Colei che ha capito Dio

Posté par atempodiblog le 29 septembre 2013

“Non abbandonare senza amore un uomo o la speranza in lui, poiché è possibile che anche il figlio più perduto si salvi, che anche il nemico più accanito possa ritornare tuo amico; è possibile che colui che è caduto così in fondo si risollevi; è possibile che l’amore che si è raffreddato torni ad ardere: perciò non abbandonare mai un uomo, neppure nell’ultimo momento, non disperare, no – spera tutto!”. (Soren Kierkegaard)

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«Quando nell’ombra cade la sera». Sono le parole che compongono la prima frase dell’omonimo canto popolare ed evocano pensieri che ci rimandano alla sera intesa come fine della giornata o come conclusione di un cammino difficoltoso o ancora come termine del cammino della vita; una sera, però, che si rischiara dall’immagine luminosa di Maria alla quale l’uomo può aprire il suo cuore nella ricerca di conforto, coraggio, aiuto. Il futuro del mondo in cui siamo immersi è incerto: la febbre dell’egoismo ha ormai contaminato tutto ciò che ci circonda, ma la certezza che Maria è speranza è ancora viva e forte.

I valori umani indicati da Maria sono le virtù basilari per guarire dall’incomprensione, dalla rivalità, dall’avidità. A un mondo schiavo del denaro Maria richiama la povertà, a un mondo provocatore e astuto consiglia la semplicità di cuore; a un mondo vecchio e indurito dall’odio porta il sorriso addolcito di giovinezza. L’uomo che affida la sua vita alla maternità di Maria è guidato verso i misteriosi legami dello Spirito che lo portano gradualmente a creare un contatto sempre più intenso con il Dio dell’amore, della misericordia, del perdono.

Nel corso dei secoli la devozione mariana ha trovato numerose espressioni: si sono sviluppati pensieri individuali in armonia con profondi sentimenti di fiducia e di speranza. In questo contesto un ruolo importante va riservato ai canti popolari mariani che hanno arricchito la preghiera della Chiesa e impresso il loro carattere alla cultura dei popoli. Le origini di queste lodi non ci sono note e oggi la maggior parte di esse sono cadute in disuso, ma bisogna riconoscere che le melodie e i testi di questi canti coinvolgono e trascinano.

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T. Grassi, Incoronazione della Vergine (1692), chiesa Madonna del Popolo, Romagnano Sesia (Novara).

«Quando nell’ombra» è un canto semplice, strutturato con strofe e ritornello; la conduzione ritmica si presenta uguale nel corso del brano, creando regolarità e continuità. La melodia delle strofe rispecchia, pur nella sua brevità, un percorso di quattro battute ascendenti, in progressione, a cui corrispondono altrettante battute, sempre in progressione, ma discendenti. È un percorso che richiede delicatezza nell’esecuzione; la graziosità melodica non va disturbata dall’appoggio sulla croma: tutto procede con linearità e spontaneità, privilegiando una sonorità delicata e leggera.

Il ritornello inizia con due battute che, data la scelta ritmica, interrompono l’atmosfera precedente. Le tre semiminime di Fa’ pura introducono una successione melodica più marcata che fa esplicito riferimento a una richiesta di aiuto, a un’invocazione resa ancora più convincente dall’apertura verso l’acuto che può essere accompagnata, anche, da un’intensità sonora maggiore.  È qui il punto che maggiormente si presta alla coralità con la possibilità di aggiungere alla melodia principale altre voci che danno rinforzo e grandiosità al ritornello. Dalla terza battuta del ritornello, poi, si riprende il ritmo iniziale, seppur leggermente variato nell’ultima parte, con un evidente richiamo melodico che conduce a una conclusione dolce e riservata.

Quando nell’ombra…
Quando nell’ombra cade la sera,
è questa, o Madre, la mia preghiera:
fa’ pura e santa l’anima mia.
Ave Maria, Ave.
Di stelle e d’angeli incoronata,
da mille popoli sempre invocata:
ave, divina bianca Regina.
Avvolta in splendida candida veste,
cinta da un serico nastro celeste:
ave, divina bianca Regina.
Nel duol, nel gaudio da mane a sera
s’innalzi unanime una preghiera
alla divina bianca Regina.

di Luisa Tarabra
a cura di Mario Moscatello e Giuseppe Tarabra – Madre di Dio

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Che bello seguire Francesco! Quello che ci insegna (anche sui valori): i cristiani leggono i segni dei tempi. Una storia che inizia.

Posté par atempodiblog le 24 septembre 2013

Che bello seguire Francesco! Quello che ci insegna (anche sui valori): i cristiani leggono i segni dei tempi. Una storia che inizia.
di Antonio Socci- Libero

Che bello seguire Francesco! Quello che ci insegna (anche sui valori): i cristiani leggono i segni dei tempi. Una storia che inizia. dans Antonio Socci 00yj

C’è lo stupore e la compassione nella splendida intervista di papa Francesco. Lo stupore di chi si è sentito perdonato e amato dal Salvatore, come il pubblicano Matteo, l’evangelista della celebre tela di Caravaggio. Che il papa evoca.
E c’è la compassione per questa umanità di feriti. Il desiderio di portare a tutti quello sguardo di misericordia che lui ha incontrato nel volto di Gesù e quindi nella Chiesa.

COSA SIAMO
In effetti siamo un mondo di feriti. Le cronache parlano di guerre sanguinose, di repressioni crudeli, di una crisi economica che imperversa e porta all’angoscia, di società piene di odio. Parlano di violenza perfino in quei rapporti affettivi personali che dovrebbero essere segnati dall’amore.

Siamo tutti creature ferite dalla vita. Non lo si può negare.
Il recente Festival della filosofia di Modena, dedicato appunto all’amore, è stato concluso dalla lezione magistrale della sociologa israeliana Eva Illouz, nota per il suo best-seller, “Perché l’amore fa soffrire”.
La Illouz, sebbene femminista e liberal, ha fotografato – a cinquant’anni dalla rivoluzione sessuale che doveva renderci tutti liberi e felici – un panorama di rovine.
Ha spiegato che l’amore “ormai è divenuto un problema, preso in carico dalle comunità terapeutiche”. Ha aggiunto: “l’amore ha sempre fatto soffrire, ma oggi lo fa molto più di prima”. E lo sappiamo tutti.
E’ l’ennesima eterogenesi dei fini. Come il marxismo, anche la rivoluzione sessuale promise la felicità e ha prodotto l’infelicità (così pure potremmo dire per il mito scientista o quello del benessere).

L’OSPEDALE DI DIO
Dunque la nostra società è piena di feriti. Ecco perché papa Francesco vede la Chiesa “come un ospedale da campo dopo la battaglia”. Essa si sente chiamata a “curare le ferite e riscaldare il cuore dei fedeli”.

Siamo tutti feriti senza distinzione di credo o di filosofia o di fede politica. La battaglia che ci ha messo a terra e di cui parla il Papa è quella della vita, ma anche quella che la modernità aveva intrapreso per emanciparsi da Dio.
E’ evidente che la Chiesa ha perso quella battaglia (umanamente e storicamente parlando).
Ma i “morti e i feriti” distesi sul terreno sono i vincitori, cioè tutti noi moderni. La Chiesa non combatteva per sé, ma per noi. Noi moderni abbiamo prevalso e ora siamo al tappeto.
Perciò essa, come una madre premurosa, che aveva messo in guardia i suoi figli, si china su di loro, pietosa e se li carica sulle spalle.
Papa Francesco fa come il padre del figliol prodigo. Che non rinfaccia al figlio i suoi errori, che non inveisce e non punisce.
Anzi, “quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, poi – interrompendo il mea culpa del figlio – “disse ai servi: presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi… facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15, 20-24).

IL FRATELLO INDIGNATO
Diciamo la verità, l’atteggiamento del figlio maggiore che, tornando dai campi, vede tutti questi festeggiamenti e s’indigna col padre, somiglia un po’ a quello di alcuni di noi cattolici verso papa Francesco.
C’è chi pretenderebbe che si stesse ogni giorno a condannare, a recriminare e a far proclami. Mentre il padre vuole anzitutto riabbracciare l’errante e riaverlo come figlio.
Questo non significa affatto approvare gli errori o sottovalutarli. No, significa amare i figli.
Del resto è ciò che la Chiesa ha fatto fin dalle origini. La “bella notizia” (perché questo significa la parola “Vangelo”) non è l’elenco dei peccati, nemmeno un catalogo di valori morali, ma è l’annuncio che Dio ha avuto pietà degli uomini ed è venuto a prenderseli sulle spalle, a curarli, a guarirli, a salvarli.
Gesù entrò nel mondo così: “Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo. Questi altri” scriveva Péguy “vituperano, raziocinano, incriminano. Medici ingiuriosi che se la prendono con il malato”.
Il grande convertito francese usava la stessa metafora di papa Francesco: siamo una umanità malata, un mondo di feriti. E il medico non può prendersela col malato. Il suo compito è curarlo e guarirlo.
Si dirà che oggi però c’è la secolarizzazione dilagante. Ma già Péguy rispondeva a questa obiezione: “anche al tempo di Gesù c’erano il secolo e le sabbie del secolo. Ma sulla sabbia arida, sulla sabbia del secolo scorreva una fonte, una fonte inesauribile di grazia”.
Pure Gesù fu accusato di essere indulgente e perfino connivente con peccatori, pubblicani e prostitute. Ma era venuto per loro (cioè per tutti noi). E proprio la sua misericordia, la bellezza della sua umanità, commuoveva i peccatori che si convertivano e cambiavano vita.

LA GUERRA DEI VALORI
Chi oggi lamenta la fine della battaglia per i valori non negoziabili non ha compreso. A parte il fatto che tali valori non sono l’essenza del cristianesimo e considerarli tali sarebbe una nuova, pericolosa ideologia.

Chiarito ciò è sbagliato pensare che Francesco rinneghi quanto hanno insegnato i suoi due predecessori. Perché ha sempre ribadito quell’insegnamento (anche ieri lo ha fatto su inizio e fine vita).
Certo, non sta a ripeterlo ogni giorno. Ma non perché quei principi, ai suoi occhi, non siano importanti.
Solo perché a Francesco preme anzitutto sottolineare il primo, vero, grande e basilare “principio non negoziabile” (la base di tutti gli altri): l’essere umano concreto, quello in carne e ossa, con le sue ferite, anche con i suoi peccati. La sua salvezza.
Agli occhi di Dio le persone concrete sono il fondamentale “principio non negoziabile”, tanto che per ognuno di loro si è fatto uomo, si è fatto crocifiggere ed è risorto.
Ecco perché nell’esortazione missionaria di Francesco a “curare” le ferite dell’umanità, rientra pienamente fare centri di aiuto alla vita, accogliere le persone travolte dal crollo di legami affettivi, sostenere chi vive malattie terminali o ha persone care in condizioni estreme, aiutare poveri e infelici. Si apre una grande stagione di carità per i cristiani.

COSA CAMBIA
Certo, cambia qualcosa: lo sguardo su questo momento storico. Più che battaglie culturali con intellettuali e politici, ci si prenderà cura degli esseri umani.
Non perché sia sbagliato o inutile dire la verità e cercare il bene pubblico: è doveroso (lo stesso Francesco ha dialogato con Scalfari).
Ma perché – come diceva don Giussani – a vincere la cultura nichilista non sarà una contrapposta cultura cattolica, ma la commozione personale per Gesù, la sua carità: “La Chiesa è proprio un luogo commovente di umanità, è il luogo della umanità… La lotta col nichilismo, contro il nichilismo, è questa commozione vissuta” (Giussani).
Del resto è sempre stato così. Il mondo è sempre stato una distesa di feriti. Perché tale è la condizione umana. Nasciamo come naufraghi che cercano il senso della vita, avvolti dal mistero dell’universo, desideriamo amare ed essere amati, subiamo il male e lo facciamo, bramiamo ogni giorno la felicità e non la troviamo.
Così ci vedeva Gesù. Così ci rappresentò nella parabola del Buon Samaritano: noi siamo quell’uomo “spogliato, percosso” e lasciato “mezzo morto” sul ciglio della strada. Mentre lui è il buon samaritano che “ne ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”.
Quella “locanda” è la Chiesa. E come Gesù cura le nostre ferite? Ce lo dice il profeta Isaia: “per le Sue piaghe noi siamo stati guariti”. Ci guarisce soffrendo al posto nostro. Ci riscatta dando se stesso.
I santi ce lo ricordano. Pensiamo a padre Pio, alle sue stigmate, alle sofferenze con cui otteneva tante grazie. Il suo confessionale è stato un grande ospedale da campo delle anime. E accanto ha voluto far costruire un grande ospedale dei corpi: “la casa sollievo della sofferenza”. Per capire papa Francesco guardate i santi come padre Pio.

Divisore dans Fede, morale e teologia

Inoltre Freccia dans Misericordia
La fatica della decisione

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La misericordia è la vera forza

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2013

La misericordia è la vera forza  dans Citazioni, frasi e pensieri 8yt7

La gioia di Dio è perdonare, la gioia di Dio è perdonare! E’ la gioia di un pastore che ritrova la sua pecorella; la gioia di una donna che ritrova la sua moneta; è la gioia di un padre che riaccoglie a casa il figlio che si era perduto, era come morto ed è tornato in vita, è tornato a casa. Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! Al contrario, la misericordia è la vera forza che può salvare l’uomo e il mondo dal “cancro” che è il peccato, il male morale, il male spirituale. Solo l’amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella storia. Solo l’amore può fare questo, e questa è la gioia di Dio!

Papa Francesco

Divisore dans Commenti al Vangelo

Freccia dans Misericordia Angelus, 15 settembre 2013

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Un’umanità di feriti che cerca conforto

Posté par atempodiblog le 11 août 2013

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Una ventina di anni fa, a Bassano del Grappa, durante una conversazione a tavola, l’allora cardinale Ratzinger si lasciò andare a una battuta umoristica che però contiene molta verità: “per me” disse “una conferma della divinità della fede viene dal fatto che essa sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica”.

Chiunque frequenti abitualmente la messa sa che è drammaticamente vero. Non certo perché si pretenda che i preti siano tutti dei grandi oratori alla Bossuet. Né perché vi sia una povertà culturale del ceto ecclesiastico.

Anzi. Capita di sentire omelie di dottissimi teologi che hanno un effetto devastante sulla fede degli ascoltatori, mentre – magari – poche parole commosse balbettate da un anziano sacerdote di campagna toccano davvero il cuore.

Qual è allora il problema? Non si tratta delle parole e dei concetti, ma del cuore.

Lo abbiamo capito specialmente con l’inizio travolgente del pontificato di papa Francesco che ha scelto proprio lo strumento più povero, le sue semplici omelie quotidiane, o comunque dei discorsi fatti con tono dimesso e familiare (come l’improvvisata conferenza stampa in aereo), per guidare la Chiesa. A cui sta imprimendo una svolta formidabile.

Cos’è che colpisce e commuove in papa Francesco? Mi pare sia evidente: ogni sua parola abbraccia, consola, conforta chi ascolta. E’ questa finora la cifra segreta del suo pontificato.

Ai vescovi che ha incontrato in Brasile a un certo punto ha detto: “dovete ricordarvi che quella che avete davanti è un’umanità di feriti”.

Non è solo una bellissima immagine. Dentro queste semplici parole c’è tutto un giudizio sul mondo contemporaneo e soprattutto c’è un’intuizione immensa del cristianesimo.

Innanzitutto Francesco non punta il dito, non incrimina, non recrimina, non accusa. Innanzitutto abbraccia.

Quando gli hanno chiesto perché in Brasile non ha ripetuto ad ogni occasione la dottrina della Chiesa su matrimoni gay e tutto il resto delle questioni che i media ci martellano in testa, lui, con semplicità, ha spiegato che ormai tutti, anche i sassi, conoscono qual è la dottrina cattolica in proposito.

Ma ha aggiunto che lui doveva e voleva portare “innanzitutto”, ai tre milioni di giovani che lo aspettavano in Brasile, una parola positiva.

La “parola positiva” è un’espressione che significa “una buona notizia”, un “lieto annuncio” ed è proprio questo il significato etimologico della parola “evangelo”. La “buona notizia” è Gesù Cristo in persona, cioè Dio che ha avuto compassione degli uomini ed è venuto sulla terra a salvarli.

E’ lui il Buon Samaritano della parabola che si china su quell’uomo disteso ai margini della strada, massacrato, coperto di ferite e incapace anche solo di rialzarsi.

E’ Gesù, buon samaritano, che lo accudisce, poi se lo carica sulle spalle e lo porta al ricovero (la Chiesa) dove verrà curato, nutrito e guarito.

Questo è il cuore del cristianesimo e Francesco viene a ricordarlo anzitutto ai pastori che lo hanno dimenticato. Io stesso, un paio di domeniche orsono, quando la lettura del vangelo era proprio quella del Buon samaritano, ho sentito l’omelia di un pretino, tutto orgoglioso del suo sapere teologico, il quale ha spiegato che quell’uomo disteso e ferito a terra, su cui si china Gesù-Buon samaritano, è in quelle condizioni a causa dei suoi peccati.

Ora, il concetto è un’evidente minchiata, perché Gesù non dice affatto questo, anzi spiega che il poveretto è stato ridotto in fin di vita da dei briganti che “lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.
Ma l’errore del pretino in questione svela un po’ lo sguardo incriminatorio con cui un certo mondo clericale guarda agli uomini, analogo e speculare al disprezzo generalizzato e ingiusto con cui nel mondo senti parlare (male) “dei preti”.

Invece papa Francesco è pieno di compassione, sa che tutti coloro che stanno lì ad ascoltarlo sono pieni di silenziose ferite, inflitte dalla vita, pieni di pesi, ansie, angosce.

E lui vuol portare loro l’abbraccio di Gesù e la sua misericordia. Il balsamo dell’abbraccio di Dio. Quante volte il Vangelo dice: “Gesù guardò la folla e pieno di compassione…”.

Un giorno disse: “venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”. Lui, il suo abbraccio, è l’unico luogo al mondo dove tutti noi, affaticati e oppressi dalla fatica di vivere, possiamo trovare ricovero, conforto, nutrimento e ristoro.

Perché noi da soli non riusciamo nemmeno a stare in piedi. “Ma che poss’io, Signor,/ s’a me non vieni/ coll’usata ineffabil cortesia?”, si chiede in una poesia Michelangelo Buonarroti.

Gli uomini hanno bisogno di misericordia più ancora del pane. Questo non è banale “buonismo”, come ritiene qualcuno accusando il Papa di essere un facile demagogo.

Bergoglio infatti è sempre stato estremamente esigente e rigoroso con se stesso (è noto il suo stile di vita evangelico, adottato da decenni), mentre è indulgente con il suo gregge. E invita i vescovi e i sacerdoti a fare altrettanto.

Così infatti era anche Gesù. Al contrario “scribi e farisei” erano indulgenti con se stessi ed esigenti con coloro che pretendevano di guidare : perché – diceva Gesù – “dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23, 3-4).

Bergoglio indica implicitamente l’esempio dei santi pastori, come il santo Curato d’Ars o padre Pio. Erano uomini che spesso si accollavano misteriosamente i pesi o le penitenze dei loro fedeli per poter elargire loro la Grazia del perdono o della guarigione.

Ecco perché papa Francesco appare al tempo stesso così libero da tutto e tutti eppure così tradizionale. Perché null’altro desidera che portare a tutti Gesù.

Questa è la sua vera, grande “rivoluzione”: la “rivelazione” del cuore di Dio operata da Gesù. Da lui abbiamo compreso che Dio è un Padre che si strugge di pietà per le sofferenze e lo smarrimento dei suoi figli.

Anche il perdono (il Papa ripete: “Dio perdona sempre, perdona tutto e perdona tutti”) è parte essenziale di quel conforto e di quel ristoro perché l’uomo ha un bisogno estremo di sentirsi perdonato.

Non di sentirsi mettere sul banco degli accusati perché lo sa bene – nel profondo del cuore – di essere un poveraccio, pieno di peccati. Ha bisogno di chi gli dice “io ti perdonerò sempre. Se anche tuo padre o tua madre ti rinnegassero, io non ti abbandonerò mai” (e queste sono parole di Dio nella Sacra Scrittura).

Così, quando papa Francesco ha fatto irruzione nel mondo abbiamo visto la misericordia. Ascoltarlo, guardarlo, ricorda le parole che Péguy diceva su Gesù: “C’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani. Ma Gesù venne. Egli non perse i suoi anni a gemere ed interpellare la cattiveria dei tempi. Egli taglia corto. In un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Egli non si mise a incriminare, ad accusare qualcuno. Egli salvò. Non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo”.

di Antonio Socci – Libero, 4 agosto 2013

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Il contagio della carità

Posté par atempodiblog le 4 juillet 2013

Il contagio della  carità
del card. François Xavier Nguyên Van Thuân
Tratto da: 30Giorni, 2002

Il contagio della  carità dans Cardinale Van Thuan cardinale-Fran-ois-Xavier-Nguy-n-Van-Thu-n

[...] poiché si agisce attraverso la politica, bisogna formare la gente che fa politica. Per questo io oso parlarne, facendolo da pastore. E, se il Santo Padre ha parlato del decalogo di Assisi, io vi parlo delle beatitudini del politico. Non peccati, ma beatitudini.

Le otto beatitudini del politico.

      1. Beato il politico che ha un’alta consapevolezza ed una profonda coscienza del suo ruolo.
Il Concilio Vaticano II ha definito la politica «arte nobile e difficile» (Gaudium et spes n. 73). Ad oltre trent’anni di distanza e in pieno fenomeno di globalizzazione, tale affermazione trova conferma nel considerare che alla debolezza e alla fragilità dei meccanismi economici di dimensioni planetarie si può rispondere solo con la forza della politica, cioè con un’architettura politica globale che sia forte e fondata su valori globalmente condivisi.

      2. Beato il politico la cui persona rispecchia la credibilità.
Ai nostri giorni, gli scandali nel mondo della politica, legati per lo più all’alto costo delle campagne elettorali, si moltiplicano facendo perdere credibilità ai suoi protagonisti. Per ribaltare questa situazione, una risposta forte è necessaria, una risposta che implichi riforma e purificazione al fine di riabilitare la figura del politico.

      3. Beato il politico che lavora per il bene comune e non per il suo proprio interesse.
Per vivere questa beatitudine, il politico interpelli la sua coscienza e si domandi: sto lavorando per il popolo o per me? Sto lavorando per la patria, per la cultura? Sto lavorando per onorare la moralità? Sto lavorando per l’umanità?

      4. Beato il politico che si mantiene fedelmente coerente.
Occorre una coerenza costante fra la sua fede e la sua vita di persona impegnata in politica; una coerenza ferma fra le sue parole e le sue azioni; una coerenza che onori e rispetti le promesse elettorali.

      5. Beato il politico che realizza l’unità e, facendone di Gesù il fulcro, la difende.
Questo, perché la divisione è autodistruzione. Si dice in Francia: «I cattolici francesi non sono mai in piedi tutti insieme, salvo che al momento del Vangelo». Mi sembra che questo detto popolare si possa applicare anche ai cattolici di molti altri Paesi!

      6. Beato il politico che è impegnato nella realizzazione di un cambiamento radicale.
Tale cambiamento avviene lottando contro la perversione intellettuale; avviene non chiamando bene ciò che è male; non relegando la religione nel privato; bensì stabilendo le priorità delle scelte sulla base della sua fede; avendo una magna charta: il Vangelo.

      7. Beato il politico che sa ascoltare.
Che sa ascoltare il popolo, prima, durante e dopo le elezioni; che sa ascoltare la propria coscienza; che sa ascoltare Dio nella preghiera. La sua attività ne trarrà certezze, sicurezza ed efficacia.

      8. Beato il politico che non ha paura.
Che non ha paura, prima di tutto, della verità: «La verità» dice Giovanni Paolo II «non ha bisogno di voti!». È di se stesso, piuttosto, che dovrà aver paura. Il ventesimo presidente degli Stati Uniti, James Garfield, usava dire: «Garfield ha paura soltanto di Garfield, perché si conosce». Non tema, il politico, i mass media. Al momento del giudizio finale egli dovrà rispondere a Dio, non ai mass media!

Quello che vi ho appena proposto è un sommario da pastore: io non entro nel campo della politica, posso sbagliare, ma parlo semplicemente da pastore.

Divisore dans Fede, morale e teologia

      E adesso, da vescovo che è stato in prigione, una piccola testimonianza, il racconto di una piccola esperienza. Sono stato in prigione per tredici anni, e nove anni in isolamento senza mai una visita della famiglia – soltanto due lettere della mia mamma – e senza giornali e libri. È una tortura mentale. La prigione era completamente vuota, c’era soltanto un’équipe di cinque giovani poliziotti comunisti che mi sorvegliavano senza rivolgermi mai la parola. Io mi domandavo che cosa potessi aver fatto loro, ma eravamo agli antipodi e loro evitavano di parlarmi, di comunicare. C’era soltanto una cosa: io avevo deciso di amarli. Ma poiché non potevo dare niente – ero così povero –, come mostrare loro che li amavo? Allora cominciai a raccontare loro della vita in Italia, dove avevo studiato, della mia vita prima in Europa, poi in America, in Asia, in Australia e in Nuova Zelanda. E allora pian piano la loro curiosità si eccitava, si avvicinavano e mi domandavano varie cose. Io rispondevo sempre, rispondevo anche alle domande offensive. Pian piano diventarono miei amici, mi chiesero di insegnare loro il francese e l’inglese e mi portarono libri affinché potessi studiare il russo: eravamo, infatti, sotto il comunismo.
      Un giorno dovevo tagliare della legna e chiesi ad uno di loro se mi poteva fare il favore di lasciarmi tagliare un pezzo di legno a forma di croce. «È vietato!», rispose. Poi aggiunse: «È vietato, non si può avere nessun segno religioso in prigione, ma lei è mio amico», e mi lasciò fare. «È impossibile», disse ancora, «andrò in prigione per questo», ma chiuse gli occhi e mi lasciò fare. «Sono tuo amico» mi disse; non poté più resistere. Ed andò via.
      Così mi lasciò il tempo per tagliare un pezzo di legno in forma di croce, che io nascosi nel sapone per tanti anni, fino alla mia liberazione, per evitare che i capi lo scoprissero durante i controlli. Poi lo incastonai nel metallo e ne feci la mia croce pettorale. Questa croce che oggi porto è fatta con il legno preso dalla prigione ed è stata costruita con la complicità dei poliziotti comunisti.

      In un’altra prigione un giorno domandai ad un poliziotto se mi poteva dare un filo elettrico. «Che cosa vuole fare con il filo elettrico?» mi chiese, «vuole suicidarsi?»; «No», risposi. «E allora a cosa le serve il filo elettrico?»; «vorrei fare una catena per portare la mia croce». «Ma come si può fare una catena con il filo elettrico?». In effetti i vescovi hanno almeno delle catene d’argento, ma un filo elettrico… Risposi che lo potevo fare. «Prestami due piccole tenaglie e ti mostrerò». «È contro la sicurezza» mi disse», «non posso». Ma pochi giorni dopo tornò per dirmi: «Lei è un buon amico, non posso rifiutare, domani è il mio turno di guardia ed io verrò con il filo elettrico. Ma in quattro ore bisogna finire il lavoro, dalle sette alle undici, altrimenti, se qualcuno ci vede, può denunciarci». Allora mi aiutò. Con pezzi di fiammiferi misurammo il filo elettrico per tagliarlo, e con le piccole tenaglie facemmo in quattro ore la catena per portare la croce. Anche questo con la complicità di poliziotti comunisti diventati amici di un vescovo.
Loro poi mi raccontarono: «Quando il capo ci ha convocati per mandarci a controllarla, ci ha detto: “Andate a sorvegliare questo pericoloso vescovo. Non parlategli, altrimenti lui vi contaminerà e sarò costretto a cambiarvi dopo due settimane con un altro gruppo”». Il capo però li seguiva per controllare i loro atteggiamenti. Alla fine li riconvocò e disse loro: «Ormai non vi cambierò più, perché se vi cambio ogni due settimane, questo pericoloso vescovo contaminerà tutta la polizia». 
     Ciò di cui avevano paura è l’amore cristiano. Questi poliziotti mi domandavano spesso: «Lei ci ama o no?». «Sì, io vi amo, ho vissuto con voi tanti anni». «È veramente molto bello, ma impossibile. La mettiamo in prigione per più di dieci anni senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama?». «Io vi amo». «Perché?». «Perché Gesù mi ha insegnato ad amarvi e se voi volete uccidermi io continuo ad amarvi». «Noi abbiamo imparato soltanto l’odio e la vendetta, è impossibile amare i nemici». «Ma siamo insieme, voi siete miei amici». «È vero, ma è incomprensibile».
Io penso, carissimi amici, che ciò che la Chiesa può fare nella giustizia, nel perdono, nella riconciliazione è un contributo molto valido per la giustizia e per la pace nel mondo di oggi. Grazie.

Divisore dans Misericordia

iconarrowti7 Beatificazione del  card. Van Thuân: domani la chiusura dell’inchiesta diocesana

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In verità vi dico: viva i peccatori

Posté par atempodiblog le 2 juillet 2013

In verità vi dico: viva i peccatori
Gesù cercava le ferite del peccato e le guariva. Ma ammoniva gli scribi, che chiamava “sepolcri imbiancati”.
di Antonio Socci – Panorama

In verità vi dico: viva i peccatori dans Antonio Socci In-verit-vi-dico-viva-i-peccatori

Il Cristianesimo, strano a dirsi, entra nel mondo precisamente in polemica dura con i moralisti. A ogni pagina dei Vangeli Gesù appare traboccante di tenerezza verso i peccatori, perfino i più malfamati. Invece è durissimo solo con coloro che si ritenevano “giusti”.

Con loro, per scuoterli, usa parole di fuoco: “Guai a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito” (Lc 11,43-46). “Tutto quello che fanno è per farsi vedere dalla gente… Guai a voi scribi e farisei ipocriti. Voi siete come sepolcri imbiancati: all’esterno sembrano bellissimi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di marciume” (Mt 24,4 e segg).
Gesù non sta alla larga dai peccatori e dai disprezzati, anzi li cerca premurosamente. Come nota il filosofo Soren Kierkegaard: “Non ritenne mai un tetto tanto misero da impedirgli di entrarvi con gioia, mai un uomo tanto insignificante da non voler collocare la sua dimora nel suo cuore”.

Ma soprattutto Gesù rifiuta la presunzione di giudicare gli altri come peccatori, perché peccatori per lui sono tutti gli uomini e nessuno si salva se umilmente non si lascia perdonare. Un altro grande convertito del Novecento, lo scrittore francese Charles Péguy, scriverà: “Le persone morali non si lasciano bagnare dalla grazia. Ciò che si chiama la morale è una crosta che rende l’uomo impermeabile alla grazia. Si spiega così il fatto che la grazia operi sui più grandi criminali e risollevi i più miserabili peccatori”.
Lo si vede, in effetti, sul Calvario, dove il ladrone si converte, mentre i dottori della Legge inveiscono contro Gesù: “E’ per questo che niente è più contrario a ciò che si chiama la religione come ciò che si chiama la morale” estremizzava Péguy “e niente è così idiota che confondere così insieme la morale e la religione”.
Naturalmente Péguy non fa l’elogio del peccato. Gesù ha orrore di ogni peccato, ma condanna il legalismo. Come Paolo e Agostino condannano l’ideologia dell’onesto, il moralismo. Ciò sarà il giacobinismo. Perché non ci si salva con le nostre forze. Gesù dice: “Senza di me non potete fare nulla”. Egli dice infatti di essere venuto per i peccatori, le cui ferite del peccato possono diventare feritoie della grazia. Spiega di essere venuto per salvare, non per condannare. E’ stupefacente. Colui che ha più cambiato il mondo e lo ha umanizzato e santificato non fa mai l’accusatore. Perdona sempre.

E’ ancora Péguy che lo spiega: “C’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani. Ma Gesù venne. Egli non perse i suoi anni a gemere e interpellare la cattiveria dei tempi. Egli taglia corto. In modo molto semplice. Facendo il Cristianesimo. Egli non si mise a incriminare, ad accusare qualcuno. Egli salvò. Non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo”.

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La Chiesa ci porta a Cristo

Posté par atempodiblog le 29 mai 2013

La Chiesa ci porta a Cristo dans Misericordia papafrancesco

«Ancora oggi qualcuno dice: “Cristo sì, la Chiesa no”. Come quelli che dicono “io credo in Dio ma non nei preti”. Ma è proprio la Chiesa che ci porta Cristo e che ci porta a Dio; la Chiesa è la grande famiglia dei figli di Dio. Certo ha anche aspetti umani; in coloro che la compongono, Pastori e fedeli, ci sono difetti, imperfezioni, peccati, anche il Papa li ha e ne ha tanti. Ma il bello è che quando noi ci accorgiamo di essere peccatori, troviamo la misericordia di Dio, il quale sempre perdona. Non dimenticatelo: Dio sempre perdona e ci riceve nel suo amore di perdono e di misericordia».

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Beati i perseguitati. Il racconto di un moderno martire

Posté par atempodiblog le 24 avril 2013

Beati i perseguitati. Il racconto di un moderno martire
Quindici anni nelle prigioni della Romania, tra sofferenze disumane. La testimonianza del vescovo Ioan Ploscaru, per la prima volta resa nota al grande pubblico
di Sandro Magister – chiesa.espressonline.it

Beati i perseguitati. Il racconto di un moderno martire dans Articoli di Giornali e News prigioniaincarcere

ROMA, 23 aprile 2013 – Almeno cinque volte nelle ultime due settimane papa Francesco ha richiamato l’attenzione sui “tanti nostri fratelli e sorelle che danno testimonianza del nome di Gesù anche fino al martirio”.

Negli stessi giorni di questi appelli del papa, il vescovo romeno Alexandru Mesian è passato di città in città, in Italia, per presentare al pubblico la testimonianza di uno di questi martiri del nostro tempo, suo predecessore nella guida della diocesi greco-cattolica di Lugoj.

Il suo nome è Ioan Ploscaru. È morto nel 1998 a 87 anni, di cui quindici trascorsi in prigione in condizioni disumane. Per una sola colpa: quella di restare fedele alla Chiesa di Roma e quindi di rifiutare di passare alla Chiesa ortodossa, come ordinato dal governo comunista.

Era finita da poco la seconda guerra mondiale e, come in Ucraina, anche in Romania il regime voleva annientare la locale Chiesa greco-cattolica, con i suoi vescovi, i preti e i milioni di fedeli, mettendola furori legge e incorporandola a forza nella Chiesa ortodossa. Di fronte al loro rifiuto, nel 1948, tutti i vescovi furono arrestati. Moriranno in carcere. Altri vescovi, ordinati clandestinamente, presero il loro posto. Tra questi Ioan Ploscaru, cui impose le mani il nunzio vaticano a Bucarest, il 30 novembre 1948. Ma nelle catacombe resisterà solo pochi mesi. Nell’agosto del 1949 anche lui sarà arrestato.

E cominciò il suo calvario. Che egli poi raccontò in un libro di memorie. Il libro uscì in Romania nel 1993. Ma solo quest’anno ha varcato i confini del suo paese, in una edizione italiana molto ben curata, stampata dalle Edizioni Dehoniane di Bologna.

È un libro straordinario per molti motivi. Ricorda i “Racconti della Kolyma” di Salamov quando ritrae la ferocia degli aguzzini, spietata fino all’in­verosimile, tra umiliazioni che comprendevano “mangiare le proprie feci, vedersi u­rinare in bocca dai carcerieri, essere costretti a dichiarare di aver pratica­to atti sessuali aberranti con i propri genitori”. Ma ricorda anche la serenità descrittiva e l’ironia del Solzenicyn de “L’arcipelago Gulag”.

Soprattutto è il racconto di un’esperienza di fede. Che illumina anche le notti più buie. Che accende di stupore anche i più malvagi. Che arriva a provare misericordia anche per i più terribili persecutori.

Il regime comunista romeno crollò nel 1989. Nel 1990 Ioan Ploscaru poté riprendere possesso della sua cattedrale, che gli fu restituita dal metropolita ortodosso di Lugoj.

Qui di seguito c’è una piccola antologia del suo libro di memorie, con i titoli dei capitoli da cui sono ripresi i rispettivi brani.

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CATENE E TERRORE
di Ioan Ploscaru

A tutti noi, sacerdoti e vescovi greco-cattolici, fu offerta la libertà in cambio del passaggio alla Chiesa ortodossa. A me personalmente proposero diverse volte questo scambio fin dal mio primo arresto. Ma non si può patteggiare con la propria coscienza. Se avessi ceduto, sarebbe stata una grande sciagura per la mia coscienza e una confusione per quelli fra cui vivevo.
Nelle memorie che ho scritto non troverete lamenti gravi e tanto meno stati d’animo disperati, perché, offrendo tutte queste sofferenze a Dio, esse diventano sopportabili. Ma non avrei potuto sopportarle da solo, se Gesù non fosse sempre stato accanto a me e a tutti noi.
Ho considerato i nostri aguzzini quali “strumenti” e a nessuno d loro muovo alcuna accusa: anzi, desidero per quegli inquisitori una vera conversione a Dio e un vero e chiaro pentimento per tutto ciò che hanno fatto.
Sono stato in prigione per 15 anni, 4 dei quali in isolamento. Liberato nel 1964, sono stato ancora sorvegliato, pedinato, perseguitato. Anche negli anni seguenti ho continuato, a volte, ad avere paura.
Per tutte le sofferenze che ho dovuto sopportare, sia lodato Dio nei secoli dei secoli.

ALLA “SECURITATE” DI TIMOSOARA
La mia cella si trovata nel seminterrato. Le finestre erano rotte e la cella era molto fredda. Rimasi lì per tutto il mese di dicembre fino al gennaio 1950. Il freddo mi straziava. Venivo spesso condotto di notte agli interrogatori. Mi rimandavano indietro e, dopo mezz’ora, ero svegliato nuovamente per un altro interrogatorio. Il freddo della cella ghiacciata mi consumava. Dormivo molto poco, sempre con il desiderio di risvegliarmi per potermi muovere. Dalla finestra rotta entrava il gelo, lasciando tracce di brina sulla barba e sui vestiti. In tre settimane dimagrii tantissimo. Pregavo e offrivo tutto il freddo e tutte le prove al Salvatore.

METODI DI COERCIZIONE
Gli interrogatori, come pure le bastonate, avevano luogo proprio sopra la nostra cella. Ci rendevamo conto di ciò che stava succedendo dai rumori, che ascoltavamo con terrore. Poi le urla di quelli che venivano picchiati. Bastonavano le piante dei piedi con una barra di ferro. La vittima era poi costretta a correre se non voleva che i piedi si gonfiassero. Il supplizio si ripeteva. A tanti si slogarono le ossa del metatarso.
Ma più pesante di una bastonata era l’isolamento. Ti chiudevano in una cella vuota e sul pavimento di cemento versavano l’acqua. Dopo un giorno o due i piedi si gonfiavano e il cuore non resisteva più. La vittima o cadeva nell’acqua o chiedeva di essere portata fuori per “confessare”.

JILAVA
Le perquisizioni erano un metodo di umiliazione. Ti controllavano nell’ano, agli organi genitali, in bocca, nelle orecchie. L’uomo nudo era per loro un oggetto di derisione. Simili perquisizioni si facevano più volte al mese, senza contare quelle fatte arbitrariamente dalle guardie.
Nella cella dove eravamo stati relegati il pavimento era di cemento ed era sempre umido, come umide erano le pareti, essendo la costruzione sotto il livello del suolo. Per dormire avevamo solo una striscia di 35 centimetri per persona. Nessuno poteva dormire supino, ma solo su un fianco. Quando qualcuno non poteva più sopportare la posizione ed era costretto a cambiarla, doveva svegliare tutti: si toccavano l’un l’altro sulla spalla e dovevano tutti voltarsi dall’altra parte.
La più pesante punizione che ci inflisse il comandante risale al mese di luglio 1950, quando fece inchiodare le finestre, facendoci rimanere per una settimana senz’aria e senza uscire. In piena estate, in una stanza di 18 metri quadrati, vivevano in un’aria soffocante 35 persone. Ad alcuni vennero eruzioni rosse sulla pelle, altri svenivano.

SIGHET, PRIGIONE DI STERMINIO
Il maggior supplizio del carcere di Sighet era la fame. La dieta alimentare in questa prigione era calcolata con grande cura perché il detenuto non morisse subito, ma deperisse gradualmente per la fame. Gli alimenti erano pochi e marci.

DI NUOVO ALLA “SECURITATE” DI TIMOSOARA
Le suore cattoliche erano costrette a stare d’inverno nell’acqua gelida a zappare, dapprima con il piccone e poi con le mani, a staccare pezzi di roccia, a metterli nel loro grembiule e a portarli sulla riva del fiume. Quasi tutte quelle suore, dopo la liberazione, in breve tempo morirono di tubercolosi o martoriate da reumatismi deformanti e acuti.

AL MINISTERO DEGLI INTERNI DI BUCAREST
Gli interrogatori eran molto pesanti. Ogni giorno venivo picchiato con schiaffi, con la sedia, con calci e facendomi sbattere la testa contro la parete. Come se ciò non bastasse, un giorno mi condussero nella camera di tortura. Avevano preparato due travicelli per legarmi ad essi e picchiarmi. Mentre quelli preparavano l’impalcatura io pregavo e offrivo a Dio le sofferenze e la vita.

LA PRIGIONE DI GHERLA
Arrivammo in un momento critico. I prigionieri avevano protestato contro l’oscuramento delle finestre con imposte di legno e la direzione aveva scatenato una violenta repressione. I poliziotti spararono dai tetti, usarono gli idranti, affamarono i prigionieri e alla fine li trascinarono fuori dalle celle e li bastonarono con spranghe di ferro. Nei corridoi il sangue era corso a fiumi. Si parlava di più di una trentina di morti. Anche il medico della prigione aveva impugnato una spranga e colpito a casaccio.
Con noi c’era un gruppo di contadini della Moldavia. Raccontavano le atrocità che erano state commesse in occasione della collettivizzazione. Alcuni avevano accettato, altri si erano opposti. Questi ultimi furono fatti entrare in una stanza del municipio dove li attendevano i cosiddetti “procuratori”, che erano operai delle fabbriche. Chi aveva rifiutato doveva passare tra di loro. I “procuratori” avevano cacciaviti e punteruoli di ferro che piantavano senza esitazione nel corpo dei “reazionari”. Quelli i cui organi vitali – fegato, reni, polmoni, vescica – erano stati lesionati, presto morirono. Gli altri sopravvissero con ferite gravi.
Nella cella eravamo ammucchiati quasi in 60. Erano contadini, legati con pesanti catene infisse con dei chiodi, cosicché non si potevano svestire né lavare. Dove stringeva la catena si era formata una crosta di sangue coagulato.

AL PENITENZIARIO DI PITESTI
A Pitesti, quelli che erano incatenati li lasciarono così da settembre fin quasi a Natale. Anzi, poiché si lamentavano di essere pieni di pidocchi, strinsero le loro catene. Quelli condannati a meno di 15 anni non vennero incatenati. Io avevo, appunto, 15 anni – la pena maggiore, a cui si sommavano le altre tre di 8 anni ciascuna – cosicché a volte mi mettevano le catene, altre mi lasciavano senza. Non mi rattristavo per le catene, anzi, le baciavo offrendole a Gesù: “Signore, se tu fossi adesso con noi, saresti sicuramente imprigionato e forse anche giustiziato!”. Baciavo il mio vestito grezzo e sporco, considerandolo come il più caro paramento liturgico e consideravo le sbarre quali sante testimonianze del martirio: le baciavo in segno di accettazione affettuosa e piena di riconoscenza. Questo accadeva ogni volta che entravo in una nuova cella.
La prigione di Pitesti era disastrosa. Il tetto di lamiera, in quell’inverno del 1960, fu divelto dal vento. Le celle erano molto insalubri. Il soffitto freddo condensava i vapori, cosicché gocciolava permanentemente sui nostri vestiti, tenendoci in uno stato continuo di umidità. Quasi tutti i letti erano disposti su tre livelli e su ognuno c’erano due detenuti. In celle come la mia si trovavano più di 70 persone.

DEJ, CARCERE DI STERMINIO
Il regolamento della prigione di Dej era più severo che in ogni altro penitenziario. Quest’asprezza inumana era la prova che non c’era soltanto l’intenzione di isolarci, ma di sterminarci fisicamente.
Di giorno era vietato sdraiarsi sui letti. Ci obbligavano a sedere su una panca senza spalliera; in tal modo la sera eravamo sfiniti. Si parlava sottovoce, ogni conversazione era vietata. Alla sera dovevamo piegare i vestiti e metterli sulla panca, perché non li usassimo per coprirci. Era severamente proibito l’uso di lenzuola.
D’inverno le finestre dovevano rimanere aperte: perché ci fosse “aria fresca”, dicevano i carcerieri. E d’estate venivano chiuse. Si puniva anche chi avesse osato fare esercizi di ginnastica.
Nonostante il divieto della direzione, non rinunziammo però alla preghiera, anzi pregavamo con maggior zelo, convinti che Dio fosse dalla nostra parte e noi dalla sua. Ogni giorno – dal momento della sveglia, che era alle 5 del mattino, fino alle 10 di sera – tutti mantenevamo il silenzio, recitando le nostre preghiere e meditando a lungo.

LA “NERA”
Nel febbraio del 1963, passai accanto a un maresciallo e non me ne accorsi. Per non averlo salutato fui punito con cinque giorni di isolamento, nelle celle chiamate le “nere”. Era un inverno rigido. Quando fui condotto là, gli altri si spaventarono. Spesso quelli che uscivano dalla cella d’isolamento venivano portati sulle barelle, irrigiditi dal freddo.
Rimasto solo nella cella, al buio e al freddo, come sempre baciai il chiavistello offrendo le sofferenze a Gesù. Era quaresima e pensai che potevo fare gli esercizi spirituali. Sarebbe stato un periodo di penitenza. Ogni giorno ricevevo 250 grammi di pane e una gavetta d’acqua: il pane del dolore e l’acqua della tribolazione, pensai. Il sonno sul duro non mi sembrava così difficile. Vi ero allenato. Più difficile era sopportare il freddo, perché non avevo nulla per coprirmi.
A prescindere da tutte le privazioni cui fui sottoposto nella “nera”, quei cinque giorni furono per la mia anima di grande consolazione. Rievocando la passione e la morte del nostro salvatore Gesù Cristo, le mie sofferenze erano infime. Rimasi sempre in meditazione e in preghiera. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?”, domandava il santo apostolo Paolo.
Alla fine di quei cinque giorni, provavo dispiacere a lasciare la “nera”, dove mi ero trovato da solo con Gesù. Quando il guardiano venne ad annunciarmi che potevo uscire, mi sembrò quasi che mi separasse da un luogo amato.

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Il libro:

Ioan Ploscaru, “Catene e terrore. Un vescovo clandestino greco-cattolico nella persecuzione comunista in Romania”, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2013, pp. 478, euro 30,00.

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La testimonianza, ancor più impressionante, letta in Vaticano il 23 marzo 2004 da un altro esponente della Chiesa greco-cattolica di Romania, il sacerdote Tertulian Ioan Langa:

 iconarrowti7 Arcipelago Gulag in Romania: ciò che nessuno aveva mai raccontato

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La misericordia è un “secondo nome” dell’amore

Posté par atempodiblog le 2 avril 2013

La misericordia è un “secondo nome” dell’amore dans Misericordia Ges-confido-in-Te

Sangue ed acqua! Il pensiero corre alla testimonianza dell’evangelista Giovanni che, quando un soldato sul Calvario colpì con la lancia il costato di Cristo, vide uscirne sangue ed acqua” (cfr Gv 19, 34). E se il sangue evoca il sacrificio della croce e il dono eucaristico, l’acqua, nella simbologia giovannea, ricorda non solo il battesimo, ma anche il dono dello Spirito Santo (cfr Gv3,5; 4,14; 7,37-39).

Attraverso il cuore di Cristo crocifisso la misericordia divina raggiunge gli uomini: Figlia mia, dì che sono l’Amore e la Misericordia in persona”, chiederà Gesù a Suor Faustina (Diario, 374). Questa misericordia Cristo effonde sull’umanità mediante l’invio dello Spirito che, nella Trinità, è la Persona-Amore. E non è forse la misericordia un secondo nome” dell’amore (cfr Dives in misericordia, 7), colto nel suo aspetto più profondo e tenero, nella sua attitudine a farsi carico di ogni bisogno, soprattutto nella sua immensa capacità di perdono?

E’ davvero grande oggi la mia gioia, nel proporre a tutta la Chiesa, quasi dono di Dio per il nostro tempo, la vita e la testimonianza di Suor Faustina Kowalska. Dalla divina Provvidenza la vita di questa umile figlia della Polonia è stata completamente legata alla storia del ventesimo secolo, il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. E’, infatti, tra la prima e la seconda guerra mondiale che Cristo le ha affidato il suo messaggio di misericordia. Coloro che ricordano, che furono testimoni e partecipi degli eventi di quegli anni e delle orribili sofferenze che ne derivarono per milioni di uomini, sanno bene quanto il messaggio della misericordia fosse necessario.

Disse Gesù a Suor Faustina: L’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla Divina Misericordia” (Diario, p. 132). Attraverso l’opera della religiosa polacca, questo messaggio si è legato per sempre al secolo ventesimo, ultimo del secondo millennio e ponte verso il terzo millennio. Non è un messaggio nuovo, ma si può ritenere un dono di speciale illuminazione, che ci aiuta a rivivere più intensamente il Vangelo della Pasqua, per offrirlo come un raggio di luce agli uomini ed alle donne del nostro tempo.

Giovanni Paolo II

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La Divina Misericordia

Posté par atempodiblog le 1 avril 2013

La Divina Misericordia
In un mondo che teorizza e promuove il peccato, che esalta il male come se fosse il bene, occorre confidare nella Divina Misericordia. L’insegnamento del Papa nell’enciclica Dives in Misericordia e quello di Santa Faustina Kowalska.
di Marco Invernizzi – Il Timone, 2002
La Divina Misericordia dans Marco Invernizzi gesmisericordioso
La seconda enciclica di Papa Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, è dedicata alla misericordia divina. Datata 30 novembre 1980, si ispira a quanto trasmesso dalla “segretaria” della Misericordia di Dio, Santa Faustina Kowalska, una suora polacca nata nel 1905 e morta a soli 33 anni a Lagiewniki, nei pressi di Cracovia, dopo aver ricevuto dal Cielo la missione di trasmettere al mondo questa devozione, appunto dedicata alla misericordia.
Morendo, la santa suora disse : “Io sento chiaramente che la mia missione non finisce con la morte, ma comincia…”.
E, in effetti, è andata proprio così. Il messaggio ricevuto è stato raccolto in alcuni Quaderni che oggi costituiscono il Diario di santa Faustina, dove la suora racconta la sua vita e ripete tutti gli insegnamenti ricevuti relativamente alla missione di insegnare la misericordia all’uomo del nostro tempo. Ma, soprattutto, il messaggio è stato raccolto fin dall’inizio da Karol Wojtyla che, da giovane operaio e seminarista clandestino, si soffermava spesso a pregare nel monastero, oggi diventato santuario, di Lagiewniki. Sarà lui stesso, negli anni dal 1963 al 1967, come vescovo ausiliare di Cracovia, a guidare il processo informativo diocesano relativo alla vita e alle virtù di suor Faustina, e sarà sempre lui a proclamarla beata il 18 aprile 1983 e quindi santa il 30 aprile 2000, isituendo, nella circostanza, la festa della Divina Misericordia da celebrarsi, secondo il calendario liturgico, la prima domenica dopo Pasqua.
Terza di dieci figli di una famiglia contadina, Faustina non riesce a finire le scuole elementari ed è costretta a lavorare come domestica per potersi mantenere. Tuttavia, riesce a superare gli ostacoli che fino ai vent’anni le impediscono di entrare in una congregazione religiosa e finalmente, il 1° agosto 1925, viene accolta come postulante fra le suore della Beata Vergine Maria della Misericordia, a Varsavia. Inizia così, anzi continua un rapporto mistico con Dio che era iniziato quando, davanti a un tabernacolo, avendo ricevuto l’ordine di partire per Varsavia e di entrare in convento. Il rapporto di suor Faustina con il Signore è narrato nel suo Diario ed è una delle letture più belle ed edificanti che si possano fare, anche se la devozione alla misericordia affidata a suor Faustina è conosciuta soprattutto per il quadro, diffusissimo nel mondo cattolico, che Gesù le ha detto di dipingere e che lo raffigura con una mano benedicente e con l’altra sul petto, dalla quale escono due raggi, uno rosso  e l’altro bianco; sotto il dipinto si trova la scritta “Gesù confido in te…”.
L’enciclica di Giovanni Paolo II riprende la dottrina e l’esperienza trasmessa da santa Faustina senza peraltro mai nominarla.
Essa parte dalla constatazione che la mentalità contemporanea lascia poco o nessun spazio alla misericordia.
Al contrario, la Sacra Scrittura racconta l’opera misericordiosa di Dio già nell’Antico Testamento, quando Israele sperimenta l’azione provvidenziale del Signore nell’Esodo, quando si trova prigioniero, ma soprattutto quando viene aiutato a liberarsi dal peccato, che è un male molto più grande e pericoloso della prigionia da parte di un altro popolo.
Ma è soprattutto nella parabola del figliol prodigo che viene approfondita la nozione di misericordia presente nell’Antico Testamento.
Per la verità il termine non compare nella parabola, che però esprime la realtà della conversione, che l’enciclica definisce “la più concreta espressione dell’opera dell’amore e della presenza della misericordia nel mondo umano”. Perché la misericordia non consiste tanto nello sguardo pieno di compassione rivolto al male, fisico o morale, ma nella rivalutazione e nel trarre “il bene da tutte le forme di male, esistenti nel mondo e nell’uomo”.
Qui siamo di fronte a una delle caratteristiche più straordinarie del cristianesimo: che l’amore di Dio Padre è più potente della morte, come lo stesso Gesù ha potuto sperimentare nella Resurrezione.
Convertirsi significa scoprire la misericordia di Dio, cambiare direzione, andare incontro lasciandosi trasformare, e così passare dalla morte alla vita attraverso l’amore.
Viene in mente il diverso atteggiamento di Giuda e di Pietro di fronte alla misericordia di Dio; il primo, consapevole dell’enormità del male commesso, pentito quindi, ritiene però la misericordia del padre incapace di perdonarlo, e si impicca. Pietro, invece, conosce l’amarezza del tradimento, come Giuda, ma decide di mettersi nelle mani misericordiose di chi lo vuole salvare, e ritrova la vita. Come loro, anche gli uomini di oggi hanno bisogno della misericordia divina. Perché hanno peccato, abbiamo peccato – bisogna sempre ricordare che stiamo parlando anche di noi stessi, di me che scrivo anzitutto – e hanno costruito sul peccato le strutture della loro convivenza.
Questa è la principale differenza fra il mondo moderno, sia quello ideologico del ‘900 che quello successivo alla caduta del muro di Berlino nel 1989, e le altre epoche della storia del mondo occidentale, dove forse si peccava anche di più, ma non si teorizzava il peccato, non si esaltava il male come fosse il bene.
Il mondo di oggi ha espulso il senso del peccato dalla propria cultura e non può comprendere quindi il bisogno di essere perdonato. Tuttavia, quando gli uomini rifletteranno sul recente passato e capiranno cos’è stato, per esempio, il Novecento, il secolo dei genocidi, delle due guerre mondiali e del terrorismo politico, con i quasi cento milioni di morti a opera del comunismo, con i milioni di innocenti uccisi prima di nascere, con le famiglie distrutte dalla rivoluzione sessuale e dalla droga, con la menzogna diventata pratica abituale nella vita commerciale e politica, con l’autodemolizione delle comunità ecclesiali, allora forse sentiranno la necessità di guardare altrove per cercare un  significato per la propria vita, e incontreranno Dio, “ricco di misericordia”. Il Quale li perdonerà anche perché cercheranno di costruire un mondo migliore di quello che hanno ereditato.

immacolatalourdes dans Misericordia

“O Maria, Vergine Immacolata,
Puro cristallo per il mio cuore,
Tu sei la mia forza, o àncora potente,
Tu sei lo scudo e la difesa dei deboli cuori.

O Maria, tu sei pura ed impareggiabile Vergine e Madre insieme.
Tu sei bella come il sole, senza alcuna macchia,
Nulla è paragonabile all’immagine della Tua anima.

La Tua bellezza ha affascinato il tre volte Santo,
Sceso dal cielo, abbandonando il trono della Sua sede eterna,
E prese corpo e sangue dal Tuo cuore,
Nascondendosi per nove mesi nel cuore della Vergine.

O Madre, o Vergine, nessuno riesce a comprendere
Che l’immenso Iddio diventa uomo,
Solo per amore e per la Sua insondabile Misericordia.
Per merito Tuo, o Madre, vivremo con lui in eterno.

O Maria, o Vergine Madre e Porta del cielo,
Attraverso te ci è venuta la salvezza,
Ogni grazia sgorga per noi dalle Tue mani
E solo la Tua fedele imitazione mi farà santa.

O Maria, o Vergine, o Giglio più bello,
il Tuo Cuore è stato il primo tabernacolo per Gesù sulla terra,
Perché la Tua umiltà è stata la più profonda
E per questo sei stata innalzata sopra i cori degli angeli e sui santi.

O Maria, dolce Madre mia,
Affido a Te l’anima, il corpo ed il mio povero cuore.
Sii la Guardiana della mia vita
E soprattutto nell’ora della morte, nell’ultima battaglia”.

(santa Faustina Kowalska, La Misericordia Divina nella mia anima. Diario di santa Faustina Kowalska della Congregazione della Beata Vergine Maria della Misericordia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 86).
www.divinamisericordia.it

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Il Curato d’Ars e la confessione

Posté par atempodiblog le 27 mars 2013

Il Curato d’Ars e la confessione  dans Fede, morale e teologia Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

«La vita di Giovanni Maria Vianney è trascorsa in confessionale». Così diceva l’abbé Alfred Monnin, che aveva frequentato il Curato per più di cinque anni, e del quale sarebbe divenuto biografo. Alcuni tratti distintivi della cura d’anime, intessuta dal santo patrono dei parroci nell’ombra discreta in cui si celebra il sacramento della penitenza, li ha ripercorsi di recente Philippe Caratgé, moderatore della società sacerdotale San Giovanni Maria Vianney, nella sua relazione al convegno internazionale svoltosi ad Ars a fine gennaio, di cui saranno prossimamente pubblicati gli atti.

Per il Curato d’Ars – lo si ricava dalle sue lezioni di catechismo – una buona confessione deve essere umile, semplice, prudente e totale. Occorre «evitare tutte quelle accuse inutili, tutti quegli scrupoli che fanno dire cento volte la stessa cosa, che fanno perdere tempo al confessore e snervano quelli che sono in attesa di confessarsi». Bisogna «confessare quello che è incerto come incerto, e quello che è certo come certo». L’essenziale è «evitare ogni simulazione: che il vostro cuore sia sulle vostre labbra. Voi potete imbrogliare il vostro confessore, ma ricordatevi che non imbroglierete mai il buon Dio, che vede e conosce i vostri peccati meglio di voi». Lui stesso passava poco tempo con chiunque andasse a inginocchiarsi al suo confessionale, affinché il tempo fosse sufficiente per tutti. Confessioni brevi, parole brevi. Eppure non c’era uno solo dei penitenti che non si sentisse fatto oggetto di una sollecitudine particolare, di una dedizione sempre pronta ad approfittare di ogni minimale apertura all’azione dello Spirito, che «come un giardiniere non finisce mai di lavorare la terra» (Caratgé), anche quella dei cuori più induriti. «Per me», ripete Jean-Marie a proposito della riparazione da richiedere ai penitenti, «vi dirò la mia ricetta. Io do loro una piccola penitenza, e io faccio il resto al posto loro». La cosa che conta, dice il Curato, è avere almeno un po’ di contrizione dei propri peccati. Con una contrizione perfetta si viene perdonati «ancor prima di ricevere l’assoluzione». Quindi «bisogna mettere più tempo a domandare la contrizione che a esaminarsi».

Per il Curato, la confessione è il dono inimmaginabile che Dio tira fuori a sorpresa per salvare i suoi figli in pericolo: «Ragazzi miei, non si può comprendere la bontà che ha avuto Dio per istituire questo grande sacramento. Se noi avessimo avuto una grazia da domandare a Nostro Signore, non avremmo mai immaginato di domandargli quella là. Ma lui ha previsto la nostra fragilità e la nostra incostanza nel bene, e il suo amore  l’ha portato a fare ciò che noi non avremmo mai osato domandargli».

Ancor di più, è un dono che rivela nel modo più intimo la natura stessa del mistero della Trinità. Recluso nel suo confessionale, il cuore semplice del Curato assapora in maniera imparagonabile il mistero del cuore stesso di Dio. I perdoni imperfetti degli uomini talvolta sembrano elargizioni concesse a caro prezzo, fatte quando vogliamo apparire buoni. Il perdono di Dio è un’altra cosa. «Come potremmo noi disperare della Sua     misericordia, dal momento che il Suo più grande piacere è di perdonarci», scrive il Curato. Per questo il tesoro della misericordia divina è inesauribile, e nessuno può pensare di mettere in conto i doni della grazia. Come se fossero debiti che prima o poi si paga, con cui ci si mette a paro con le proprie prestazioni. Perché per Dio stesso perdonare è il massimo godimento. E questo lo fa diventare mendicante del cuore dell’uomo. «La sua pazienza ci aspetta», rassicura il Curato. Di più: «Non è il peccatore che torna a Dio per chiedergli perdono, ma è Dio che corre dietro al peccatore e lo fa ritornare a Lui».

di Gianni Valente – 30Giorni

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“Osservate la Croce”

Posté par atempodiblog le 21 mars 2013

“Osservate la Croce” dans Citazioni, frasi e pensieri jozozovkokrizevac

“Osservate la Croce”, dice la Madre. E lei sa perché. Dice: “Osservate le sue piaghe, per imparare ad amare”. L’amore è dare la vita per altri. L’amore è morire per gli altri, offrire me stesso per loro. L’amore è pregare “Padre, perdona a loro”. Questo è l’amore: intercedere, come Gesù crocifisso ha fatto per i peccatori. “Padre, perdona loro”. Osservare la croce significa imparare: Dio mi perdona, non temo; Dio mi perdona, non ho paura. Dio è perdono. Il Padre mi ha perdonato, ha esaudito la preghiera del figlio. Sono felice. Cosa dice Dio a me attraverso i Profeti, ad esempio il profeta Isaia (cap. 43 o 49)? “Io ho scritto il tuo nome sulle palme delle mani. Tu sei mio. Se devi passare le acque o il fuoco, non temere, tu sei mio, sono con te, io ti ho redento. Tu sei prezioso ai miei occhi, non temere. Io ti amo. Una mamma può dimenticare il figlio, ma io non posso”. E’ un paragone con l’amore più forte creato da Dio, l’amore materno. “Può succedere che la mamma perde questo dono per il proprio figlio, ma io non posso, perché ti amo”. Questo amore è mostrato attraverso la Croce, in maniera fortissima, eclatante. “Osservate le sue piaghe” dice la Madre. Ma come no? “Voglio tornare nella mia famiglia, di nuovo con la croce, metterla in un posto particolare nella mia casa, dove i miei figli possono osservarla”.

Padre Jozo Zovko

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Il messaggio più forte del Signore: la misericordia

Posté par atempodiblog le 18 mars 2013

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Anche noi credo che siamo questo popolo che, da una parte vuole sentire Gesù, ma dall’altra, a volte, ci piace bastonare gli altri, condannare gli altri. E il  messaggio di Gesù è quello: la misericordia. Per me, lo dico umilmente, è il  messaggio più forte del Signore: la misericordia. Ma Lui stesso l’ha detto: Io  non sono venuto per i giusti; i giusti si giustificano da soli. Va’, benedetto  Signore, se tu puoi farlo, io non posso farlo! Ma loro credono di poterlo fare.  Io sono venuto per i peccatori (cfr Mc 2,17).

Pensate a quella chiacchiera dopo la vocazione di Matteo: Ma questo va con i peccatori!  (cfr Mc2,16). E Lui è venuto per noi, quando noi riconosciamo che siamo peccatori. Ma se noi siamo come quel fariseo, davanti all’altare: Ti ringrazio  Signore, perché non sono come tutti gli altri uomini, e nemmeno come quello che è alla porta, come quel pubblicano (cfr Lc 18,11-12), non conosciamo il  cuore del Signore, e non avremo mai la gioia di sentire questa misericordia! Non è facile affidarsi alla misericordia di Dio, perché quello è un abisso incomprensibile. Ma dobbiamo farlo! “Oh, padre, se lei conoscesse la mia vita,  non mi parlerebbe così!”. “Perché?, cosa hai fatto?”. “Oh, ne ho fatte di  grosse!”. “Meglio! Vai da Gesù: a Lui piace se gli racconti queste cose!”. Lui si dimentica, Lui ha una capacità di dimenticarsi, speciale. Si dimentica, ti  bacia, ti abbraccia e ti dice soltanto: “Neanch’io ti condanno; va’, e d’ora in  poi non peccare più” (Gv8,11). Soltanto quel consiglio ti da. Dopo un  mese, siamo nelle stesse condizioni… Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia.

Tratto dall’ Omelia del Santo Padre Francesco nella Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano

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La donna adultera nella visione di Marthe Robin

Posté par atempodiblog le 17 mars 2013

La donna adultera nella visione di Marthe Robin dans Commenti al Vangelo gesadulteraipocrisia

“Di fronte alle accuse degli scribi e dei farisei contro questa donna Gesù stava in silenzio.
Sembrava ignorarli e teneva lo sguardo fisso a terra. Non guardava neppure la donna, messa ben in vista per sua vergogna. Poi si è messo a scrivere per terra con il dito. Innervositi dal silenzio di Gesù e incuriositi nel vederlo tracciare segni, alcuni si sono fatti coraggio e si sono avvicinati a Lui. Che cosa stava scrivendo? Il primo dei farisei, arrivato vicino a lui, ha scoperto con stupore che Gesù conosceva i suoi peccati più segreti che erano scritti a grandi lettere per terra! Confuso e spaventato ha guardato Gesù che poteva con una sola parola distruggerlo davanti agli altri.

Ma al contrario, con grande bontà e umile maestà, il Salvatore ha cancellato con la mano il peccato dell’uomo. Finito! Sparito! L’uomo ha letto il perdono negli occhi di Gesù ed è ripartito in silenzio. Poi si è avvicinato un altro, che non poteva evidentemente conoscere i torti del primo. Gesù ha scritto allora il peccato del secondo che, dopo aver letto, se ne è andato anche lui sconvolto.

Tutti si sono avvicendati in questo modo presso Gesù. Così gli accusatori della donna confusi fino in fondo all’anima, ma rispettati nella loro intimità, hanno abbandonato la scena uno dopo l’altro. La maldicenza e le intenzioni perverse, sono state lasciate sul posto, insieme alle pietre destinate alla peccatrice”.

Marthe Robin
Fonte: Cristo, Pietre Vive

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Il Volto che perdona

Posté par atempodiblog le 11 mars 2013

Il Volto che perdona dans Citazioni, frasi e pensieri il-Volto-che-perdona

«Gesù Cristo è al centro di tutto, assume tutto, soffre tutto. E’ impossibile colpire una creatura senza colpirLo, umiliare qualcuno senza umiliare, o uccidere qualunque uomo senza maledire o uccidere Lui stesso. Il più vile di tutti i manovali è costretto a servirsi del Volto di Cristo per ricevere un ceffone da non importa quale mano. Altrimenti lo schiaffo non potrebbe mai rag­giungerlo e resterebbe sospeso, nell’intervallo dei pianeti, per secoli e secoli, fino a che non incontrasse il Volto che perdona».

Léon Bloy

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