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Come le vetrate di una cattedrale

Posté par atempodiblog le 5 décembre 2021

Lo splendore interiore della Chiesa al centro della prima predica d’Avvento
Come le vetrate di una cattedrale
de L’Osservatore Romano

Come le vetrate di una cattedrale dans Articoli di Giornali e News Rosone-interno-Notre-Dame-de-Paris

«Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo figlio». È tratto dalla Lettera ai Galati (4, 4) il tema generale delle meditazioni che il predicatore della Casa Pontificia, il cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa, tiene oggi, 3 dicembre, e nei venerdì delle prossime due settimane di Avvento nell’Aula Paolo vi, per consentire il rispetto delle norme di distanziamento tra i partecipanti. Nel secondo venerdì, il 10 dicembre, e nel  terzo, il 17 dicembre, è prevista la presenza di Papa Francesco, in questi giorni a Cipro e in Grecia per il suo 35° viaggio internazionale.  Alle prediche sono invitati i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, i prelati della Famiglia pontificia, i dipendenti della Curia romana e del vicariato di Roma, i superiori generali o i procuratori degli ordini religiosi facenti parte della Cappella pontificia.

Mettere in luce «lo splendore interiore della Chiesa e della vita cristiana». È questo l’obiettivo delle riflessioni che il cardinale Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, propone quest’anno per il periodo di Avvento. A spiegarlo è stato lo stesso porporato, che stamane, venerdì 3 dicembre, ha tenuto la prima predica, nell’Aula Paolo VI . Il tema scelto per la meditazione è stato ispirato al brano paolino tratto dalla Lettera ai Galati (4, 4-7): «Dio mandò suo Figlio perché ricevessimo l’adozione a figli».

Il frate cappuccino ha posto all’attenzione degli ascoltatori un pericolo sempre presente, quello cioè di vivere come se la Chiesa fosse soltanto «scandali, controversie, scontro di personalità, pettegolezzi o al massimo qualche benemerenza nel campo sociale»: come se fosse, in sostanza, «cosa di uomini come tutto il resto nel corso della storia».

«Quello che mi propongo — ha invece sottolineato — è di mettere in luce lo splendore interiore della Chiesa e della vita cristiana». Una scelta che non nasce dalla volontà di «chiudere gli occhi sulla realtà dei fatti» o di «sottrarci alle nostre responsabilità», ma dal desiderio di affrontarle «nella prospettiva giusta» senza «lasciarci schiacciare da esse». Infatti, ha spiegato, non «possiamo chiedere ai giornalisti e ai media di tenere conto di come la Chiesa interpreta se stessa»; ma la cosa più grave sarebbe se anche gli «uomini di Chiesa e ministri del Vangelo» finissero per perdere di vista «il mistero» che la abita e si rassegnassero «a giocare sempre fuori casa, in trasferta e sulla difensiva».

Il predicatore ha invitato a guardare la Chiesa dal punto di vista più corretto, paragonandola alle «vetrate di una cattedrale». Se si guardano dall’esterno, non si vedono che pezzi di vetro scuro tenuti insieme da strisce di piombo altrettanto scure. «Ma se si entra dentro e si guardano quelle stesse vetrate contro luce — ha esclamato — che splendore di colori, di storie e di significati davanti ai nostri occhi!» Ecco allora la determinazione a guardare la Chiesa «da dentro, nel senso più forte della parola, alla luce del mistero di cui è portatrice».

Il cardinale ha poi fatto riferimento alla paternità di Dio, che «è al cuore stesso della predicazione di Gesù». Anche nell’Antico Testamento Dio «è visto come padre»; ma la novità è che ora non è più soltanto «padre del suo popolo Israele» ma «di ogni essere umano, giusto o peccatore che sia: in senso dunque individuale e personale». Egli si preoccupa di «ognuno come fosse l’unico; di ognuno conosce i bisogni, i pensieri e conta persino i capelli del capo».

Cantalamessa ha quindi messo in guardia dalla tentazione di seguire ancora l’errore della teologia liberale, del XIX e del XX secolo, soprattutto del suo più illustre rappresentate, Adolf von Harnack: errore consistito nel «fare di questa paternità l’essenza del Vangelo, prescindendo dalla divinità di Cristo e dal mistero pasquale». Un altro sbaglio, provocato dall’eresia di Marcione nel II secolo e «mai del tutto superato», è quello di vedere nel Dio dell’Antico Testamento un «Dio giusto, santo, potente e tonante, e nel Dio di Gesú Cristo, un Dio papà tenero, affabile e misericordioso».

La novità di Cristo non consiste in questo, ha rimarcato il porporato. Consiste piuttosto nel fatto che «Dio, rimanendo quello che era nell’Antico Testamento e cioè tre volte santo, giusto e onnipotente, viene ora dato a noi come papà!». È questa l’immagine «fissata da Gesù all’inizio del Padre Nostro e che contiene in nuce tutto il resto». Si prega, infatti, dicendo «Padre nostro che sei nei cieli», cioè che sei «altissimo, trascendente, che disti da noi quanto il cielo dalla terra»; ma si dice «Padre nostro», anzi nell’originale «Abba!», qualcosa di simile al nostro papà, padre mio.

È anche l’immagine di Dio che la Chiesa ha posto all’inizio del suo credo. «Credo in Dio, Padre onnipotente»: padre, ma «onnipotente; onnipotente, ma padre». È questo, del resto, ciò di cui «ogni figlio ha bisogno: di avere un padre che si china su di lui, che sia tenero, con cui può giocare, ma che sia, al tempo stesso, forte e sicuro per proteggerlo, infondergli coraggio e libertà».

Il cardinale ha anche attirato l’attenzione su un pericolo «mortale», cioè dare per «scontate le cose più sublimi della nostra fede, compresa quella di essere nientemeno che figli di Dio, del creatore dell’universo, dell’onnipotente, dell’eterno, del datore della vita». Occorre «passare dalla fede allo stupore», addirittura, «dalla fede all’incredulità». Una incredulità «tutta speciale: quella di chi crede, senza potersi capacitare di quello che crede», tanto gli sembra cosa enorme, «incredibile».

Essere figli di Dio comporta infatti «una conseguenza che si osa appena formulare, tanto essa è da capogiro». Grazie ad essa, «il divario ontologico che separa Dio dall’uomo è minore del divario ontologico che separa l’uomo dal resto del creato», perché «per grazia noi diventiamo “partecipi della natura divina” (2 Pt 1, 4)».

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Persona, non personaggio

Posté par atempodiblog le 26 mars 2021

La quarta predica di Quaresima tenuta dal cardinale Cantalamessa
Persona, non personaggio
Fonte: L’Osservatore Romano

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«Fra una settimana sarà il Venerdì santo e subito dopo la Domenica di risurrezione. Risorgendo, Gesù non è tornato alla vita di prima come Lazzaro, ma a una vita migliore, libera da ogni affanno. Speriamo che sia così anche per noi. Che dal sepolcro in cui ci ha tenuti rinchiusi per un anno la pandemia, il mondo — come ci va ripetendo continuamente il Santo Padre — esca migliore, non lo stesso di prima». Con questa speranza il cardinale Raniero Cantalamessa ha concluso, venerdì mattina 26 marzo, la quarta e ultima predica di Quaresima che ha tenuto nell’aula Paolo VI , alla presenza di Papa Francesco.

Una meditazione centrata sul fatto che tutto gira ancora intorno a «un certo Gesù» — come si legge negli Atti degli apostoli — che il mondo ritiene morto e la Chiesa proclama essere vivo. «Gesù di Nazareth — ha testimoniato il predicatore della Casa Pontificia — è vivo! Non è una memoria del passato, non è solo un personaggio, ma una persona. Vive “secondo lo Spirito”, certo, ma questo è un modo di vivere più forte di quello “secondo la carne”, perché gli permette di vivere dentro di noi, non fuori o accanto».

«Nella nostra rivisitazione del dogma — ha spiegato con un’attenta analisi storica — siamo giunti al nodo che unisce i due capi». Gesù “vero uomo” e Gesù “vero Dio”, infatti, «sono come i due lati di un triangolo, il cui vertice è Gesù, “una persona”». Del resto, ha puntualizzato, il dogma è «una struttura aperta: cresce e si arricchisce, nella misura in cui la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, si trova a vivere nuove problematiche e in nuove culture».

La Chiesa, da parte sua, «è in grado di leggere la Scrittura e il dogma in modo sempre nuovo, perché essa stessa è resa sempre nuova dallo Spirito Santo». Non a caso, lo storico Jaroslav Pelikan affermava che «la tradizione è la viva fede dei morti» (cioè «la fede dei Padri che continua a vivere») mentre «il tradizionalismo è la morta fede dei viventi».

Secondo il cardinale Cantalamessa, oggi è opportuno «scoprire e proclamare che Gesù Cristo non è un’idea, un problema storico e neppure soltanto un personaggio, ma una persona e una persona vivente! Questo infatti è ciò che è carente e di cui abbiamo estremo bisogno per non lasciare che il cristianesimo si riduca a ideologia, o semplicemente a teologia».

Partendo anche dalla sua esperienza personale di studio, il predicatore ha riproposto il «più celebre “incontro personale” con il Risorto che mai sia accaduto sulla faccia della terra: quello dell’apostolo Paolo». Scrivendo di questo a Filemone, Paolo dice espressamente: «Perché io possa conoscere lui». Ma proprio «quel semplice pronome “lui” (auton) contiene su Gesù più verità che interi trattati di cristologia», ha insistito il cardinale. «Lui», infatti, «vuol dire Gesù Cristo “ in carne ed ossa”». L’esperienza da vivere è quella di «incontrare una persona dal vivo dopo avere conosciuto per anni la sua fotografia».

«Riflettendo sul concetto di persona nell’ambito della Trinità — ha continuato il predicatore — sant’Agostino e dopo di lui san Tommaso d’Aquino, sono arrivati alla conclusione che “persona”, in Dio, significa relazione». E «il pensiero moderno ha confermato questa intuizione: essere persona è “essere-in-relazione”».

E così, ha fatto presente Cantalamessa, «non si può conoscere Gesù come persona se non entrando in un rapporto personale, da io a tu, con lui. Non possiamo accontentarci di credere nella formula “una persona”, dobbiamo raggiungere la persona stessa e, mediante la fede e la preghiera, “toccarla”».

Gesù, per ciascuno, deve essere «persona, non solamente un personaggio: c’è una grande differenza tra le due cose». Insomma, con figure insigni del passato come Giulio Cesare, Leonardo da Vinci, Napoleone «è impossibile parlare». Dunque, attenzione, a «relegare Gesù al passato» senza «farsi riscaldare il cuore con un relazione esistenziale con lui». Papa Francesco lo scrive chiaramente all’inizio della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, al numero 3: «Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui». Dunque, ha aggiunto il cardinale, «la vita di ogni persona, si divide esattamente come si divide la storia universale: “avanti Cristo” e “dopo Cristo”, prima dell’incontro personale con Cristo e in seguito a esso».

Come fare allora? «Solo per opera dello Spirito Santo — ha risposto il predicatore — che non aspetta altro che glielo chiediamo: “Fa’ che per mezzo tuo conosciamo il Padre e conosciamo anche il Figlio”. Che lo conosciamo di questa conoscenza intima e personale che cambia la vita».

Ma il cardinale ha invitato anche a «fare un passo avanti» per arrivare alla comprensione che «Dio è amore, il mistero più grande e più inaccessibile alla mente umana». In realtà «si potrebbero passare ore intere a ripetere dentro di sé questa parola, senza finire mai di stupirsi: Dio, ha amato me, creatura da nulla e ingrata! Ha dato se stesso — la sua vita, il suo sangue — per me. Singolarmente per me! È un abisso nel quale ci si perde». Il nostro rapporto personale con Cristo è dunque essenzialmente «un rapporto di amore». E «consiste nell’essere amati da Cristo e amare Cristo. Questo vale per tutti, ma assume un significato particolare per i pastori della Chiesa», perché «l’ufficio del pastore trae la sua forza segreta dall’amore per Cristo».

Per andare al sodo, il cardinale ha suggerito il significato della meditazione sulla vita personale di ciascuno, «in un momento di grande tribolazione per tutta l’umanità». Ed è ancora Paolo a far da riferimento, quando nella Lettera ai Romani scrive: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?». L’apostolo «passa in rassegna nella sua mente tutte le prove attraversate», ma «constata che nessuna di esse è così forte da reggere al confronto con il pensiero dell’amore di Cristo».

Paolo «ci suggerisce un metodo di guarigione interiore basato sull’amore. Ci invita a portare a galla — ha affermato il predicatore — le angosce che si annidano nel nostro cuore, le tristezze, le paure, i complessi, quel difetto fisico o morale che non ci fa accettare serenamente noi stessi, quel ricordo penoso e umiliante, quel torto subito, la sorda opposizione da parte di qualcuno. Esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio mi ama, e troncare ogni pensiero negativo, dicendo a noi stessi, come l’apostolo: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”».

Infine, ha concluso, l’apostolo «ci invita a guardare con occhi di fede il mondo che ci circonda e che ci fa ancora più paura ora che l’uomo ha acquisito il potere di sconvolgerlo con le sue armi e le sue manipolazioni». Quello che «Paolo chiama l’“altezza” e la “profondità” sono per noi — nell’accresciuta conoscenza delle dimensioni del cosmo — l’infinitamente grande sopra di noi e l’infinitamente piccolo sotto di noi». E in questo momento, ha osservato Cantalamessa, quell’«infinitamente piccolo» è «il coronavirus che da un anno tiene in ginocchio l’intera umanità».

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L’Eucaristia, comunione con la Trinità

Posté par atempodiblog le 14 juin 2020

L’Eucaristia, comunione con la Trinità

L’Eucaristia, comunione con la Trinità dans Fede, morale e teologia Trinit

[…] nell’Eucaristia, il Figlio Gesù Cristo è presente naturalmente (cioè con la sua duplice natura divina e umana) ed è presente anche personalmente (come persona del Figlio); il Padre e lo Spirito Santo direttamente, sono presenti soltanto naturalmente (in forza dell’unità della natura divina), ma indirettamente in forza, cioè della pericoresi delle persone divine, sono presenti anche personalmente. In ognuna delle tre persone della Trinità, infatti, sono presenti le altre due.

Di questa presenza della Trinità nell’Eucarestia, che la teologia afferma in linea di principio, i santi hanno fatto talvolta l’esperienza vissuta.

Nel Diario di una grande mistica, santa Veronica Giuliani, si legge: “Mi parve di vedere nel SS. Sacramento, come in un trono, Dio Trino e Uno: il Padre con la sua onnipotenza, il Figlio con la sua sapienza, lo Spirito Santo con il suo amore. Ogni volta che noi ci comunichiamo, l’anima nostra e il nostro cuore divengono tempio della SS. Trinità e, venendo in noi Dio, vi viene tutto il paradiso. Vedendo come Dio sta racchiuso nell’Ostia sacrosanta, stetti tutto il giorno fuori di me per il giubilo che provavo. Dovessi dare la vita a conferma di tale verità, la darei mille volte”.

Noi entriamo dunque in una comunione misteriosa, ma vera e profonda, con tutta la Trinità: con il Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo.

di padre Raniero Cantalamessa – L’Eucaristia nostra santificazione. Ed. Àncora

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Predica di Avvento, padre Cantalamessa: entriamo nella scia di Maria

Posté par atempodiblog le 7 décembre 2019

Predica di Avvento, padre Cantalamessa: entriamo nella scia di Maria
“Crediamo anche noi – ha detto padre Raniero Cantalamessa nella prima predica di Avvento alla presenza del Papa – perché quel che si avverò in Lei si avveri anche in noi”
di Amedeo Lomonaco – Vatican News

Predica di Avvento, padre Cantalamessa: entriamo nella scia di Maria dans Avvento Padre-Cantalamessa

È “Maria nell’Annunciazione” il fulcro della prima predica di Avvento di padre Raniero Cantalamessa, nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, alla presenza di Papa Francesco. La Beata Vergine, sottolinea il predicatore della Casa Pontificia, ha vissuto l’Avvento “nella sua carne”. Sa cosa significa essere “in attesa” e può aiutare “anche noi ad attendere, in senso forte ed esistenziale, la venuta del nostro Redentore”.

L’importanza della fede
Maria “è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto”. Dice il suo sì a Dio. Il suo atto di fede è “suscitato dalla grazia dello Spirito Santo”. L’immensa “scia dei credenti che formano la Chiesa” – sottolinea padre Cantalamessa – comincia con la fede di Maria. Essere nella sua scia significa comprendere che “la fede è la base di tutto”, “la prima e la più ‘buo­na’ delle opere da compiere”. La grazia infatti “non può operare, se non tro­va la fede ad accoglierla”.

La fede è così importante perché è l’unica che mantiene alla grazia la sua gratuità. Grazia e fede: sono i due pilastri della sal­vezza; sono i due piedi per camminare o le due ali per volare. Non si tratta però di due cose parallele, quasi che da Dio venisse la grazia e da noi la fede, e la salvezza dipendesse così, in parti eguali, da Dio e da noi.

“[Per grazia siete salvi mediante la fede e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene. (San Paolo)]”

La fede di Maria
Gli aspetti della fede di Maria, sottolinea padre Cantalamessa, “possono aiutare la Chiesa di oggi a cre­dere più pienamente”. Il suo atto di fede è “personale, unico, irrepetibile”. “È un fidarsi di Dio e un affidarsi completamente a Dio”. E un rapporto da persona a persona. Questo si chiama fede soggettiva: l’accento è “sul fatto di credere, più che sulle cose credute”. Ma la fede di Maria è anche quanto mai oggettiva, comunitaria. Maria “non crede in un Dio soggettivo, personale” che si rivela “solo a lei nel segreto”. Crede invece “al Dio dei Padri, al Dio del suo popo­lo”.

Non ba­sta avere una fede solo soggettiva, una fede che sia un abban­donarsi a Dio nell’intimo della propria coscienza. È tanto facile, per questa strada, rimpicciolire Dio alla propria misura. Questo avviene quando ci si fa una propria idea di Dio, basata su una propria interpretazione personale della Bibbia, o su l’interpreta­zione del proprio ristretto gruppo, e poi si aderisce ad essa con tutte le forze, magari anche con fanatismo, senza accorgersi che ormai si sta credendo in sé stessi più che in Dio e che tutta quella incrollabile fiducia in Dio, altro non è che una incrollabile fiducia in se stessi. Non basta però neppure una fede solo oggettiva e dommati­ca, se questa non realizza l’intimo, personale contatto, da io a tu, con Dio. Essa diventa facilmente una fede morta, un credere per interposta persona o per interposta istituzione, che crolla non appena entra in crisi la fiducia in quella istituzione, nella Chiesa.

Credere
Non ba­sta dunque una fede solo soggettiva o soltanto oggettiva. “Bisogna credere personalmente, ma nella Chiesa; credere nella Chiesa, ma personalmente”. “La fede dommatica della Chiesa – spiega il predicatore della Casa Pontificia – non mortifica l’atto personale e la spontaneità del credere, ma anzi lo preserva e permette di conoscere e abbracciare un Dio immensamente più grande di quello della mia povera esperienza”. “Nessuna creatura infatti è capace di abbracciare, con il suo atto di fede, tutto quello che, di Dio, si può conoscere. La fede della Chiesa è come il grande angolare che permette di cogliere e fotografare, di un panorama, una porzione molto più vasta del semplice obiettivo”.

Il mondo è solcato, come il mare, dalla scia di un bel vascello, che è la scia di fede aperta da Maria. Entria­mo in questa scia. Crediamo anche noi perché quel che si avve­rò in Lei si avveri anche in noi. Invochiamo la Madonna con il dolce titolo di Virgo fidelis: Vergine credente, prega per noi!

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Predica d’Avvento, Cantalamessa: Gesù desidera nascere nei cuori

Posté par atempodiblog le 24 décembre 2016

Predica d’Avvento, Cantalamessa: Gesù desidera nascere nei cuori
Quarta e ultima predica di Avvento stamani nella Cappella Redemptoris Mater in Vaticano del predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, alla presenza di Papa Francesco e della Curia Romana. Nel ciclo “Beviamo, sobri, l’ebbrezza dello Spirito”, la predica odierna è stata dedicata al tema “Incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine”.
di Giada Aquilino – Radio Vaticana

Predica d'Avvento, Cantalamessa: Gesù desidera nascere nei cuori dans Avvento Avvento-bimba

È Gesù stesso a desiderare di nascere “nel nostro cuore”. Questa l’atmosfera del Natale nelle parole di padre Raniero Cantalamessa, ripercorrendo l’evento di Betlemme, il “più importante” di tutti i tempi. Il mondo in cui si muovono Maria e Giuseppe, osserva, “non era meno agitato di oggi”:

“Le notizie di atti di terrorismo, di guerre, di masse costrette, come allora, a lasciare le proprie case e per le quali, come per Maria e Giuseppe, ‘non c’è posto nell’albergo’, si accavallano e ci raggiungono ormai in tempo reale”.

Solo chi sarà “capace di mettere a tacere tutto”, fuori e dentro di sé e, “con la grazia dello Spirito Santo”, prenderà coscienza – spiega il predicatore della Casa Pontificia – di quello che ricordiamo nel giorno della natività di Cristo, potrà dire di aver “fatto” Natale: si tratta di una celebrazione che esige di essere “compresa nel suo significato per noi”.

San Leone Magno, ricorda il cappuccino, spiegava che “i figli della Chiesa sono stati generati con Cristo nella sua nascita, come sono stati crocifissi con lui nella passione e risuscitati con lui nella risurrezione”. All’origine di tutto, c’è il dato biblico, compiutosi in Maria: la Vergine diventa Madre di Gesù “per opera dello Spirito Santo”:

“Tale mistero storico, come tutti i fatti della salvezza, si prolunga a livello sacramentale nella Chiesa, nella liturgia, nell’Eucaristia; e a livello morale nella singola anima credente. Maria, Vergine e Madre, che genera il Cristo per opera dello Spirito Santo, appare così il ‘tipo’, o l’esemplare, la figura perfetta, della Chiesa e dell’anima credente”.

Nel Vaticano II si riprende tale visione, soprattutto nei capitoli che la Costituzione ‘Lumen Gentium’ dedica alla Madonna: Ella è “esemplare e modello della Chiesa”, chiamata ad essere “nella fede” vergine e madre e l’anima credente, imitando le virtù di Maria, “fa nascere e crescere Gesù nel suo cuore e nel cuore dei fratelli”.

Padre Cantalamessa si sofferma sul ruolo dello Spirito Santo che “agì nel cuore di Maria, illuminandolo e infiammandolo di Cristo, prima ancora che nel seno di Maria, riempiendolo di Cristo”:

“Lo Spirito che scende su Maria è, dunque, lo Spiritus creator, che miracolosamente forma dalla Vergine la carne di Gesù; ma è anche di più, e cioè: acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale”.

L’incarnazione fu vissuta da Maria come un evento “carismatico” che, spiega il predicatore della Casa Pontificia, la rese il modello dell’anima “fervente nello Spirito”: sperimentò, “per prima”, “la sobria ebbrezza dello Spirito”: l’umiltà della Vergine dopo l’incarnazione appare come “uno dei miracoli più grandi della grazia divina” che introduce al concetto di “maternità divina” di Maria, cioè all’essere “madre di Dio”. Una maternità fisica, metafisica – cioè, come spiegava Sant’Ignazio di Antiochia, Gesù è “Figlio di Dio e di Maria” – e spirituale, quindi “del cuore, oltre che del corpo”. Ed è lo Spirito Santo a invitarci a ritornare proprio “al cuore”, per celebrare in esso un Natale “più intimo e più vero”, che renda “vero” anche il Natale che celebriamo all’esterno, nei riti e nelle tradizioni:

“Gesù stesso desidera nascere nel nostro cuore più, infinitamente di più, di quanto noi desideriamo che nasca: desidera nascere. Anzi, in questi ultimi giorni di Avvento, dobbiamo nella fede – se ci crediamo – pensarlo proprio così, immaginare Gesù così. Come quando, nell’imminenza del Natale, i suoi genitori bussavano di porta in porta per cercare un posto dove nascere. E Lui sta dicendo anche a noi: ‘Ecco, io sono alla porta e busso, mi farai nascere’?”.

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Terremoto, «Dio soffriva con le sue creature»

Posté par atempodiblog le 3 septembre 2016

Terremoto, «Dio soffriva con le sue creature»
di  Avvenire

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“Qualche volta questa verità che non siamo noi i padroni della terra ci viene bruscamente ricordata da eventi come quello del terribile terremoto della scorsa settimana. Torna allora a porsi la domanda di sempre: ‘Dov’era Dio?’. Non commettiamo l’errore di pensare che abbiamo la risposta pronta a tale domanda. Piangiamo con chi piange, come faceva Gesù davanti al dolore della vedova di Naim o delle sorelle di Lazzaro”.

Sono le parole del predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa, nell’omelia dei Vespri presieduti in San Pietro da papa Francesco in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato. Alla celebrazione hanno partecipato anche rappresentanti ortodossi e di altre confessioni cristiane. La Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato è stata istituita da papa Francesco il 10 agosto 2015. Ha carattere ecumenico perché si celebra il primo settembre insieme alla Chiesa ortodossa.

“Qualcosa però la fede ci permette di dire – ha spiegato il frate cappuccino -. Dio non ha progettato il creato come fosse una macchina o un computer, dove tutto è programmato dall’inizio in ogni dettaglio, salvo a operare periodicamente degli aggiornamenti. Per analogia con l’uomo, possiamo parlare di una sorta di ‘libertà’ che Dio ha dato alla materia di evolversi secondo leggi proprie”.

“Questo – ha osservato Cantalamessa – comporta rischi tremendi per l’uomo, ma anche un supplemento di dignità e di grandezza”. Secondo il predicatore pontificio, “alla domanda: ‘Dove era Dio la notte del 23 Agosto’, il credente non esita perciò a rispondere con tutta umiltà: ‘Era lì a soffrire con le sue creature e ad accogliere nella sua pace le vittime che bussavano alla porta del suo Paradiso’”.

La domanda “Dov’era Dio?” era stata evocata sia dal vescovo di Ascoli Giovanni D’Ercole, sia dal vescovo di Rieti, Domenico Pompili, nelle cerimonie funebri da loro celebrate per le vittime del sisma rispettivamente nel capoluogo ascolano e ad Amatrice (Rieti).

Papa Francesco raccoglie il messaggio del “Poverello d’Assisi” quando fa dell’“intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta” uno degli “assi portanti” della sua enciclica sull’ambiente, la Laudato sì ha detto il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, nell’omelia durante i Vespri presieduti dal Pontefice in San Pietro in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato.

“Cos’è, infatti, che produce, nello stesso tempo, i guasti peggiori dell’ambiente e la miseria di immense masse umane, se non l’insaziabile desiderio di alcuni di accrescere a dismisura i propri possedimenti e profitti? – ha chiesto Cantalamessa – Alla terra, si deve applicare ciò che gli antichi dicevano della vita: ‘mancipio nulli datur, omnibus usu; a nessuno è data in proprietà, a tutti in uso’”.

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Il salto da fare

Posté par atempodiblog le 24 mai 2016

Gesù

“A proposito di Gesù, c’è un salto da fare che non riguarda solo i non-credenti, ma anche i credenti. Per i non-credenti il salto è passare da «Gesù solo uomo» a «Gesù anche Dio». Per i credenti il salto è passare da «Gesù personaggio» a «Gesù persona». Per «Gesù personaggio» io intendo un Gesù che rimane sostanzialmente nel passato, del quale si può parlare a piacimento ma al quale, o con il quale, nessuno si sogna di parlare. Se uno parla a Giulio Cesare o a Napoleone lo mandano naturalmente in manicomio, invece Gesù persona è un Gesù vivo, è Gesù che ha detto «io sono con voi tutti i giorni», è Gesù risorto, con il quale si può parlare e al quale si può parlare.

La maggioranza dei cristiani, ahimè, non è mai passata dal Gesù personaggio — cioè un insieme di dottrine, di dogmi — a Gesù persona viva; non è passata mai da «Gesù Egli» a «Gesù Tu». Per questo la fede di molti cristiani è come il sole invernale, che illumina ma non riscalda. Permettetemi, carissimi amici, di confidarvi quello che ha riempito e riempie la mia vita di serenità, di pace e di gioia. Ed è precisamente un rapporto personale, da amico, continuo, così semplice e familiare con Gesù”.

di padre Raniero Cantalamessa
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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La categoria di prossimo ha per orizzonte l’uomo e non la propria cerchia…

Posté par atempodiblog le 28 juillet 2015

La categoria di prossimo ha per orizzonte l’uomo e non la propria cerchia... dans Citazioni, frasi e pensieri 15oz5hy

“Se potessimo vedere l’avversario politico, il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli o i mariti, i padri o le madri, che bello sarebbe!”.

Papa Francesco

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“Nell’ambiente giudaico del tempo si discuteva su chi doveva essere considerato, per un israelita, il proprio prossimo. Si arrivava in genere a comprendere, nella categoria di prossimo, tutti i connazionali e i proseliti, cioè i gentili che avevano aderito al giudaismo. Con la scelta dei personaggi (un Samaritano che soccorre un giudeo!) Gesù viene a dire che la categoria di prossimo è universale, non particolare. Ha per orizzonte l’uomo, non la cerchia familiare, etnica, o religiosa. Prossimo è anche il nemico! Si sa infatti che i giudei infatti «non mantenevano buone relazioni con i samaritani!» (cfr. Gv 4, 9)”.

Padre Raniero Cantalamessa

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“Ma voi dite che i falli del prossimo sono numerosi; ed io vi rispondo che certe volte non sono che calunnie quelle che sembrano verità autentiche. Qualcosa sembrava, infatti, più vera che quella per cui fu accusata di adulterio la casta Susanna? Eppure noi sappiamo che era una solenne impostura. Ma siano pure anche vere: avremmo forse piacere che di noi o di qualche nostro congiunto fossero rivelati falli o mancanze, che sono veri, verissimi? No, certamente. Come, dunque, saremo così facili a propagandare le mancanze degli altri? La legge naturale, molto più la legge evangelica, non ci proibisce di fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi?”.

Sant’Agostino Roscelli

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“Se la festa del Corpus Domini non esistesse, bisognerebbe inventarla”

Posté par atempodiblog le 7 juin 2015

Padre Raniero Cantalamessa: “Se la festa del Corpus Domini non esistesse, bisognerebbe inventarla”
Per molto tempo quella del Corpus Domini fu l’unica processione in uso in tutta la cristianità e anche la più solenne.
Tratto da: Zenit

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Credo che la cosa più necessaria da fare nella festa del Corpus Domini non sia illustrare questo o quell’aspetto dell’Eucaristia, ma ridestare ogni anno stupore e meraviglia davanti al mistero. La festa è nata in Belgio, all’inizio del sec. XIII; i monasteri benedettini furono i primi ad adottarla; Urbano IV la estese a tutta la Chiesa nel 1264, pare anche per influsso del miracolo eucaristico di Bolsena, oggi venerato a Orvieto.

Che bisogno c’era di istituire una nuova festa? La Chiesa non ricorda l’istituzione dell’Eucaristia il Giovedì Santo? Non la celebra ogni Domenica e anzi ogni giorno dell’anno? Infatti il Corpus Domini è la prima festa che non ha per oggetto un evento della vita di Cristo, ma una verità di fede: la reale presenza di lui nell’Eucaristia. Risponde a un bisogno: quello di proclamare solennemente tale fede; serve a scongiurare un pericolo: quello di abituarsi a tale presenza e non farci più caso, meritando così il rimprovero che Giovanni Battista rivolgeva ai suoi contemporanei: “In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!”.

Questo spiega la straordinaria solennità e visibilità che questa festa ha acquistato nella Chiesa cattolica. Per molto tempo quella del Corpus Domini fu l’unica processione in uso in tutta la cristianità e anche la più solenne.

Oggi le processioni hanno ceduto il passo ai cortei e ai sit-in (in genere, di protesta); ma se è caduta la coreografia esterna, rimane intatto il senso profondo della festa e il motivo che l’ha ispirata: tenere desto lo stupore di fronte al più grande e più bello dei misteri della fede. La liturgia della festa riflette fedelmente questa caratteristica. Tutti i suoi testi (letture, antifone, canti, preghiere) sono pervasi da un senso di meraviglia. Molti di essi terminano con il punto esclamativo: “O sacro convito, in cui si riceve Cristo!” (O sacrum convivium), “O vittima di salvezza!” (O salutaris hostia).

Se la festa del Corpus Domini non esistesse, bisognerebbe inventarla. Se c’è un pericolo che i credenti oggi corrono nei confronti dell’Eucaristia è quello di banalizzarla. Una volta non la si riceveva così spesso e si dovevano premettere digiuno e confessione. Oggi praticamente tutti si accostano ad essa… Intendiamoci: è un progresso, è normale che la partecipazione alla Messa comporti anche la comunione, esiste per questo. Tutto ciò però comporta un rischio mortale. S. Paolo nella seconda lettura di oggi dice: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”.

Io credo che sia una grazia salutare per un cristiano passare attraverso un periodo di tempo in cui ha paura di accostarsi alla comunione, trema al pensiero di ciò che sta per accadere e non finisce di ripetere, come Giovanni il Battista: “Tu vieni da me?” (Matteo 3, 14). Noi non possiamo ricevere Dio che come “Dio”, conservandogli, cioè, tutta la sua santità e la sua maestà. Non possiamo addomesticare Dio!

La predicazione della Chiesa non dovrebbe aver paura – ora che la comunione è diventata una cosa così abituale e così “facile” – di usare qualche volta il linguaggio dell’epistola agli Ebrei e dire ai fedeli: “Voi vi siete accostati al Dio giudice di tutti…, al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quella di Abele” (Ebrei 12, 22-24). Nei primi tempi della Chiesa, al momento della comunione, risuonava un grido nell’assemblea: “Chi è santo si accosti, chi non lo è si penta!”.

Uno che non aveva fatto l’abitudine all’Eucaristia e ne parla sempre con commosso stupore era S. Francesco d’Assisi. “L’umanità trepidi, l’universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo Figlio di Dio vivo…O ammirabile altezza e degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi sotto poca apparenza di pane!”

Ma non deve essere tanto la grandezza e la maestà di Dio la causa del nostro stupore di fronte al mistero eucaristico, quanto piuttosto la sua condiscendenza e il suo amore. L’Eucaristia è soprattutto questo: memoriale dell’amore di cui non esiste maggiore: dare la vita per i propri amici.

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Il “filo dall’alto”: la speranza teologale

Posté par atempodiblog le 20 mai 2015

La speranza teologale è il “filo dall’alto” che sostiene dal centro tutte le speranze umane

“Il filo dall’alto” è il titolo di una parabola dello scrittore danese Johannes Jørgensen. Parla del ragno che si cala dal ramo di un albero lungo un filo che lui stesso produce. Posandosi sulla siepe, tesse la sua rete, capolavoro di simmetria e di funzionalità. Essa è tesa ai lati da altrettanti fili, ma tutto è retto al centro da quel filo da cui è sceso. Se si tronca uno dei fili laterali, il ragno interviene, lo ripara e tutto è a posto, ma se si tronca il filo dall’alto (io una volta ho voluto verificare e ho visto che è vero)  tutto si affloscia e il ragno scompare, sapendo che non c’è più nulla da fare.

È un’immagine di quello che avviene quando si tronca il filo dall’alto che è la speranza teologale. Solo essa può “ancorare” le speranze umane alla speranza “che non delude”.

di padre Raniero Cantalamessa

La terra: una parte del Cielo dans Citazioni, frasi e pensieri eknh1f

Il filo del ragno
di Jens Johannes Jørgensen

In un radioso mattino di settembre un piccolo ragno giallo decise di costruire la sua tela. Girovagò a lungo ai margini del bosco, salì su un alto albero, poi si calò giù attaccandosi al suo filo lucente e si posò su una siepe spinosa. Lì cominciò a costruire la sua tela lasciando che il filo, lungo il quale era disceso, reggesse il lembo superiore di tutto l’impianto. Era un’opera bella e grande che si slanciava verso l’alto, e quasi scompariva nell’azzurro del cielo. Passavano i giorni e il ragnetto diventava grande. Quando le mosche scarseggiavano si vedeva costretto ad ampliare la tela; e questo gli era possibile proprio grazie a quel filo che scendeva dall’alto, del quale non si riusciva a vedere la fine.

Una mattina il nostro amico, vuoi per il freddo della notte, vuoi soprattutto per la fame arretrata, si svegliò di pessimo umore e così, di punto in bianco, decise di fare un giro d’ispezione sulla tela: controllò ogni angolo, tirò ogni filo, rimise tutto in ordine, finché notò nella parte superiore della rete un filo teso verso l’alto di cui non ricordava la funzione e nemmeno l’esistenza. Di tutti gli altri fili conosceva l’importanza, i punti di snodo, i ramoscelli dove erano stati fissati; ma quel filo inesplicabile non andava da nessuna parte. Il ragno cercò di osservare da ogni angolatura, si rizzò sulle zampette, guardò con tutti i suoi occhi… ma non riuscì a capire dove andasse a finire.

«A cosa serve questo stupido filo…», disse il ragno, «via i fili inutili!». Un colpo di mandibole e… patatrac!, tutto gli rovinò addosso. Aveva  dimenticato che, un lontano mattino di settembre, lui stesso era sceso giù da quel filo, e da lì aveva iniziato a tessere la sua tela. Ora, invece, si trovava a giacere sulle foglie della siepe spinosa, imprigionato nella sua stessa rete divenuta ormai un piccolo, umido cencio. Era bastato un solo istante per distruggere una magnifica opera e soltanto perché non era riuscito a capire l’importanza di quel “filo dall’alto”.

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La pace al centro delle prediche di Avvento in Vaticano

Posté par atempodiblog le 5 décembre 2014

La pace al centro delle prediche di Avvento in Vaticano
Sarà la pace il tema centrale delle prediche di Avvento che da domani il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, terrà per il Papa e la Curia Romana nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, in Vaticano. Nei tre venerdì che precedono il Natale le meditazioni di padre Cantalamessa aiuteranno a riflettere sulla pace come dono di Dio in Gesù Cristo, come compito per cui lavorare e come frutto dello Spirito. “Pace in terra agli uomini che Dio ama”: così il predicatore della Casa Pontificia ha voluto chiamare questo ciclo di prediche d’Avvento.
di Tiziana Campisi – Radio Vaticana

La pace al centro delle prediche di Avvento in Vaticano dans Avvento Avvento-bimba

R. – Spieghiamo il titolo: è l’annuncio dei pastori nella Notte di Natale e come risulta pure dall’annuncio natalizio, la pace è anzitutto qualcosa che scende dal Cielo, è un dono di Dio, è il filo dall’alto che regge tutta la trama delle paci umane, senza la quale le paci umane sono sempre fragili. Certamente, però, questo dono di Dio diventa anche dovere e compito da svolgere. E infatti, nella seconda predica penso proprio di parlare della pace come compito.

D. – Lei affronterà anche il tema della pace come frutto dello Spirito …

R. – … quella che tutti desideriamo, perché quando parliamo di pace, quando la gente parla di pace, pensa alla pace del cuore, alla pace della famiglia, a questa pace che – secondo la Bibbia – è una virtù, è frutto anche di sforzo personale, è un dono di Dio però accolto e sviluppato anche attraverso la libertà della risposta umana. Ed è questa pace che poi diventa condizione di vita, anche, e di santità, perché tutti i santi hanno parlato di questa pace interiore del cuore che viene dal fare la volontà di Dio. Il nostro poeta, Dante Alighieri, ha fatto un verso su questo che dice tutto: “E’ la sua voluntate nostra pace”, cioè la pace del cuore dipende dall’adesione alla volontà di Dio.

D. – Su quali testi ci invita a meditare per questo Avvento?

R. – I testi principali che io utilizzo sono sempre quelli della Scrittura, che è ricchissima di riferimenti alla pace: grazia e pace è un binomio quasi indissociabile nella Bibbia. La ricchezza di questa parola nella Bibbia è veramente inesauribile. E poi, dopo, nei testi della Bibbia, specialmente nella seconda predica, mi sono stati molto, molto utili i testi di Papa Francesco nella “Evangelii Gaudium”. Mi dispiace di costringerlo a sentire quello che lui sa bene, che ha scritto lui, ma credo che faccia bene a noi risentire alcune parole di quella Lettera.

D. – Come si costruisce concretamente la pace? Quali sono gli ingredienti per la pace?

R. – Lo si ripete spesso, ne ha scritto San Giovanni Paolo II e anche Papa Francesco ne parla spesso: il dialogo. Il dialogo a un certo livello, soprattutto politico. Ma il dialogo è l’unica alternativa alle armi. Quindi, per noi cristiani accanto al dialogo c’è anche la preghiera, e di fatti la Chiesa prega continuamente: a ogni Messa prega per la pace, quella invocazione prima della Comunione: da pacem, Domine – concedi la pace ai nostri giorni. Quindi, direi, il dialogo, la preghiera, la comprensione, anche, il conoscere perché spesso il conoscere gli altri trasforma i nemici in amici: quelli che si credevano dei nemici, quando uno poi conosce bene la fragilità, i limiti, il contesto in cui una persona agisce, molto spesso questo facilita la pace.

D. – E qual è il contributo che ogni singolo può dare?

R. – Io dico, di solito, che come miliardi di gocce d’acqua sporca non faranno mai un mare pulito, così miliardi di cuori senza pace non faranno mai un’umanità in pace. Quindi, come diceva il messaggio per la Giornata mondiale della pace di Giovanni Paolo II, “la pace nasce dal cuore”. Quindi, coltivare la pace a livello personale, ma non essere turbati, non essere ansiosi. E poi, diffondere intorno questa pace nella comunità, nell’ambiente in cui si lavora è un contributo personale alla pace.

D. – Con quali parole può accompagnare questo Avvento?

R. – La parola migliore è quella che Gesù ci ha lasciato: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”. E la sera di Pasqua era quasi respirabile, palpabile la pace donata da Gesù …

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L’uso che fa l’uomo della bellezza

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2013

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Dopo aver contemplato in Maria la bellezza al suo grado sommo, proviamo ad abbassare per un momento lo sguardo sulla terra e vedere che uso fa l’uomo di questo dono di Dio che è la bellezza. Questo tema stava particolarmente a cuore a Paolo VI, il quale ritorna su questo argomento in tutti i suoi discorsi fatti come cardinale di Milano per la festa dell’Immacolata. In uno di essi diceva:

“A chi vorrebbe vedere riflessi quei raggi divini e umani della Madonna nelle anime nostre e dei nostri fratelli, stringe il cuore vedere invece tutt’altra scena. Tante anime di adole­scenti e perfino di fanciulli, che sarebbero belle, candidate a tante sublimi virtù, a tanta poesia dello spirito, a tanto vigore di azione, sono subito deturpate, subito macchiate, fiaccate da un dilagare di tentazioni, che non riusciamo più a reprimere.

I nostri ragazzi, le no­stre ragazze, che cosa leggono? che cosa vedono? che cosa pensano? che cosa desiderano?…Quante anime profanate! Quante famiglie spezzate! Quante persone hanno una doppia vita! Quan­ti amori diventati tradimenti! Quale dissipazione di energia umana, pro­prio in questo groviglio di indisciplina di costume e di vizi ormai tollera­ti, di questa esibizione della passione e del vizio”.

di Padre Raniero Cantalamessa

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A chi posso farmi prossimo, ora e qui?

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2013

A chi posso farmi prossimo, ora e qui?
Il Buon Samaritano
di Padre Raniero Cantalamessa

padre raniero cantalamessa

Ci siamo proposti, dicevo, di commentare alcuni vangeli domenicali ispirandoci al libro di papa Benedetto XVI su Gesù di Nazaret. Alla parabola del buon Samaritano sono dedicate diverse pagine del libro. La parabola non si comprende se non si tiene conto della domanda alla quale con essa Gesù intendeva rispondere: “Chi è il mio prossimo?”.

A questa domanda di un dottore della legge, Gesù risponde raccontando una parabola. Nella musica e nella letteratura mondiale, ci sono degli “attacchi” divenuti celebri. Quattro note, disposte in una certa sequenza, e ogni intenditore esclama subito, per esempio: “Quinta sinfonia di Beethoven: il destino che bussa alla porta!”. Molte parabole di Gesù condividono questa caratteristica. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…”, e tutti capiscono immediatamente: parabola del buon Samaritano!

Nell’ambiente giudaico del tempo si discuteva su chi doveva essere considerato, per un israelita, il proprio prossimo. Si arrivava in genere a comprendere, nella categoria di prossimo, tutti i connazionali e i proseliti, cioè i gentili che avevano aderito al giudaismo. Con la scelta dei personaggi (un Samaritano che soccorre un giudeo!) Gesù viene a dire che la categoria di prossimo è universale, non particolare. Ha per orizzonte l’uomo, non la cerchia familiare, etnica, o religiosa. Prossimo è anche il nemico! Si sa infatti che i giudei infatti “non mantenevano buone relazioni con i samaritani!” (cfr. Gv 4, 9).

La parabola insegna che l’amore del prossimo deve essere non solo universale, ma anche concreto e fattivo. Come si comporta il samaritano della parabola? Se il Samaritano si fosse accontentato di accostarsi e di dire a quel disgraziato che giaceva nel suo sangue: “Poveretto, quanto mi dispiace! Come è successo? Fatti coraggio!”, o parole simili, e poi se ne fosse andato, non sarebbe stato tutto ciò un’ironia e un insulto? Lui fece dell’altro: “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.

La cosa però veramente nuova, nella parabola del buon samaritano, non è che in essa Gesù esige un amore universale e concreto. La vera novità, fa notare il papa nel suo libro, è altrove. Terminato di narrare la parabola Gesù domanda al dottore della legge che lo aveva interrogato: “Chi di questi tre [il levita, il sacerdote, il samaritano] ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”.

Gesù opera un capovolgimento inatteso rispetto al concetto tradizionale di prossimo. Prossimo è il Samaritano, non il ferito, come ci saremmo aspettati. Questo significa che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla propria strada, magari con tanto di segnalazione luminosa e a sirene spiegate. Tocca a noi essere pronti ad accorgerci che c’è, a scoprirlo. Prossimo è quello che ognuno di noi è chiamato a diventare! Il problema del dottore della Legge appare rovesciato; da problema astratto e accademico, si fa problema concreto e operativo. La domanda da porsi non è: “Chi è il mio prossimo?”, ma: “A chi posso farmi prossimo, ora e qui?”

Nel suo libro, il papa fa un’applicazione attuale della parabola del buon samaritano. Vede l’intero continente africano simboleggiato dallo sventurato che è stato spogliato, ferito e lasciato mezzo morto ai margini della strada e vede in noi, membri dei paesi ricchi dell’emisfero nord, i due personaggi che passano e tirano diritto, se non addirittura i briganti che lo hanno ridotto così.

Io vorrei accennare a un’altra possibile attualizzazione della parabola. Sono convinto che se Gesù vivesse oggi in Israele e un dottore della Legge gli chiedesse di nuovo: “Chi è il mio prossimo?” cambierebbe leggermente la parabola e al posto di un samaritano metterebbe un palestinese! Se poi a interrogarlo fosse un palestinese, al posto del samaritano troveremmo un ebreo!

Ma è troppo comodo limitare il discorso all’Africa o al Medio Oriente. Se fosse uno di noi a porre a Gesù la domanda: “Chi è il mio prossimo?”, cosa risponderebbe? Ci ricorderebbe certamente che il nostro prossimo non è solo il connazionale, ma anche l’extracomunitario, non solo il cristiano, ma anche il musulmano, non solo il cattolico, ma anche il protestante. Ma aggiungerebbe subito che non è questa la cosa più importante; la cosa più importante non è sapere chi è il mio prossimo, ma vedere a chi posso io farmi prossimo, ora e qui; per chi posso essere io il buon samaritano.

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La correzione non sia un atto di accusa

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2012

La correzione non sia un atto di accusa dans Commenti al Vangelo Cantalamessa

Nel Vangelo [...] leggiamo: «In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato un fratello». Gesù parla di ogni colpa; non restringe il campo alla colpa commessa nei nostri confronti. In quest’ultimo caso infatti è praticamente impossibile distinguere se a muoverci è lo zelo per la verità, o se non è invece il nostro amor proprio ferito. In ogni caso, sarebbe più autodifesa che correzione fraterna. Quando la mancanza è nei nostri confronti, il primo dovere non è la correzione ma il perdono.

Perché Gesù dice: «ammoniscilo fra te e lui solo»? Anzitutto per rispetto al buon nome del fratello, alla sua dignità. La cosa peggiore sarebbe voler correggere un marito in presenza della moglie, o una moglie in presenza del marito, un padre davanti ai suoi figli, un maestro davanti agli scolari, o un superiore davanti ai sudditi. Cioè, alla presenza delle persone al cui rispetto e alla cui stima uno tiene di più. La cosa si trasforma immediatamente in un processo pubblico. Sarà ben difficile che la persona accetti di buon grado la correzione. Ne va della sua dignità.

Dice «fra te e lui solo» anche per dare la possibilità alla persona di potersi difendere e spiegare il proprio operato in tutta libertà. Molte volte infatti quello che a un osservatore esterno sembra una colpa, nelle intenzioni di chi l’ha commessa non lo è. Una franca spiegazione dissipa tanti malintesi. Ma questo non è più possibile quando la cosa è portata a conoscenza di molti.
Quando, per qualsiasi motivo, non è possibile correggere fraternamente, da solo a solo, la persona che ha sbagliato, c’è una cosa che bisogna assolutamente evitare di fare al suo posto, ed è di divulgare, senza necessità, la colpa del fratello, sparlare di lui o addirittura calunniarlo, dando per provato quello che non lo è, o esagerando la colpa. «on sparlate gli uni degli altri», dice la Scrittura (Gc 4,11). Il pettegolezzo non è cosa meno brutta e riprovevole solo perché adesso gli si è cambiato il nome e oggi lo si chiama «gossip».

Una volta una donna andò a confessarsi da san Filippo Neri, accusandosi di aver sparlato di alcune persone. Il santo l’assolse, ma le diede una strana penitenza. Le disse di andare a casa, di prendere una gallina e di tornare da lui, spiumandola ben bene lungo la strada. Quando fu di nuovo davanti a lui, le disse: «Adesso torna a casa e raccogli una ad una le piume che hai lasciato cadere venendo qui ». La donna gli fece osservare che era impossibile: il vento le aveva certamente disperse dappertutto nel frattempo. Ma qui l’aspettava san Filippo. «Vedi – le disse – come è impossibile raccogliere le piume, una volta sparse al vento, così è impossibile ritirare mormorazioni e calunnie una volta che sono uscite dalla bocca ».

Tornando al tema della correzione, dobbiamo dire che non sempre dipende da noi il buon esito nel fare una correzione (nonostante le nostre migliori disposizioni, l’altro può non accettarla, irrigidirsi); in compenso dipende sempre ed esclusivamente da noi il buon esito nel… ricevere una correzione. Infatti la persona che «ha commesso una colpa» potrei benissimo essere io e il «correttore» essere l’altro: il marito, la moglie, l’amico, il confratello o il padre superiore.

Insomma, non esiste solo la correzione attiva, ma anche quella passiva; non solo il dovere di correggere, ma anche il dovere di lasciarsi correggere. Ed è qui anzi che si vede se uno è maturo abbastanza per correggere gli altri. Chi vuole correggere qualcuno deve anche essere pronto a farsi, a sua volta, correggere. Quando vedete una persona ricevere un’osservazione e la sentite rispondere con semplicità: «Hai ragione, grazie per avermelo fatto notare!», levatevi tanto di cappello: siete davanti a un vero uomo o a una vera donna.

L’insegnamento di Cristo sulla correzione fraterna dovrebbe sempre essere letto unitamente a ciò che egli dice in un’altra occasione: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo?  (Lc 6, 41 s.).

Quello che Gesù ci ha insegnato circa la correzione può essere molto utile anche nell’educazione dei figli. La correzione è uno dei doveri fondamentali del genitore. «Qual è il figlio che non è corretto dal padre?», dice la Scrittura (Eb 12,7); e ancora: «Raddrizza la pianticella finché è tenera, se non vuoi che cresca irrimediabilmente storta». La rinuncia totale a ogni forma di correzione è uno dei peggiori servizi che si possano rendere ai figli e purtroppo oggi è frequentissima.

Solo bisogna evitare che la correzione stessa si trasformi in un atto di accusa o in una critica. Nel correggere bisogna piuttosto circoscrivere la riprovazione all’errore commesso, non generalizzarla, riprovando in blocco tutta la persona e la sua condotta. Anzi, approfittare della correzione per mettere prima in luce tutto il bene che si riconosce nel ragazzo e come ci si aspetta da lui molto. In modo che la correzione appaia più un incoraggiamento che una squalifica. Era questo il metodo usato da S. Giovanni Bosco con i ragazzi.

Non è facile, nei singoli casi, capire se è meglio correggere o lasciar correre, parlare o tacere. Per questo è importante tener conto della regola d’oro, valida per tutti i casi, che l’Apostolo dà nella seconda lettura: »Non abbiate nessun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole… L’amore non fa nessun male al prossimo». Agostino ha sintetizzato tutto ciò nella massima «Ama e fa’ ciò che vuoi ». Bisogna assicurarsi anzitutto che ci sia nel cuore una fondamentale disposizione di accoglienza verso la persona. Dopo, qualsiasi cosa si deciderà di fare, sia correggere che tacere, sarà bene, perché l’amore «non fa mai male a nessuno».

di Padre Raniero Cantalamessa

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La risurrezione del cuore

Posté par atempodiblog le 7 avril 2011

La risurrezione del cuore dans Padre Raniero Cantalamessa ranierocantalamessa

Le storie del Vangelo non sono scritte solo per essere lette, ma anche per essere rivissute. La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci questo: c’è una risurrezione del corpo e c’è una risurrezione del cuore; se la risurrezione del corpo avverrà “nell’ultimo giorno”, quella del cuore avviene, o può avvenire, ogni giorno.

Questo è il significato della risurrezione di Lazzaro che la liturgia ha voluto evidenziare con la scelta della prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride. Il profeta ha una visione: vede un’immensa distesa di ossa rinsecchite e capisce che esse rappresentano il morale del popolo che è a terra. La gente va dicendo: “La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Ad essi è rivolta la promessa di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe…Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. Anche in questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione attuale dei cuori alla speranza. Quei cadaveri, si dice, si rianimarono, si misero in piedi ed erano “un esercito grande, sterminato”. Era il popolo d’Israele che tornava a sperare dopo l’esilio.

Da tutto questo deduciamo una cosa che conosciamo anche per esperienza: che si può essere morti, anche prima di…morire, mentre siamo ancora in questa vita. E non parlo solo della morte dell’anima a causa del peccato; parlo anche di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.

A tutti quelli che per le ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento del coniuge, traviamento o malattia di un figlio, rovesci finanziari, crisi depressive, incapacità di uscire dall’alcolismo, dalla droga) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe arrivare come il suono di campane il mattino di Pasqua.
Chi può darci questa risurrezione del cuore? Per certi mali, sappiamo bene che non c’è rimedio umano che tenga. Le parole di incoraggiamento lasciano il terreno che trovano. Anche in casa di Marta e Maria c’erano dei “giudei venuti per consolarle”, ma la loro presenza non aveva cambiato nulla. Bisogna “mandare a chiamare Gesù”, come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone sepolte sotto una valanga o sotto le macerie di un terremoto che richiamano con i loro gemiti l’attenzione dei soccorritori.

Spesso le persone che si trovano in questa situazione non sono in grado di fare niente, neppure di pregare. Sono come Lazzaro nella tomba. Bisogna che altri facciano qualcosa per loro. Sulla bocca di Gesù troviamo una volta questo comando rivolto ai suoi discepoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti” (Mt 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo risuscitare fisicamente dei morti? Se fosse così, nella storia si contano sulle dita i santi che hanno messo in pratica quel comando di Gesù. No, Gesù intendeva anche e soprattutto i morti nel cuore, i morti spirituali. Parlando del figliol prodigo, il padre dice: “Egli era morto ed è tornato in vita” (Lc 15, 32). E non si trattava certo di morte fisica, se era tornato a casa.

Quel comando: “Risuscitate i morti” è rivolto dunque a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi! Tra le opere di misericordia che abbiamo imparato da bambini, ce n’era che diceva: “seppellire i morti”; adesso sappiamo che c’è anche quella di “risuscitare i morti”.

Padre Raniero Cantalamessa

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