I voltagabbana del maestro unico

Posté par atempodiblog le 27 octobre 2008

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«Quando l’antica maestra intera si scisse nelle tre maestre per due classi, per ragioni sindacali contro il crollo demografico, si minò un pilastro della nostra convivenza».
Ecco, non riuscivo a trovare le parole per esprimere quel che penso sulla questione del maestro unico, sui danni prodotti dalla sua abolizione, e perfino sulle ragioni («sindacali», non pedagogiche) che portarono alle tre maestre invece che una, e grazie al Cielo ho trovato un altro che aveva già messo in fila le parole giuste prima di me. Così, con una bella citazione, me la sono cavata senza faticare troppo. E sapete di chi è la frase sopra riportata fra virgolette? Di Mariastella Gelmini? Del leghista Roberto Cota? O addirittura del premier? No: sono parole di Sofri. Adriano Sofri.
E sapete dove le ha scritte? Forse sul Foglio, che è un po’ berlusconiano? No: le ha scritte su Repubblica.
E sapete quando le ha scritte? Forse anni fa, in un altro tempo e con un’altra scuola? No: le ha scritte il 3 giugno 2008. Meno di cinque mesi fa.
Per completezza di informazione: l’articolo di Sofri era pubblicato in prima pagina e s’intitolava «Ecco perché ci servono più maestre da libro Cuore». Sempre per completezza, Sofri prendeva spunto da due fatti: un articolo di Zagrebelsky («La democrazia ha ancora bisogno di maestri») e l’appello di una quarta elementare di Roma al ministero affinché non cambiasse la maestra, in età di pensione.
Siccome quando si citano frasi altrui è sempre dietro l’angolo l’accusa di estrapolazioni selvagge, chiarisco che la frase citata all’inizio va inserita nel seguente contesto, che cito testualmente: «Zagrebelsky commemora i grandi maestri civili, soppiantati da televisione, pubblicità, moda: altrettante seduzioni facili, aliene dal suscitare i bravi discepoli senza i quali non compaiono i bravi maestri. Ma nel mondo che si perde la prima e decisiva formazione civile era l’opera delle maestre. Erano loro a insegnare a leggere e scrivere, a fare le operazioni, a dire le preghiere, a stare seduti e alzarsi in piedi. Il tramonto delle maestre può essere salutato come un capitolo dell’emancipazione femminile». E subito qui di seguito la frase citata all’inizio: «Ma quando l’antica maestra intera si scisse…».
Si potrebbe obiettare che Repubblica dispone di un ampio parco di grandi firme, e non è detto che quella di Sofri sia la posizione del giornale. Ok. Però, così, giusto per procedere sulla completezza d’informazione: pochi giorni prima, sempre sulla questione della quarta elementare romana che rischiava di cambiare maestra, Repubblica aveva affidato il commento a un altro suo esperto di scuola, Marco Lodoli. Il quale, dopo aver tratteggiato le qualità e l’importanza della vecchia maestra, scriveva: «Poi qualcuno ha deciso che la maestra doveva moltiplicarsi e da una è diventata tre, e tre maestre sono diventate un viavai di volti, abbondanza e confusione, e forse qualcosa si è guadagnato e di sicuro qualcosa si è perso». Notare il «forse» e il «di sicuro». Era il 27 maggio 2008, esattamente tre mesi e venti giorni prima che lo stesso Lodoli, sempre su Repubblica, così commentasse il progetto del governo di reintrodurre il maestro unico: «Le elementari, fiore all’occhiello del nostro sistema educativo, sono finite sotto l’accetta della ministra Gelmini, che per rispettare le esigenze di risparmio non ha immaginato nient’altro che la maestra unica: come dire suicidiamoci per consumare meno ossigeno». Era il 16 settembre 2008.

Non è che vogliamo sottolineare, a proposito di maestrine dalla penna rossa, incoerenze e giravolte (nel caso di Sofri, tra l’altro, non risulta che abbia cambiato idea). Vogliamo solo esprimere lo stupore per l’attuale levata di scudi della sinistra contro il ritorno del maestro unico. Sono giorni che sentiamo demonizzare questa figura da pedagogisti che mai avevamo udito, prima, esprimersi in tal modo. Politici, giornalisti e genitori anti-Gelmini s’accodano. L’altra sera ad AnnoZero hanno parlato di «rischio di pensiero unico». Fosse un vecchio cavallo di battaglia della sinistra, capiremmo. Ma mai c’è stata, nella cultura della sinistra, l’esaltazione dei tre maestri, anzi. La loro introduzione fu motivata solo dalla volontà di salvare posti di lavoro, ma mai nessuno ne aveva esaltato l’efficacia. Al contrario, sono tantissime le testimonianze di una sinistra perplessa. Ortensio Zecchino, ministro dell’Università con D’Alema e Amato, al momento della riforma votò contro dicendo: «Non resta che prendere atto dell’esistenza di uno schieramento che ha inteso privilegiare il momento sindacale… svalutando il momento formativo e culturale». Ed Edgar Morin, consulente del ministro Fioroni proprio per la riforma della scuola, ha fatto dell’unitarietà dell’apprendimento il suo credo: «Il nostro sistema d’insegnamento – ha detto – separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo».
Chissà come mai, insomma, tanti repentini cambiamenti. Personalmente ho un ricordo fantastico e commovente, della mia maestra unica. Solo che fatico anche qui a trovare le parole. Le prendo in prestito: «La figura della maestra campeggia nella nostra memoria come un totem sacro, è l’asse attorno al quale ha girato la nostra infanzia, fu la solenne e dolce depositaria di ogni sapere, quella che ci ha insegnato gli affluenti del Po e le divisioni a tre cifre, le Guerre Puniche e le poesie di Pascoli, ci ha aiutato a crescere nella pace di un tempo immobile e fecondo. (…) L’infanzia ha bisogno di certezze (…) se l’amata maestra dopo quattro anni scompare, allora tutto può svanire». Chi ha scritto queste belle parole? Ma sempre Marco Lodoli, sempre su Repubblica. Sembra ieri, invece erano ben cinque mesi fa.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Chi soffia sul fuoco

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

CHI SOFFIA SUL FUOCO
di Michele Brambilla – Il Giornale

A un certo punto dell’ottavo capitolo dei suoi Promessi Sposi, quello dedicato alla «notte degli imbrogli» (Renzo e Lucia entrano con un sotterfugio e due testimoni in casa di don Abbondio per cercare di estorcergli un matrimonio-lampo), il Manzoni così commenta: «In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo».
Il lettore ci perdonerà se l’abbiamo presa alla lontana, ma la morale manzoniana ci pare calzi a pennello con quanto abbiamo visto e sentito ieri, quando da più parti s’è dato a Berlusconi dell’incendiario e del fomentatore di incidenti.
Intendiamoci bene: nessuno di noi si azzarda a paragonare il premier a Renzo, e i suoi critici (politici o giornalisti che siano) a don Rodrigo: il senso del ridicolo grazie al cielo non l’abbiamo ancora perso. Però è vero che il mondo continua ad andare come nel secolo decimo settimo, nel senso che se si giudica un fatto analizzando solo una sua parte – soprattutto se la parte è quella finale – si rischia sempre di confondere i ruoli dei protagonisti.
Berlusconi è stato fatto passare per responsabile morale di possibili incidenti nelle scuole e nelle università per aver fatto intendere che, in certi casi, avrebbe fatto ricorso «alle forze dell’ordine». Noi, come abbiamo già scritto chiaramente ieri, siamo contrari all’utilizzo di polizia e carabinieri: e quindi ci rallegriamo che il premier abbia poi precisato che a quell’ipotesi non pensa affatto. Ma non è questo il punto. Il punto è che, per quella frase, Berlusconi è passato come dicevamo per l’incendiario della situazione. «Soffia sul fuoco», ha detto Veltroni. «Getta una miccia accesa sulla benzina», ha aggiunto la Finocchiaro. «Se ci fosse un calcolo, le frasi di Berlusconi sembrerebbero pensate apposta per incendiare le università», ha scritto il direttore di Repubblica Ezio Mauro.
Non crediamo occorra essere berlusconiani – o berluscones, come dicono – per rilevare un dato di fatto elementare: e cioè che non si soffia sul fuoco se qualcun altro prima non ha acceso un fuoco; e non si getta una miccia accesa sulla benzina se qualcun altro prima non ha cosparso il campo di benzina. La tensione nelle scuole c’è già, e rischia di salire perché da settimane si sta facendo una campagna che non vogliamo chiamare «terroristica» come ha fatto la Gelmini, ma «allarmistica» senz’altro sì; una campagna zeppa di bufale sesquipedali, tipo l’abolizione del tempo pieno e dell’inglese alle elementari. Sono stati altri, a far salire la temperatura: altri come l’ex ministro Mussi che ha parlato di «strage di ricercatori universitari»; altri come il manifesto che ha titolato sul «razzismo in cattedra»; altri come chi ha fatto credere ai bambini che la riforma faccia dei morti (che cosa significa altrimenti, per un bambino, il demenziale lutto al braccio di alcune maestre?). E come chi – peggio ancora – i bambini li ha usati nei cortei: gesto infame, perché i bambini in un corteo-contro-qualcuno non vanno portati mai, chiunque sia e qualunque cosa abbia fatto quel qualcuno.
L’editoriale su Repubblica di Ezio Mauro si intitolava «Se il dissenso è un reato». C’era scritto che «qualcuno dovrebbe spiegare al Premier che la pubblica discussione e il dissenso sono invece elementi propri di una società democratica». Mauro è un grande giornalista e un uomo intelligente: ma come fa a non capire la differenza tra «la pubblica discussione» e gli incidenti di Milano dell’altro giorno; tra «il dissenso» e l’impedire fisicamente di far lezione a chi vuol far lezione. Come fa a non capire le stesse cose un Veltroni. Come fa a non capirle una Finocchiaro.
Noi la Celere non la manderemmo neanche contro chi fa i picchetti e neanche contro chi occupa. Non stiamo neppure dicendo che il decreto sulla scuola non sia criticabile. Però, che almeno siano ben delineati i ruoli in questa notte degli imbrogli, e che sia ben chiaro chi sta soffiando – da settimane – sul fuoco.

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Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2008

Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati:
vedere la classifica è stress

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Spero che Il papà di Giovanna, il nuovo bellissimo film di Pupi Avati, arrivi presto sugli schermi della Gran Bretagna e spero che lo vadano a vedere tutti i dirigenti del football inglese che ieri hanno abolito risultati e classifiche dei campionati dei bambini di 7 e 8 anni (in alcune zone, anche di quelli di 9, 10 e 11 anni). Il film potrebbe essere un provvidenziale antidoto alla sciagurata illusione di preservare i piccoli dal trauma della sconfitta, dall’onta dell’ultimo posto, perfino dall’istinto della competizione.
Perché questo è il movente ultimo dei dirigenti del calcio inglese: proteggere i bambini, evitare che fra loro qualcuno emerga come più bravo e quindi qualcun altro, inevitabilmente, come meno bravo; soprattutto, poi, evitare la gogna mediatica della classifica appesa all’ingresso degli spogliatoi o magari – orrore – pubblicata sul settimanale locale. Resta il gioco, restano i gol, restano i più forti e i più scarsi, perché la realtà non la si può eliminare. La si può però nascondere. Non basta più ovattarla con De Coubertain, addolcirla con un complimento, ripararla con un giocattolo. No: la realtà, quando è sgradevole, bisogna occultarla, negarla.
La partita senza risultato e il campionato senza classifica sono l’ultimo anello di una catena che parte da lontano, dal vietato sgridare del dottor Spock all’abolizione dei cartelloni murali con i voti di scuola a fine anno. Così come il bocciato non deve essere traumatizzato dal vedere il proprio nome in quella che ormai viene considerata una lista di proscrizione, il baby inglese non deve provare l’umiliazione neppure di un secondo posto.
Va detto che tra le motivazioni addotte dalla federazione calcistica inglese ce n’è una non peregrina, che si rifà all’ormai straripante e prepotente presenza dei genitori alle partite di calcio dei bambini. Chiunque abbia figli che giocano sa di che cosa parlo. Fino a una ventina di anni fa ai campionati di pulcini, primi calci e giovanissimi il genitore era una presenza rara e persino preziosa: serviva a dare una mano, anzi un volante e quattro ruote, ad allenatori e accompagnatori indaffarati a organizzare le trasferte. Sugli spalti non si sentiva gridare un «bravo», né un batter di mani. Oggi papà, mamme, zie e nonni si costituiscono in tifo organizzato: cominciano incitando; poi passano all’insulto all’arbitro; quindi a quel pirla dell’allenatore che non capisce che mio figlio non può giocare sulla fascia; infine la rissa con i genitori dell’altra squadra: sta’ zitto, che c. vuoi, ti faccio un c. così, ci vediamo fuori.
Ma non è con l’abolizione del risultato e della classifica che si risolve il problema. Intanto perché i genitori-ultras ai bordi del campo se ne fregheranno del mancato verbale: continueranno a seguire la partita e a contare i gol. E poi non è anestetizzando i bambini che si placano i furori e le frustrazioni degli adulti. Si puniscano loro, piuttosto: si impedisca ai genitori scalmanati di seguire i figlioli al campo.
I bambini poi, anche quando perdono, soffrono molto meno di quanto soffriamo noi per loro. Prima ancora di rientrare negli spogliatoi, per il bimbo la sconfitta è digerita, il gol in fuorigioco dimenticato, il fallo accettato come facente parte della realtà di una partita.

Eppure è nel malinteso tentativo di tutelarlo da un trauma che la federazione inglese – e chissà quanti altri tra poco – vogliono privarlo dell’aspetto più sano del gioco. La competizione non è – non deve essere, almeno – occasione per prevaricare e per irridere. Ma per sperimentare se stessi sì; per provare fatica, per capire che ogni traguardo va meritato, per fare esperienza della gioia di una vittoria e della delusione di una sconfitta. Perché di questo i bambini dovranno poi vivere: fatica, merito, gioia, delusioni, vittorie e sconfitte.
Come Il papà di Giovanna trucca i risultati degli esami di maturità per procurare un fidanzato alla figlia bruttina, i dirigenti del football inglese truccano anzi addirittura annullano le classifiche per evitare uno scacco ai bambini meno bravi. Come Il papà di Giovanna, vogliono tenere i bimbi sotto una campana di vetro, nell’illusione di preservarli dalle prime avvisaglie dell’asprezza della vita. Ma come Il papà di Giovanna produrranno disastri. I bambini sono abbastanza intelligenti per capire, e una sconfitta tenuta nascosta fa più male di una sconfitta accettata.
Questo dovremmo capire noi che siamo un po’ tutti papà di Giovanna: dovremmo capire che i nostri figli sono più forti di quanto noi immaginiamo.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Le corna, che colpo di geni

Posté par atempodiblog le 9 septembre 2008

La scienza ci ha finalmente assolti: quando le nostri mogli ci accuseranno di averle tradite non saremo più costretti a balbettare lascia che ti spieghi, non è come pensi tu. «L’infedeltà coniugale dipende da un gene, una specie di motorino che alcuni maschi hanno nel proprio Dna e altri no». La notizia è stata divulgata dall’autorevole rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (c’è sempre un’autorevole rivista, dietro ogni minchiata) che ha illustrato uno studio dell’Istituto Karolinska di Stoccolma. Il gene delle corna, spiegano gli scienziati svedesi, agisce sulla vasopressina, un ormone di cruciale importanza nel processo di attaccamento sentimentale e sessuale tra un uomo e una donna. Chi ha questo gene ha più probabilità di farsi un’amante. Spariscono le nostre colpe e si tranquillizzeranno anche le mogli: se ci vedranno distratti e orizzontalmente inoperosi, potremo rispondere non preoccuparti cara, è solo un po’ di vasopressina.
Non è la prima volta che la scienza ci spiega che l’amore è solo una faccenda chimica. Qualche tempo fa Time ha svelato perché ci innamoriamo di questa e non di quella: la risposta è Mhc, complesso maggiore di istocompatibilità. Uno pensa stasera sono riuscito a farla ridere, ecco perché c’è stata: invece no, lei era solo istocompatibile. Non c’è spazio per il romanticismo, per le affinità elettive, per la poesia: l’amore dipende da oppiacei naturali, l’attrazione fisica non dall’estetica ma dall’orologio biologico, il batticuore dall’olfatto, l’efficacia di un bacio dal ph della saliva, l’eccitazione dall’acidità delle urine. Insomma uno schifo, non si capisce perché uno dovrebbe restarci male quando finisce un amore.
La genetica però non spiega – e smitizza – soltanto i sentimenti e il sesso: spiega tutto. Non c’è giorno che i giornali non rilancino qualche fondamentale scoperta. Faccio un breve elenco delle ultime puntate: «Scoperto il gene del maratoneta»; «Scoperto il gene della magrezza»; «Scoperto il gene dell’obesità»; «Scoperto il gene che dimostra il nesso tra intelligenza e longevità»; «Scoperto il gene del prurito»; «Scoperto il gene dell’umorismo, gli inglesi ne sono particolarmente provvisti». Addirittura, leggo che uno psichiatra del Michigan ha scoperto il gene della prima sigaretta: sì, proprio quello che induce a fumare la «prima» sigaretta.
La riduzione di tutto a un affare di geni sembra svuotarci la vita di ogni passione: perché applaudire il tal comico se le sue battute zampillano direttamente dal Dna? Non ne ha alcun merito. E perché affannarmi a migliorare, se il mio destino è scritto?
Temo che non tanto fra gli studiosi, quando fra i divulgatori di queste ricerche ci sia una motivazione di fondo per nulla innocente. Si vuole fare passare l’idea che non siamo responsabili di nulla, e quindi non siamo neppure giudicabili né tantomeno punibili. L’Università del Western Ontario ha individuato il gene dell’egoismo. Quella di Harvard il gene che non ci fa trarre insegnamento dagli errori commessi. Mentre Nature, altra rivista-totem in questi campi, ha pubblicato uno studio dal quale risulterebbe che il nostro cervello diventa amorale per una pura combinazione di cause organiche. In pratica, chi ha una particolare situazione nell’area ventro-mediana della corteccia prefrontale prende senza turbamenti decisioni ritenute inaccettabili dalla morale comune: anche dirottare un aereo o mettere una bomba su un treno. La storia del terrorismo andrebbe riscritta.

Anche la politica sarebbe da leggere in tutt’altra prospettiva, secondo la nuova religione del Dna. «Politica, energia nucleare, diritti delle minoranze: le posizioni di ciascuno di noi sono scritte nel nostro Dna e ben radicate nel profondo del nostro cervello. E resistono a qualsiasi argomento della ragione», assicura il ricercatore John Alford della Rice University di Houston: «Provare a persuadere qualcuno a cambiare orientamento, pur facendo appello ad argomenti razionali: è un po’ come convincere chi ha gli occhi marroni ad averli azzurri». Siamo pezzi di materia senza alcuna libertà, insomma.
Eppure c’è qualcosa che non convince. Ad esempio. Gli studiosi dell’Université de Picardie Jules Vernes di Amiens hanno scagionato i guardoni: tutto dipende, dicono, dai neuroni a specchio. Applicando, cito testualmente, un «pletismografo penile che misurava la tumescenza del pene» di persone che stavano assistendo a un film porno, gli scienziati hanno scoperto che «l’aumentare del volume dell’organo maschile è correlato all’attivazione di un’area, la pars opercularis, in cui si manifesta proprio l’attività dei neuroni specchio». Tutto bene. Ma resta una domanda: qual è il neurone che, prima che mi applicassero il pletismografo, mi ha fatto entrare in un cinema porno?
Sicuramente la scienza un giorno ci darà una risposta anche a questo enigma. E magari pure un’altra risposta, decisiva: ci dirà se c’è anche un gene che fa dire a uno scienziato che tutto dipende dai geni. Così, tanto per sapere se anche loro non sono responsabili.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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La solita scusa della società

Posté par atempodiblog le 29 juin 2008

Nei primi anni Settanta fecero il giro delle redazioni di tutti i giornali (anche se avrebbero dovuto farlo dei manicomi: ma in quegli anni i manicomi li chiudevano) le motivazioni di una sentenza con la quale un giudice mandò assolto un giovane autore di una serie di rapine. «Il ragazzo – disse il presidente del tribunale – era sconvolto per le notizie che arrivavano dalla guerra del Vietnam. Egli non è dunque responsabile. Responsabile è la società».
L’episodio, che suscitò l’indignazione e l’ilarità di Indro Montanelli, torna alla mente ora che una preside di Treviso incolpa «la società» della bravata di una sua studentessa dodicenne. La ragazzina vendeva autoscatti osé per finanziarsi lo shopping. La preside, e via a ruota tutta una serie di «interpreti del disagio» in servizio effettivo e permanente, hanno accusato in serie prima la famiglia che non educa più, quindi il mondo della moda, poi quello dei telefonini, infine l’immancabile televisione.
Ora è senz’altro vero che la società di oggi ci offre molti spunti per autoassolverci ogni volta che facciamo qualche fesseria. Tuttavia nel terzo episodio del film Signore e signori di Pietro Germi – che è ambientato proprio a Treviso ma nel 1966, quando non c’erano i telefonini e in tv si vedeva a stento il canale nazionale – la contadinella Alda, una ragazzina di quindici anni, si concede in serie a tutti i vitelloni della città, gente dai quarant’anni in su, per comprarsi scarpe e vestiti. Verrebbe da dire insomma che le fragilità umane non sono poi tanto cambiate, e che la tecnica e la maggior disponibilità di mezzi hanno solo aumentato la quantità, e non la natura, dei misfatti.
Ma la banalità dell’analisi sui tempi che cambiano è comunque meno grave dell’eterno ritorno dell’impalpabile «società» quale unica presenza sul banco degli imputati. La preside ha accusato la famiglia e appunto la società di non educare più, ma scaricando la ragazzina da ogni responsabilità ha, lei per prima, esercitato malissimo il proprio ruolo di educatrice. A dodici anni si è certo poco responsabili. Ma se ci si mette in testa che non lo si è per nulla, e che c’è sempre qualche «società» su cui scaricare ogni errore, irresponsabili lo si diventa davvero, e del tutto.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Il vigliacco che c’è in noi

Posté par atempodiblog le 16 juin 2008

Com’è seducente quella frase stampata sui manifesti che ritraggono Giovanni Falcone: «Chi non ha paura muore una volta sola, chi ha paura muore tutti i giorni». L’abbiamo vista e rivista ieri alle manifestazioni per il sedicesimo anniversario di Capaci, c’erano i politici e le istituzioni tutte, c’era la gente comune e c’erano i ragazzi delle scuole. Per qualche minuto, guardando i tg, ci siamo sentiti un popolo fiero e coraggioso, unito nel dire mai più la mafia, mai più.

Ci dev’essere però qualcosa che non funziona se solo un giorno prima abbiamo letto che a Napoli Roberto Saviano, l’autore di Gomorra, non riesce a trovare casa perché tutti hanno paura ad affittargliene una. Ci deve essere qualcosa che non funziona se le scuole vanno in piazza a difendere la legalità, come hanno fatto ieri, e poi scopriamo che i ragazzi di terza media della scuola Salvo D’Acquisto di Napoli scrivono nei temi «c’è gente che odia la camorra, io invece no, anzi a volte penso che senza la camorra non potremmo stare, perché ci protegge tutti».

Ci sono due Italie, quella che abbassa il capo e «l’Italia che non ha paura » cantata da De Gregori? Forse sì, anzi sicuramente sì. Ma forse c’è anche una realtà più inquietante, e cioè che l’Italia dei probi e quella dei corrotti sono solo due esigue minoranze, e in mezzo ci siamo noi, maggioranza che dice una cosa e ne fa un’altra, ci siamo noi che sappiamo bene quanto siano infernali la mafia e la camorra ma quando ci dicono che il signore della porta accanto può significare un’autobomba parcheggiata davanti al portone speriamo che se ne vada fuori dai piedi, e magari glielo diciamo pure, di andarsene.

Stiamo in mezzo senza accorgerci che stare in mezzo vuol dire scivolare da una parte, quella sbagliata. È la stessa Italia che per schierarsi aspetta di vedere come va a finire, e nel frattempo cerca di limitare i danni. Il 22 gennaio del 1943 Leo Longanesi annotava questo dialogo: «Credete che a Roma verranno a bombardarci?» «A Roma no, a Roma c’è il papa e poi Roma è troppo bella…» «Credo anch’io. Meglio che bombardino Milano…».

L’unità d’Italia – commentava Longanesi – poggia su questi ideali. Ricordare tutto questo nel giorno in cui andiamo in piazza per ricordare Falcone non è disfattismo, tutt’altro. È il metterci in guardia da un rischio: quello di ripetere un errore che abbiamo già commesso tante volte, fingendo di credere di essere stati tutti uniti e intrepidi nel combattere il fascismo e i nazisti, il terrorismo e la corruzione. Le manifestazioni pubbliche sono necessarie, ma non devono impedirci di riconoscere che il vigliacchetto che non affitta una casa a Saviano può nascondersi dentro ciascuno di noi.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Bentornati vecchi esami

Posté par atempodiblog le 8 juin 2008

Finalmente una buona notizia: a scuola tornano gli esami di riparazione. Erano stati soppressi una quindicina di anni fa da un ministro di centrodestra, Francesco D’Onofrio, che forse non si era reso conto di aver fatto una cosa molto sessantottina, una cosa che seguiva l’onda del sei politico e degli esami di gruppo. D’Onofrio aveva introdotto il sistema dei «debiti scolastici», nel senso che un’insufficienza cambiava nome e diventava appunto un debito, e fin qui non ci sarebbe niente di male: il fatto è che questi debiti lo studente finiva per non saldarli mai, se li trascinava fino alla maturità, e se proprio ne aveva molti veniva ammesso agli esami con un punteggio un po’ più basso, ma comunque ammesso.
Il sistema, oltre che diseducativo, era anche ingiusto, uno schiaffo alla meritocrazia perché poteva succedere (anzi, succedeva regolarmente) che alla fine uno studente pluri-indebitato ottenesse, grazie a una buona prova d’esame, una votazione migliore rispetto a chi aveva studiato più di lui per cinque anni e magari si era impappinato davanti alla commissione.
Per il momento scatta l’obbligo di saldare i debiti entro il 31 agosto; dall’anno prossimo, riavremo i vecchi esami. Non c’è bisogno di molte parole per spiegare perché siamo favorevoli alla restaurazione, cominciata da Fioroni e ora completata da Mariastella Gelmini. L’abolizione degli esami faceva parte di quella nefasta cultura secondo la quale bisogna far crescere i nostri eredi col sedere nel burro: la cultura del dottor Spock, del «tu» alla maestra, dei voti sostituiti da sigle incomprensibili o da commenti soft per non traumatizzare il pargolo con un quattro. Ora torna lo spettro di un’estate passata sui libri anziché in spiaggia, ed è perlomeno un primo assaggio di un paio di regole di vita che i nostri ragazzi dovranno ahiloro sperimentare chissà quante volte: 1) ciascuno è responsabile delle proprie azioni; 2) ai propri errori si deve riparare.
Saremo anche dei vecchi tromboni, ma preferiamo essere cresciuti sapendo che gli esami non finiscono mai, piuttosto che illudendoci che i debiti si possano non pagare mai.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Senza cattolici ma è un male?

Posté par atempodiblog le 9 mai 2008

Giuliano Ferrara, la cui intelligenza ci pare non sia messa in dubbio neppure da chi lo detesta, ha subito colto un aspetto singolare del nuovo governo Berlusconi: l’assenza di ministri cattolici. Più che di assenza, potremmo parlare di scomparsa. C’erano sempre stati, i cattolici: ovviamente con la Dc, ma anche con i precedenti governi sia di centrodestra che di centrosinistra. È singolare che questa tabula rasa sia stata operata proprio dalla coalizione che, tradizionalmente, fa il pieno di consensi nell’elettorato cattolico. Eppure, così è successo: i centristi dell’Udc non sono stati rimpiazzati con altri ex dc; Formigoni è stato convinto a restare in Lombardia anche (e non solo) per servire la causa; perfino il suo fedele Lupi – ciellino pure lui – s’è dovuto accontentare della vicepresidenza della Camera, dopo che per giorni era stato indicato come sicuro ministro della Salute. E dunque: è un tradimento dell’elettorato cattolico? È presto per dare risposte.

Tuttavia, una cosa la si può dire fin da ora. Pensare che il desiderio dei cattolici sia quello di avere al governo uomini e donne dalla sicura fedeltà personale ai valori della Chiesa, è piuttosto infantile. La sinistra, ad esempio, ha sempre molto insistito sulla non coerenza di uomini come Casini, Fini e Berlusconi che – da divorziati – parlano in difesa della famiglia tradizionale. È un argomento comprensibile, ma piuttosto demagogico. Il cattolico non vuole un governo di virtuosi: vuole un governo che tuteli i propri valori. Per il semplice motivo che i ministri non sono santi da indicare alla devozione dei fedeli, ma amministratori della cosa pubblica. Può sembrare paradossale per chi è estraneo al mondo cattolico: ma per un credente è molto meglio un politico che predica bene (in Parlamento) e razzola male (in privato) che non il contrario. Meglio un libertino che dice di no ai Dico, insomma, che un integerrimo padre di famiglia che legifera contro la famiglia.
Vedremo se il governo de-cattolicizzato di Berlusconi riuscirà ad accontentare i cattolici che lo hanno votato. Ma una cosa è sicura: il cattolico crede che una cosa è giusta o sbagliata a prescindere da chi la fa. Quindi, sarà soddisfatto se sulla scuola, sulla famiglia e sulla vita il governo farà quel che ha sempre promesso di fare; non se i ministri o i viceministri avranno una patente da devoti.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Il demone della violenza

Posté par atempodiblog le 6 mai 2008

Chissà da quale profondo mistero arriva la violenza che porta cinque ragazzi a massacrare un uomo di 29 anni solo perché si è rifiutato di dar loro una sigaretta. Certo non arriva dai facili schemi con cui da un paio di giorni si cerca di spiegare l’accaduto: il fascismo, il razzismo, la Verona leghista. Sono tempi in cui la politica cerca di strumentalizzare ogni cosa, e in questo non ci sono innocenti né a sinistra né a destra. Ma davvero dovrebbero esserci dei limiti per rendere improponibili certe dichiarazioni che offendono più l’intelligenza di chi le pronuncia che quella di chi le ascolta. Un ex ministro come Paolo Ferrero ha tirato in ballo perfino la recente campagna elettorale: «I linguaggi bellici e le discriminazioni possono portare voti ma seminano odio». E purtroppo anche Veltroni, che è un uomo intelligente e solitamente misurato, è caduto nella trappola: «Siamo davanti a un’aggressione di tipo neofascista che non può e non deve essere sottovalutata».
Chiunque avesse sfogliato un po’ di fretta i giornali di ieri mattina, si sarebbe così convinto che la vittima dell’aggressione di Verona è un immigrato, oppure un gay, oppure ancora uno di sinistra. Insomma un «diverso» o un «nemico», a seconda di come titolavano i giornali. Solo chi ha avuto la pazienza di entrare nelle righe degli articoli si è accorto che l’aggredito è un italiano; un italiano di Santa Maria di Negrar, provincia di Verona; un italiano che con la politica non c’entra niente, ma proprio niente. Eppure la confusione è andata avanti tutto il giorno, anche una tv eccellente nell’informazione come Sky ha lanciato un sondaggio per chiedere agli italiani se il fatto di Verona è un segnale allarmante di una nuova «ondata di intolleranza». Ma intolleranza verso chi e che cosa? Verso chi non offre sigarette?
Molto opportunamente, invece, Lucia Annunziata ha messo insieme, su La Stampa, il fattaccio di Verona con quello di Torino, dove alcuni vigili sono stati aggrediti in pieno centro, piazza Vittorio Veneto, a poche decine di metri dalla casa del sindaco Chiamparino. Se a Verona è stata una sigaretta a scatenare la violenza, a Torino è stata una multa: chi l’ha presa ha sferrato un pugno in faccia a un vigile, è stato arrestato, ma almeno duecento persone sono intervenute in sua difesa lanciando pietre e bottiglie contro gli agenti. Sono due storie diverse: ma in comune c’è un’esplosione di violenza che pare immotivata, comunque non proporzionata alla causa scatenante. Lucia Annunziata ha avuto dunque il merito di non cadere nella semplificazione retorica dell’antifascismo, e ha colto giustamente in questi episodi il segno di un’inquietudine generale.
Ma il motivo di questa inquietudine è difficilmente afferrabile. Lucia Annunziata lo attribuisce alla rottura del patto di fiducia tra istituzioni e cittadini, e c’è senz’altro del vero. Però basta l’antipolitica a spiegare la violenza di Verona? Che è stata cieca e gratuita come quella di Arancia Meccanica? Che è stata violenza per la violenza, male per il male? Basta, o la risposta è nell’uomo, nella sua essenza più intima?
Per la prima volta nella storia, in Europa non ci sono guerre fra Stati da oltre sessant’anni; i conflitti sociali permangono, ma sono infinitamente meno gravi che in passato. Eppure l’aggressività riemerge ciclicamente. I primi ventenni senza guerra hanno dato vita al Sessantotto, e poi ai terribili anni Settanta, quasi a dimostrare che non c’è generazione che non abbia desiderio di menare le mani. La violenza rialza sempre la testa, hanno persino cancellato i soldatini e le pistole dai giocattoli dei bambini, i quali oggi smanettano con videogames di inaudita ferocia.
L’origine della violenza è all’interno di ciascuno di noi, nasce come reazione ad aspettative che vanno deluse. La cultura, l’educazione, a volte le convinzioni politiche e religiose ci frenano nella stragrande maggioranza delle situazioni. Ma da qualche parte il mostro riemerge, e a volte s’organizza in bande in cui l’ideologia – così come la fede calcistica per quanto riguarda gli ultrà – è solo un pretesto, una divisa. Non è un caso se spesso queste bande, come quella di Verona, attingono soprattutto ai simboli e alle idee che la storia ha sconfitto: la violenza ha bisogno, per nutrirsi e per alimentarsi, di rancori e di rabbia. Ecco perché nessuno crea una «Brigata Royal Air Force» o «Us Army», ma ci si rasa la testa e ci si mette una croce uncinata da qualche parte prima di ammazzare uno che non ti dà una sigaretta.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Dalla parte della polizia (anche oggi)

Posté par atempodiblog le 12 novembre 2007

DALLA PARTE DELLA POLIZIA (ANCHE OGGI)
di Michele Brambilla – lunedì 12 novembre

Con tutta la pietà per il tifoso della Lazio ucciso, e con tutto lo sconcerto per il gravissimo comportamento del poliziotto che ha sparato, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà e non vedere quale sia, nella demenziale giornata di ieri, il fatto più inquietante per il Paese. È la colossale caccia al poliziotto che si è scatenata in tutta Italia; gli assalti ai commissariati; gli incidenti su campi di calcio che nulla avevano a che fare con quanto accaduto; le partite rinviate o sospese per l’infame ricatto dei cosiddetti «ultrà», lupi che per un giorno hanno preteso di vestire i panni dell’agnello.
Ricapitoliamo i fatti. Ieri mattina, a un autogrill nei pressi di Arezzo, la polizia è intervenuta per sedare una rissa tra automobilisti. Intervento improvvido, anzi maldestro, anzi gravemente colpevole, possiamo anche usare il termine «assassino», visto che un agente ha sparato ad altezza d’uomo contro chi se ne stava già andando. C’è scappato il morto. Solo a dramma consumato s’è saputo che i litiganti erano divisi dal tifo sportivo: juventini contro laziali. Ma per quanto ne sapessero i poliziotti, si poteva trattare anche di tutt’altro: non è stata, insomma, un’operazione di ordine pubblico contro il «tifo organizzato».
Ma anche se lo fosse stata: dalla tragedia di Arezzo gli ultrà di tutta Italia hanno preso pretesto per scatenare una sorta di guerra civile degna d’un Paese sull’orlo di un golpe. Chi sono questi soggetti che hanno costretto otto squadre a non giocare, terrorizzato chi era allo stadio con i bambini, e poi incendiato caserme, ferito poliziotti, sfasciato auto e negozi? Sono singolari personaggi usi a scannarsi fra loro per l’«amore» a una maglia, ma anche a trovarsi solidali quando c’è da abbattere tutto ciò che ai loro occhi appare come l’ordine costituito, di cui lo «sbirro» è il facile simbolo. Ma quale «ordine»: è solo il vivere civile, la pacifica convivenza, la gioia di assistere a una partita di calcio. È tutto questo che hanno in odio.
Il poliziotto che ha sparato va processato e, se risulterà colpevole, condannato e licenziato. Ma che cosa ci fa più paura? La possibilità che una singola persona possa sbagliare o anche impazzire, oppure la presenza in Italia di simili bande? Ecco perché diciamo che i delinquenti sono loro, gli ultrà che ieri hanno messo a ferro e fuoco mezza Italia.
E non solo ieri. Sono anni che viviamo sotto l’incubo di questi personaggi che il mondo del calcio non ha mai avuto il coraggio di emarginare veramente. Quanti sono? Centomila? Cinquantamila? O forse solo ventimila? Comunque troppi. È una vergogna che ogni domenica migliaia di poliziotti – «ricompensati» con quattordici euro lordi – debbano essere sottratti a ben più importanti incarichi per evitare i danni di questi dementi.
Gli ultrà? Via, sciò, fuori dai piedi. Che non entrino mai più, negli stadi. E se sarà necessario fermare il calcio, lo si fermi. Per una volta ha ragione Beppe Grillo: ci ha stufato, questo calcio così stressante, aggressivo, con le sue polemiche che rincoglioniscono.
Noi stiamo con la polizia, non c’è neanche bisogno di dirlo.

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