C’è sempre un pettirosso che si mette a cantare

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2019

C’è sempre un pettirosso che si mette a cantare dans Citazioni, frasi e pensieri Pettirosso

Si crede che sia tutto finito, ma poi c’è sempre un pettirosso che si mette a cantare.

Paul Claudel

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Il «Canto dell’Epifania» di Paul Claudel

Posté par atempodiblog le 4 janvier 2016

E ai vespri Claudel aprì gli occhi
Il «Canto dell’Epifania» del poeta che si convertì nel Natale del 1886 all’ascolto del Magnificat
di Mons. Inos Biffi – L’Osservatore Romano

adorazione re magi giotto

L’Epifania è tra le feste a cui Claudel ha dedicato il suo canto. Tornato d’improvviso e in maniera inaspettata alla fede durante i vespri natalizi del 1886, all’ascolto del Magnificat («In un istante il mio cuore fu toccato e credetti»), le celebrazioni non cessarono di attrarre e di ispirare la sua pietà.

L’anno sacro, suggestivamente definito Corona benignitatis anni Dei , avrebbe fatto scaturire in lui una vena sovrabbondante di poesia, in un fondersi di grazia e di natura, di dogma e di immagini, di mistero e di bellezza; e il suo stesso verso, attingendo alla fonte dell’orazione della Chiesa — largamente intessuta di Scrittura — si sarebbe rinnovato.

Era, d’altronde, affine al suo genio immergersi nel fluire del tempo con la sua materia e le sue figure e attingervi ciò che non trapassa, cioè la «benignità di Dio»; sentire il trascorrere degli anni — «dall’inizio del mondo fino ai nostri giorni» — non come un succedersi vano e confuso di secoli, ma come «una processione», formata da patriarchi o popolata di santi in cammino, di generazione in generazione, incontro alla «pienezza del tempo» (Galati , 4, 41), incontro a «Giuseppe, sposo di Maria dalla quale è nato Cristo» (Matteo , 1, 16) (cfr. Processional pour saluer le siècle nouveau).

Né mancheranno, a incentivare e conferire esuberanti risorse al gusto e alla sensibilità liturgica di Claudel, i vari soggiorni monastici a Solesmes e a Ligugé, mentre concorrerà a alluminarli la frequentazione dell’opera classica di Guéranger, L’année liturgique .

Veramente, già per il tempo succeduto alla laboriosa e dolorosa conversione, Claudel ricorderà: «Il grande libro che mi si era aperto e dove feci le mie classi, era la Chiesa. Per sempre sia resa lode a questa grande madre maestosa sulle cui ginocchia ho imparato tutto. Passavo tutte le domeniche a Notre-Dame e vi andavo il più spesso possibile in settimana. Il dramma sacro si dispiegava davanti a me con una magnificenza che oltrepassava ogni mia immaginazione. Ah, non era più il povero linguaggio dei libri di devozione! Era la più profonda e grandiosa poesia, erano i gesti più augusti, che mai fossero stati affidati a degli esseri umani. A confronto del canto sublime dell’ Exsultet gli accenti più inebrianti di Sofocle e di Pindaro erano insipidi» (Ma conversion).

Il progetto di Claudel di comporre un’ampia raccolta di poemi sul calendario liturgico risale al primo decennio del secolo scorso. In una lettera del gennaio del 1909 ad André Gide, l’autore di Tête d’or e di Partage de midi manifestava la sua intenzione di comporre «un ciclo di canti», «nella forma popolare delle vecchie sequenze», raggruppati secondo le suddivisioni tradizionali del Breviario: un tentativo — come scriveva allo stesso Gide qualche mese dopo — «di riprendere la tradizione di Notkero, di Adamo di San Vittore e di Prudenzio».

Esattamente, da quel progetto, riportato a termini più ridotti, nacque la Corona benignitatis anni Dei , una successione di poemi dove la memoria liturgica è volta in poesia, com’era avvenuto, prim’ancora che per gli autori citati da Claudel, per l’innologia insuperata di sant’Ambrogio e per gli Inni sacri di Alessandro Manzoni. A questa Corona appartiene il Canto dell’Epifania (Le chant de l’Épiphanie), definitivamente compiuto nel 1913.

Siamo nell’ora mattutina «dell’Anno tutto nuovo»; «la brina cricchia sotto i piedi come cristallo»; la terra brillando «appare nella sua veste battesimale», e «Gesù, frutto dell’antico Desiderio», quando ormai dicembre è terminato, si manifesta «nell’irraggiarsi dell’Epifania». I tre Magi — Claudel si rifà alla tradizione popolare — si sono mossi troppo in ritardo per arrivare a Natale, e a guidarli è «una stella del Cielo», che «si ferma» dove dimora e presiede «Maria con il suo Dio tra le braccia». Ora «non si tratta che di aprire gli occhi e guardare»: «da dodici giorni è nato il Figlio di Dio con noi». Per il poeta l’Epifania è anzitutto uno sguardo intenso e silenzioso che si posa sul Signore e sulla sua Madre.

I tre saggi offrono i loro doni, e «noi con loro contempliamo Gesù Cristo, in questo giorno della sua triplice manifestazione».

Il primo mistero che lo rivela è la venuta di Gaspare, Melchiorre e Baldassare, al seguito di un stella «fissa dall’inizio del mondo che si mette in cammino». I primi a stare intorno alla mangiatoia sono «i poveri», «buone donne e pastori con molte pecore, che senza alcuna difficoltà, con voce unanime, confessano il Salvatore». «Essi sono così poveri», che il Figlio di Dio «si trova con loro come a casa propria».

Diverso è il caso dei Magi, ma ecco l’implorazione a Maria per loro: «Madre di Dio, accogliete queste persone oneste, che neppure per un istante dubitano di quello che hanno veduto (…), insieme con quello che vi presentano». «Sono doni ricchi di significato e di grande valore: l’oro, che è campione della Fede priva di inganni o di scarti (…); la mirra, il cui profumo sepolcrale e amaro è il simbolo della Carità»; mentre l’«oncia di incenso recata da Melchiorre è la Speranza».

«La seconda Epifania di Nostro Signore è il giorno del Suo battesimo nel Giordano. L’acqua diviene un sacramento in virtù del Verbo che ad essa si unisce. Dio entra nudo nelle fonti di queste acque profonde in cui siamo sepolti. Come esse Lo fanno uno con noi, così ci fanno uno con Lui. Fino all’ultimo pozzo nel deserto, fino alla fossa precaria aperta lungo il cammino, non c’è una goccia d’acqua ormai che non basti per fare un cristiano». Da quelle acque profonde — prosegue il poeta — ebbro e nudo il Signore riemerge, e allora «il Vostro ultimo languore, prima della morte; il Vostro ultimo grido sulla Croce, è che Voi avete sete ancora». Secondo il poeta, Cristo si immerge in tutta l’acqua dell’universo; è assetato di ogni goccia dell’Oceano: per dire la sete di salvezza della quale è riarso.

Segue il «terzo mistero», compiutosi alle nozze di Cana, «quando [o Signore], sulla parola pronunziata a mezza voce dalla Vostra Madre, mutaste in vino l’acqua furtiva contenuta nelle dieci anfore di pietra. (…) Basta una parola di Dio, perché le nostre acque imputridite si mutino in ottimo vino», perché un vino dapprima scadente, risulti alla fine il «vino migliore».

E così «l’Epifania del giorno è passata, e non resta che quella della notte», quando i Magi, per una strada diversa da quella della loro venuta, ridiscendono, tornando ai loro Paesi: «La notte è ridiventata la stessa e tutto da ogni parte arde in silenzio».

È «la grande Notte della fede», che il poeta saluta: «Salve, grande Notte della fede (…)! La patria di un cattolico è la Notte, non la nebbia; la nebbia che acceca e che soffoca, che entra nella bocca e negli occhi, che passa per tutti i sensi, in cui camminano, senza saper dove sono, l’incredulo e l’indifferente». «Ecco la notte migliore del giorno», segnare la via: «Ecco l’Anno tutto nuovo, che si innalza uguale coi suoi milioni di occhi tutt’intorno verso il punto polare», e «nel mezzo del Cielo il tuo seggio, o Maria, Stella del Mare!».

L’Epifania è l’apparizione del Signore, che non dissipa l’oscurità della fede. Il giusto vive di fede. E, pure, è diffusa su di lui una Luce sicura, che infallibilmente lo guida sulla via della visione.

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Claudel cantò lo Spirito divoratore: la Pentecoste dall’analisi della teologia alla sintesi della poesia in un articolo di don Inos Biffi

Posté par atempodiblog le 18 mai 2015

La riflessione sulla Pentecoste dall’analisi della teologia
E Claudel cantò lo Spirito divoratore alla sintesi della poesia
di don Inos Biffi – L’Osservatore Romano

 Claudel cantò lo Spirito divoratore: la Pentecoste dall'analisi della teologia alla sintesi della poesia in un articolo di don Inos Biffi dans Fede, morale e teologia 2ln6zus

Dopo la Risurrezione di Gesù viene lo Spirito. Al termine dell’itinerario terreno del Figlio di Dio, il Padre, insieme con Lui e tramite Lui, elargisce il Dono. La pienezza dello Spirito non è data ai credenti, i «fiumi di acqua viva» (Giovanni, 7, 38) non scorrono, prima che Gesù sia stato glorificato, poiché è dal suo seno che sgorgano. E infatti, secondo Giovanni il Signore appare la sera di Pasqua ad alitare sui discepoli lo Spirito Santo. L’umanità è redenta e la storia del mondo “finisce” quando su tutti e per tutti lo Spirito è disponibile. Allora è compiuta la vicenda di Cristo e quella degli uomini. L’arcano disegno divino aveva esattamente questa sostanza e questo fine: creare una umanità che possedesse lo Spirito del Padre e del Figlio, che ricevesse il vincolo o l’amore, che li unisce e li rende presenti nell’umanità e nel cuore, o nell’esistenza, di ogni credente.

Dove c’è Gesù glorificato là c’è lo Spirito; dove c’è lo Spirito là c’è il Signore Gesù, che per mezzo dello Spirito è presente e opera. Non è facile parlare dello Spirito. Lo si avverte, ma non in una figura umana, com’è del Figlio, e non in una rappresentazione che all’uomo è immediata, quella della paternità com’è del Padre. Lo Spirito viene come alluso attraverso dei simboli: «un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, all’improvviso», «lingue come di fuoco», che si dividono ed eccitano la parola, ottenendo sorprendentemente l’unità e l’intesa, là dove ci si aspetterebbe l’incomprensione. È la prima grazia dello Spirito Santo: quella di poter credere e di poter riconoscere — come dice Paolo — che «Gesù è Signore» (1 Corinzi, 12, 3), quella di annunziare «le grandi opere di Dio» (Atti, 2, II).

Lasciati a noi stessi non avremmo la fede e non potremmo essere il Popolo di Dio: rimarremmo nella confusione, dove non è possibile capirsi, dove la lingua invece di comunione provoca rissa e isolamento, e dove la freddezza del cuore ci separa reciprocamente. Lo Spirito crea la Chiesa e la tiene insieme, e chi partecipa dello Spirito ne vive e ne rivela il mistero. A verificare questa dimensione e questa condizione “spirituale” per capire la Chiesa e per essere Chiesa ci induce oggi — dichiara Bernardo di Clairvaux — la «solennità dello Spirito Santo, che è come la realtà più dolce che esiste in Dio, che è la benignità di Dio, colui che è il principio della santità» (Sermo in die Pentecostes, I, 1). Se lo Spirito vince le resistenze reciproche e genera la comunione, allora si rivela con chiarezza sia la radice dei carismi sia la loro finalità: la radice è lo Spirito, di cui ogni grazia è manifestazione, e la finalità è il bene di tutta la Chiesa. Lo Spirito non chiude in sé, ma apre agli, altri. Ogni impegno e ogni lavoro non può servire l’interesse personale o la vanagloria. Su questa misura si diventa cauti prima di domandare il riconoscimento di un carisma, prima di pretenderne l’esercizio, e anche prima di stupirsi che non venga riconosciuto o che sia contestato.

Quando si tiene troppo a un “carisma”, la probabilità va nel senso che non sia autentico. Sul tema dello Spirito ci illuminano alcune riflessioni di san Tommaso, forse non molto note. Egli scrive: «Cristo appare a quanti sono radunati insieme; così lo Spirito discende su quelli che sono uniti tra loro: Cristo e lo Spirito si fanno presenti soltanto a coloro che sono legati dall’amore» (Super Euangelium Iohannis reportatio, 20, 4, n. 2529); «Molto felicemente Paolo attribuisce le grazie allo Spirito che è l’Amore, poiché ogni servizio è grazia che proviene dall’amore del Signore, al quale si serve» (Super I Ad Corinthios XI – XVI reportatio, 12, 1, n. 723); «Dalla forza dello Spirito Santo otteniamo di essere rigenerati e di essere ricreati per la salvezza» (ibidem, n. 734).

San Tommaso sta commentando le parole dell’Apostolo: «Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Corinzi, 12, 13), e prosegue dicendo: «Questo abbeverarsi si può intendere del refrigerio interiore che lo Spirito Santo offre al cuore umano, estinguendo la sete dei desideri del peccato; oppure si può intendere della bevanda sacramentale, consacrata dallo Spirito» (Super I Ad Corinthios XI – XVI reportatio , n. 734). Infatti appartiene allo Spirito se i sacramenti non si risolvono in puri atti umani ma trascendono, nella loro intenzione e nel loro effetto, le possibilità che un uomo può raggiungere.

A Pentecoste si rinnova il senso del ministero come docilità allo Spirito del Signore, e la consapevolezza che nella Chiesa tutto riesce se viene dalla virtù dello Spirito: la Parola e la sua predicazione, i sacramenti con i loro riti, le opere con i loro traguardi. Allo stesso modo si ravviva il senso della Chiesa come mistero, luogo e manifestazione dello Spirito Santo contro ogni rischio di fraintendimento, quasi che a definirla e a farla consistere siano le nostre attività per se stesse o siano i nostri puri criteri, mentre la Chiesa è il segno della riuscita del Signore che agisce con lo Spirito Santo. Urge riportarsi a questa genesi, quando sembri che la Chiesa venga concepita come realtà che riesce all’uomo.

Ma lo Spirito anima la Chiesa inabitando l’anima dei giusti. È una inabitazione senza strepito, silenziosa, che purifica e stabilisce l’amicizia, iniziando e guidando la storia più preziosa e più segreta, quella che si svolge anzitutto agli occhi del Padre: una storia non facilmente programmabile, ricca di sorprese, poiché non è lo Spirito che dev’essere obbediente all’anima, ma l’anima allo Spirito. Allora abbiamo l’adorazione nel cuore e l’obbedienza che coincide con la vita (cfr. ibidem, n. 718). Un santo è un uomo “spirituale” la cui esistenza si muove per l’istigazione e l’inclinazione dello Spirito, il quale ha le sue vie, che sono sempre le vie di Gesù Cristo, ma non nella forma che immediatamente potremmo immaginare. Lo Spirito fa nascere la preghiera, il modo fondamentale di porsi di fronte a Dio, e ne provoca gli accenti. Lo Spirito spinge non tanto all’apparenza quanto alla “latitanza”, poiché la vita che egli sostiene è la vita “interiore”, che ha sempre, se è sana e autentica, una buona dose di distacco, di indifferenza e di segreto.

San Bernardo descrive così l’opera dello Spirito: «Solo lo Spirito Santo ti spinge a camminare con sollecitudine insieme con il tuo Dio. Egli scruta le profondità dei nostri cuori, opera il discernimento dei pensieri e delle intenzioni e non tollera nell’abitacolo del cuore, che è suo possesso, neanche una minima pagliuzza, ma subito la brucia con il fuoco del suo sguardo penetrante. Egli ammonisce la memoria, le ispira pensieri santi, allontana la nostra pigrizia e il nostro torpore; fa da maestro al nostro intelletto e muove la volontà, aiuta la nostra infermità» (Sermo in die Pentecostes, II, 8; I, 5).

Ma non solo dei teologi santi e dei mistici hanno interpretato così lo Spirito Santo. Lo hanno interpretato anche dei poeti cristiani. Claudel nel suo Hymne de la Pentecôte lo invoca con questi accenti:

«O sole della luce di Dio con noi! O bellezza della luce di Dio concepita prima dell’aurora! Guarisci questo occhio mortale! Risuscita questo cuore addormentato. Vieni, Spirito divoratore! Vieni, o morte della morte! Vieni, ansia dell’amore, punta che distrugge la pigrizia. Vieni, giudizio e gusto, scienza del bene e del male, forza ingenua dei Martiri, vibrazione dell’intelligenza e della conoscenza saporosa. O Dio, io sento la mia anima folle in me che piange e che canta».

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La perla

Posté par atempodiblog le 1 mars 2015

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La perla nelle profondità dei mari nasce da sola dalla carne viva: pura e tonda si distingue nella sua immortalità dall’essere effimero che l’ha generata. Essa è l’immagine di quella ferita che provoca in noi il desiderio di perfezione che, lentamente, si concretizza in quel globo inestimabile.
Ecco la perla, il seme metafisico racchiuso nelle pieghe della nostra sostanza, sottratto sia alla minaccia dei germi interni che alla critica dall’esterno grazie all’assenza di qualsiasi vocazione terrena; una condensazione di valore, una goccia di latte, un frutto staccato e senza picciolo, una solidificazione della coscienza, l’astrazione di tutti i colori che giunge fino alla luce, una concezione immacolata. L’anima ferita e fecondata possiede al fondo di se un apparecchio che le permette di solidificare il tempo in eternità. E’ la perla, è questa realizzazione dell’essenza, è l’Uno necessario, è questo tenere in una mano quell’avere che, ci dice l’Apocalisse, ci farà da porta d’ingresso alla Gerusalemme Celeste […]. E’ per procurarci questo inestimabile pois che il Vangelo ci consiglia di vendere tutto.

di Paul Claudel, L’oeil écoute, Éditions Gallimard, Paris 1946
Tratto da: Dostoevskij. Il sacro nel profano di Tat’jana Kasatkina, BUR saggi

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9 febbraio: beata Anna Katharina Emmerick

Posté par atempodiblog le 9 février 2014

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Nacque nel 1774 a Flamschen, in casa di poveri contadini della Westfalia, e fu sempre gracile e malaticcia. A ventotto anni riuscì a farsi ammettere come monaca agostiniana nel monastero di Dülmen, dove rimase nove anni. Poi l’invasione napoleonica impose la chiusura dei monasteri e la Emmerick passò i dodici anni che le restavano in una misera stanza messale a disposizione da benefattori, sempre malata e senza mai poter alzarsi dal letto. Quinta di nove figli, fin da piccola aveva sentito l’impulso di pregare per poter addossarsi le sofferenze degli altri. Le appariva Gesù Bambino e si intratteneva con lei, rivelandole i segreti delle erbe medicinali. La ragazzina era convinta che tutti vedessero quel che vedeva lei, ma raccoglieva solo incredula commiserazione (fu così che imparò a tenere per sé le sue visioni). Poté frequentare la scuola per pochissimo, in compenso imparò a cucire. Cresciuta, cercò di farsi ammettere in tre diversi monasteri, ma nessuno la volle per via della salute cagionevole e l’estrema povertà (a quel tempo i vestiti, le lenzuola, la biancheria e gli asciugamani dovevano essere confezionati a mano e costavano: i conventi, vivendo di elemosine, non potevano accollarsi una suora priva di dote).
Intanto, le sue visioni si arricchivano di profezie: “vide” la Rivoluzione francese, la morte del re di Francia sulla ghigliottina, l’avvento di Napoleone, la prigionia del papa Pio VI, la Restaurazione… A venticinque anni, mentre pregava in chiesa, le apparve il Cristo che le porgeva due corone, una di fiori ed una di spine. Lei scelse la seconda e da quel momento dovette nascondere le stimmate sul capo sotto una cuffia da contadina. Andò a servizio a casa di un organista, la cui figlia finì per farsi agostiniana e pose come condizione al suo ingresso in monastero che venisse accolta anche la Emmerick. Le monache accettarono perché avevano bisogno di una che sapesse suonare l’organo. La Emmerick lavorava in giardino e gli uccelli venivano a posarsi sulle sue spalle. Era in grado di conversare col suo angelo custode e spesso trascorreva la notte davanti al Santissimo. Il confessore delle monache la prese a benvolere: era il francese Martin Lambert, prete “refrattario” fuggito dalla Francia per non aver voluto prestare il giuramento scismatico “costituzionale”.
La Emmerick, spesso malata per via del suo caricarsi (soprannaturale) dei dolori altrui, nel 1802 avvertì un forte dolore al petto e si ritrovò con una stigmata a forma di croce impressa sulla pelle. Nel 1811, causa l’abolizione degli ordini religiosi, il monastero venne chiuso d’autorità e le monache rimandate in famiglia. Il Lambert prese in affitto una casa e vi alloggiò la Emmerick, ormai così malata da non poter lasciare il letto. Fu fatta venire una sua sorella, Gertrud, per accudirla, ma questa si rivelò rozza e limitata, di carattere bisbetico e insensibile. Intanto, Anna Katharina subiva estasi che duravano ore, ma anche sofferenze indicibili. Nel 1812 ebbe altre due stimmate a forma di croce sul petto e i segni della Passione su mani, piedi e torace. Si sparse la voce e la cosa incuriosì il medico razionalista Franz Wilhelm Wesener, che si recò al capezzale della stigmatizzata per smascherare l’imbroglio. Quando la veggente lo vide entrare gli rivelò particolari biografici che solo lui poteva conoscere. Il Wesener si convertì e non lasciò più la suora. La vedeva andare in estasi e divenire insensibile a tutto, tranne all’acqua benedetta e alle benedizioni impartite da un prete, anche a distanza o lontano: in quel momento la Emmerick si faceva il segno della croce. Il medico attestò anche un altro fenomeno: la Emmerick visse per anni di sola acqua e di comunione. Non poteva mangiare nulla di solido, perché rimetteva. Intanto, la gente arrivava sempre più copiosa e il vicario della diocesi, August von Droste Vischering, volle vederci chiaro. Ordinò una severa inchiesta che fu condotta dal medico, massone, von Druffel. Questi cercò per settimane di curare le piaghe della Emmerick ma dovette arrendersi e certificare che non erano prodotte artatamente. Intanto, la veggente ogni venerdì soffriva i dolori della Passione, compresi quelli della flagellazione e della crocifissione. A questo univa una capacità tutta soprannaturale di riconoscere le reliquie vere in mezzo a quelle false e di dare informazioni dettagliate sul martire cui appartenevano. A visitarla arrivarono importanti personaggi come il conte Stolberg (amico di Goethe e poi convertitosi al cattolicesimo), la famosa poetessa Luise Hensel (anch’ella poi fattasi cattolica) e soprattutto il massimo poeta romantico tedesco, Clemens Brentano. Quest’ultimo, dai trascorsi burrascosi (tra cui due matrimoni falliti), andò a Dülmen per curiosità, spinto dalla Hensel (di cui era vanamente innamorato). La veggente, appena lo vide, gli disse che era lui l’uomo che, per rivelazione divina, aspettava. Finì che il Brentano si stabilì a Dülmen e per sei anni non lasciò il capezzale della Emmerick. Fu lui a mettere per iscritto le visioni di lei. Riempì diciassettemila pagine che composero diversi volumi. L’opera, in seguito pubblicata via via, ebbe un clamoroso successo e fu seguendone le indicazioni che alcuni archeologi trovarono la casa della Madonna ad Efeso.
I prodigi intorno alla Emmerick sembravano senza fine: durante le estasi eseguiva gli ordini che il sacerdote le impartiva in latino (lei, che non aveva studiato); una volta, in una sola notte – e al buio più completo – cucì un incredibile numero di abitini per bambini poveri; toccando un oggetto sapeva dire tutto del suo proprietario; rispondeva alle domande formulate mentalmente di Brentano che le teneva la mano… Nel 1819 il governo prussiano, inquietato dall’affluenza di gente a Dülmen, decise di procedere a un’inchiesta sulla monaca stigmatizzata e mandò i gendarmi. La Emmerick fu prelevata di forza e portata su una barella in un’altra casa: qui per tre settimane la tennero in una stanza illuminata giorno e notte, sorvegliata ininterrottamente e a vista da squadre di uomini che si davano il cambio, con interrogatori continui e reiterate ispezioni delle sue stimmate. Minacciata, perquisita, costretta a ingoiare cibo che regolarmente vomitava, non si riuscì a farle “confessare” il suo “inganno”. La povera donna, che era in grado di esprimersi solo in dialetto e non sapeva scrivere, subì ogni sorta di vessazione inutilmente, perché anche l’inchiesta statale dovette gettare la spugna. Finalmente la riportarono a casa e il Brentano poté riprendere con i suoi appunti su quel che lei dettava.
La precisione con cui la Emmerick descriveva luoghi e usanze giudaiche e dettagli degli abiti del tempo di Gesù era stupefacente. Come si è detto, era quasi analfabeta e non si era mai mossa dalla Westfalia. Ma anche il Brentano non aveva alcuna preparazione teologica o storica. Però quel che venne scritto delle visioni della Emmerick aveva una precisione incredibile (il poeta Paul Claudel si convertì dopo aver letto i resoconti della Passione dettati dalla monaca). Nel 1819, dopo anni di preghiere, le ferite della stigmatizzata si chiusero (aveva chiesto a Dio di toglierle l’imbarazzo che le procuravano e lasciarle solo i dolori): si riaprivano solo il Venerdì Santo. Il 9 febbraio 1824, come aveva profetizzato da mesi, la Emmerick morì di paralisi polmonare. Due mesi dopo, corsa la voce che il suo corpo era stato trafugato a scopo di studio, venne riaperta la sua tomba e il cadavere fu trovato assolutamente fresco e incorrotto.
Brentano durante la sua vita riuscì a far pubblicare solo i volumi La dolorosa passione di Nostro Signor Gesù Cristo e Vita della santa Vergine Maria. Il volume Anni di insegnamento di Gesù vide la luce solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1842. Nel 1869 uscì I segreti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Nel 1881, seguendo le indicazioni contenute in questi libri, due archeologi ritrovarono in Turchia, nei paraggi dell’antica Efeso, la casa dove Maria aveva trascorso gli ultimi anni prima della sua Assunzione, Meryem- Ana-Evi, che Paolo VI visitò nel 1967 e Giovanni Paolo II nel 1979. È bene ricordare che tutti i testi ricavati da Brentano dalle visioni della Emmerick hanno ricevuto l’imprimatur.

di Rino Cammilleri – Il Timone

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Il Card. Ravasi su Radio Maria e le apparizioni di Medjugorje

Posté par atempodiblog le 25 février 2012

Uno stralcio dell’intervista di Valerio Pece per la Rivista Tempi al Card. Gianfranco Ravasi

Il Card. Ravasi su Radio Maria e le apparizioni di Medjugorje dans Articoli di Giornali e News

Lei ha una seguitissima rubrica su Radio Maria. Come giudica quella che per molti è diventata l’“Università dei cattolici”? Cosa risponde anche a coloro che dentro la chiesa guardano questa Radio un po’, come dire, dall’altro in basso?
Tra i meriti di Radio Maria c’è senz’altro quello di aver intercettato un orizzonte vasto e non nazional-popolare, come a volte erroneamente si pensa. La mia rubrica è la riproduzione di un ciclo di conferenze che tenni al Centro culturale San Fedele a Milano. Devo dire che non sono lezioni facili, per cui ogni volta mi stupisco delle email che mi arrivano dagli ascoltatori: vogliono approfondimenti, spiegazioni, vorrebbero avere il testo. Non sarà bello da dire ma la verità è che noi ci portiamo dietro un po’ di sfiducia del “Popolo di Dio”, pensando che alla fine ci si accontenti, invece basta ascoltarlo per vedere quanto profondamente si interroghi sulle domande fondamentali: vita, morte, dolore, oltrevita. I tanti ascoltatori di Radio Maria sono una vera lezione per noi teologi.

Che idea si è fatta delle apparizioni che avverebbero a Medjugorje? I frutti in termini di conversioni sembrano davvero abbondanti.
Non sono mai stato a Medjugorje e non so se mai vi andrò, ne riconosco però l’assoluto rilievo. Va detto che la commissione voluta da papa Benedetto XVI e guidata dal cardinale Ruini è già a metà del suo cammino. Certo, bisognerà verificare bene la genesi delle apparizioni ma va detto che la commissione è guidata da teologi assolutamente qualificati, di cui fidarsi. Sono curioso dell’esito finale. Le strade per la conversione poi sono tante e diversissime, a Paul Claudel bastò ascoltare il Magnificat nella cattedrale di Notre-Dame durante la messa di Natale, Medjugorje oggi è la strada per tanti, i frutti parlano chiaro.

Tratto da: Il cardinale che si fece Gentile – Rivista Tempi
Fonte: Radio Maria

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Quella sera di Natale del 1886

Posté par atempodiblog le 3 décembre 2011

Paul Claudel: colpito dal canto del Magnifiicat, «in un istante il mio cuore fu toccato e io credetti»…
di Maria Di Lorenzo – Mensile Madre di Dio

«C‘è una cosa, Dio supremo, che Tu non puoi fare. / Ed è di impedire che io Ti ami». L’amore radicale, oseremmo dire bruciante, che il poeta nutre nei confronti di Dio è espresso da due versi fulminanti in cui la supplica si fa assoluta. Paul Claudel nella primavera del 1900, all’età di 32 anni, si era presentato all’abbazia benedettina di Solesmes, e qualche mese più tardi a quella di Ligugé, per un ritiro. Ma aveva compreso di non essere fatto per la vita monastica. «Fu un momento molto crudele nella mia vita», scrive a Louis Massignon nove anni dopo. «Benché non sia piaciuto a Dio di farmi uno dei suoi preti, amo profondamente le anime», dirà ad André Gide con cui, insieme a Jacques Rivière, fonderà La Nouvelle Revue française (1909).

Da questo momento Claudel decide di praticare la letteratura come una sorta di sacerdozio. Sente che è questa la sua missione. E per guadagnare le anime a Dio mette in scena le questioni morali e spirituali proprie del cattolicesimo testimoniando i piani divini attraverso le realtà terrestri. A tutt’oggi è riconosciuto come uno dei massimi autori francesi del Novecento e le sue opere teatrali sono ancora rappresentate con successo in tutto il mondo.

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Parigi: la Cattedrale di Notre-Dame, una delle costruzioni gotiche (1163-1345) più celebri del mondo.

U
na vocazione unica.
Era nato a Villeneuve- sur-Fère il 6 agosto 1868 – giorno della Trasfigurazione, come lui stesso noterà anni più tardi – e alla nascita viene consacrato alla Vergine, come primo maschio. A Villeneuve resta solo due anni, poiché il padre, che era conservatore delle ipoteche, è costretto dal suo lavoro a continui trasferimenti, finché nel 1882, a 13 anni, si trasferisce a Parigi con la madre e le sorelle.
Al liceo Louis Le Grand è un allievo molto brillante: legge Baudelaire, scopre con passione Goethe, ma è verso il poeta Arthur Rimbaud che sente di avere una sorta di « filiazione spirituale », forse perché percepisce nel precoce genio letterario, sotto le apparenze di una vita da maudit, la sua stessa sete bruciante di assoluto. Anche Paul è un ribelle. Tutto gli dà noia. Tutto in quei primi anni giovanili, imbevuto com’è di idee positiviste, gli risulta intollerabile, la morte come la vita, la solitudine come la compagnia. Comincia a cercare delle risposte che sazino la sua fame esistenziale. Simpatizza con il movimento anarchico del suo tempo e inizia a frequentare i Martedì letterari di Mallarmé.
Dai quattordici ai vent’anni vive il tempo difficile della crisi adolescenziale. «Chi sono io?», si chiede il giovanissimo Paul, e non sa trovare risposta. In questo periodo, abbandonate le pratiche religiose dell’infanzia, non ha punti fermi nella sua vita. È introverso e solitario. Nessuno, in famiglia come nella cerchia di amici, sospetta la crisi profonda in cui è immerso. Legge molto, ma confusamente: i romanzi di Hugo, di Zola, La vie de Jésus di Renan. Al liceo Louis Le Grand imperversa la moda del positivismo materialista di Taine e di Renan che invece di placare acuisce la sua inquietudine interiore. Del mondo ha una visione tanto cupa e disperata che non ha il coraggio di comunicare ad anima viva. La prima luce gli viene dalla lettura dei versi di Rimbaud, poi accadrà quello che sarà l’evento decisivo della sua vita.

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Una foto di Paul Claudel

A
diciotto anni, la sera di Natale del 1886, Paul va ad ascoltare i Vespri
a Notre- Dame e lì avviene il « giro di boa », una conversione così potente che imprimerà un segno fortissimo non solo alla sua anima, ma finirà per avvolgere e racchiudere tutta la sua esperienza letteraria. Colpito dal canto del Magnificat durante la funzione dei Vespri, avverte il sentimento vivo della presenza di Dio. «In un istante – scrive – il mio cuore fu toccato e io credetti».
Claudel in quell’istante si è sentito chiamato inequivocabilmente alla scrittura. Si può dire che solo ora comincia la sua attività letteraria, che non sarà mai disgiunta dal suo percorso di fede, ma costituirà un tutt’uno con esso, divenendone per questo strumento di conoscenza e di espressione artistica.
Tre anni dopo pubblica l’opera teatrale Testa d’oro. «Certamente – gli dirà Mallarmé – il teatro è in lei». Ma Paul in quegli anni decide di impegnarsi soprattutto nel diritto e nelle scienze politiche; superato un concorso, comincia a lavorare presso il Ministero degli affari esteri. Viene nominato viceconsole e mandato a New York, successivamente a Boston (1893). Lì stabilisce quella che sarà la sua regola di vita: sveglia ogni mattina alle 6 per pregare o recarsi a Messa; lavori personali fino alle 10, il resto del tempo dedicato alla diplomazia.
Scrive due nuove pièces, La città e Lo scambio, in cui esprime la sua scoperta della città e della società del profitto. Sente di aver trovato nel poema e soprattutto nel teatro la sua personale forma espressiva. Il suo stile è impetuoso, passionale, quasi violento, a tratti impenetrabile. Pensiamo per esempio al primo abbozzo del dramma La giovane Violaine che nasce da una antitesi potente, e irrisolta, tra cielo e terra, tra l’attaccamento profondo alle cose del mondo e il desiderio ineludibile di Dio, che nessuna brama terrena, appagata o no, può mai riuscire a saziare.

U
n’opera magistrale per il sì di Maria.
A 27 anni s’imbarca per la Cina. Su consiglio del suo confessore, porta con sé le due « summe » di Tommaso d’Aquino, che leggerà per cinque anni. Qui scrive la prima parte di Conoscenza dell’Est, la sua prima opera in prosa, che i contemporanei definiscono come il massimo traguardo raggiunto dalla lingua francese. Nel 1909 lascia la Cina per andare a Praga: qui termina L’Annonce faite à Marie, una delle più belle pièces teatrali di tutti i tempi, che sarà rappresentata per la prima volta al Théâtre de l’Oeuvre di Parigi nel 1912, ricevendo un’accoglienza trionfale da un pubblico costituito soprattutto di giovani.
La pièce s’incentra su un tema particolarmente caro a Claudel: ogni essere umano vive nel mondo per volontà di Dio che ha affidato a ciascuno una missione specifica sulla terra. È un compito unico che ciascuno ha per sé, diverso da tutti gli altri, ma che concorre alla fine all’armonia di tutto il creato. Lo stesso titolo dell’opera ne spiega la portata: l’annuncio dell’Angelo a Maria fu il segno concreto della volontà divina che chiamava la giovane a una missione nel mondo che avrebbe non solo sconvolto la sua vita, ma cambiato radicalmente le sorti dell’intera umanità. È stato il manifestarsi, limpido e concreto, di una vocazione. L’Annuncio parte da questo dato per porre in luce l’errore che può compiere l’essere umano di fronte a questo, ritenendo che la propria vocazione dipenda in ultima analisi esclusivamente da se stessi.
Dopo la cessazione dall’attività diplomatica avvenuta nel 1935, Claudel si ritira nel suo castello di Brangues per dedicarsi intensamente all’esplorazione dei segreti e dei misteri di quella che per lui è la fonte di ogni poesia e di ogni grazia, la Bibbia, scrivendo numerosi commenti alla Sacra Scrittura: Introduction au Livre de Ruth (1937), Un poète regarde la croix (1938), Le Cantique des cantiques (1948-1954), L’Apocalypse (1952), solo per citare i più noti. Per il teatro realizza altre pièces, come La crisi meridiana, La scarpina di raso e l’oratorio drammatico Il libro di Cristoforo Colombo. Ma rimane L’Annuncio a Maria l’opera che Claudel amava di più. Quando, nel 1955, venne rappresentata alla Comédie française, si organizzò la replica nel suo appartamento. La prima ebbe luogo il 17 febbraio, di fronte al Presidente della Repubblica. Ma solo cinque giorni più tardi il cuore di Paul Claudel cedette. Morì infatti il 23 febbraio 1955, poco dopo aver ricevuto la Comunione. Le ultime parole che il figlio maggiore intese dalla sua bocca furono: «Non ho paura».

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La conversione di Alfonso Ratisbonne

Posté par atempodiblog le 26 novembre 2011

L’apparizione della Madonna del Miracolo nella Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte a Roma (20 gennaio 1842)
di Vittorio Messori
Tratto da Jesus”, XXI [1999], n. 1
Fonte:
Holy Queenvitto

La conversione di Alfonso Ratisbonne dans Alfonso Maria Ratisbonne fm8gg9

Alfonso Ratisbonne appartiene a una delle più ricche e influenti famiglie della numerosa comunità ebraica di Strasburgo. Il figlio maggiore, Théodore, convertitosi al Cristianesimo, era stato ordinato sacerdote nel 1830, l’anno stesso delle apparizioni a Santa Caterina Labourè. Don Thèodore diventerà uno dei principali collaboratori del parroco di Nostra Signora delle Vittorie e, come tale, propagandista entusiasta e instancabile della devozione all’Immacolata della Medaglia miracolosa”, cui raccomanderà ogni giorno il fratello Alphonse.

In effetti, il giovane Alphonse, fedele all’Ebraismo più come riti e tradizioni che come pratica, sente doveroso battersi per l’assistenza e il riscatto dei fratelli nella fede d’Israele. La sua ostilità verso il Cristianesimo in generale, e il Cattolicesimo in particolare, non solo non è nascosta, ma è pubblicamente manifestata. Innamorato di una cugina, Flore, ha fissato con lei la data di un matrimonio vantaggioso anche sul piano sociale, ma voluto dai due soprattutto per amore. Prima di sposarsi, decide di fare un viaggio che lo porti sino a Gerusalemme, per vedere la terra dei suoi padri. Con una imprevista variazione, però, al suo programma, sceglie di visitare anche Roma. Arrivato nel giorno dell’Epifania del 1842, una delle sue prime visite è al Ghetto, dove vivono gli oltre quattromila ebrei romani. Ho capito”, scriverà ai familiari a Strasburgo, quanto sia meglio far parte dei perseguitati piuttosto che dei persecutori”.

A Roma, il Ratisbonne seppure di malavoglia viene in contatto con il gruppo dei ferventi cattolici francesi (molti dei quali convertiti) dei quali fa parte il barone Thèodore de Bussières, venuto dal Protestantesimo e amico del fratello sacerdote. Il de Bussières non solo impegna gli amici perché preghino per quel giovane ebreo, ma quasi come per una sfida lo convince a portare su di sé la Medaglia miracolosa”. Di più: ottiene da lui la promessa (poi mantenuta) di ricopiare il testo della famosa preghiera di san Bernardo che inizia con il Memorare, quel Ricordati, Vergine Maria, che non si è mai sentito al mondo che qualcuno abbia invocato il tuo soccorso e sia stato abbandonato…”.

Malgrado abbia già prenotato la partenza in diligenza per Napoli (per proseguire poi da qui, in bastimento, verso Instambul e da lì in Palestina) Alphonse, spinto da una forza misteriosa, decide di restare ancora qualche giorno a Roma. Nella tarda mattinata del 1842 accompagna il barone de Bussières nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, dicendo che resterà sulla carrozza mentre quel suo conoscente (più che amico) deve intendersi con i frati per l’organizzazione di un funerale. Malgrado l’intenzione di trattenersi su quel veicolo nobiliare, restato solo con il cocchiere, la curiosità di vedere l’interno della chiesa lo spinge ad entrare. E qui del tutto inaspettato, giungerà il colpo di fulmine” che sconvolgerà radicalmente la sua vita, cambiandola per sempre. Diamo a lui la parola, traducendo il testo che Renè Laurentin (dedicatosi per anni anche alla ricostruzione critica di questo caso) ha ricostruito sulle fonti più sicure.

All’improvviso, mi sentii preso da uno strano turbamento e vidi come scendere un velo davanti a me. La chiesa mi sembrò tutta oscura, eccettuata una cappella, come se la luce si fosse concentrata tutta là. Non posso rendermi conto di come mi sia trovato in ginocchio davanti alla balaustra di quella cappella: in effetti, ero dall’altra parte della chiesa e tra me e la cappella c’erano, a sbarrare il passo, gli arredi che erano stati montati per un funerale. Levai comunque gli occhi verso la luce che tanto risplendeva e vidi, in piedi sull’altare, viva, grande, maestosa, bellissima e dall’aria misericordiosa, la santa vergine Maria, simile nell’atto e nella struttura all’immagine della Medaglia che mi era stata donata perché la portassi. Cercai più volte di alzare gli occhi verso di lei, ma il suo splendore e il rispetto me li fecero abbassare, senza impedirmi però di sentire l’evidenza dell’apparizione. Fissai lo sguardo, allora, sulle sue mani e vidi in esse l’espressione del perdono e della misericordia. Con quelle stesse mani, mi fece segno di restare inginocchiato. Ma una forza irresistibile mi spingeva verso di lei. Alla sua presenza, benché ella non abbia detto alcuna parola, compresi di colpo l’orrore dello stato in cui mi trovavo, la deformità del peccato, la bellezza della religione cattolica: in una parola, compresi tutto, di colpo”.

La sconvolgente testimonianza di Ratisbonne termina con una frase che, per tutta la vita, amò ripetere: Elle ne m’a rien dit, mais j’ai tout compris” (“Lei non mi ha detto nulla, ma ho capito tutto”). Come divorato nel desiderio di ricevere il battesimo (la cui importanza era stata rivelata), undici giorni dopo è ammesso al sacramento, assumendo il semplice nome di Maria”, che non abbandonerà neppure entrando nell’Ordine dei Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1848, resterà nella Compagnia con soddisfazione sua e dei superiori per alcuni anni: l’abbandonerà, in pieno accordo anche con il Papa, per unirsi al fratello Thèdore (prete già dal 1830, come sappiamo) che aveva fondato una congregazione quella di Notre Dame de Sion, ancora esistente per la conversione degli ebrei al Vangelo.

Morirà in Terra Santa, ad Ain Karin, il luogo tradizionale della Visitazione di Maria a Elisabetta. Curiosa l’annotazione che ho trovato nel Diario di Paul Claudel, alla data del 14 marzo 1950: La Provvidenza riservava a un giudeo convertito, padre Alphonse Ratisbonne, l’onore di ritrovare, sotto l’ammasso di rifiuti da lui acquistati a Gerusalemme, il lastricato autentico del Litostroto, il luogo dell’Ecce Homo”. In effetti, è proprio così: il luogo comprato a Gerusalemme dai due fratelli Ratisbonne, nel 1856, si rivelerà uno dei più illustri della storia evangelica, addirittura il posto dove Pilato aveva stabilito il suo tribunale la fatale mattina di quel venerdì che precedeva la Pasqua. In Terra Santa, comunque, il lavoro dei due fratelli convertiti sarà massacrante e sarà posto soprattutto a favore degli orfani e, in genere, dei giovani (musulmani, ebrei, cristiani) privi di mezzi di sussistenza.

Sulla conversione di Alphonse più ancora che su quella di Thèodore si accanirà l’opposizione violenta da parte dei membri della sua numerosa famiglia e dei correligionari sparsi in mezza Europa. Questa conversione, seguita all’esperienza del 20 gennaio 1842 a Sant’Andrea delle Fratte, fu sottoposta a processo davanti al tribunale canonico del Vicario di Roma. Sfilarono molti testi giurati, e dopo mesi di lavoro, il cardinale Costantino Patrizi firmava un decreto (porta la data del 3 giugno 1842) che così si conclude: Consta pienamente la verità dell’insigne miracolo operato da Dio onnipotente per intercessione della Beata Vergine Maria, cioè la istantanea e perfetta conversione di Alfonso Ratisbonne dall’Ebraismo”.

Alle diffamazioni che accompagnarono la vita di padre Maria”, come volle sempre essere chiamato, si sono poi unite le divagazioni psicologiche o psicanalitiche, per ridurre a fenomeno patologico la visione che determinò la conversione. Non è qui il caso di entrare in discussioni di questo tipo. Basti però ricordare quale sia stata la forza dell’evento di quel 20 gennaio 1842: per 42 anni, sino alla morte (sopravvenuta nel mese mariano” di maggio, del 1884), Alphonse Ratisbonne mai mise in dubbio la verità di quanto gli era successo e fu fedele alla sua assistenza di sacrificio, come religioso impegnato al contempo nella preghiera e nell’azione. Poco prima della morte uscì in espressioni come questa: Perché mi tormentate con le vostre cure? La Santissima Vergine mi chiama e io ho bisogno di lei. Desidero solo Maria! Per me è tutto”. All’avvicinarsi della fine, pur ribadendo di sentirsi peccatore, confidò ai suoi che lo assistevano di non temere la morte ma di desiderarla, per vedere finalmente faccia a faccia la Signora che gli era apparsa splendente di luce, per pochissimi minuti, in quel lontano inverno romano. Una illusione” una manifestazione patologica”; i cui effetti vanno così in profondità e durano tanto? Tutti quei decenni di fedeltà al lampo nella cappella di Sant’Andrea sono la migliore smentita.

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Solo o insieme

Posté par atempodiblog le 18 septembre 2008

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Se vuoi arrivare primo, corri da solo. Se vuoi camminare lontano, cammina insieme. È un missionario di passaggio in Italia a segnalarmi questo bel proverbio del Kenya. Vediamo profilarsi, nella prima parte del detto, l’immagine della nostra società, modulata sull’individualismo aggressivo e competitivo. Sgomitare, calpestare, prevaricare per correre da soli e così essere primi: è un programma a cui ci ha abituato la civiltà contemporanea, nella convinzione che questa sia la via del successo. Con questa calamita dentro, ci muoviamo con frenesia e raggiungiamo anche mete alte in breve tempo. Ma c’è la seconda parte di quel proverbio ad ammonirci di un rischio che è sempre in agguato. Raggiunto il successo, ci si accorge subito che è breve e fragile, non ci accontenta ma ci inquieta, non estingue le aspirazioni ed ecco, allora, la possibilità della crisi, dell’insoddisfazione, dello stress da potere o da ricchezza. L’importante, infatti, per la creatura umana non è primeggiare ma attuarsi in pienezza. Come dice l’aforisma keniota, non è arrivare primo ma giungere lontano, fino alla perfezione. Ed è per questo che è necessario essere insieme. Nel tempo della caduta, se hai vicino l’altro che ti vuol bene, egli ti solleva e ti sostiene. Lascio la parola al poeta francese Paul Claudel (1868-1955): «La chiave di un uomo si trova negli altri: è il contatto con il prossimo che ci illumina su noi stessi, e da questo contatto scaturisce la luce su noi stessi» (in Memorie improvvisate).

 

di Gianfranco Ravasi – Avvenire

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