Questa può essere l’ultima generazione di persone con la sindrome di Down

Posté par atempodiblog le 7 octobre 2021

Questa può essere l’ultima generazione di persone con la sindrome di Down
E non è una buona notizia. Discriminati e abortiti, i bambini affetti da Trisomia 21 sono sempre di meno. La medicina dà loro una vita “normale”, la società preferisce scartarli
di Piero Vietti  Tempi

Questa può essere l’ultima generazione di persone con la sindrome di Down dans Aborto Il-talento-non-fa-differenz
Una delle foto esposte nell’esposizione “Il talento non fa differenze. Mostra fotografica su bambini di talento ed ex bambini divenuti artisti”, nel 2011 a Siena (foto Ansa)

Quando Arthur è nato, e i suoi genitori hanno scoperto che soffriva della sindrome di Down, sua mamma Rebecca ha pensato «che non sarei mai più andata in vacanza e che non avrei mai più avuto una vita. Ma Arthur è fantastico, divertente, brillante ed è una gioia assoluta».

I test nipt spingono ad abortire
Rebecca è Rebecca Hulbert, attrice inglese che in un’intervista al quotidiano britannico Telegraph ha raccontato la storia di suo figlio: «Non sapevo che avesse la sindrome di Down finché non è nato. Mi spaventa pensare a cosa avrei fatto se l’avessi scoperto quando ero incinta. Non avevo mai incontrato nessuno con quella condizione, avevo solo immagini stereotipate di cosa fosse». Da luglio di quest’anno tutte le donne incinte inglesi posso effettuare gratuitamente i test non invasivi nipt (già introdotti nel sistema sanitario qualche anno fa), che da una semplice analisi del sangue riesce a individuare se il feto ha quella copia in più del cromosoma 21 che causa la sindrome di Down.

Ora c’è un dato che rende questo servizio pagato dello stato una notizia preoccupante, e che fa dire a Rebecca Hulbert di «avere la nausea vedendo che stiamo percorrendo la strada dell’eliminazione delle persone»: nei paesi in cui questo tipo di screening viene offerto, quasi tutte le donne abortiscono il nascituro che risulta affetto da trisomia 21. Spaventati dalle disabilità che il figlio avrà in vita, sempre più genitori preferiscono togliersi una fatica che temono di non potere affrontare. Il risultato è che «la popolazione globale con sindrome di Down sta precipitando», scrive il Telegraph, ed è destinata a scomparire.

Le nascite «immorali»
I numeri ci dicono che questa è probabilmente l’ultima generazione di persone con la sindrome di Down. Vittoria per la scienza e la salute dell’umanità? Non esattamente. C’è innanzitutto un piano umano di cui tenere conto, a prescindere dall’accettazione morale dell’aborto in quanto tale. «Invece di sostenere i nostri simili con la sindrome di Down e i loro genitori, incondizionatamente, invitiamo questi ultimi a porre fine alle loro vite», dice al Telegraph la dottoressa Helen Watts dell’Anscombe Bioethics Centre. «L’assenza dalla nostra comunità di persone con sindrome di Down lascia chi di loro riesce a nascere con la sensazione di non essere graditi e accolti dalla società».

Eppure illustri studiosi hanno spiegato che è giusto così: il biologo e scienziato di Oxford Richard Dawkins, che anni fa disse che «un feto è meno umano di un maiale adulto», ha ribadito che la possibilità tecnica di effettuare lo screening prenatale ha di fatto reso «immorale» mettere al mondo un bambino con quella sindrome. Il filosofo e professore di Bioteica a Princeton Peter Singer ha detto che in fin dei conti la perdita di bimbi con sindrome di Down è un danno «riequilibrato dalla nascita di altri bambini» che quegli stessi genitori che hanno deciso di abortire avranno, quindi accettabile. Il dramma è che il pensiero di Dawkins e Singer non è così lontano da quello di tanti.

I passi avanti della medicina
Bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato del termine “accettabile”: la legge che ha depenalizzato l’aborto in Inghilterra nel 1967 permette di abortire legalmente fino all’ultimo giorno di gravidanza un figlio con gravi disabilità (per qualcuno l’aborto è più aborto che per gli altri, scrivevamo). A poco servono le proteste di attivisti e associazioni che difendono i diritti di queste persone, le quali ricordano come ormai molti dei tratti legati alla disabilità di chi è affetto da questa sindrome possono essere curati, e che essendo immuni a diversi tipi di cancro il loro patrimonio genetico può offrire informazioni importanti alla ricerca: in Danimarca ormai il 95 per cento degli screening positivi portano a un aborto, in Islanda il 100 per cento dal 2017, e in tutta Europa in pochi anni è nato il 54 per cento in meno di bambini down.

Spiega ancora il Telegraph che adesso la battaglia è impostata sul creare consapevolezza nei genitori che «grazie alla medicina moderna, i loro figli possono frequentare le scuole tradizionali, vivere in modo indipendente e godere di un’aspettativa di vita simile al resto di noi. Cinquant’anni fa la sindrome di Down era considerata una grave disabilità. La maggior parte dei bambini colpiti è stata sottratta ai genitori, non istruita e cresciuta in istituti, dove è morta prima dell’età adulta. Ora la maggior parte delle complicazioni associate alla sindrome, comprese le difficoltà di apprendimento, possono essere trattate in tutto o in parte».

I down possono essere discriminati
Tempi vi ha raccontato della ventiseienne Heidi Crowter, ragazza con la sindrome di Down che ha provato a cambiare la legge sul’aborto tardivo in Inghilterra, e della sua campagna Don’t Screen Us Out respinta lo scorso 23 settembre dall’alta corte (per Heidi la legge è «offensiva e non rispetta la mia vita», ma oggi sono altre offese che vengono tutelate). Crowter sosteneva che ai genitori di bambini con diagnosi di disabilità non vengono fornite le informazioni e l’aiuto di cui hanno bisogno per scegliere di accettare e crescere il loro bambino disabile.

Il fatto è che, con buona pace delle teorie di Dawkins e Singer, le persone con sindrome di Down non sono mai state bene come adesso, la scienza e lo studio della malattia permettono una vita “normale” e felice e in moltissimi casi. Il Telegraph ha intervistato anche Máire Lea-Wilson, di cui Tempi aveva scritto qui, mamma trentatreenne di Aidan che dopo avere effettuato lo screening ha subito pressioni dai medici fino all’ultimo gioro di gravidanza perché abortisse. Da bambina però Máire aveva una compagna di scuola affetta dalla sindrome di Down, e la ricorda felice e non problematica. Tanto è bastato per scegliere di non uccidere suo figlio.

Più ricerca, meno aborti
Ma se in Inghilterra (e in generale in Europa) la situazione è questa, in America le cose vanno un po’ meglio: grazie alle limitazioni dei finanziamenti alla disponibilità di test e a un’opposizione combattiva all’aborto le nascite di bambini con sindrome di Down sono diminuite solo di un terzo. Frank Stephens, attivista della Global Down Syndrome Foundation, dice da anni che i fondi federali dovrebbero essere utilizzati per migliorare la vita delle persone colpite, piuttosto che eliminare i bambini con quella condizione.

«Siamo il canarino nella miniera di carbone eugenetica», aveva detto al Congresso nel 2017, «stiamo aiutando a sconfiggere il cancro e l’Alzheimer, e rendiamo il mondo un posto più felice». Le argomentazioni pro life contro l’aborto non reggono più a livello di dibattito pubblico, lo sappiamo, ecco perché Stephens ha ribaltato il tavolo buttandola sulla ricerca: le informazioni contenute nel patrimonio genetico delle persone con sindrome di Down sono utili alla ricerca scientifica per curare le malattie che affliggono tutti, loro compresi. Non trattandole da cavie, ma da «individui che hanno diritto alla salute e alla felicità», dice al Telegraph Brian Skotko, genetista della Harvard Medical School.

Fallito l’assalto al comma della legge che in Inghilterra permette l’aborto tardivo nel caso di malformazioni, il fronte si sta riorganizzando con una proposta di legge per «definire una strategia nazionale per identificare e soddisfare i bisogni di tutti gli adulti e i bambini che vivono con quella condizione». «Mi sento molto triste e preoccupata», ha detto Rebecca Hulbert al Telegraph, «stiamo cercando di creare una razza superiore di bambini tutti uguali tra loro e capaci di andare a Oxford, o vogliamo anche persone che sappiano capire come ti senti e ti abbraccino? Abbiamo bisogno di più Arthur, Aidan e Heidi in questo mondo».

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Il cuore di Alessio Cerci

Posté par atempodiblog le 26 novembre 2013

Il cuore di Alessio Cerci
Da ragazzo matto a uomo e campione. Un giocatore diventato grande con la maglia del Toro addosso
di Piero Vietti – Toro.it

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Io non ricordo, nella mia più che ventennale esperienza di tifo granata, un altro come Cerci. Non me lo ricordo perché ai tempi del primo Lentini ero troppo piccolo, e a casa mia non si seguiva più di tanto il Toro. Ho la memoria dolorante per Amsterdam, ma non vedevo tutte le partite, né andavo allo stadio. Martin Vasquez, Casagrande e Scifo li ho apprezzati più avanti, rivedendoli. Un altro come Cerci non me lo ricordo perché Asta è stato un’altra cosa, così come Ferrante o Bianchi più tardi, e prima di loro Carbone e Silenzi. Cerci è il giocatore che molti ci invidiano, come non accadeva da tempo. Cerci è il giocatore che quando tocca palla tu sai sempre che qualcosa succederà. Cerci è quel giocatore che finalmente meritavamo. E se quando andrà via qualcuno si ricorderà di dare dei meriti a Ventura, Cerci – questo Cerci – dovrà essere in cima alla lista.

Io non lo so che cosa succederà a fine anno. E’ possibile, forse probabile, che Cerci lascerà il Toro per andare a giocare là dove si vincono campionati e coppe (mi auguro fuori dall’Italia). Non so nemmeno se lui questo già lo sappia. Quello che so è che lui adesso a Torino, e al Toro, sta bene. E non perché me lo abbia raccontato qualcuno, ma perché basta guardarlo, leggere quello scrive sui social network e dice nelle interviste. Mi spiego. Se sei un campione, da te non si pretenderà altro che il massimo impegno, la maglia sudata a fine gara e i colpi che possono fare la differenza. Il resto è di più. Cerci invece ultimamente ha cominciato a dire cose che nessuno gli aveva mai chiesto. In tempi in cui ogni tweet o status di Facebook vengono analizzati dai giornalisti al microscopio come è successo a Balotelli, prudenza vorrebbe che si riducessero al minimo esternazioni che potrebbero essere interpretate in certi modi.

Cerci se ne frega. Esterna. Chiede scusa ai tifosi dopo che ha sbagliato il rigore contro l’Inter, o dice la sua sulla pessima fiction su Meroni scrivendo che “quando i tifosi del Toro mi parlano di Meroni trasmettono davvero molto ma molto di più rispetto al film di stasera. È dai loro racconti che capisco l’affetto che provavano per lui . Ciao Gigi da tutti noi!”. Non ha paura di attaccare la Juve dopo il gol irregolare nel derby (sapendo che questo potrebbe avere ripercussioni) e alla fine della partita con il Catania ha voluto ancora una volta ringraziare i tifosi così: “Grande vittoria quella di oggi. Felice per la squadra e per tutti i tifosi. Un ringraziamento particolare però lo voglio fare alla curva che oggi mi ha dimostrato ancora una volta tutto l’affetto di cui ho bisogno… Peccato per il gol mancato ! Un abbraccio sincero”. Me lo chiedevo in questi giorni: c’è qualcuno che lo obbliga a scrivere certe cose? No. E allora, perché lo fa? Non ha bisogno di intortarci, ci bastano i suoi gol.

La cosa impressionante è che Cerci in questo anno e mezzo in granata è cresciuto davvero, passando da ragazzo immaturo e un po’ matto a campione consapevole dei suoi limiti e quindi sempre più forte perché in grado di superarli. In 15 mesi ha fatto un salto di qualità come solo a chi cresce con questa maglia addosso capitava. Le parole con cui ha commentato l’analisi di Mondonico su questo sito sono le parole di un uomo consapevole del compito che ha in questa squadra e fiero del rapporto con i suoi tifosi e con la storia unica di cui il destino ha voluto che – almeno per un po’ – entrasse a far parte. Io non lo so se a fine anno andrà via. Possibile, forse probabile.

Quel giorno noi granata saremo tutti un po’ più tristi. E i più tristi forse saranno quei bambini che prima della gara con il Catania lo hanno abbracciato e poi tifato da quello spicchio di stadio così bello da far saltare il cuore ogni volta che lo si guardava. Anche se nessuno mi potrà impedire fino all’ultimo di sperare che Cerci rimanga da noi, diventando – in quel modo così granatamente anacronistico – una bandiera e un simbolo per il Toro del futuro. Io non lo so se Cerci stia diventando un cuore granata. So però che con il granata addosso sta diventando uomo e campione. Se continua così, e se noi continueremo a volergli bene e a farlo sentire a casa, quando se ne andrà non saremo soltanto tristi, ma anche un po’ meno soli: sapremo con certezza che nel mondo ci sarà un tifoso granata in più.

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Resistere alla laïcité

Posté par atempodiblog le 4 septembre 2013

Una nuova Vandea
Resistere alla laïcité
Il filosofo Steffens ci spiega perché i cattolici francesi si rivolteranno contro la New Age giacobina
di Piero Vietti – Il Foglio

Resistere alla laïcité dans Articoli di Giornali e News eobk

La Francia come “un diritto individuale”, che va verso “un mondo in cui individui senza legami duraturi né memoria si giustappongono, godendo come ubriachi del loro diritto di fare qualsiasi cosa, prima di incenerirsi al ritmo di musica new age”. Una scuola destinata a crescere bambini angosciati che hanno perso la voglia di imparare. Una religione costruita dal niente che innalzerà templi vuoti. Ma anche una nuova generazione di cattolici non impauriti. E’ un affresco inquietante, ma non disperato, quello che il giovane filosofo Martin Steffens fa al Foglio nei giorni in cui entra in vigore nelle scuole francesi la carta della laicità voluta dal ministro Vincent Peillon, apertamente in guerra con la chiesa cattolica. Scopo: portare a termine quanto iniziato dalla Rivoluzione francese, “strappare il bambino da tutti i suoi legami pre-repubblicani per insegnargli a diventare un cittadino”, ovviamente non omofobo e aperto a tutte le possibilità sessuali. Una “nuova nascita”, una nuova “religione repubblicana”. Vocazione al pensiero unico, guerra alla libertà di pensiero. Steffens, cattolico francese, saggista, conferenziere e polemista noto per le sue posizioni mai concilianti con il mainstream secolarista, studioso del pensiero di Simone Weil (di cui ha curato un libro uscito in Italia per Gribaudi, “15 meditazioni”), spiega al Foglio che quello di Peillon è un attacco contro le proprie radici: “Molti francesi, distruggendo tutto ciò che c’era prima del 1789, pensano di lottare per la libertà di pensiero, ma non si rendono conto che così facendo seccano la linfa che ancora irriga la nostra vita sociale”. Avere una memoria viva, dice Steffens, “vuol dire riconoscere che tanti dei valori che stanno alla base della Francia provengono dalla tradizione cristiana. Pascal diceva che ‘siamo nani sulle spalle di giganti’: chi sostiene il contrario manca di senso storico e memoria. Molte delle cose belle che ancora si vedono nei nostri paesi e nelle nostre città, per fare un esempio, sono frutti dell’arte religiosa”. In pochi però ormai sono consapevoli di questa tradizione. “Durante una lezione di filosofia – esemplifica Steffens – ormai non è più possibile parlare di sant’Agostino o di Tommaso d’Aquino senza che uno studente salti su a ricordare che viviamo in un paese laico”. Che cos’è oggi la Francia? “Un diritto individuale che si sostiene da se stesso. ‘La Francia… se voglio’. Ormai è questo il nostro motto”.

“Questa carta della laicità incoraggerà gli studenti a ripensare i propri credi”, ha detto Dominique Borne, fra gli autori del testo sulla laicità per le scuole, dirigente del ministero dell’Istruzione e già presidente dell’Istituto europeo delle scienze religiose. Tempi duri per i cattolici, che rischiano di soffrire una sorta di persecuzione per il loro credo non allineato? “Per il momento no”, dice Steffens. Che aggiunge subito: “Finché dura”. Il primo compito di un governo, spiega, “dovrebbe essere quello di assicurare la coesione sociale del paese, al di là delle posizioni ideologiche che rappresenta. Ecco perché è sorprendente vedere come Hollande prima, con il matrimonio per tutti, e Peillon adesso sulla scuola abbiano introdotto la logica amico/nemico al centro del loro modo di governare”. Non una novità, questa: “Certo, la sinistra ha sempre avuto bisogno, per esistere sullo scacchiere politico, di stigmatizzare gli elettori di destra. Ma adesso la sinistra è al governo, e quando stigmatizza crea realmente divisione. Attaccando non soltanto l’appartenenza, ma la stessa religione ‘madre’ del paese, la sinistra tocca senza la dovuta delicatezza argomenti più che delicati, che riguardano la pancia e la memoria viva del paese. Una persona al potere deve avere tatto quando tocca queste cose: un tessuto sociale fragile facilmente si strappa”.

Il popolo e gli intellettuali francesi però non sono rimasti a guardare inerti lo sfacelo: “Il neonato movimento Manif pour tous ha mobilitato molte energie per denunciare il mondo che ci aspetta. Ma nonostante tutto ho l’impressione che qui in Francia stia nascendo qualcosa di nuovo: i giovani cattolici sono più forti, meno complessati, credono in Dio, nella resurrezione della carne e nella presenza reale di Cristo. Per quel che riguarda gli intellettuali, abbiamo sentito le voci di Rémi Brague, Chantal Delsol, Marcel Gauchet e Alain Finkielkraut”. Ma è alla generazione dei venti-trentenni che bisogna guardare, insiste Steffens: in molti hanno capito che la santità ha bisogno di carità e testimonianza: “Un santo è un profeta, uno che non sta zitto e non ha paura di combattere l’errore e l’eresia. Questo momento di confusione è un appello alla conversione”. E aggiunge: “Non mi stupisce che certe cose succedano proprio qui da noi: il diavolo lascia stare solo quelli che sono già suoi”.

In questi giorni ricomincia l’anno scolastico in Francia, e la cura Peillon comincerà a farsi sentire. “Il rientro a scuola rischia di assomigliare a tutti gli altri rientri – assicura Steffens – Perché quello di cui Peillon non si rende conto è che se questa nuova religione ha come principio quello di autogenerarsi con una ‘nuova nascita’, essa non avrà come ‘fedeli’ che individui autocentrati, i quali non vorranno imparare, sapere e credere nulla”. Questo è il carattere paradossale del vecchio sogno repubblicano di creare una religione della République, spiega ancora Steffens, “poiché creare dal nulla una religione vuol dire non crederci! Bisognerebbe essere pazzi per adorare questo dio ‘costruito’ nel proprio ufficio o in un think tank. Guardate i cristiani: non volevano creare una nuova religione; semplicemente credevano che Gesù fosse il Cristo, e così è nato il cristianesimo. Come ha detto Samuel Beckett: ‘E’ più facile costruire un tempio che farvi discendere la divinità’. Come nel 1789, costruiranno bei templi repubblicani, ma saranno vuoti: Joseph de Maistre, che fu il primo rivoluzionario, aveva messo in guardia i suoi contemporanei: con il vostro ‘contratto sociale’, diceva, potrete imporre ai cittadini di vivere insieme, ma non di danzare o cantare insieme. Infatti ormai si canta insieme solo nelle famiglie cattoliche”.

Steffens intravede un altro aspetto inquietante nelle parole del ministro: “Per fare una religione non bastano i concetti religiosi, ma occorre la pratica e il sacrificio’. Come ha detto René Girard, dove c’è religione c’è un sacrificio: in quella cattolica è Dio stesso che si sacrifica. Ma chi sarà il capro espiatorio di questa nuova religione laica? Temo che la risposta sia già contenuta nelle parole di Peillon”.

L’offensiva educativa di Peillon trova naturalmente un appoggio nella cultura gay. Il suo ministero ha inviato a tutte le scuole elementari del paese una circolare dove “si invita fortemente” a educare i ragazzi “all’uguaglianza di genere” e a combattere in classe “l’omofobia”. Il testo consigliato dal sindacato degli insegnanti si intitola “Papà porta la gonna”. “La preoccupazione del ministro non è che si parli di sessualità a scuola, ma di parità di diritti – dice Steffens – Ora si scopre che gli omosessuali in Francia sono considerati il simbolo delle minoranze che soffrono persecuzioni, ma tutti sanno che in Francia non c’è nessuna persecuzione ai danni degli omosessuali. Che una coppia gay soffra perché non può concepire un bambino non vuol dire che per questo a scuola si debba introdurre il tema dell’identità sessuale: che cosa può portare ai bambini il parlare loro del diritto a essere bisessuali o a cambiare sesso, se non turbamento? Come diceva Hannah Arendt, la scuola deve ‘proteggere i bambini dal mondo’, soprattutto quando il mondo è perso, guardone e ossessionato dal sesso. Nelle società occidentali il sesso è sempre più importante perché abbiamo una visione consumista e individualista. La sessualità è stata staccata dalla dimensione umana e spirituale. La società laicizzata sa guardare solo sotto la cintura. Ma sono sicuro che il signor Peillon, che è un uomo d’altri tempi, con quattro figli, è lui stesso inorridito nel guardare il sito Ligne Azur, promosso dal ministero, sulla nuova educazione sessuale dei giovani francesi”.

I vescovi francesi al momento non si sono fatti ancora sentire, ma è possibile che l’attacco alla chiesa cattolica, oltretutto esplicito, rimanga non giudicato dai vertici della chiesa? C’è da aspettarsi prima o poi un intervento del Papa? “La questione è delicata – risponde Steffens – Quello che sta succedendo rimette in gioco quello che Papa Leone XIII aveva espresso nella Inter sollicitudines, ovvero il sostegno dei cattolici francesi alla République”. La laïcité francese insiste sul carattere individuale: la fede deve essere confinata alla sfera privata. “I cattolici sono i primi ad avere assimilato questa esigenza di neutralità: mentre è facile incontrare per strada delle donne velate, è molto difficile vedere preti con il colletto romano o la talare”. Ma adesso l’asticella della laicità si è alzata. Il filosofo fa l’esempio del matrimonio, che per un cattolico è un’istituzione naturale che esisteva ben prima del cristianesimo, e che “serve a sostenere l’unione dei due coniugi tramite la grazia ricevuta nel sacramento. Ora lo stato, pensando al matrimonio come a un diritto individuale, e istituendo il mariage pour tous, l’ha privato del suo carattere naturale, togliendo la base naturale su cui la grazia interviene. Come fare dunque adesso, che la République contesta l’idea stessa di natura, cioè di un ordine oggettivo delle cose? La questione è interessante e, immagino, un po’ difficile da affrontare pubblicamente per i vertici della chiesa: che succede se annunciamo pubblicamente il divorzio tra stato e chiesa? Niente di bello. Ma personalmente confido nel nostro Papa e nel coraggio di un certo numero di vescovi francesi, che, come quello della mia diocesi, non hanno mai esitato a prendere posizioni chiare”.

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Il Torino della memoria

Posté par atempodiblog le 4 mai 2009

Superga, 4 maggio 1949. L’inspiegabile sopravvivenza di una squadra morta troppe volte per morire davvero

 

Ross come ’l sangh/ fòrt come ’l Barbera/ veuj ricordete adess, me grand Turin. […] T’has vinciù ’l mond/ a vint ani ’t ses mòrt./ Me Turin grand/ me Turin fòrt. (Rosso come il sangue, forte come il Barbera, voglio ricordarti adesso, mio grande Torino. Hai vinto il mondo, a vent’anni sei morto. Mio Torino grande, mio Torino forte). Giovanni Arpino, “Me grand Turin”.
Il Torino della memoria dans Articoli di Giornali e News grandetorino
Sessant’anni sono troppi
per permettersi il lusso della nostalgia. Sessant’anni sono troppo pochi perché la storia possa relegarli a qualche pagina iniziale dei manuali del calcio o a un riquadro con la dicitura “accadde oggi”. Sessant’anni sono tutto, per il paese che li amava, per la città che non li ha dimenticati. Eppure sessant’anni sono niente per chi non li ha mai visti vivi.

 

Sotto la pioggia di un pomeriggio del 1949 la squadra più forte del mondo abbandonò la scena della sua storia ed entrò di schianto nella sua eternità. Erano le 17.03 del 4 maggio, quando la torre di controllo dell’aeroporto di Torino cominciò a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava: il pilota dell’aereo che riportava a casa i giocatori del Torino non rispondeva più alla radio. Le nubi basse, inconsuete per la stagione, addormentavano la città da qualche ora, quando si udì l’esplosione. L’impatto avvenne alla base del muro posteriore della basilica di Superga, sulla collina da cui la Madonna guarda i torinesi. Il boato fu tremendo, le fiamme immediate. In un istante impercettibile ed eterno, il destino si portò via tutti i giocatori del Grande Torino. Loro, che non avrebbero dovuto andarsene via mai. Loro, che forse se ne andarono al momento giusto, giovani come gli eroi cari agli dei. Avevano appena messo al sicuro il loro quinto scudetto consecutivo, pareggiando 0-0 a Milano contro l’Inter, e il presidente Ferruccio Novo aveva permesso loro di andare a giocare una partita di beneficenza in Portogallo, per festeggiare l’addio al calcio di Ferreira, capitano del Benfica. Per un’ironia della sorte tutta granata, il Torino aveva perso 3-2 quell’ultima, insignificante partita. Dopo aver vinto tutto. “Arriviamo” avevano detto per telefono a mogli e fidanzate prima di partire. “Addio”, avrebbero risposto in lacrime loro il giorno dopo. La moglie di Gabetto, l’attaccante famoso per le sue rovesciate e la brillantina in testa, era stata la prima a saperlo. Dopo il botto a Superga aveva telefonato all’aeroporto. “Dove sono?”, aveva sussurrato all’apparecchio. “Sono morti tutti”, aveva risposto un filo di voce dall’altra parte. Con loro tutto l’equipaggio, alcuni dirigenti e tre giornalisti, Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, e Luigi Cavallero.

L’abbraccio, commosso e piemontese nei modi, glielo diedero in seicentomila pochi giorni dopo, ai funerali di stato. A riconoscere i corpi, carbonizzati e sfigurati, era stato Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale italiana, ma eminenza grigia del presidente Novo nella costruzione di quella squadra che, insieme con Coppi e Bartali nel ciclismo, aveva ridato speranza a un paese intero dopo la devastazione della guerra, mondiale e civile. Perché così come le due ruote, il pallone giocato dalle maglie granata del Grande Torino, faceva sognare gli italiani. Tutti tifavano quei colori, comunque simpatizzavano per essi, tutti sapevano a memoria la filastrocca, Bacigalupo – Ballarin – Maroso – Grezar – Rigamonti – Castigliano – Menti – Loik – Gabetto – Mazzola – Ossola. Anche chi il calcio mai lo aveva seguito. Chi li ha visti dal vivo e oggi lo racconta dice di una squadra senza individualità spaventose, senza fenomeni, ma che era un blocco unico, insormontabile. Capace di non perdere una partita in casa per quattro anni di fila, capace di vincere uno scudetto con sedici punti di vantaggio sulla seconda segnando 125 gol, capace di vincere partite anche 10-0 (ad Alessandria, quando il granata Grezar segnò un gol stoppando di petto un rinvio del portiere avversario, Diamante, e ricalciando in porta al volo, da centrocampo), capace di essere “l’evento” da andare a vedere, l’esempio da imitare.

Chi muore giovane in modo tragico diventa Grande per forza, eppure loro erano Grandi già in vita, come se un Omero moderno ne avesse già tracciato il destino, drammatico e poetico insieme, prima che lo facessero le nubi basse su Torino quel 4 maggio del 1949. “Era un calcio diverso – racconta Franco Ossola – figlio dell’ala destra di quel Torino, nato pochi mesi dopo lo schianto, una vita passata a cercare e raccontare le gesta del padre mai incontrato e dei suoi compagni – ma ciò che faceva grandi quegli uomini era, oltre allo strapotere tecnico e fisico, la loro forza morale: in un momento di crisi di identità come quello del Dopoguerra fu un coagulo importantissimo per gli italiani. Rappresentavano una serie di valori che il popolo aveva come dimenticato, perso per strada: la dignità, l’onore, la fierezza. La gente si riconosceva nei suoi campioni, che erano persone normali: li incontravi per strada, al bar, alcuni di loro avevano dei negozi in centro dove lavoravano”.

Il racconto del Grande Torino non è però il rimpianto per un mondo che non c’è più, o il pugno chiuso contro il cielo plumbeo che ha portato via gli eroi, neppure una nostalgia pelosa per un passato che non può tornare. Non può essere così perché quel passato non se n’è mai andato. “Quando chiedo a chiunque che cosa facesse quel pomeriggio del 4 maggio – continua Ossola – non ce n’è uno che non lo ricordi nitidamente”. Oggi però, forse, una tragedia del genere non sarebbe sentita in quel modo, non ne nascerebbe una leggenda come per quella squadra. “Di sicuro no – dice Giampaolo Ormezzano, storico giornalista sportivo e tifoso del Torino – ci sarebbe subito qualcuno pronto a tirare fuori qualche gossip, qualche porcata fatta da questo o quel calciatore”. Forse è questo che dà “fastidio” del Grande Torino, continua: “Erano troppo puri – sorride – Tutto ciò che non c’era di ‘giusto’ è stato cancellato da quella morte epica, quasi omerica. Quella squadra è diventata un simbolo di perfezione. Invece erano persone come tutti, un undici che magari oggi non vincerebbe nemmeno lo scudetto”. Ma allora li vinceva. “Era una forza terrena, operaia, molto piemontese – prosegue Ormezzano – messi insieme in modo geniale dal presidente Ferruccio Novo”.

Nessuno come il Grande Torino, però, aveva il senso costante dell’utilità, il senso della squadra; e della rappresentanza: Coppi e Bartali erano l’Italia che vinceva il Tour, loro erano l’Italia. Anche nel vero senso della parola: arrivarono a indossare la maglia azzurra dieci giocatori su undici, una volta. Era contro l’Ungheria. Vittoria per 3-2. L’unico intruso, il portiere: Sentimenti IV, estremo difensore della Juventus. Bacigalupo, il portiere granata, era ancora troppo giovane ma, come si dice oggi, “già nel giro”. Cercando tra i resti dell’aereo, in mezzo alle lamiere fuse e alle scarpe sparse sulla collina, trovarono il portafogli di “Baciga”. Dentro, ben custodita, una foto col “nemico” bianconero. Non è un caso che l’unica maglia di club presente al museo del calcio di Coverciano, tra le decine di casacche azzurre, è quella granata con il 10 di Valentino Mazzola, il capitano. Lui, poi, era un discorso a parte. Quando decideva che non ce n’era più per nessuno, non ce n’era più per nessuno. Se il Toro era sotto, anche di due o tre gol, a un certo punto si tirava su le maniche. Dagli spalti, in mezzo alla folla, Bolmida suonava la carica con la sua tromba. In un quarto d’ora il risultato era ribaltato. Il 30 maggio del 1948, per esempio, la Lazio conduceva per 3-0. In pochi minuti fu 4-3. Il famoso quarto d’ora granata.

Il loro stadio, poi. Al Filadelfia, così si chiamava, la recinzione era a un metro dal terreno di gioco, e quel grido “Toro! Toro!” risuonava nelle orecchie per novanta minuti. La fossa dei leoni, la chiamavano. In quel campo, quando poi negli anni ci si spostò a giocare al Comunale, il Torino ha cresciuto generazioni di ragazzi, uomini e calciatori. Facendo loro respirare quell’aria, facendo toccare quegli spogliatoi. “Al Filadelfia c’erano muri che sembravano persone, e persone che erano come muri”, dirà anni dopo Walter Novellino, cresciuto nel vivaio e andato a far fortuna altrove. Alberto Manassero, che di Torino scrive su Tuttosport da dieci anni, conosce tanti giocatori passati dal “Fila”, e dice che “per molti di loro è bastato crescere lì per innamorarsi di quella maglia”. Magari non hanno mai giocato in prima squadra, come Giancarlo Camolese, l’attuale allenatore del Torino che ha giocato solo in Coppa Italia, o sono andati a vincere tutto con altri colori (è il caso, tra i tanti, di Diego Fuser), ma il granata ce l’hanno dentro, addosso. Poi, da un giorno all’altro, il Filadelfia non c’è stato più. In una città dove le Belle arti non fanno toccare nemmeno i marciapiedi, si è misteriosamente trovato il permesso per abbattere quel testimone imponente e silenzioso della gloria del Grande Torino. “Per ricostruirlo subito”, promisero allora politici e dirigenti. Son passati dodici anni, e se non fosse per l’amore dei tifosi, anche le poche pietre rimaste in piedi sarebbero soffocate dalle erbacce. E mentre in pochi giorni si trovano i soldi per rifare lo stadio alla Juventus, l’amministrazione (del tifoso Sergio Chiamparino) continua a trovare ostacoli burocratici per impedire che si ricostruisca almeno un campo d’allenamento. Ci sono luoghi, nella storia delle persone, senza i quali uno non è più lo stesso. Se distruggi la memoria di un uomo, hai distrutto l’uomo. Per il Torino il Filadelfia è la stessa cosa. In troppi hanno capito che su quel tasto ci si fa pubblicità gratis e si vincono elezioni. Come un mantra, ciclicamente esce fuori qualcuno con un progetto pronto, una cordata già all’opera, un sogno da realizzare. Sistematicamente non succede nulla.

Ma il tifoso del Toro è morto troppe volte per morire davvero, è diventato troppo cinico per esserlo sul serio. Ha imparato che il calcio è una cosa seria, perché c’entra con la vita, dato che c’entra con la morte; e come ogni 4 maggio, anche quest’anno un popolo intero sarà lì, su quel campo, e a Superga, a ricordare perché quando si parla della prima squadra di Torino non si parla solo di calcio. C’è una storia, un’appartenenza strana dietro, inspiegabile a chi non si inerpica su per la collina del disastro e non va a visitare quella lapide, i nomi incisi sopra che nessun brutto tempo cancellerà. Quei nomi sono incisi sulle ossa di ogni torinista, e di ogni torinese che quel pomeriggio di sessant’anni fa c’era. Quando si parla del Grande Torino non c’è sfottò che tenga. E’ poesia, quella, epica, trionfo e tragedia. Mica solo calcio. Ogni tifoso del Torino ha visto giocare il Grande Torino. Anche se non era ancora nato. Sembra insensato, ma è così. Non è un rimpianto, il commemorare gli eroi di Superga, perché non puoi rimpiangere ciò che non hai visto. E’ l’orgogliosa coscienza di appartenere a una storia che nessuna Champions League potrà eguagliare, mai. Sessant’anni sono troppi per vivere solo di un’idea.

Sessant’anni sono troppo pochi perché tutti i disastri (societari e non) che da quel 4 maggio hanno attraversato la storia del Torino potessero uccidere quel popolo. Forse il Toro non c’è più. Forse il fallimento di tre ani fa e quello che ne è venuto dopo hanno come narcotizzato una storia unica nel mondo (nessuna squadra di calcio ha così tanti libri, film e documentari dedicati), certo il “calcio moderno”, in cui il tifoso granata si trova a proprio agio come un pallone sgonfio in cima a un albero, vorrebbe normalizzare la leggenda. Eppure ogni 4 maggio sono migliaia le persone che salgono su alla basilica, che prendono messa insieme ai giocatori e ai vecchi campioni, che portano un fiore o una preghiera agli Invincibili. Arrivati sul piazzale di Superga, quello che guarda Torino, è normale fare il giro, andare a vedere dove tutto è incominciato. Se uno chiude gli occhi, sente l’acqua sui vestiti, la nebbia nei polmoni; poi, alle spalle, il rombo imponente e fatale. Di colpo è schianto, crollo, fuoco, motori. Poi silenzio. Solo pioggia a rimbalzare sul metallo piegato. La domenica successiva, in campo scesero i ragazzi delle giovanili, i volti rigati di lacrime. Dagli spalti, la tromba di Bolmida e quel coro: “Toro! Toro!”, che continua ancora oggi. Non sono scomparsi, i Campioni. Sono andati a vincere tutto da un’altra parte. Per sempre.

di Piero Vietti – IL FOGLIO.it

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