Il «Canto dell’Epifania» di Paul Claudel

Posté par atempodiblog le 4 janvier 2016

E ai vespri Claudel aprì gli occhi
Il «Canto dell’Epifania» del poeta che si convertì nel Natale del 1886 all’ascolto del Magnificat
di Mons. Inos Biffi – L’Osservatore Romano

adorazione re magi giotto

L’Epifania è tra le feste a cui Claudel ha dedicato il suo canto. Tornato d’improvviso e in maniera inaspettata alla fede durante i vespri natalizi del 1886, all’ascolto del Magnificat («In un istante il mio cuore fu toccato e credetti»), le celebrazioni non cessarono di attrarre e di ispirare la sua pietà.

L’anno sacro, suggestivamente definito Corona benignitatis anni Dei , avrebbe fatto scaturire in lui una vena sovrabbondante di poesia, in un fondersi di grazia e di natura, di dogma e di immagini, di mistero e di bellezza; e il suo stesso verso, attingendo alla fonte dell’orazione della Chiesa — largamente intessuta di Scrittura — si sarebbe rinnovato.

Era, d’altronde, affine al suo genio immergersi nel fluire del tempo con la sua materia e le sue figure e attingervi ciò che non trapassa, cioè la «benignità di Dio»; sentire il trascorrere degli anni — «dall’inizio del mondo fino ai nostri giorni» — non come un succedersi vano e confuso di secoli, ma come «una processione», formata da patriarchi o popolata di santi in cammino, di generazione in generazione, incontro alla «pienezza del tempo» (Galati , 4, 41), incontro a «Giuseppe, sposo di Maria dalla quale è nato Cristo» (Matteo , 1, 16) (cfr. Processional pour saluer le siècle nouveau).

Né mancheranno, a incentivare e conferire esuberanti risorse al gusto e alla sensibilità liturgica di Claudel, i vari soggiorni monastici a Solesmes e a Ligugé, mentre concorrerà a alluminarli la frequentazione dell’opera classica di Guéranger, L’année liturgique .

Veramente, già per il tempo succeduto alla laboriosa e dolorosa conversione, Claudel ricorderà: «Il grande libro che mi si era aperto e dove feci le mie classi, era la Chiesa. Per sempre sia resa lode a questa grande madre maestosa sulle cui ginocchia ho imparato tutto. Passavo tutte le domeniche a Notre-Dame e vi andavo il più spesso possibile in settimana. Il dramma sacro si dispiegava davanti a me con una magnificenza che oltrepassava ogni mia immaginazione. Ah, non era più il povero linguaggio dei libri di devozione! Era la più profonda e grandiosa poesia, erano i gesti più augusti, che mai fossero stati affidati a degli esseri umani. A confronto del canto sublime dell’ Exsultet gli accenti più inebrianti di Sofocle e di Pindaro erano insipidi» (Ma conversion).

Il progetto di Claudel di comporre un’ampia raccolta di poemi sul calendario liturgico risale al primo decennio del secolo scorso. In una lettera del gennaio del 1909 ad André Gide, l’autore di Tête d’or e di Partage de midi manifestava la sua intenzione di comporre «un ciclo di canti», «nella forma popolare delle vecchie sequenze», raggruppati secondo le suddivisioni tradizionali del Breviario: un tentativo — come scriveva allo stesso Gide qualche mese dopo — «di riprendere la tradizione di Notkero, di Adamo di San Vittore e di Prudenzio».

Esattamente, da quel progetto, riportato a termini più ridotti, nacque la Corona benignitatis anni Dei , una successione di poemi dove la memoria liturgica è volta in poesia, com’era avvenuto, prim’ancora che per gli autori citati da Claudel, per l’innologia insuperata di sant’Ambrogio e per gli Inni sacri di Alessandro Manzoni. A questa Corona appartiene il Canto dell’Epifania (Le chant de l’Épiphanie), definitivamente compiuto nel 1913.

Siamo nell’ora mattutina «dell’Anno tutto nuovo»; «la brina cricchia sotto i piedi come cristallo»; la terra brillando «appare nella sua veste battesimale», e «Gesù, frutto dell’antico Desiderio», quando ormai dicembre è terminato, si manifesta «nell’irraggiarsi dell’Epifania». I tre Magi — Claudel si rifà alla tradizione popolare — si sono mossi troppo in ritardo per arrivare a Natale, e a guidarli è «una stella del Cielo», che «si ferma» dove dimora e presiede «Maria con il suo Dio tra le braccia». Ora «non si tratta che di aprire gli occhi e guardare»: «da dodici giorni è nato il Figlio di Dio con noi». Per il poeta l’Epifania è anzitutto uno sguardo intenso e silenzioso che si posa sul Signore e sulla sua Madre.

I tre saggi offrono i loro doni, e «noi con loro contempliamo Gesù Cristo, in questo giorno della sua triplice manifestazione».

Il primo mistero che lo rivela è la venuta di Gaspare, Melchiorre e Baldassare, al seguito di un stella «fissa dall’inizio del mondo che si mette in cammino». I primi a stare intorno alla mangiatoia sono «i poveri», «buone donne e pastori con molte pecore, che senza alcuna difficoltà, con voce unanime, confessano il Salvatore». «Essi sono così poveri», che il Figlio di Dio «si trova con loro come a casa propria».

Diverso è il caso dei Magi, ma ecco l’implorazione a Maria per loro: «Madre di Dio, accogliete queste persone oneste, che neppure per un istante dubitano di quello che hanno veduto (…), insieme con quello che vi presentano». «Sono doni ricchi di significato e di grande valore: l’oro, che è campione della Fede priva di inganni o di scarti (…); la mirra, il cui profumo sepolcrale e amaro è il simbolo della Carità»; mentre l’«oncia di incenso recata da Melchiorre è la Speranza».

«La seconda Epifania di Nostro Signore è il giorno del Suo battesimo nel Giordano. L’acqua diviene un sacramento in virtù del Verbo che ad essa si unisce. Dio entra nudo nelle fonti di queste acque profonde in cui siamo sepolti. Come esse Lo fanno uno con noi, così ci fanno uno con Lui. Fino all’ultimo pozzo nel deserto, fino alla fossa precaria aperta lungo il cammino, non c’è una goccia d’acqua ormai che non basti per fare un cristiano». Da quelle acque profonde — prosegue il poeta — ebbro e nudo il Signore riemerge, e allora «il Vostro ultimo languore, prima della morte; il Vostro ultimo grido sulla Croce, è che Voi avete sete ancora». Secondo il poeta, Cristo si immerge in tutta l’acqua dell’universo; è assetato di ogni goccia dell’Oceano: per dire la sete di salvezza della quale è riarso.

Segue il «terzo mistero», compiutosi alle nozze di Cana, «quando [o Signore], sulla parola pronunziata a mezza voce dalla Vostra Madre, mutaste in vino l’acqua furtiva contenuta nelle dieci anfore di pietra. (…) Basta una parola di Dio, perché le nostre acque imputridite si mutino in ottimo vino», perché un vino dapprima scadente, risulti alla fine il «vino migliore».

E così «l’Epifania del giorno è passata, e non resta che quella della notte», quando i Magi, per una strada diversa da quella della loro venuta, ridiscendono, tornando ai loro Paesi: «La notte è ridiventata la stessa e tutto da ogni parte arde in silenzio».

È «la grande Notte della fede», che il poeta saluta: «Salve, grande Notte della fede (…)! La patria di un cattolico è la Notte, non la nebbia; la nebbia che acceca e che soffoca, che entra nella bocca e negli occhi, che passa per tutti i sensi, in cui camminano, senza saper dove sono, l’incredulo e l’indifferente». «Ecco la notte migliore del giorno», segnare la via: «Ecco l’Anno tutto nuovo, che si innalza uguale coi suoi milioni di occhi tutt’intorno verso il punto polare», e «nel mezzo del Cielo il tuo seggio, o Maria, Stella del Mare!».

L’Epifania è l’apparizione del Signore, che non dissipa l’oscurità della fede. Il giusto vive di fede. E, pure, è diffusa su di lui una Luce sicura, che infallibilmente lo guida sulla via della visione.

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L’inno di Alessandro Manzoni per la memoria del nome di Maria

Posté par atempodiblog le 12 septembre 2015

Il nome di Maria
di Alessandro Manzoni

Tacita un giorno a non so qual pendice
Salia d’un fabbro nazaren la sposa;
Salia non vista alla magion felice
D’una pregnante annosa;

E detto: “Salve” a lei, che in reverenti
Accoglienze onorò l’inaspettata,
Dio lodando, sclamò: Tutte le genti
Mi chiameran beata.

Deh! con che scherno udito avria i lontani
Presagi allor l’età superba! Oh tardo
Nostro consiglio! oh degl’intenti umani
Antiveder bugiardo!

Noi testimoni che alla tua parola
Ubbidiente l’avvenir rispose,
Noi serbati all’amor, nati alla scola
Delle celesti cose,

Noi sappiamo, o Maria, ch’Ei solo attenne
L’alta promessa che da Te s’udia,
Ei che in cor la ti pose: a noi solenne
È il nome tuo, Maria.

A noi Madre di Dio quel nome sona:
Salve beata! che s’agguagli ad esso
Qual fu mai nome di mortal persona,
O che gli vegna appresso?

Salve beata! in quale età scortese
Quel sì caro a ridir nome si tacque?
In qual dal padre il figlio non l’apprese?
Quai monti mai, quali acque

Non l’udiro invocar? La terra antica
Non porta sola i templi tuoi, ma quella
Che il Genovese divinò, nutrica
I tuoi cultori anch’ella.

In che lande selvagge, oltre quei mari
Di sì barbaro nome fior si coglie,
Che non conosca de’ tuoi miti altari
Le benedette soglie?

O Vergine, o Signora, o Tuttasanta,
Che bei nomi ti serba ogni loquela!
Più d’un popol superbo esser si vanta
In tua gentil tutela.

Te, quando sorge, e quando cade il die,
E quando il sole a mezzo corso il parte,
Saluta il bronzo, che le turbe pie
Invita ad onorarte.

Nelle paure della veglia bruna,
Te noma il fanciulletto; a Te, tremante,
Quando ingrossa ruggendo la fortuna,
Ricorre il navigante.

La femminetta nel tuo sen regale
La sua spregiata lacrima depone,
E a Te beata, della sua immortale
Alma gli affanni espone;

A Te che i preghi ascolti e le querele,
Non come suole il mondo, né degl’imi
E de’ grandi il dolor col suo crudele
Discernimento estimi.

Tu pur, beata, un dì provasti il pianto,
Né il dì verrà che d’oblianza il copra:
Anco ogni giorno se ne parla; e tanto
Secol vi corse sopra.

Anco ogni giorno se ne parla e plora
In mille parti; d’ogni tuo contento
Teco la terra si rallegra ancora,
Come di fresco evento.

Tanto d’ogni laudato esser la prima
Di Dio la Madre ancor quaggiù dovea;
Tanto piacque al Signor di porre in cima
Questa fanciulla ebrea.

O prole d’Israello, o nell’estremo
Caduta, o da sì lunga ira contrita,
Non è Costei, che in onor tanto avemo,
Di vostra fede uscita?

Non è Davidde il ceppo suo? Con Lei
Era il pensier de’ vostri antiqui vati,
Quando annunziaro i verginal trofei
Sopra l’inferno alzati.

Deh! a Lei volgete finalmente i preghi,
Ch’Ella vi salvi, Ella che salva i suoi;
E non sia gente né tribù che neghi
Lieta cantar con noi:

Salve, o degnata del secondo nome,
O Rosa, o Stella ai periglianti scampo,
Inclita come il sol, terribil come
Oste schierata in campo.

Con Maria verso il Santo Natale dans Don Giustino Maria Russolillo mariaimmacolata

L’inno di Alessandro Manzoni per la memoria del nome di Maria
«E UBBIDIENTE L’AVVENIR RISPOSE»
di Mons. Inos Biffi – L’Osservatore Romano

Secondo il progetto contenuto in un manoscritto cartaceo, conservato nella sala manzoniana della biblioteca Braidense, tra i dodici inni programmati Manzoni intendeva comporne due in onore di Maria: quello per la festa dell’Assunzione e quello per la memoria del suo nome, ricorrente nella liturgia il 12 settembre. In realtà solo quest’ultimo vide la luce – tra il novembre 1812 e il 19 aprile 1813. E manifesta tutta la semplice e ardente pietà dello scrittore, da poco ridiventato credente, verso la Vergine.

Si potrebbe dire, in sintesi, che Il Nome di Maria traduca in delicatissima poesia il vangelo lucano della Visitazione, il mistero dell’umiltà e della grandezza della Madre di Dio, e il rifrangersi nell’universale devozione cristiana della sua profezia - “Tutte le genti / Mi chiameran beata” -.

La pacata bellezza dell’inno, modellato sul ritmo contemplativo della saffica, attrae già dalla prima strofa, dove, con tocco agile e delicato, il poeta ci fa
apparire dinanzi in tutta la sua suggestion e la trasparente immagine di Maria nel suo ascendere raccolto alla casa di Elisabetta: “Tacita un giorno a
non so qual pendice / Salia d’un fabbro nazaren la sposa; / Salia non vista alla magion felice / D’una pregnante annosa”.

«Il Manzoni – commenta il cardinale Giovanni Colombo da finissimo conoscitore del poeta lombardo - con una paroletta di sole tre sillabe – “Tacita” - dà
inizio a questa lirica. Felice scoperta: basterebbe questo sdrucciolo silenzioso per darci la misura del suo gusto e del suo genio. Il fascino di bellezza, che ad alcune parole ricorrenti nelle prime strofe della poesia sembra conferire una vaga indeterminatezza, riempie di stupore.
“Un giorno”: quale non si sa; “a non so qual pendice”: neppure il poeta saprebbe indicarcela. “Salìa… Salìa”: vuol significare l’agile fretta; “d’un fabbro nazaren”: a Nazaret i falegnami saranno stati più d’uno; ma qui non è lui che conta, è la sua sposa. Ed ella va “non vista”, tanto era umile e raccolta in sé (…) Anche “inaspettata” è una di queste parole che acquistano fascino dall’indeterminatezza da cui sono velate».
In questo incontro tra le due madri Manzoni si sofferma in particolare sull’annunzio profetico di Maria: “Tutte le genti / Mi chiameran beata”. L’“età superba” - come egli qualifica con secca e sferzante definizione l’umanità priva della luce e della pietà cristiana - nel suo “tardo consiglio” e nel suo umano “antiveder bugiardo”, sicuramente avrebbe schernito questo presagio divinamente ispirato al cuore dell’“inaspettata” nella casa di Elisabetta.

Quanti però sono destinati a vivere nell’amore e a porsi alla scuola di Dio e dei suoi misteri – “Noi serbati all’amor, nati alla scola / Delle celesti cose” -
possono attestare che il tempo si è docilmente piegato al preannunzio della Vergine – “Ubbidiente l’avvenir rispose”.
Il poeta passa, così, all’esaltazione e al saluto del nome di Maria, Madre di Dio: un nome solenne e incomparabile; caramente ripetuto in ogni età, anche la più rude; insegnato di padre in figlio; invocato universalmente e onorato anche nei luoghi remoti e incolti, che pure conoscono “le benedette soglie” dei suoi “miti altari”: miti, perché spirano e trasfondono nell’anima serenità e confidenza, a dire anche “la preferenza – di Manzoni – per la gentilezza delle piccole cose” (Giovanni Colombo).
Ma altri “bei nomi”, insieme con quello di “Maria”, sono riservati alla Madonna: “O Vergine, o Signora, o Tuttasanta / – esclama il poeta nella sua ammirata contemplazione - Che bei nomi ti serba ogni loquela!”. Né mancano popoli, per quanto altezzosi, che si gloriano di essere sotto la sua protezione: “Più d’un popol superbo esser si vanta / In tua gentil tutela”: e qui sentiamo l’eco dell’antica antifona: Sub tuum praesidium, mentre possiamo notare la felice scelta dell’aggettivo “gentile” riferito alla salvaguardia di Maria, per dirne ancora il garbo affabile e attento.
La strofa che segue, nel suo ritmo sciolto e composto, è di un fascino incantevole nella rievocazione del suono di campana che tre volte al giorno – al mattino, a mezzogiorno e al tramonto – chiama i fedeli alla preghiera mariana, come “racchiudendo nel nome di Maria l’intera giornata del cristiano” (Valter Boggioni): “Te, quando sorge, e quando cade il die, / E quando il sole a mezzo corso il parte, / Saluta il bronzo che le turbe pie / Invita ad onorarte”.

Ed è l’invocazione degli umili e degli indifesi, con i loro “preghi” e le loro “querele”, che il poeta si sofferma poi a illustrare. Sul mondo di questi offesi e umiliati egli vede, particolarmente inchinata, la tenerezza materna della Vergine. Potremmo dire:
sui piccoli dei Promessi Sposi, trascurati dal mondo, che “col suo crudele / discernimento” distingue il dolore “degl’imi / e de’ grandi”, ma cari alla Provvidenza di Dio e alla cura della Vergine. In particolare, il poeta indugia «a contemplare tre quadretti: quello del fanciulletto che la chiama “nelle paure ella veglia bruna”, del navigante che ne invoca il soccorso nei momenti della burrasca, della femminetta che le affida la sua “spregiata lacrima”. È questa la parte più intensa della poesia. Ogni volta che il Manzoni nella vita umana vissuta immerge i simboli religiosi, questi perdono la loro fredda astrattezza e suscitano le vibrazioni più profonde».
Del resto, la Vergine stessa ha fatto l’esperienza delle lacrime: “Tu pur, beata, un dì provasti il pianto”, e “quello che in quest’inno ci commuove, è
ciò che vi è di più semplice: la preghiera che si appella alla Madre divina per una nostra comunione al suo soffrire” (G. Colombo).
Il ricordo del pianto di Maria non si è spento lungo i secoli ed è rimasta viva – “come di fresco evento” - la memoria della sua allegrezza, rievocata nell’antifona pasquale Regina caeli, laetare.

E questo non sorprende. Il poeta coglie la ragione profonda di questa lode unica e primeggiante verso Maria: essa è “di Dio la Madre” e insieme la “fanciulla ebrea”, che “piacque al Signor di porre in cima”, e ama intrattenersi su questa origine della Vergine.
Colei che noi veneriamo – “in tanto onor avemo” - è frutto della fede ebraica: “Di vostra fede uscita”, è detto con espressione felicissima. Maria proviene, infatti, dal “ceppo” di Davide ed era riferito a lei il preannuncio della vittoria della donna sul serpente: “Era il pensier de’ vostri antiqui vati, / Quando annunziaro i virginal trofei / Sopra l’inferno alzati”.

Maria “è madre particolarmente degli ebrei” (G. Colombo): per questo essa è il motivo della speranza per la “prole d’Israello”, esortata a implorare da lei – “che salva i suoi” - il dono della salvezza, ardentemente invocata anche nell’inno sacro La Passione, come frutto del “sacro / Santo Sangue”.

Si potrebbe parlare di comunione ecumenica tra ebrei e cristiani come grazia che viene da Maria. Nessuno, infatti, dovrà mancare al lieto canto che così saluterà la Vergine: “Salve, o degnata del secondo nome” - il nome più glorioso, dopo quello di Cristo -, “O Rosa, o Stella ai periglianti scampo”, “Inclita come il sol”, “terribile come / Oste schierata in campo”. Vengono in mente le invocazioni delle litanie del Rosario: Rosa mystica, Stella matutina, Turris davidica, Auxilium christianorum: Maria speranza, riparo e difesa contro il male. Ma se “la venerazione alla Vergine Maria da parte del Manzoni ha nell’Inno Sacro dedicato al suo Nome l’espressione più alta”, essa “non è un atto isolato”.

Osserva ancora Giovanni Colombo: «Il riferimento a Maria, una costante della sua meditazione, è inseparabile dalla sua riscoperta della fede in Cristo. Nel Natale il Manzoni contempla l’adorante Vergine Madre che par non tocchi il “Pargolo”, quasi per timore di sciuparlo, dopo la divina ascesa alla maternità; nella Passione prega Maria “regina de’ mesti” perché il nostro “patire”, unito a quello del Figlio, sia “pegno” della eterna gioia; nella Risurrezione invita la Vergine, che fu “nido” di Dio, all’esultanza della Pasqua; nell’Ognissanti celebra l’Immacolata (la “tuttasanta”), cioè la piena di grazia; nei Promessi Sposi è attestata l’“umile” preghiera mariana del rosario, che dà l’avvio al sacrificante voto di Lucia prigioniera dell’innominato». Non solo: il nome di Maria “commuove la sua rozza carceriera, nel cui animo si illumina il rimorso di un passato che pareva perduto per sempre”, e fu poi il nome che, secondo la promessa di Renzo, fu dato alla bambina dei due sposi che venne alla luce prima che finisse l’anno del matrimonio.

Del resto – scrive sempre Colombo, che ci ha fatto da guida impareggiabile in questo commento – «in casa Manzoni si doveva conoscere questa predilezione del capo famiglia verso la Vergine Maria, se Giulietta, una sera del settembre 1827, in prossimità della festa liturgica del nome di Maria, insistette per avere – e ottenne – quei cantabili Versi improvvisati sopra il nome di Maria, e se in occasione della prima comunione della figlia Vittoria, le raccomandava la devozione alla Vergine, con queste parole commoventi per la fede con cui un tal padre le scriveva e per il recente angoscioso lutto della morte di Enrichetta: “Senti in questa felice tua e santa occasione, una più viva gratitudine, un più tenero affetto, una più umile riverenza per quella Vergine, nelle cui viscere il nostro Giudice s’è fatto nostro Redentore”».

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Claudel cantò lo Spirito divoratore: la Pentecoste dall’analisi della teologia alla sintesi della poesia in un articolo di don Inos Biffi

Posté par atempodiblog le 18 mai 2015

La riflessione sulla Pentecoste dall’analisi della teologia
E Claudel cantò lo Spirito divoratore alla sintesi della poesia
di don Inos Biffi – L’Osservatore Romano

 Claudel cantò lo Spirito divoratore: la Pentecoste dall'analisi della teologia alla sintesi della poesia in un articolo di don Inos Biffi dans Fede, morale e teologia 2ln6zus

Dopo la Risurrezione di Gesù viene lo Spirito. Al termine dell’itinerario terreno del Figlio di Dio, il Padre, insieme con Lui e tramite Lui, elargisce il Dono. La pienezza dello Spirito non è data ai credenti, i «fiumi di acqua viva» (Giovanni, 7, 38) non scorrono, prima che Gesù sia stato glorificato, poiché è dal suo seno che sgorgano. E infatti, secondo Giovanni il Signore appare la sera di Pasqua ad alitare sui discepoli lo Spirito Santo. L’umanità è redenta e la storia del mondo “finisce” quando su tutti e per tutti lo Spirito è disponibile. Allora è compiuta la vicenda di Cristo e quella degli uomini. L’arcano disegno divino aveva esattamente questa sostanza e questo fine: creare una umanità che possedesse lo Spirito del Padre e del Figlio, che ricevesse il vincolo o l’amore, che li unisce e li rende presenti nell’umanità e nel cuore, o nell’esistenza, di ogni credente.

Dove c’è Gesù glorificato là c’è lo Spirito; dove c’è lo Spirito là c’è il Signore Gesù, che per mezzo dello Spirito è presente e opera. Non è facile parlare dello Spirito. Lo si avverte, ma non in una figura umana, com’è del Figlio, e non in una rappresentazione che all’uomo è immediata, quella della paternità com’è del Padre. Lo Spirito viene come alluso attraverso dei simboli: «un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, all’improvviso», «lingue come di fuoco», che si dividono ed eccitano la parola, ottenendo sorprendentemente l’unità e l’intesa, là dove ci si aspetterebbe l’incomprensione. È la prima grazia dello Spirito Santo: quella di poter credere e di poter riconoscere — come dice Paolo — che «Gesù è Signore» (1 Corinzi, 12, 3), quella di annunziare «le grandi opere di Dio» (Atti, 2, II).

Lasciati a noi stessi non avremmo la fede e non potremmo essere il Popolo di Dio: rimarremmo nella confusione, dove non è possibile capirsi, dove la lingua invece di comunione provoca rissa e isolamento, e dove la freddezza del cuore ci separa reciprocamente. Lo Spirito crea la Chiesa e la tiene insieme, e chi partecipa dello Spirito ne vive e ne rivela il mistero. A verificare questa dimensione e questa condizione “spirituale” per capire la Chiesa e per essere Chiesa ci induce oggi — dichiara Bernardo di Clairvaux — la «solennità dello Spirito Santo, che è come la realtà più dolce che esiste in Dio, che è la benignità di Dio, colui che è il principio della santità» (Sermo in die Pentecostes, I, 1). Se lo Spirito vince le resistenze reciproche e genera la comunione, allora si rivela con chiarezza sia la radice dei carismi sia la loro finalità: la radice è lo Spirito, di cui ogni grazia è manifestazione, e la finalità è il bene di tutta la Chiesa. Lo Spirito non chiude in sé, ma apre agli, altri. Ogni impegno e ogni lavoro non può servire l’interesse personale o la vanagloria. Su questa misura si diventa cauti prima di domandare il riconoscimento di un carisma, prima di pretenderne l’esercizio, e anche prima di stupirsi che non venga riconosciuto o che sia contestato.

Quando si tiene troppo a un “carisma”, la probabilità va nel senso che non sia autentico. Sul tema dello Spirito ci illuminano alcune riflessioni di san Tommaso, forse non molto note. Egli scrive: «Cristo appare a quanti sono radunati insieme; così lo Spirito discende su quelli che sono uniti tra loro: Cristo e lo Spirito si fanno presenti soltanto a coloro che sono legati dall’amore» (Super Euangelium Iohannis reportatio, 20, 4, n. 2529); «Molto felicemente Paolo attribuisce le grazie allo Spirito che è l’Amore, poiché ogni servizio è grazia che proviene dall’amore del Signore, al quale si serve» (Super I Ad Corinthios XI – XVI reportatio, 12, 1, n. 723); «Dalla forza dello Spirito Santo otteniamo di essere rigenerati e di essere ricreati per la salvezza» (ibidem, n. 734).

San Tommaso sta commentando le parole dell’Apostolo: «Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Corinzi, 12, 13), e prosegue dicendo: «Questo abbeverarsi si può intendere del refrigerio interiore che lo Spirito Santo offre al cuore umano, estinguendo la sete dei desideri del peccato; oppure si può intendere della bevanda sacramentale, consacrata dallo Spirito» (Super I Ad Corinthios XI – XVI reportatio , n. 734). Infatti appartiene allo Spirito se i sacramenti non si risolvono in puri atti umani ma trascendono, nella loro intenzione e nel loro effetto, le possibilità che un uomo può raggiungere.

A Pentecoste si rinnova il senso del ministero come docilità allo Spirito del Signore, e la consapevolezza che nella Chiesa tutto riesce se viene dalla virtù dello Spirito: la Parola e la sua predicazione, i sacramenti con i loro riti, le opere con i loro traguardi. Allo stesso modo si ravviva il senso della Chiesa come mistero, luogo e manifestazione dello Spirito Santo contro ogni rischio di fraintendimento, quasi che a definirla e a farla consistere siano le nostre attività per se stesse o siano i nostri puri criteri, mentre la Chiesa è il segno della riuscita del Signore che agisce con lo Spirito Santo. Urge riportarsi a questa genesi, quando sembri che la Chiesa venga concepita come realtà che riesce all’uomo.

Ma lo Spirito anima la Chiesa inabitando l’anima dei giusti. È una inabitazione senza strepito, silenziosa, che purifica e stabilisce l’amicizia, iniziando e guidando la storia più preziosa e più segreta, quella che si svolge anzitutto agli occhi del Padre: una storia non facilmente programmabile, ricca di sorprese, poiché non è lo Spirito che dev’essere obbediente all’anima, ma l’anima allo Spirito. Allora abbiamo l’adorazione nel cuore e l’obbedienza che coincide con la vita (cfr. ibidem, n. 718). Un santo è un uomo “spirituale” la cui esistenza si muove per l’istigazione e l’inclinazione dello Spirito, il quale ha le sue vie, che sono sempre le vie di Gesù Cristo, ma non nella forma che immediatamente potremmo immaginare. Lo Spirito fa nascere la preghiera, il modo fondamentale di porsi di fronte a Dio, e ne provoca gli accenti. Lo Spirito spinge non tanto all’apparenza quanto alla “latitanza”, poiché la vita che egli sostiene è la vita “interiore”, che ha sempre, se è sana e autentica, una buona dose di distacco, di indifferenza e di segreto.

San Bernardo descrive così l’opera dello Spirito: «Solo lo Spirito Santo ti spinge a camminare con sollecitudine insieme con il tuo Dio. Egli scruta le profondità dei nostri cuori, opera il discernimento dei pensieri e delle intenzioni e non tollera nell’abitacolo del cuore, che è suo possesso, neanche una minima pagliuzza, ma subito la brucia con il fuoco del suo sguardo penetrante. Egli ammonisce la memoria, le ispira pensieri santi, allontana la nostra pigrizia e il nostro torpore; fa da maestro al nostro intelletto e muove la volontà, aiuta la nostra infermità» (Sermo in die Pentecostes, II, 8; I, 5).

Ma non solo dei teologi santi e dei mistici hanno interpretato così lo Spirito Santo. Lo hanno interpretato anche dei poeti cristiani. Claudel nel suo Hymne de la Pentecôte lo invoca con questi accenti:

«O sole della luce di Dio con noi! O bellezza della luce di Dio concepita prima dell’aurora! Guarisci questo occhio mortale! Risuscita questo cuore addormentato. Vieni, Spirito divoratore! Vieni, o morte della morte! Vieni, ansia dell’amore, punta che distrugge la pigrizia. Vieni, giudizio e gusto, scienza del bene e del male, forza ingenua dei Martiri, vibrazione dell’intelligenza e della conoscenza saporosa. O Dio, io sento la mia anima folle in me che piange e che canta».

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Diavolo, esiste!

Posté par atempodiblog le 2 septembre 2013

Diavolo, esiste!
Fin da subito Papa Francesco s’è messo a parlare di Satana. Un inquilino che certa teologia ha banalizzato e ridotto a mito
di Matteo Matzuzzi – Il Foglio

“Il Demonio è il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana” (Paolo VI, 15 novembre 1972)

Diavolo, esiste! dans Anticristo 4euu
 La tentazione di Adamo ed Eva di Michelangelo Buonarroti (Cappella Sistina)

Che guaio aver dimenticato che il Diavolo c’è, diceva qualche anno fa padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia. Satana è quasi scomparso dalle omelie dei parroci, dal catechismo. Cancellato, ridotto a puro mito, a superstizione. E’ come se l’ingresso “da qualche fessura di Satana nel tempio di Dio” di cui parlò un inquieto Paolo VI negli ultimi anni di pontificato, fosse niente di più che la sensazione di un Papa stanco, tormentato, malinconico. La colpa di questo “silenzio sul Demonio”, notava ancora il frate cappuccino, è della “posizione intellettualistica che coinvolge anche certi teologi, i quali trovano impossibile credere nell’esistenza del Demonio come entità non solo simbolica ma reale e personale”. Negli ultimi anni si preferiva parlare del Diavolo con più discrezione, prudenza, forse pudore. “Perfino qualche cardinale non crede al Diavolo”, ammetteva sconsolato padre Gabriele Amorth, decano degli esorcisti italiani e convinto assertore di quanto potente sia quello che nel Vangelo di Giovanni è chiamato il “Principe del mondo”.
Poi è arrivato Francesco, il gesuita argentino, il Papa arrivato dalla fine del mondo, e Satana è tornato a ricorrere con una certa frequenza nelle omelie e nei discorsi pronunciati a San Pietro o a Santa Marta. Lo chiama per nome, con naturalezza, perché per lui non è un mito, una metafora del male. Ma è una figura reale. La cosa ha fatto scalpore, anche perché “è invalsa da tempo nella chiesa l’abitudine di tacere su questo personaggio della divina Rivelazione, banalizzandolo”, ha scritto sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica padre Giandomenico Mucci. Ne era consapevole agli albori del Terzo millennio monsignor Alessandro Maggiolini, fino al 2007 vescovo di Como: “E’ vero che la teologia, quella un po’ ‘saputa’, ha lasciato da parte il tema del Diavolo”, diceva al Corriere della Sera. “In particolare – aggiungeva il presule – c’è stata una certa teologia razionalista che ha cercato di demitizzare gran parte della Rivelazione. E così il Diavolo è diventato una specie di fabulazione che proiettava nel campo religioso le paure del subconscio”.

Francesco non era Papa neppure da ventiquattro ore che già ammoniva i suoi fratelli cardinali, nella messa “pro ecclesia” celebrata in Sistina all’indomani dell’elezione al Soglio pontificio, che “quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del Diavolo, la mondanità del Demonio”. Francesco citò Léon Bloy, lo scrittore che, ironia della sorte, la rivista dei gesuiti anni fa scomunicò in quanto “impaziente, talvolta esaltato e sempre estremista”: “Chi non prega il Signore, prega il Diavolo”. Tesi ripetuta e rafforzata dieci giorni dopo, Domenica delle palme, sul sagrato antistante la basilica vaticana: “Con Gesù non siamo mai soli, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili. E in questo momento viene il nemico, viene il Diavolo”. L’entità misteriosa, ma vera e reale, che è “la causa originaria di ogni persecuzione”, ribadiva poi in una delle consuete omelie a braccio tenute poco dopo l’alba nella piccola cappella di Santa Marta. Con “l’odio del Principe del mondo”, insomma, bisogna fare i conti.
L’inferno “esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore”, spiegava Benedetto XVI durante la visita alla parrocchia romana di Santa Felicita nel 2007. Eppure, qualche dubbio, sul finire del secolo scorso, era sorto. Anche perché Giovanni Paolo II – che secondo lo scomparso cardinale francese Jacques-Paul Martin avrebbe praticato in prima persona un esorcismo nel 1982 – assicurò che “la dannazione non è un luogo fisico, ma la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio”.

Certo è che “poco se ne può sapere, al punto che lo si potrebbe perfino immaginare vuoto”. Parole che all’epoca (era il 1999) ebbero notevole risonanza, ma che non differivano in nulla da ciò che era ed è rappresentato dal Magistero della chiesa, che sull’inferno insegna tre cose. “La prima: esiste dopo la morte terrena uno stato, non un luogo, che spetta a chi è morto nel peccato grave e ha perduto la grazia santificante con un atto personale. La seconda: questo stato comporta la privazione dolorosa della visione di Dio. La terza: in questo stato c’è un elemento che, con espressione neotestamentaria, è descritto come fuoco. Le due pene, e quindi anche l’inferno, sono eterne”, precisava su Civiltà Cattolica sempre padre Giandomenico Mucci qualche tempo fa. E che l’inferno sia vuoto non è altro che “una formuletta” propria della chiesa contemporanea. “Si risente l’eco del sarcasmo di Voltaire che, in una pagina antisemita, giudicava la dottrina cattolica dell’inferno cosa da domestiche e da sarti”, aggiungeva l’ecclesiologo gesuita.
Una formuletta frutto di un equivoco, l’interpretazione errata di un pensiero di Hans Urs von Balthasar secondo cui sperare nella salvezza eterna di tutti non è contrario alla fede. Ma da qui a dire che l’inferno è vuoto, ce ne passa. Il grande teologo svizzero protestava: “La soluzione da me proposta, secondo la quale Dio non condanna alcuno, ma è l’uomo che si rifiuta in maniera definitiva all’amore a condannare se stesso, non fu affatto presa in considerazione. Sono state ripetutamente travisate le mie parole nel senso che, chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, spera l’inferno vuoto”. E poi, parlare di inferno vuoto, “che razza di espressione!”.

Esiste, c’è, e Joseph Ratzinger lo ribadiva anche nell’enciclica “Spe Salvi” del 2007: “Prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere (persone in cui tutto è divenuto menzogna, persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore). In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile. E’ questo che si indica con la parola inferno”.
Sull’esistenza di Satana ha giocato, e non poco, anche il modo in cui è stato raffigurato nei secoli, come è entrato e si è sedimentato nell’immaginario popolare collettivo: un satiro orribile con corna e zampe di capra, ogni tanto pure con pizzetto e coda. Retaggio medievale che è passato al Rinascimento e fino ai giorni nostri. Una tradizione cui “tanto contribuirono le sculture mostruose delle cattedrali gotiche e il fantastico affresco che di Satana diedero Dante, Signorelli e Michelangelo”, scrive padre Mucci. Quel Demonio con corna e coda è il tentativo dei nostri antenati di dare un volto e una sembianza allo spirito del male. Oggi ci appare comica, ridicola, degna di un cartone animato per bambini e nulla di più. Ed è anche questa raffigurazione allegorica che ha progressivamente, soprattutto dai tempi di Voltaire in poi, portato a negarne l’esistenza. “Satana è un essere spirituale, inimmaginabile nella sua perversità, che non può essere compreso e descritto sul piano dell’empiria sensibile”, aggiunge il padre gesuita. Inutile perdere tempo a pensare il Diavolo, c’è e basta. “La sua realtà, esistenza e azione, va ricercata soltanto nella divina Rivelazione interpretata all’interno della tradizione della chiesa”.

Pensare al Diavolo come a una persona è normale, in quanto “facciamo necessariamente riferimento alla sola esperienza che abbiamo, quella dello spirito incarnato. Poiché non abbiamo esperienza diretta dell’esistenza demoniaca, siamo costretti a ricorrere alla terminologia desunta dalla vita umana”. Concetti estremamente chiari a Papa Francesco. Per lui, citare il Diavolo è la normalità, e in questo emerge tutta l’influenza gesuitica, dal momento che proprio negli “Esercizi spirituali” sant’Ignazio ricorda che “l’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana”. E quest’ultimo, recita la tredicesima regola degli “Esercizi”, “si comporta come un frivolo corteggiatore che vuole rimanere nascosto e non essere scoperto”, come un “condottiero che vuole vincere e fare bottino” (quattordicesima regola). Lui, “il nemico della natura umana esamina tutte le nostre virtù teologali, cardinali e morali, e poi ci attacca e cerca di prenderci dove ci trova più deboli e più sprovveduti per la nostra salvezza eterna”.
Per secoli, i Papi hanno parlato del Diavolo, delle sue legioni e dei suoi eserciti, senza farsi troppi scrupoli. Poi è arrivato Immanuel Kant e la musica è cambiata. Il filosofo di Königsberg, infatti, sosteneva che solo la fede razionale può condurre l’umanità fuori dallo stato di minorità. In pratica, come dice Mucci, “è la ragione che deve scegliere le idee che possono soddisfare il suo bisogno”. E una cultura come la nostra “potrebbe mai impegnarsi seriamente in una discussione sul Diavolo?”. L’Illuminismo, insomma, ha cambiato la prospettiva: dal tardo Settecento esso “lavora a confinare l’esperienza religiosa nel campo dell’irrazionale, tende a dissolvere le religioni positive nel pathos sacralizzato della neognosi e del panteismo”.
Michel de Certeau, gesuita pure lui, studioso della letteratura mistica del Seicento, notava anni fa che “oggi la norma non è più la religione, sono le macchine, lo scientismo, il razionalismo esasperato che nega la dimensione spirituale”. Analizzando alcuni film sulla possessione diabolica (primo fra tutti, “L’esorcista” di William Friedkin del 1973), de Certeau scriveva in un piccolo libello, “La lanterna del Diavolo, cinema e possessione”, edito da Medusa, che “il diabolico è la rivolta non contro Dio, ma contro il frastuono oceanico degli uomini”. Il cinema ha ben raccontato il “tema del male come substrato irrazionale della nostra società”.

Ma la chiesa cosa ha ancora da dire e insegnare sul Demonio? Per dare una risposta, è sufficiente richiamarsi alle Scritture e al magistero dei Papi, anche quelli del Novecento, più vicini a noi. Chiaro fu a tal proposito, durante un’udienza generale del novembre 1972, Paolo VI: “Quali sono oggi i bisogni maggiori della chiesa?”, si domandò aprendo l’intervento che non a caso recava, sui documenti ufficiali, il titoletto “Liberaci dal male”. E subito Montini rispose che “uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male che chiamiamo il Demonio”. Lo disse quasi scusandosi, in tono sommesso: “Non vi stupisca come semplicista, o addirittura come superstiziosa e irreale la nostra risposta”, disse come premessa. Il Diavolo, aggiungeva il Pontefice bresciano, “è all’origine della prima disgrazia dell’umanità; egli fu il tentatore subdolo e fatale del primo peccato, il peccato originale. Da quella caduta di Adamo il Demonio acquistò un certo impero sull’uomo”.
Non confinava, Paolo VI, quell’episodio al racconto biblico della Genesi, al serpente che incarna la “presenza di un essere invidioso” che Cristo nel Nuovo Testamento definisce “omicida fin da principio”, ma affermava che “è storia che dura tuttora”. Satana “è il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo così che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana”. Montini lo definì “perfido e astuto incantatore, che in noi sa insinuarsi, per via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica, o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni, altrettanto nocive quanto all’apparenza conformi alle nostre strutture fisiche o psichiche, o alle nostre istintive, profonde aspirazioni”.

Eppure, il dubbio sulla sua esistenza è forte, c’è quasi vergogna ad ammettere che Satana esiste, che la sua presenza reale esercita un potente influsso sull’individuo, la comunità, la società. “Si pensa – aggiungeva Papa Paolo VI – di trovare negli studi psicanalitici e psichiatrici o in esperienze spiritiche, un sufficiente compenso. Si teme di ricadere in vecchie teorie manichee, o in paurose divagazioni fantastiche e superstiziose. Oggi si preferisce mostrarsi forti e spregiudicati, atteggiarsi a positivisti”. Con il rischio concreto e umiliante di finire per “prestar fede a tante gratuite ubbie magiche o popolari”. Capiva con lungimiranza, il fine intellettuale Montini, che “la nostra dottrina si fa incerta, oscurata com’è dalle tenebre stesse che circondano il Demonio”. La domanda, allora, diventa legittima: “Quali sono i segni della presenza dell’azione diabolica?”. E qui il Papa ammetteva l’impossibilità di dare risposte: Serve “molta cautela. Potremmo supporre la sua sinistra azione là dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile e assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente, contro la verità evidente, dove l’amore è spento da un egoismo freddo e crudele, dove il nome di Cristo è impugnato con odio cosciente e ribelle (…) Ma è diagnosi troppo ampia e difficile”.
Se oggi si assiste allo stupore di credenti e non credenti dinanzi alle continue citazioni che Francesco fa del Diavolo, la responsabilità va addebitata “all’assenza nella predicazione e nella catechesi della verità relativa al Demonio”. A dirlo, il 4 maggio scorso in un articolo apparso sull’Osservatore Romano, è stato il teologo Inos Biffi, che esprimeva sorpresa anche “per quei teologi che, per un verso applaudono che finalmente il Vaticano II abbia dichiarato la Scrittura ‘anima della sacra teologia’ e, per l’altro, non esitano – se non a deciderne l’inesistenza – comunque a trascurare come marginale un dato chiarissimo e largamente attestato nella stessa Scrittura, com’è quello relativo al Demonio, ritenendolo la personificazione di un’oscura e primordiale idea di male, ormai demitizzabile e inaccettabile”. Questa concezione, a parere di Biffi, è “un capolavoro di ideologia e soprattutto equivale a banalizzare la stessa opera di Cristo e la sua redenzione”.

Insomma, non dovrebbero stupire i richiami del Papa regnante a una realtà viva e presente il cui potere “è impressionante”. Anche nei documenti del Concilio Vaticano II, scrive ancora padre Giandomenico Mucci, “il Diavolo è corposamente presente”. Eppure, “alcuni teologi hanno accolto l’opinione secondo la quale Satana è frutto della fantasia umana sviluppatasi nell’area del paganesimo e penetrata successivamente nel pensiero giudaico”. Della serie, Belzebù con zampe di capra e corna in capo. Idee, queste, “fatte passare per verità definitivamente acquisite”. Sembrerebbe, dunque, che il Demonio abbia vinto la sua prima (ma fondamentale) battaglia, lui che – scriveva Charles Baudelaire – usa l’astuzia di non far credere alla sua esistenza per meglio raggiungere i suoi scopi.

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Francesco e il diavolo

Posté par atempodiblog le 13 mai 2013

Francesco e il diavolo
Lo cita in continuazione. Lo combatte senza risparmio. Non lo ritiene affatto un mito, ma una persona reale, il più insidioso nemico della Chiesa
di Sandro Magister – chiesa.espressonline.it

Francesco e il diavolo dans Anticristo serpenteantidio

Nella predicazione di papa Francesco c’è un soggetto che ritorna con sorprendente frequenza: il diavolo.

È una frequenza pari a quella con cui lo stesso soggetto ricorre nel Nuovo Testamento. Ma nonostante questo, la sorpresa resta. Se non altro perché con i suoi continui richiami al diavolo papa Jorge Mario Bergoglio si distacca dalla predicazione corrente nella Chiesa, che su di lui tace oppure lo riduce a metafora.

Anzi, è tanto diffusa la minimizzazione del diavolo, che essa proietta la sua ombra sulle stesse parole del papa. L’opinione pubblica sia cattolica che laica ha registrato finora con noncuranza questo suo insistere sul diavolo, o al più con indulgente curiosità.

Invece una cosa è certa. Per papa Bergoglio il diavolo non è un mito, ma una persona reale. In una delle sue omelie mattutine nella cappella della Domus Sanctae Marthae, ha detto che non solo c’è un odio del mondo verso Gesù e la Chiesa, ma che dietro a questo spirito del mondo c’è « il principe di questo mondo »:

« Con la sua morte e resurrezione Gesù ci ha riscattati dal potere del mondo, dal potere del diavolo, dal potere del principe di questo mondo. L’origine dell’odio è questa: siamo salvati e quel principe del mondo, che non vuole che siamo salvati, ci odia e fa nascere la persecuzione che dai primi tempi di Gesù continua fino a oggi ».

Al diavolo bisogna reagire – dice il papa – come ha fatto Gesù, che « ha risposto con la parola di Dio. Con il principe di questo mondo non si può dialogare. Il dialogo è necessario fra noi, è necessario per la pace, è un atteggiamento che dobbiamo avere tra noi per sentirci, per capirci. E deve mantenersi sempre. Il dialogo nasce dalla carità, dall’amore. Ma con quel principe non si può dialogare; si può soltanto rispondere con la parola di Dio che ci difende ».

Francesco parla del diavolo mostrando di avere chiarissimi in testa i suoi fondamenti biblici e teologici.

E proprio per rinfrescare la mente su tali fondamenti, è intervenuto su « L’Osservatore Romano » del 4 maggio il teologo Inos Biffi, con un articolo che ripercorre la presenza e il ruolo del diavolo nell’Antico e nel Nuovo Testamento, sia in ciò che è rivelato e palese, sia in ciò che ancora appartiene a un « panorama nascosto » e in definitiva alle « inaccessibili vie » di Dio.

L’articolo è riprodotto qui di seguito e si conclude con una critica all’ideologia corrente che « banalizza » la persona del diavolo.

L’ideologia contro la quale Bergoglio vuole richiamare tutti alla realtà.

 iconarrowti7 Come le scritture parlano del demonio, di Inos Biffi

divisore dans Medjugorje

Inoltre iconarrowti7 Forma subdola di falsa profezia

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