Emmanuel Mounier hopeu

La tentazione più forte che potrebbe impadronirsi del nostro cuore di fronte agli scenari del tempo in cui viviamo, segnati dall’angoscia del terrorismo e della guerra e dall’insicurezza economica e sociale, è la disperazione: “Pensare con chiarezza e non sperare più” (Albert Camus). Se il rischio dei tempi di tranquillità e di relativa sicurezza è quello della presunzione – nell’illusione di poter cambiare facilmente il mondo e la vita -, il rischio opposto – proprio dei tempi di prova – è di vivere la paura del domani in maniera più forte della volontà e dell’impegno di prepararlo e di plasmarlo. In realtà, “l’ansietà, il timore dell’avvenire, sono già delle malattie. La speranza, al contrario, è, prima di tutto, una distensione dell’io. La speranza afferma l’inefficacia ultima delle tecniche nella risoluzione del destino dell’uomo: essa si situa all’opposto dell’avere, dell’indisponibilità. Essa fa credere, dà tempo, offre spazio all’esperienza in corso. La speranza è il senso dell’avventura aperta, tratta generosamente la realtà, anche se questa sembra contrastare i propri desideri. La speranza entra nella situazione più profonda dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo” (Emmanuel Mounier). Accogliere la sfida della speranza vuol dire allora volersi veramente umani, a testa alta fra il vento e il sole, umili e coraggiosi davanti alla fatica di vivere e all’apparente vittoria del male che ferisce la terra [...] Oggi, negli scenari di insicurezza che caratterizzano gli inizi del Terzo Millennio, è la speranza a sfidarci, per dare ragione di essa a un mondo che sempre più ne appare privo ed assetato. Si tratta di raccogliere in modo nuovo e di nuovo l’invito rivolto ai primi cristiani dall’Apostolo Pietro nella Prima delle due Lettere a lui attribuite, vero “vademecum” del discepolo  pellegrino fra gli uomini: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15).

“La speranza – afferma Tommaso d’Aquino con la sobria  precisione dei concetti, che gli è propria – è l’attesa di un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi”: essa non è la semplice dilatazione del desiderio, ma l’orientamento del cuore e della vita a una meta alta, che valga veramente la pena di essere raggiunta, e che tuttavia appare raggiungibile solo a prezzo di uno sforzo serio, perseverante, onesto, capace di sostenere la fatica di un lungo cammino. Nello stesso senso, Kierkegaard definisce la speranza “la passione per ciò che è possibile”, mettendo in particolare l’accento sull’elemento del “pathos”, di quell’amore doloroso e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e attesa. In un’epoca di passioni ideologiche, Roger Garaudy aveva definito la speranza “l’anticipazione militante dell’avvenire”, con una sottolineatura – tipica di quella stagione – dello sforzo prometeico del soggetto personale e collettivo nella realizzazione del futuro atteso. Infine, il teologo della speranza, Jürgen Moltmann, l’aveva definita agli inizi degli anni Sessanta come “l’aurora dell’atteso, nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce”, evidenziando come vivere la speranza significhi “tirare l’avvenire di Dio nel presente del mondo”. L’incrocio di questi diversi approcci alla speranza mostra di quante attese essa può farsi carico: ecco perché occorre distinguere i due possibili volti del futuro sperato.

Il futuro “relativo” è quello che oggi possiamo progettare e domani realizzare: è il futuro come progetto e come impegno, dilatazione del nostro presente agli orizzonti del domani che esso è in grado di prevedere e di portare a compimento. Di questo futuro si nutrono le tante speranze, piccole e grandi, di cui sono intessute le opere e i giorni degli uomini. Esse, però, da sole non coprono l’intero orizzonte: consapevoli o meno, tutti abbiamo bisogno di una speranza più grande, di una speranza ultima. Ad essa corrisponde il futuro “assoluto”: è il futuro del tutto indeducibile e nuovo, che ci viene incontro al di là di ogni calcolo e di ogni misura. È il futuro di cui è ultima sentinella la morte, compagna dichiarata o segreta di ogni meditazione profonda sul destino dell’uomo e del mondo. Ernst Bloch – il filosofo del “principio speranza” – vede in questo futuro lo spazio dell’utopia, che rende la vita bella e degna di essere vissuta, perché in essa si offre l’ “homo absconditus”, l’uomo non ancora pienamente manifestato a se stesso. La fede cristiana vi riconosce il futuro di Dio, dischiuso all’uomo come patto e promessa nella storia biblica della salvezza ed in particolare nella resurrezione di Cristo dai morti. La differenza fra l’utopia e la speranza della fede è quella stessa che c’è fra l’uomo solo davanti al suo domani, e l’uomo che ha creduto nell’avvento di Dio e aspetta il Suo ritorno, andandogli incontro con inequivocabili segni di preparazione e d’attesa.

Davanti agli scenari del tempo, seguiti agli eventi dell’11 Settembre, e davanti agli scenari del cuore, segnati in tanti dalla paura e dall’insicurezza, la speranza utopica rischia di essere evasione consolatoria, fuga dalle responsabilità del presente. La speranza della fede – pur non sottraendosi a questo rischio – calcola con l’ “impossibile possibilità” di Dio, e proprio per questo con quella maggiore audacia dell’amore che rende possibili gli altrimenti impossibili gesti della carità vissuta fino in fondo. Se c’è perciò un dono da chiedere a Dio per tutti noi [...] è la speranza teologale: una speranza più forte di ogni calcolo, eppure umile e fiduciosa nella promessa dell’Altro che è venuto a visitarci. Questa speranza non è qualcosa che si possa possedere, ma Qualcuno che ti viene incontro e ti possiede, Colui per cui vale la pena di vivere e amare e soffrire, radicati e fondati sulle parole della Sua promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,20). È questa la speranza che coniuga la giustizia e il perdono. Una speranza di cui questo nuovo, vecchio mondo dell’inizio del terzo millennio ha più che mai bisogno per vivere e per risorgere…

di Mons. Bruno Forte

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Darwin non aveva ragione. Lo dicono anche gli atei

Posté par atempodiblog le 13 avril 2010

Il saggio di Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini dimostra che la teoria evoluzionista fa acqua. Persino per i positivisti. Nei viventi ci sono strane costanti che si ripetono, forme perfette ed armoniche

Darwin non aveva ragione. Lo dicono anche gli atei dans Libri scimpanze

Esiste una particolare specie di vespa (Ampulex compressa) che usa un cocktail di veleni per manipolare il comportamento della sua preda, uno scarafaggio. La vespa femmina paralizza lo scarafaggio senza ucciderlo, poi lo trasporta nel suo nido e deposita le sue uova nel ventre della preda, in modo che i neonati possano nutrirsi del corpo vivente dello scarafaggio. Mediante due punture consecutive, separate da un intervallo temporale molto preciso e in due parti diverse del sistema nervoso dello scarafaggio, la vespa riesce letteralmente a «guidare» nel suo nido già predisposto la preda trasformata in uno «zombie». La prima puntura nel torace provoca una paralisi momentanea delle zampe anteriori, che dura qualche minuto, bloccando alcuni comportamenti ma non altri. La seconda puntura, parecchi minuti più tardi, è direttamente sul capo. La vespa dunque non deve trascinare fisicamente lo scarafaggio nel suo rifugio, perché può manipolare le antenne della preda, o letteralmente cavalcarla, dirigendola come se fosse un cane al guinzaglio o un cavallo alla briglia. Il risultato è che la vespa può afferrare una delle antenne dello scarafaggio e farlo andare fino al luogo adatto all’ovodeposizione. Lo scarafaggio segue la vespa docilmente come un cane al guinzaglio. Pochi giorni più tardi, lo scarafaggio, immobilizzato, funge da fonte di cibo fresco per la prole della vespa.

Questa macabra ma illuminante storia entomologica è presentata dai cognitivisti Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini nel libro, appena stampato da Feltrinelli, Gli errori di Darwin, come uno degli argomenti più efficaci per confutare l’evoluzionismo darwiniano secondo cui gli organismi viventi traggono la loro origine da una «casuale» selezione naturale.

Nel simile comportamento delle vespe, infatti, molte cose avrebbero potuto andare in altro modo. «La natura biochimica del cocktail di veleni – osservano gli autori – avrebbe potuto essere molto diversa, risultando o del tutto inefficace o, per eccesso, letale per la preda. La scelta del momento e dei punti in cui pungere avrebbe potuto essere sbagliata in molti modi, per esempio consentendo allo scarafaggio di riprendersi e di uccidere la vespa, di lui molto più piccola. La vespa avrebbe potuto non “capire” che la preda può essere guidata al guinzaglio, dopo le due magistrali punture, e avrebbe potuto tentare di trascinare faticosamente il corpo piuttosto voluminoso nel suo nido. E via di questo passo. I modi in cui questa sequenza comportamentale avrebbe potuto uscire di strada sono in effetti innumerevoli. Neanche il più convinto fra gli adattamentisti neo-darwinisti suppone che gli antenati della vespa abbiano tentato alla cieca tutti i tipi di alternative e che siano state progressivamente selezionate soluzioni sempre più valide, fino a che non è stata trovata la soluzione ottimale, che è stata conservata e codificata nei geni» (p. 108). Per quanto lungo possa essere il tempo in cui le vespe sono in circolazione, non è possibile immaginare l’emergere «a casaccio» di un comportamento così complesso, sequenziale, rigidamente pre-programmato. «E allora? Nessuno lo sa, al momento. Simili casi di programmi comportamentali innati complessi (raffinate ragnatele, procacciamento del cibo nelle api come abbiamo visto prima, e molti altri) non possono essere spiegati direttamente mediante fattori ottimizzanti fisico-chimici o geometrici. Ma non possono essere spiegati nemmeno dall’adattamento gradualistico. È corretto ammettere che, anche se siamo disposti a scommettere che un giorno si troverà una spiegazione naturalistica, per il momento non ne abbiamo nessuna. E se insistiamo che la selezione naturale è l’unica via da esplorare, non ne avremo mai una» (p. 109).

Per i darwinisti tutto ciò che esiste è «imperfetto», perché in continua evoluzione. La selezione naturale non «ottimizza» mai, ma si limita a trovare soluzioni localmente soddisfacenti. Fodor e Piattelli Palmarini, invece, dimostrano l’esistenza di casi di soluzioni ottimali che smentiscono la tesi darwiniana. «Quando morfologie specifiche simili si osservano nelle nebulose a spirale, nella disposizione geometrica di goccioline magnetizzate sulla superficie di un liquido, nelle conchiglie marine, nell’alternarsi delle foglie sui fusti delle piante e nella disposizione dei semi in un girasole – scrivono i nostri due autori – è molto improbabile che ne sia responsabile la selezione naturale» (pp. 88-89).

Fodor e Piattelli Palmarini non vogliono avere niente a che fare con il «disegno intelligente», ma il loro libro va letto accanto a quello di Michael J. Behe, La scatola nera di Darwin. La sfida biochimica all’evoluzione (Alfa & Omega, 2007). Professore di biologia alla Lehigh University in Pennsylvania, Behe ha dimostrato come l’evoluzionismo non è in grado di spiegare strutture e processi «irriducibilmente complessi» come quelli esemplificati dalla biochimica degli organismi viventi. La complessità biochimica di un microbo non è inferiore a quella di una pianta o di un animale.

L’evoluzionismo suppone che le specie viventi siano state precedute da strutture imperfette e incompiute, progressivamente trasformatesi nelle attuali. Tanto i reperti paleontologi quanto le specie viventi provano invece l’esistenza di specie tra loro distinte con strutture in sé compiute. Nella scala dei viventi e nella gerarchia delle specie esistono evidentemente gradi di perfezione diversi. Ogni specie tuttavia può definirsi perfetta nella sua struttura e nessun organismo in natura mostra di essere in evoluzione verso una complessità maggiore. Tutti gli animali a noi noti, a cominciare dall’uomo, sono «produzioni high tech», ha osservato il biologo Pierre Rabischong (in Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi, Cantagalli, 2009, pp. 177-194, a mia cura).

Dove si deve cercare la soluzione? Esistono «regole», «norme», «vincoli alla stabilità» che Peter Timothy Saunders ha chiamato «leggi della forma» (An Introduction to Catastrophe Theory, Cambridge, 1980), riecheggiando quanto già Sir D’Arcy Wentworth Thompson sosteneva nel 1917 nel suo Growth and Form. Fodor e Palmarini ricordano anche la successione del matematico pisano Fibonacci, secondo cui ogni termine è uguale alla somma dei due precedenti. È la nota «sezione aurea» o «proporzione divina», che si riscontra nelle leggi armoniche della fisica, della chimica, della biologia, della mineralogia e che disturba non poco i teorici dell’evoluzionismo.
Tutto ciò che è vivente ha una sua struttura biologica e si presenta come espressione di una «forma» che va oltre le sue componenti materiali. La forma è la perfezione prima di quanto esiste, ciò che determina la differenza di un essere dall’altro, determinandone la sua originalità. La forma rinvia alla specie, che prima di essere l’unità di base della classificazione tassonomica degli esseri viventi, è una categoria logica che ha un fondamento nelle cose. Nella filosofia tradizionale la specie di ogni cosa deriva da quella forma che la rende una cosa concreta, con un’essenza specifica. Nella riflessione filosofica, infatti, è il principio che determina l’essenza e la struttura dell’essere come tale (Aristotele, Fisica, III, 2, 194 b 26; Metafisica, V, 2, 1013 b 23).

L’evoluzionismo, come già osservava Etienne Gilson, è un ibrido connubio fra una teoria filosofica e una teoria scientifica, che è impossibile dissociare. La posizione di Fodor e Piattelli Palmarini capovolge quella dei cosiddetti «teo-evoluzionisti». Questi ultimi rifiutano la concezione filosofica di Darwin, ma ne salvano la teoria scientifica, cercando di conciliarla con il «creazionismo». Fodor e Piattelli Palmarini mettono in discussione l’ipotesi scientifica della selezione naturale, ma riaffermano la loro fede filosofica nell’ateismo evoluzionista. Per criticare Darwin, l’Accademia esige infatti una professione pubblica di «anticreazionismo». Gli autori del saggio che abbiamo presentato ribadiscono di voler essere iscritti all’albo degli «umanisti ufficialmente laici». «In effetti – scrivono – entrambi ci proclamiamo atei, completamente, ufficialmente, fino all’osso e irriducibilmente atei» (p. 11). È questo il prezzo pagato per ammettere candidamente che «non sappiamo molto bene come funzioni l’evoluzione» (p. 12).C’è bisogno di proclamarsi «cattolici, completamente, ufficialmente, fino all’osso e irrimediabilmente cattolici», per spiegare che la macroevoluzione non funziona semplicemente perché è una teoria, filosofica e scientifica, falsa e infondata?

di Roberto de Mattei – Il Giornale

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Nella prigione sotterranea

Posté par atempodiblog le 1 avril 2010

Nella prigione sotterranea  dans Fede, morale e teologia Prigione

Ho passato tutta la notte nella prigione sotterranea con Gesù. Era una notte di adorazione. Le suore pregavano in cappella. Io mi sono unita a loro in ispìrito, perché la mancanza di salute non mi ha permesso di andare in cappella. Per tutta la notte però non sono riuscita ad addormentarmi, perciò l’ho passata nella prigione sotterranea con Gesù. Gesù mi ha fatto conoscere le sofferenze che vi ha patito. Il mondo le conoscerà il giorno del giudizio.

«Figlia Mia, di’ alle anime che do loro come difesa la Mia Misericordia. Combatto per loro Io solo e sopporto la giusta collera del Padre Mio».

«Figlia Mia, di’ che la festa della Mia Misericordia è uscita dalle Mie viscere a conforto del mondo intero».

Santa Faustina Kowalska

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L’Anticristo secondo Solovev

Posté par atempodiblog le 29 mars 2010

L'Anticristo secondo Solovev dans Anticristo Soloviev

Dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di esperto esegeta, pacifista, ecologista, ecumenista, e filantropo.

 

del Card. GIACOMO BIFFI,
arcivescovo emerito di Bologna

Verranno giorni, e anzi sono già venuti…

L’Anticristo era – dice Solovev – “un convinto spiritualista”. Credeva nel bene e perfino in Dio. Era un asceta, uno studioso, un filantropo. Dava « altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza”. Nella sua prima giovinezza si era segnalato come dotto e acuto esegeta: una sua voluminosa opera di critica biblica gli aveva propiziato una laurea ad honorem da parte dell’università di Tubinga.

Ma il libro che gli aveva procurato fama e consenso universali porta il titolo: “La via aperta verso la pace e la prosperità universale”, dove “si uniscono il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vasto e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, una sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto individualismo con un’ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatto di principi direttivi con la precisione completa e la vitalità delle soluzioni pratiche”.

È vero che alcuni uomini di fede si domandavano perché non vi fosse nominato nemmeno una volta il nome di Cristo; ma altri ribattevano: “Dal momento che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete di più?”. D’altronde egli “non aveva per Cristo un’ostilità di principio”. Anzi ne apprezzava la retta intenzione e l’altissimo insegnamento.

Tre cose di Gesù, però, gli riuscivano inaccettabili.

  • Prima di tutto le sue preoccupazioni morali. “Il Cristo – affermava – col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi”.
  • Poi non gli andava “la sua assoluta unicità”. Egli è uno dei tanti; o meglio – diceva – è stato il mio precursore, perché il salvatore perfetto e definitivo sono io, che ho purificato il suo messaggio da ciò che è inaccettabile all’uomo d’oggi.
  • Infine, e soprattutto, non poteva sopportare il fatto che Cristo sia vivo, tanto che istericamente ripeteva: “Lui non è tra i vivi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto. È marcito, è marcito nel sepolcro…”.

Ma dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente – e merita la più approfondita riflessione – è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista. (…) In questa descrizione dell’Anticristo Solovev ha avuto presente qualche bersaglio concreto? È innegabile che alluda soprattutto al “nuovo cristianesimo” di cui in quegli anni si faceva efficace banditore Lev Tolstoj. (…) Nel suo “Vangelo” Tolstoj riduce tutto il cristianesimo alle cinque regole di comportamento che egli desume dal Discorso della Montagna:

  1. Non solo non devi uccidere, ma non devi neanche adirarti contro il tuo fratello.
  2. Non devi cedere alla sensualità, al punto che non devi desiderare neanche la tua propria moglie.
  3. Non devi mai vincolarti con giuramento.
  4. Non devi resistere al male, ma devi applicare fino in fondo e in ogni caso il principio della non-violenza.
  5. Ama, aiuta, servi il tuo nemico.

Questi precetti, secondo Tolstoj, vengono bensì da Cristo, ma per essere validi non hanno affatto bisogno dell’esistenza attuale del Figlio del Dio vivente. (…)

Certo Solovev non identifica materialmente il grande romanziere con la figura dell’Anticristo. Ma ha intuito con straordinaria chiaroveggenza che proprio il tolstojsmo sarebbe diventato lungo il secolo XX il veicolo dello svuotamento sostanziale del messaggio evangelico, sotto la formale esaltazione di un’etica e di un amore per l’umanità che si presentano come “valori”cristiani. (…) Verranno giorni, ci dice Solovev – e anzi sono già venuti, diciamo noi – quando nella cristianità si tenderà a dissolvere il fatto salvifico, che non può essere accolto se non nell’atto difficile, coraggioso, concreto e razionale della fede, in una serie di “valori” facilmente smerciabili sui mercati mondani.

Da questo pericolo – ci avvisa il più grande dei filosofi russi – noi dobbiamo guardarci. Anche se un cristianesimo tolstojano ci rendesse infinitamente più accettabili nei salotti, nelle aggregazioni sociali e politiche, nelle trasmissioni televisive, non possiamo e non dobbiamo rinunciare al cristianesimo di Gesù Cristo, il cristianesimo che ha al suo centro lo scandalo della croce e la realtà sconvolgente della risurrezione del Signore.

Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico salvatore dell’uomo, non è traducibile in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante. Gesù Cristo è una “pietra”, come egli ha detto di sé. Su questa “pietra” o si costruisce (affidandosi) o ci si va a inzuccare (contrapponendosi): “Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà” (Mt 21, 44). (…)

È stato dunque, quello di Solovev, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente inascoltato. Noi però vogliamo riproporlo, nella speranza che la cristianità finalmente si senta interpellata e vi presti un po’ di attenzione.
Vladimir Sergeevic Solovev: un profeta inascoltato

Vladimir Sergeevic Solovev è morto cento anni fa, il 31 luglio (13 agosto, secondo il nostro calendario gregoriano) dell’anno 1900.

È morto sul limitare del secolo XX: un secolo del quale egli, con singolare acutezza, aveva preannunciato le vicissitudini e i guai; un secolo che avrebbe però tragicamente contraddetto nei fatti e nelle ideologie dominanti i suoi più rilevanti e più originali insegnamenti. È stato dunque, il suo, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente inascoltato.

Un magistero profetico

Al tempo del grande filosofo russo, la mentalità più diffusa – nell’ottimismo spensierato della “belle époque” – prevedeva per l’umanità del secolo che stava per cominciare un avvenire sereno: sotto la guida e l’ispirazione della nuova religione del progresso e della solidarietà senza motivazioni trascendenti, i popoli avrebbero conosciuto un’epoca di prosperità, di pace, di giustizia, di sicurezza. Nel ballo Excelsior – una coreografia che negli ultimi anni del secolo XIX aveva avuto uno straordinario successo (e avrebbe poi dato il nome a una serie innumerevoli di teatri, di alberghi, di cinema) – questa nuova religione aveva trovato quasi una sua liturgia. Victor Hugo aveva profetizzato: “Questo secolo è stato grande, il prossimo secolo sarà felice”.

Solovev invece non si lascia incantare da quel candore laicistico e anzi preannunzia con preveggente lucidità tutti i malanni che poi si sono avverati. Già nel 1882, nel Secondo discorso sopra Dostoevskij, egli parrebbe aver presagito e anticipatamente condannato l’insipienza e l’atrocità del collettivismo tirannico, che qualche decennio dopo avrebbe afflitto la Russia e l’umanità:

“Il mondo – afferma – non deve essere salvato col ricorso alla forza… Ci si può figurare che gli uomini collaborino insieme a qualche grande compito, e che a esso riferiscano e sottomettano tutte le loro attività particolari; ma se questo compito è loro imposto, se esso rappresenta per loro qualcosa di fatale e di incombente,…allora, anche se tale unità abbracciasse tutta l’unanità, non sarà stata raggiunta l’umanità universale, ma si avrà solo un enorme ‘formicaio’” (Edizione ‘La Casa di Matriona’, pp. 65-66); quel ‘formicaio’ che in effetti sarebbe stato poi attuato dall’ideologia ottusa e impietosa di Lenin e di Stalin.

Nell’ultima pubblicazione – I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, opera compiuta la domenica di Pasqua del 1900 – è impressionante rilevare la chiarezza con cui Solovev prevede che il secolo XX sarà “l’epoca delle ultime grandi guerre, delle discordie intestine e delle rivoluzioni” (Edizione Marietti p.184). Dopo di che – egli dice – tutto sarà pronto perché perda di significato “la vecchia struttura in nazioni separate e quasi ovunque scompaiano gli ultimi resti delle antiche istituzioni monarchiche” (p. 188). Si arriverà così alla « Unione degli Stati Uniti d’Europa” (p. 195).

Soprattutto è stupefacente la perspicacia con cui descrive la grande crisi che colpirà il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento. Egli la raffigura nella icona dell’Anticristo, personaggio affascinante che riuscirà a influenzare e a condizionare un po’ tutti. In lui, come qui è presentato, non è difficile ravvisare l’emblema, quasi l’ipostatizzazione, della religiosità confusa e ambigua di questi nostri anni: egli – dice Solovev – sarà un “convinto spiritualista”, un ammirevole filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un animalista determinato e attivo.

Sarà, tra l’altro, anche un esperto esegeta: la sua cultura biblica gli propizierà addirittura una laurea “honoris causa” della facoltà di Tubinga. Soprattutto, si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare “con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza” (p. 211).

Nei confronti di Cristo non avrà “un’ostilità di principio” (p. 190); anzi ne apprezzerà l’altissimo insegnamento. Ma non potrà sopportarne – e perciò la censurerà – la sua assoluta “unicità” (p. 190); e dunque non si rassegnerà ad ammettere e a proclamare che egli sia risorto e oggi vivo.

Si delinea qui, come si vede, e viene criticato, un cristianesimo dei “valori”, delle “aperture” e del “dialogo”, dove pare che resti poco posto alla persona del Figlio di Dio crocifisso per noi e risorto, e all’evento salvifico.

Abbiamo di che riflettere. La militanza di fede ridotta ad azione umanitaria e genericamente culturale; il messaggio evangelico identificato nel confronto irenico con tutte le filosofie e con tutte le religioni; la Chiesa di Dio scambiata per un’organizzazione di promozione sociale: siamo sicuri che Solovev non abbia davvero previsto ciò che è effettivamente avvenuto, e che non sia proprio questa oggi l’insidia più pericolosa per la “nazione santa” redenta dal sangue di Cristo? È un interrogativo inquietante e non dovrebbe essere eluso.

Un magistero inascoltato

Solovev ha capito come nessun altro il secolo ventesimo, ma il secolo ventesimo non ha capito lui. Non è che gli siano mancati i riconoscimenti. La qualifica di massimo filosofo russo non gli viene di solito contestata. Von Balthasar ritiene il suo pensiero “la più universale creazione speculativa dell’epoca moderna” (Gloria III, p. 263) e arriva perfino a collocarlo sullo stesso piano di Tommaso d’Aquino.

Ma è innegabile che il secolo ventesimo, nel suo complesso, non gli ha prestato alcuna attenzione e anzi si è puntigliosamente mosso in senso opposto a quello da lui indicato. Sono lontanissimi dalla visione solovievana della realtà gli atteggiamenti mentali oggi prevalenti, anche in molti cristiani ecclesialmente impegnati e acculturati. Tra gli altri, tanto per esemplificare:

    • l’individualismo egoistico, che sta sempre più segnando di sé l’evoluzione del nostro costume e delle nostre leggi;
    • il soggettivismo morale, che induce a ritenere che sia lecito e perfino lodevole assumere in campo legislativo e politico posizioni differenziati dalla norma di comportamento alla quale personalmente ci si attiene;
    • il pacifismo e la non-violenza, di matrice tolstoiana, confusi con gli ideali evangelici di pace e di fraternità, così che poi si finisce coll‘arrendersi alla prepotenza e si lasciano senza difesa i deboli e gli onesti;
    • l’estrinsecismo teologico che, per timore di essere tacciato di integrismo, dimentica l’unità del piano di Dio, rinuncia a irradiare la verità divina in tutti i campi, abdica a ogni impegno di coerenza cristiana.

In special modo il secolo ventesimo – nei suoi percorsi e nei suoi esiti sociali, politici, culturali – ha contraddetto clamorosamente la grande costruzione morale di Solovev. Egli aveva individuato i postulati etici fondamentali in una triplice primordiale esperienza, nativamente presente in ogni uomo: vale a dire nel pudore, nella pietà verso gli altri, nel sentimento religioso.

Ebbene, il Novecento – dopo una rivoluzione sessuale egoistica e senza saggezza – è approdato a traguardi di permissivismo, di ostentata volgarità e di pubblica spudoratezza, che sembra non aver paragoni adeguati nella vicenda umana.

È stato poi il secolo più oppressivo e più insanguinato della storia, privo di rispetto per la vita umana e privo di misericordia. Non possiamo certo dimenticare l’orrore dello sterminio degli ebrei, che non sarà mai esecrato abbastanza. Ma sarà bene ricordare che non è stato il solo: nessuno ricorda il genocidio degli Armeni a cavallo della prima guerra mondiale; nessuno commemora le decine e decine di milioni uccisi sotto il regime sovietico; nessuno si avventura a fare il conto delle vittime sacrificate inutilmente nelle varie parti del mondo all’utopia comunista.

Quanto al sentimento religioso, durante il secolo ventesimo in oriente è stato per la prima volta proposto e imposto su una vasta parte di umanità l’ateismo di stato, mentre nell’occidente secolarizzato si è diffuso un ateismo edonistico e libertario, fino ad arrivare all’idea grottesca della “morte di Dio”.

In conclusione, Solovev è stato indubbiamente un profeta e un maestro; ma un maestro, per così dire, inattuale. Ed è questa, paradossalmente la ragione della sua grandezza e della sua preziosità per il nostro tempo.

Appassionato difensore dell’uomo e allergico a ogni filantropia; apostolo infaticabile della pace e avversario del pacifismo; propugnatore dell’unità tra i cristiani e critico di ogni irenismo; innamorato della natura e lontanissimo dalle odierne infatuazioni ecologiche: in una parola, amico della verità e nemico dell’ideologia. Proprio di guide come lui abbiamo oggi un estremo bisogno.

Fonte: Intervento del Card. GIACOMO BIFFI al convegno “La passione per l’unità: Vladimir Solovev” (4 marzo 2000)

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Ben oltre il folle di Facebook

Posté par atempodiblog le 28 mars 2010

«Scoperti» e «cancellati»

Ben oltre il folle di Facebook dans Marina Corradi marinacorradi

Il  ’gioco’ ignobile del tiro al bersaglio sui Down, spuntato su Facebook nei giorni scorsi, è sparito dalla Rete in poche ore: a furor di popolo, nell’onda di una indignazione generale. La forza di questa sollevazione rassicura: siamo ancora in un mondo umano, verrebbe da dire, se a una simile ripugnante caccia al diverso ci ribelliamo. Possiamo magari, e legittimamente, prendercela con la incontrollabilità dei social network, o con la globalizzazione che ha fatto crollare le frontiere e reso impotenti i codici penali. Certi, però, che quel ‘gioco’ su Facebook è opera solo di un pazzo, o di un idiota. Che la sua logica («I Down sono solo un peso… come eliminarli civilmente?») è del tutto estranea alla gente normale. E, certamente, è così.

Tuttavia, nel leggere questa storia, ci torna in mente una ricerca pubblicata dal British Medical Journal tre mesi fa, sull’incidenza della sindrome di Down in Gran Bretagna (ne riferiamo a pagina 7). Dove si spiega come l’aumento dell’età media delle madri negli ultimi dieci anni abbia portato a un incremento molto forte della sindrome; compensato, però, dal progresso degli screening prenatali, sempre più estesi, così che il 70% dei bambini Down viene individuato prima della nascita. Una diagnosi? No, una sentenza capitale: il 92 % delle donne raggiunte dal responso abortisce. D etect è il verbo usato dalla dottoressa Morris, della Queen Mary University di Lontra, per indicare l’individuazione dei bambini Down. I «detected babies» ben raramente vengono al mondo. «Detected» – in italiano individuati, scoperti. E cancellati, 92 su 100. Questo è il British Medical Journal.

Come dice invece quel pazzo su Facebook? («I Down sono solo un peso… come eliminarli civilmente?»). Dove la differenza è nel tempo, in un ‘prima’ e in un ‘dopo’, tra il feto – nella mentalità corrente, un nulla – e il bambino; ma non è nella sostanza delle cose. Quelli lì, non sono desiderati. E se umanamente l’angoscia di una madre di fronte a un figlio handicappato è comprensibile, resta evidente che tutti o quasi, attorno, le dicono o le fanno capire che no, non bisogna avere un figlio così. Così semplice, così indifeso. Così bambino per sempre. La stessa Morris, intervistata da un quotidiano inglese, si è rallegrata dell’affinamento dei test prenatali. Che riconoscono, nel buio del ventre, i figli ‘sbagliati’. Chiamandoli al loro breve destino. Allora il delirio di un vigliacco che, nascosto dietro a un soprannome, ha enunciato sulla Rete il suo ‘gioco’ abietto, non sarà come il materializzarsi di un sottopensiero inconscio, indicibile, che però esiste, almeno quando si tratti di nascituri – di non ancora nati, e dunque secondo alcuni di non­uomini? (In quella frontiera del ‘prima’ e del ‘dopo’ stabilita a ferrea barriera, per difenderci da dubbi e inquietudini).

Non sarà, quel gioco di vergogna, come il lazzo di un ubriaco, che però riecheggia qualcosa che in qualche modo si è ascoltato dai sobri? («Eliminandoli civilmente»). I «detected babies» non nascono. Scovati. Presi. E ‘civilmente’ respinti. Ma il 30 % sfugge ai controlli. La dottoressa Morris lamenta che c’è uno zoccolo duro di donne, che non accetta lo screening. Che non si sottopone a un esame che è già quasi verdetto. Che si tiene quel bambino, comunque: già figlio, e non clandestino. E questo zoccolo duro di madri ribelli, meraviglia. Forse più questo, che il rigurgito su Facebook di un ubriaco: che si lascia andare, nella sua ubriachezza nella impunità della Rete, a un vergognoso, ben occultato pensiero.

di Marina Corradi – Avvenire

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Il ruolo della donna in Africa

Posté par atempodiblog le 15 mars 2010

Una suora saveriana, Teresina Caffi, ad un convegno così presentò la testimonianza sul ruolo della donna in Africa:

Il ruolo della donna in Africa dans Kibeho Donna-in-Africa

La donna era in ospedale pestata dal marito. Le asportarono la milza. Sembrava potesse farcela. “Riuscirai a perdonargli?”, le ha chiesto Lucia. “Se non gli perdono io, chi gli perdonerà?”. Morì poco dopo, quasi all’improvviso.

Rendo omaggio con questo mio intervento alle donne d’Africa, alle donne dei Paesi dei Grandi Laghi.
Alle donne che risalivano dal lago alle sei del mattino, con la gerla già piena di sabbia bagnata, con cui riempire un fusto per una casa in costruzione. Capaci di alzare la testa da sotto il peso e salutare con un largo sorriso. I primi spiccioli della giornata.
Poi via, per i campi lontani dalla città, scalze, la gerla con la zappa sulle spalle. E magari anche l’ultimo nato, da deporre all’ombra, mentre si chinano sotto il sole a coltivare.

Rendo omaggio alle donne al lavoro nei campi, spazio di libertà e creatività ove far crescere e moltiplicare la vita; che raccolgono e sbucciano la manioca, ne riempiono la cesta e tornano insieme liete camminando per chilometri sotto il sole delle due.
E poi il fuoco da accendere, il cibo da preparare per tutti, il profumo che inonda l’aia e tutti che attendono da loro il cibo. E vederli mangiare tutti con gioia ed orgoglio. E finalmente sedersi a mangiare, magari in cucina.

Rendo omaggio alla loro intelligenza volta a proteggere la vita, al loro provvedere ad ogni cosa. Alle donne al mercato, finalmente sedute, che vendono il sovrappiù per procurare un po’ di pesce, di sale, un vestito ai figli e magari anche qualcosa di bello per loro. Basta così poco perché facciano festa.

Rendo omaggio alla loro bellezza luminosa, regale, ignorata, che la fatica spegne presto, ma solo in apparenza.

Rendo omaggio a queste donne, che trovano il tempo per prendere il quaderno e andare a imparare a scrivere, e capire così che non è vero che sono meno intelligenti, alla festa di leggere le prime parole, il libro dei canti, la lettura in chiesa.

Rendo omaggio a queste donne regine ad ogni maternità. Che sanno chiamare Désiré (Desiderato) anche il nono figlio e che ai metodi delle “nascite desiderabili” ricorrono piuttosto per averli, i figli.

Rendo omaggio alle donne morte nel dare la vita, con semplicità, come in un’avventura di cui sapevano da sempre il prezzo.

Rendo omaggio a queste donne per le umiliazioni nascoste, i tradimenti subiti, le speranze deluse, la capacità di stare per amore dei figli. Per le volte che qualcuno ha detto loro che erano inferiori, serve, incapaci, per tutte le decisioni subite senza essere interpellate.

Rendo omaggio a loro, soprattutto per questi lunghi anni di guerra, a loro che portano il peso dell’impresa quasi impossibile di nutrire la famiglia.
Al coraggio delle loro riunioni clandestine in città, non in nome di chissà quali alternative politiche, ma dei loro figli e dei loro mariti resi merce di scarto dall’arruolamento forzato, dalla mancanza quotidiana di cibo.
A loro che hanno per mesi rifiutato di mandarli a scuola. A loro che hanno marciato il seno scoperto per dire l’inutilità del loro dare la vita, di fronte ai continui massacri. A loro che si sono vestite a lutto, che hanno scioperato da ogni attività, che vendono le merci in casa per non pagare al mercato la tassa dello “sforzo di guerra”, la guerra contro il loro popolo.

Rendo omaggio ai loro piedi che fanno chilometri e chilometri per trovare da qualche parte del cibo che costa meno, che accettano l’umiliazione di varcare la frontiera a comprare, tassato, un cibo prodotto nel loro paese, purché i figli mangino. Rendo omaggio alle loro mani callose che conoscono fin da piccole il lavoro, che sanno condividere con la vicina il niente che hanno.

Rendo omaggio al loro grembo offeso da una guerra fatta contro di loro per uccidere il futuro di un popolo. Rendo omaggio alle donne infettate di HIV spesso scientemente come tecnica di guerra. Rendo omaggio alle ragazze umiliate alla stessa maniera mentre andavano all’acqua o al campo e di colpo diventate solo buone per la strada. A queste donne usate e umiliate. A quelle che hanno preferito morire atrocemente  pur di non essere violate.

Rendo omaggio alla loro capacità di danzare, malgrado tutto, alla nascita del figlio della vicina o negli incontri liturgici, ultimi spazi di libertà rimasti. Alla loro capacità di ridere mai del tutto spenta.

Rendo omaggio alla loro fede nel Dio quotidiano che lotta con loro e mediante loro per proteggere la vita, armata debole e enorme della vita contro gli eserciti di morte.

Rendo omaggio a Colui che le ha inventate per dire oggi che la vita si guadagna, si difende, si protegge con la vita. A questa Eucarestia continuamente da esse celebrata nella fatica di una vita data.

Le loro storie, chi mai le racconterà? Ma da qualche parte, un libro è scritto, che conosce ogni loro passo.
Non sono tutte sante. Ma conoscono che l’amore è fatica, l’amore fa male, come diceva madre Teresa.
Un messaggio, una scelta concreta?
Accettare che l’amore ci faccia male, consumi il nostro tempo, la nostra vita, le nostre forze, la nostra pace. Accettare di essere tribolati per amore. Il resto sono parole, sentimenti, Sanremo.

Tratto da: Apparizioni della Madonna in Africa – Nostra Signora di Kibeho
di Padre Angelo Maria Tentori

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Sempre più in alto

Posté par atempodiblog le 13 mars 2010

Sempre più in alto dans Fede, morale e teologia Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Il cuore va verso ciò che ama di più: l’orgoglioso verso gli onori, l’avaro verso le ricchezze, il vendicativo verso la vendetta, l’impudico verso i cattivi piaceri. E il buon cristiano, a cosa pensa? Verso cosa sarà indirizzato il suo cuore? Verso il cielo, dove si trova il suo Dio che è il suo tesoro.

I buoni cristiani sono come quegli uccelli che hanno ali grandi e zampe piccole, per cui non si posano mai, altrimenti non potrebbero più levarsi in volo e rischierebbero di essere presi. Per questo, fanno i loro nidi sui costoni di roccia. Allo stesso modo, il cristiano deve mantenere i suoi pensieri su vette altissime; se scende verso terra, viene  preso.

L’uomo era stato creato per il cielo: il demonio ha rotto la scala che conduceva al cielo.

Tratto da: Curato d’Ars, Pensieri scelti e fioretti, ed. San Paolo

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«Niente da festeggiare»

Posté par atempodiblog le 8 mars 2010

La lettera: «Niente da festeggiare»
Io, studentessa, non credo nell’8 marzo. Donne svestite e senza molta dignità

«Niente da festeggiare» dans Riflessioni mimose

Caro direttore, che senso ha la giornata della donna? Essere italiani è già di per sé molto difficile. Se poi si hanno quasi vent’anni, un diploma, degli ideali e altre cosette futili di questo genere, figuriamoci. In effetti l’unica categoria messa peggio degli studenti italiani diciannovenni è quella delle studentesse italiane diciannovenni, e io ovviamente ne faccio parte: sono nata nel 1990, ho un diploma di maturità classica, frequento l’università, credo nella ragione e nella libertà dell’individuo, nella giustizia, e in molte altre cose che raramente vedo applicate. Credo nell’uguaglianza sociale e giuridica degli uomini, indipendentemente dalla razza, dalla religione, dal sesso, dalla cultura, e credo che l’articolo 3 della nostra Costituzione non sia stato scritto per non lasciare spazi vuoti.

Certo, quando mi si dice che donne e uomini hanno gli stessi diritti, la stessa considerazione, lo stesso trattamento in campo lavorativo, sociale e politico, allora sì che fatico a crederci. Ieri mattina sono stata svegliata dall’arrotino che passava sotto casa, che inizia il suo annuncio rivolgendosi esclusivamente alle donne, casalinghe e devote alla casa. Nel pomeriggio sono uscita e ho aspettato l’autobus di fianco a una supermodella bidimensionale che dall’alto del suo cartellone pubblicitario mi guardava con occhi languidi e espressione poco vispa. Tornata a casa ho sfogliato una rivista e nelle prime pagine ho trovato una ventenne brasiliana mezza nuda che pubblicizzava un’azienda telefonica. Immagino che se avessi acceso la tivù avrei trovato anche di peggio, ma non ho osato verificare.

Io non faccio la moralista, non mi deprime vedere ragazze mezze nude e orgogliose del loro bel fisichino mentre io inizio una dieta nuova ogni lunedì, non mi dà fastidio il fatto che loro abbiano trovato un modo semplice e veloce per guadagnare mentre io ho deciso di complicarmi la vita studiando: semplicemente mi vergogno. Mi vergogno perché se questa è la figura della donna adesso, io non mi ci voglio immedesimare, e non voglio essere accomunata a chi si lascia sfruttare in questo modo, gettando via vestiti e dignità. Abbiamo davvero qualcosa da festeggiare? Per quanto mi riguarda definire l’Otto marzo «la festa della donna» è semplicemente un modo più politically correct per dire che gli altri trecentosessantaquattro giorni dell’anno sono la festa dell’uomo. L’Otto marzo non siamo particolarmente privilegiate, non veniamo tenute in maggiore considerazione, non godiamo di diritti extra. L’Otto marzo è un giorno qualsiasi. Però, che bello, ci regalano una mimosa.

 dans Riflessioni* studentessa universitaria

Alice Zentilomo
Lettera tratta dal: Corriere della Sera

iconarrowti7 Festa inventata (di Vittorio Messori)

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La salsa sulla tovaglia

Posté par atempodiblog le 7 mars 2010

La salsa sulla tovaglia dans Riflessioni tovaglia

La buona educazione non sta tanto nel non versare della salsa sulla tovaglia, ma piuttosto nel non accorgersi se lo fa qualcun altro. «L’educazione di un popolo si giudica dal contegno ch’egli tien per la strada», ammoniva Edmondo De Amicis nel suo vetusto Cuore. Se così fosse, non avremmo di che gloriarci ai nostri giorni. Lo stare a tavola è l’altra cartina di tornasole classica per la verifica del galateo. Qui ci viene incontro la frase sopra riportata, desunta dai Quaderni del grande scrittore russo Anton Cechov (1860-1904). L’idea è abbastanza originale perché non si ferma sul mero comportamento esteriore ma sullo stile. Non far pesare un difetto o una mancanza altrui è segno di finezza e di generosità. Anche Gesù ironizza su chi s’accanisce a togliere la pagliuzza dall’occhio altrui, senza accorgersi della propria grossolanità. Sì, perché spesso chi rimarca i limiti degli altri è, in proprio, un individuo zotico, rozzo, cafone. Purtroppo ai nostri giorni, con la scusa di combattere il formalismo, si è caduti nella sbracataggine e nella volgarità. Se poi si vede una manchevolezza in un’altra persona, si è subito pronti a cavalcarla in modo sguaiato, attaccando negli altri ciò che noi stessi per primi allegramente pratichiamo. Alla radice di tutto c’è, comunque, la mancanza di stile, di dignità. Un’assenza che spesso parte dall’alto, da certi comportamenti pacchiani e stolidi di politici e di persone dello spettacolo, e si dirama diffondendosi nei gesti quotidiani di tutti, creando così un’atmosfera generale sboccata, scurrile e triviale.

di Gianfranco Ravasi

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La solitudine necessaria

Posté par atempodiblog le 4 mars 2010

La solitudine necessaria dans Rainer Maria Rilke solitudine

Una cosa sola è necessaria: la solitudine. La grande solitudine interiore. Andare in se stessi e non incontrarvi, per ore, nessuno: a questo bisogna arrivare. Essere soli come è solo il bambino. Se ci si accosta a un bambino assorbito in un gioco o nell’esplorazione di un oggetto, si ha subito da parte sua una reazione brusca: egli ama stare solo con se stesso, le sue fantasie, i suoi arabeschi gestuali e mentali. Poi, quando cresce, perde questa capacità di stare con se stesso e comincia, sì, la vita in compagnia, ma anche la logica del branco e del rumore di fondo, una sorta di distrazione permanente dal silenzio. Per questa via si perde la possibilità di incontrare se stessi, di ascoltarsi, di penetrare nel segreto della coscienza. È ciò che il grande poeta austriaco Rainer M. Rilke (1875-1926) evoca in una delle sue Lettere a un giovane poeta. Lo stare soli contiene in sé il germe della riflessione, della maturazione, della finezza spirituale, della stessa contemplazione di fede. Purtroppo è un esercizio che è scomparso dall’orizzonte educativo e dalla prassi quotidiana anche degli adulti. È così che si alza il tasso della superficialità, dell’irritabilità, della banalità e dell’indifferenza. Il silenzio per « andare in se stessi » è una sorta di dieta dell’anima che ci purifica dalle miserie, ci solleva dalle cose, ci libera dalla chiacchiera, ci spoglia dalle realtà inutili. Ma attenzione: anche se simili esteriormente, la vera solitudine non è isolamento, perché quest’ultimo è una prigione dell’anima e un terreno dove può sbocciare l’erba maligna dell’infelicità o compiersi la morte dell’amore.

di Gianfranco Ravasi

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Il carbone e il diamante

Posté par atempodiblog le 27 février 2010

Il carbone e il diamante dans Citazioni, frasi e pensieri Carbone-e-diamante

“Che cos’è la bellezza? Guardate il carbone e il diamante. Il carbone e il diamante chimicamente sono lo stesso. Perché il carbone è brutto e il diamante è bello? Perché il carbone fissa tutta l’attenzione a se stesso, mentre nel diamante si vede il sole e tutta la luce: attraverso di esso si vede qualche altra cosa, superiore alla pietra, che la fa bella”.

Vladimir Solov’ëv

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