Odiare distrugge

Posté par atempodiblog le 17 octobre 2013

Il caso Priebke ce lo dimostra
Odiare distrugge
di Marina Corradi – Avvenire

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Le immagini da Albano di una folla che sputa sul feretro del centenario Priebke, e prende a calci il carro funebre che lo trasporta, lasciano addosso un malessere, un’ombra di sgomento a chi le guarda nei telegiornali. Viviamo in un Paese generato da un tessuto antico, e uno dei fili di questa trama è il virgiliano parce sepulto, pietà per chi è morto. E ben sapendo chi era il capitano delle SS Erich Priebke, e che cosa orribilmente ha fatto, e che 335 furono le vittime innocenti alle Fosse Ardeatine, colpisce che settant’anni dopo la rabbia sia tanto viva e cocente da non fermarsi, incontrollabile, davanti a una bara.

Ma per capire i tafferugli di Albano occorre pensare che Erich Priebke, sì, è morto, ma gli ambienti neonazisti a lui vicini volevano usare il suo funerale per far rumore tra i vivi; e che lo stesso capitano delle SS e primo responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, si è lasciato dietro una intervista-testamento in cui in sostanza nega l’Olocausto e afferma di volere restare fedele a ciò che è stato. Allora si intuisce come la richiesta di un pubblico funerale in chiesa cercasse non pietà, ma un palcoscenico per una rivendicazione politica, e perché la Chiesa di Roma non abbia acconsentito a questa richiesta.

Saggiamente, si può dire, guardando la gazzarra attorno a un morto, e i saluti fascisti da una parte, e dall’altra la furia della piazza che gridava: «Fatelo benedire a noi». E tra quelli che alzavano una mano nel saluto romano c’erano facce di ragazzi, così fieri, così certi di aver capito la storia; e tra quelli che sputavano sul carro funebre c’erano uomini con i capelli grigi, da cui ti aspetteresti, davanti alla morte, una frazione di istante almeno di silenzio. Chiunque sia il morto, e qualunque cosa abbia fatto, silenzio. Non tanto per lui, quanto per il mistero che ha varcato; e l’arrestarsi delle parole e delle ingiurie, nella certezza che ora chi è morto è davanti a ben altro giudizio.

Invece, quella piazza di Albano è sembrata il teatro di una parallela amnesia.

Proprio alla vigilia dell’anniversario della deportazione degli ebrei romani, oltre mille dei quali non fecero ritorno, una indecente amnesia del vertiginoso male che è stato il nazismo e dell’immane crimine che è stata la Shoah. Ma, dall’altra parte della piazza, pure smemoratezza: dell’anima cristiana, del parce sepulto, dell’antico imperativo di smettere di ingiuriare, quando il nemico è morto.

Che Erich Priebke, classe 1913, nazista a vent’anni, non fosse pentito e anzi rivendicasse con orgoglio la sua storia, lo dimostra il « testamento » con cui sembra volere vivere, e provocare, anche da morto. Accettabile allora che nell’ultimo viaggio al suo feretro abbiano sputato addosso? No, e forse anche quelli che l’hanno fatto, ripensandoci, ne provano una confusa vergogna. In fondo, è un mondo come se Dio non esistesse, quello che ad Albano è stato rappresentato nell’ora di un funerale.

Con uomini che senza timore di Dio inneggiano al male, e altri che si scagliano contro un morto. Il mondo come sarebbe senza Dio e senza più umanità, proprio secondo il disegno di Hitler, dentro a una storia definita solo da uomini testardi nella ferocia e implacabili nell’odio. Ci è venuta in mente, guardando quella scena, una frase di Etty Hillesum, ebrea olandese morta ad Auschwitz a 29 anni, ricordata da Benedetto XVI in una delle sue ultime udienze.

Per le strade di Amsterdam, mentre già le deportazioni erano iniziate, Etty discuteva appassionatamente con un amico, vecchio militante comunista: «Vedi Klaas – dice Etty – non si combina niente con l’odio. Ognuno deve distruggere in se stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. (…) Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». Quei calci, quegli sputi su una bara, di che capacità di violenza raccontano, in una folla di onesti cittadini. E gli altri, con la mano lugubremente alzata nel saluto romano, settant’anni dopo. In una piazza italiana, il dramma di una smemoratezza parallela.

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I nostri figli non nati. Cinque milioni di pensieri

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

I nostri figli non nati
Cinque milioni di pensieri
di Marina Corradi – Avvenire
Tratto da: PiùVoce

“I bambini uccisi nel seno materno sono ora come piccoli angeli attorno al trono di Dio” (Messaggio di Medjugorje, 1992)

I nostri figli non nati. Cinque milioni di pensieri dans Aborto dn1h

In questa Italia dove ogni giorno si tumultua e ci si affanna e si grida, e reciprocamente ci si rinfaccia ciò che si è fatto e ciò che si è sba­gliato, può sembrare strano parlare di ciò che “non” è stato.

Ciò che non è stato mai, perché non è nato. Scor­rendo le statistiche ministeriali, vedi che dal 1978 a oggi ci sono stati in Italia cinque milioni di aborti. Perfettamente legali, certo. Ma anche chi sostie­ne il diritto all’aborto potrebbe fermarsi un mo­mento, in questa domenica di quasi acerba pri­mavera, di fronte a un pensiero: cinque milioni di figli che mancano, cinque milioni, che non sono nati.

Legale l’aborto, ma quasi clandestino il pensiero di quei bambini negati. Non se ne parla, ed è giu­dicato sconveniente ricordarlo, dalle tribune me­diatiche che contano. Come fossero cinque mi­lioni di storie private, che nessun altro riguarda­no se non quelle singole donne; e al massimo le loro malinconie, tanti anni dopo; malinconie di cui però non si usa parlare. E invece per una vol­ta, oggi che i cattolici italiani celebrano la Giornata per la vita, tra tanti pubblici rumori e clamori, vor­remmo immaginare un lungo condiviso attimo di silenzio; e che si possa per un momento resta­re zitti, nel rimpianto di quei figli che avremmo, e non abbiamo.

Chi erano, e che facce avrebbero avuto? Erano i compagni che i no­stri bambini non hanno cono­sciuto; quelli con cui non hanno giocato a pallone; quelli che man­cavano, nei banchi vuoti delle au­le di paesi spopolati. Erano quel­lo di cui nostra figlia si sarebbe in­namorata; o la ragazza che un giorno ci avrebbe resi nonni. Era­no, sarebbero stati. Il principio scoccato, il tessuto in fieri,e ogni cellula programmata. Ma non previsti, o attesi, o desiderati. Tan­tissime ragioni, e spesso umana­mente comprensibili. Eppure quante di quelle madri hanno an­cora addosso quel giorno, ta­gliente come uno strappo alla propria intima natura. Non sono stati; sospinti indietro, clandesti­ni, invisibili ombre cancellate. Si può almeno averne memoria, e dare voce a un rimpianto che molte conservano gelosamente per sé? Quante, vedendo una fol­la di ragazzi all’uscita da scuola u­na mattina, sono attraversate da un sottile doloroso pensiero: a­vrebbe la stessa età, “lui”.

Ma poiché i figli non sono solo fi­gli nostri, quel rimpianto dovreb­be essere collettivo. Quei bambi­ni ci mancano. I primi di loro a­vrebbero trent’anni ormai. Li im­maginate? Oggi magari sarebbe­ro in piazza a gridare contro il go­verno, oppure a favore; oppure a immaginare un’altra Italia. Sa­rebbero energie e desideri, e voci nei nostri cortili vuoti; sarebbero nelle scuole a studiare, nelle uni­versità a far ricerca, a insegnare. Chi c’era poi, in mezzo agli altri, in quella folla di clandestini respinta? Forse il centravanti che a­vrebbe fatto impazzire gli stadi; o la splendida vo­ce che ci avrebbe incantati. E quali libri non leg­geremo mai, non scritti dai nostri figli non avuti? Fra di loro, non pochi il cui destino è stato decre­tato dalle analisi: anormali, malati. Inutili. Come Hawkings magari, il fisico in carrozzella? Che co­sa è stato buttato via per una diagnosi, e quali do­ni portavano con sé i figli scartati? Certo, come testimonia chi invece quei figli li ha avuti, la ca­pacità di insegnare ad amare. Milioni di storie diverse. Madri sole, o senza un sol­do, o padri inesistenti; o benpensanti famiglie, che non avrebbero tollerato; oppure posti di la­voro a rischio, o carriere che non potevano a­spettare. Cinque milioni di storie private si coa­gulano in questo vuoto collettivo – e anche forse in uno slancio, in un coraggio che ci mancano. Perché ha più fiato, un Paese che pensa ai suoi fi­gli; non si insterilisce nell’oggi, non trascura un fu­turo, che è il tempo di quei figli. Il silenzio che vor­remmo oggi è ammissione, oltre il ben noto e af­fermato “diritto”, di un censurato dolore: per ciò che non è stato. Un silenzio che dica a chi ha vent’anni oggi che un figlio, voluto o no, è più u­mano abbracciarlo; e non è questione di codici, ma di una legge più forte, più grande – come scrit­ta addosso.

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Il mistero della morte sul Cammino di san Giacomo

Posté par atempodiblog le 26 juillet 2013

Il mistero della morte sul Cammino di san Giacomo
Molte delle vittime andavano alla festa nel capoluogo galiziano per il patrono degli spagnoli: meta da sempre dei pellegrinaggi
di Marina Corradi – Avvenire

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Il rituale abbraccio alla statua del Santo

Andavano alla festa di San Gia­como, patrono di Spagna, per vedere la meraviglia della fac­ciata barocca della cattedrale nella lu­ce dei fuochi d’artificio. Andavano an­che, su quel velocissimo treno, da pel­legrini – per chiedere una grazia, o per ringraziare. La morte si è presa ottanta uomini e donne, e bambini. E la noti­zia della strage colpisce particolar­mente quei tanti che a Santiago sono andati, a piedi, lo zaino in spalla, met­tendosi ogni alba in cammino. Perchè chi è stato una volta a Santiago non si dimentica più della Galizia, e di quella cattedrale coperta sulle torri dai mu­schi, non più architettura di uomini ma quasi roccia di Dio.

La strage del treno ieri era già sul web, nel video registrato da una telecamera lungo la linea; e pareva, in quell’accar­tocciarsi di lamiere come carta, un a­troce videogioco. Solo le parole dei soc­corritori riconducono quelle immagini alla tragica realtà («Siamo entrati in un vagone, ho visto una madre con in brac­cio suo figlio: erano morti. Nel vagone e­rano tutti morti»). E il pensiero allora insiste su quei pelle­grini che non sono arrivati. Che anda­vano a Santiago, e non hanno trovato, alla fine, la cattedrale. Viene da do­mandarsi in quale disegno sia iscritta u­na morte così, a quattro chilometri dal­la meta, in una sera di festa. Pretende­remmo di capire perchè siano morti, e in tanti, così. Ma questa ribellione non conduce da nessuna parte; è un sen­tiero cieco, che respinge indietro chi ci si avventura. E allora il pensiero torna al Cammino, ai differenti Cammini che da Sud, o dall’Oceano, conducono a Santiago; tutti convergendo, nell’ulti­mo tratto, verso le torri che svettano da lontano.

Che cos’è il Cammino, per rimanere, nel­la memoria di chi l’ha fatto, un luogo ca­ro come se ci appartenesse? Innanzitut­to, come ogni pellegrinaggio, è un an­dare verso; un tendere, nella fatica, a u­na meta. Il mettersi in viaggio porta già con sé un altro sguardo, una tensione quieta che dà il ritmo al passo, e al re­spiro; tutt’altra cosa che andarsene in giro senza un definito obiettivo, come si fa da turisti, nella svagata moda della modernità. Poi, il Cammino è bellezza: le terre assolate del cuore della Spagna, o il giovane verde dei germogli a Pasqua, lungo il Camino Inglés, che arriva da set­tentrione. Bellezza centellinata nella lentezza del passo, nei profumi della ter­ra ritrovati, viaggiando a piedi.

Il Cammino è silenzio, e preghiera; nel­le Ave Maria che alleviano il peso dello zaino e la fatica. È mettersi in strada prima che sorga il sole, scoprendo come è oscura la notte nelle campagne, e qua­le desiderio si ha di vedere, a Est, il cielo farsi chiaro, men­tre gli uccelli tacciono ancora. Il Cammino è scolpito nelle rughe sulle facce dei contadi­ni galiziani che augurano: «Andate con Dio!» E anche nell’odore dell’oceano, che ar­riva insieme a grosse nuvole gonfie e morbide. L’oceano, e questo lembo estremo di ter­ra, l’avamposto che nel Me­dioevo era considerato il limi­te del mondo, finis terrae; e il sapore di un remoto confine è rimasto, negli occhi dei vecchi nelle osterie, davanti a un bic­chiere di vino. Il Cammino è dormire in un ostello affollato di sconosciuti, e sentirsi stra­namente al sicuro; e imparare a camminare più adagio, per non lasciare indietro nessuno.

E infine quando da lontano vedi le tor­ri della cattedrale, è un urto al cuore, co­me se non fosse solo il traguardo, ma, misteriosamente, il segno di un più grande destino; nella terra che accolse le spoglie dell’apostolo Giacomo, fratel­lo di Giovanni, “Boanerghes”, figlio del tuono. Infine è la penombra uterina del­la cattedrale, lucente di ori, con il suo vero occulto tesoro là, nel tabernacolo. Santiago, è un mondo che marchia chi c’è stato, e spinge a tornare – una volta ancora almeno, ci si dice, prima che sia troppo faticoso il cammino. Per questo quel treno sfracellato è, per tanti, sba­lordimento e quasi scandalo: come è possibile che non siano arrivati, quei là, quei pellegrini?

Ma il conducente piangeva, l’altra not­te, e alla radio con la stazione di Santia­go farfugliava: «Siamo umani! Siamo u­mani!», e i colleghi in centrale non ca­pivano. Siamo umani, e sbagliamo in modo devastante, accelerando a 200 al­l’ora per fotografare il tachimetro e van­tarcene, come pare abbia fatto mesi fa su Facebook quel ferroviere.

Poi, il destino degli ottanta del treno per Santiago è al di là di quanto noi possia­mo capire. Benché guardando quella madre immota con il suo bambino in braccio anche i soccorritori, nell’affan­no e nell’angoscia, forse per un attimo han pensato che quei due ormai sem­bravano in pace, nel luogo del nostro ve­ro destino.

divisore dans Medjugorje

Duecentomila ogni anno
Il cammino di Santiago de Compostela – il lungo percorso che i pellegrini fin dal Medioevo intraprendono attraverso la Francia e la Spagna per giungere al santuario dove c’è la tomba di Giacomo il Maggiore – è meta di circa 200mila persone l’anno (sono stati 192.488 nel 2012) che lo precorrono per intero, ma sono tantissimi quelli che ne fanno alcune tappe. Per il 56% sono uomini, per il 44% donne, secondo i dati ufficiali de “La Oficina del Peregrino”, che rilascia la cosiddetta «credenziale» che di volta in volta andrà timbrata nelle tappe obbligatorie. Il cammino è percorso dall’85% dei pellegrini a piedi, ma c’è anche chi lo fa in bicicletta (15%), e qualcuno anche a cavallo (0,15%).

Quasi la metà è spagnolo (49,50%), seguiti dai tedeschi (16%), dagli italiani (13%), portoghesi (11%), statunitensi (7%), irlandesi (4%) e britannici (4%).

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Il tempo che ci è dato

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2012

Benedetto tra i suoi coetanei
Il tempo che ci è dato
di Marina Corradi – Avvenire
Tratto da: Parrocchia di Colombella (Pg)

Il tempo che ci è dato dans Articoli di Giornali e News benedettoxvianziani

Sono venuto a trovare i miei coetanei, ha esordito. E poi tutte le parole lasciate da Benedetto XVI ieri in una casa per anziani di Roma hanno avuto il colore di un ritrovarsi fra vecchi compagni, discutendo fra loro di ciò che i giovani, ancora, non sanno.

Uomo fra gli uomini nei passi lenti degli ottant’anni, il Papa ha detto una cosa audace: che essere vecchi è bello, per chi si sente amato da Dio. Bello, in un’accezione che non è contemplata dai manuali per sane, atletiche e spensierate vecchiaie, come cominciano a circolarne in Occidente – mirati a vecchi possibilmente benestanti, e promettenti consumatori. Invece Benedetto ha parlato del fatto che a quell’età si fa l’esperienza del bisogno dell’aiuto degli altri; bisogno, ha detto, che lui pure sperimenta. Quella necessità di aiuto è una naturale condizione di chi invecchia; ma, ha aggiunto, «è anche un dono, nella grazia di essere sostenuti e accompagnati».

Ora, che la vecchiaia con la sua zavorra di acciacchi e la graduale erosione della autonomia possa essere « dono » proprio per quel dover domandare all’altro, è una prospettiva alquanto insolita, che, scommettiamo, non troverebbe alcun consenso in un talk show dei nostri di ogni sera. Un dono l’aver bisogno di altri per camminare, poi per mangiare, magari anche infine per lavarsi? Che cosa assurda. Anzi non è forse proprio la nostra più grande paura, insieme alla solitudine, l’immaginare di non poter più badare a noi stessi? Di dover aspettare una badante semplicemente per due passi sotto casa – su quella stessa strada che da ragazzi facevamo di corsa e ora, cos’è stato?, si è fatta lunga, e faticosa come fosse diventata una erta salita.
Che cose strane, davvero, dice il Papa: e sembra quasi parli di mondo capovolto, in cui la realtà è altra dall’apparenza su cui tutti concordiamo. Ma allora questo dono, cosa sarebbe? È l’imparare, almeno a ottant’anni, «che nessuno può vivere solo e senza aiuto», spiega Benedetto. (C’è chi lo impara molto prima, e chi mai, finché non ci è costretto). E’ l’imparare, come dice un verso di Holderlin, che «noi siamo un colloquio». Cioè non monadi tese a realizzare solo se stesse, come ci viene comandato di questi tempi, ma inesorabilmente tesi al rapporto con l’altro.

E forse più radicalmente ancora, quel bisogno della vecchiaia ci riporta alla nostra origine: creature, e dunque figli di un Creatore. Intollerabile insegnamento, se ci si è creduti per tutta la vita i padroni di sé (è questa in fondo la vertigine di paura che spinge per la prima volta l’Occidente verso l’eutanasia, come estrema prova di autodeterminazione).

Eppure, insiste il Papa dai suoi ottantacinque anni, quel bisogno di aiuto portato dalla crescente debolezza, è davvero un dono. Perché ci riporta alla verità di ciò che profondamente siamo, a un’impronta che abbiamo addosso.

Figli. Da giovani, è quasi naturale che ce ne dimentichiamo, nell’età forte dell’innamoramento, dei sogni, del mondo immenso davanti; e del fascino del denaro, e del potere. Ma viene un tempo di impotenza e povertà, che, testimonia Benedetto, è in realtà tempo di misericordia. Tempo per ritornare ciò che siamo.
Come quella vecchia signora incontrata in un grande ospizio di Milano, un giorno, sola, in un corridoio. Una donna esile, fragile, gli occhi chiari, limpidissimi; e smarrita nella demenza senile. «Scusi – ha chiesto a me che, sconosciuta, passavo – sa a che ora viene a prendermi la mamma?» E io non sapendo proprio cosa dire mi sono seduta lì accanto. Lei continuava a ripetere, fiduciosa, che la mamma certo sarebbe arrivata, prima di sera, a prenderla. Che abbia ragione lei, mi sono chiesta, con quei suoi occhi, misteriosamente di nuovo infantili? Che abbia ragione, il Papa? Forse davvero novant’anni sono il tempo che ci è dato, per poter tornare infine come bambini.

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Il bene non è inutile e la misericordia è necessaria

Posté par atempodiblog le 10 mai 2012

Perché non lasciarci travolgere dall’amarezza
di Marina Corradi – Avvenire 

Il bene non è inutile e la misericordia è necessaria dans Articoli di Giornali e News

Sull’autobus un ragazzo sui sedici anni legge un libro di scuola, intento. Accanto a lui un signore sui sessant’anni lo osserva, come diviso tra simpatia e amarezza.

Poi, giusto prima di scendere, gli fa: «Ragazzo, lascia perdere i libri. Non serve. In Italia, va avanti chi ruba». Poi le portiere si richiudono, l’uomo si allontana e lo studente, sorpreso, guarda gli altri viaggiatori, che non fiatano. Fissa il libro, lo chiude; e pensieroso osserva Milano scorrergli davanti, in una giornata come tante. Quanta amarezza e disincanto devono covare nell’animo di molti in Italia, perché un pensionato dica a uno sconosciuto adolescente: non studiare, ragazzo, qui non serve? E gli altri attorno zitti, come d’accordo, oppure semplicemente stanchi. Da questa amarezza poi, appena un passo dopo, può nascere la rabbia che pronuncia condanne prima di qualsiasi sentenza, la rabbia acre che non ha bisogno di prove per giudicare, e anzi vorrebbe soddisfazione, subito. La crisi intanto preme, in molti faticano ad arrivare a fine mese; e questo esaspera ancora gli animi e i giudizi; chi stenta ad andare avanti è meno disposto a essere generoso con il prossimo.

Può bastare una parola, magari tutta da verificare, per far precipitare chiunque nel fango, come se già tutto fosse certo, e già i giudici avessero emesso la sentenza. Fa un po’ paura questo vento, che ha in sé un odore di giacobinismo, e quasi una brutta voglia di ‘fare giustizia’ da sé; aumentando, intanto, i consensi a quelle voci che dicono che tutto è marcio, tutto da sfasciare. Ma mentre si spera che il Governo e la politica e l’Europa trovino la strada che conduca fuori da questa sacca, qualcosa almeno lo può fare ognuno di quei milioni in Italia che, magari distratti, magari lontani, comunque si riconoscono cristiani. Perché nel crescente gridare, accusare, lanciare pietre, c’è qualcosa di radicalmente non evangelico: cioè l’attitudine a sentirci, noi, del tutto innocenti. E dunque la durezza farisaica di chi ritiene, avendo la coscienza del tutto netta, di poter condannare. In una rabbia che si configura, anche, come un’eclisse della misericordia cristiana.

Coscienza netta? Ma chi davvero ce l’ha, chi, osservandosi con un minimo di attenzione, davvero può ritenersi ‘a posto’? Guardando la folla eccitata a certi comizi dell’antipolitica viene da domandarsi: e voi? Mai rubato, d’accordo; sempre lavorato, bene; ma tradire la moglie o maltrattarla, o indurla a rifiutare un figlio che arriva ‘per sbaglio’; o fermarsi a sera a raccattare una ragazza molto giovane, all’angolo di una strada; o semplicemente non vedere il vecchio solo che abita alla porta accanto, niente di tutto questo vi riguarda, davvero? Perché quel «confesso che ho molto peccato in pensieri, parole, opere…» che recitiamo in chiesa la domenica, forse distrattamente, è invece un passo essenziale della coscienza cristiana: è un guardarsi dentro e saper vedere – ogni sera, come insegnavano una volta le madri – il proprio, di male, prima che quello degli altri. E in questa coscienza scoprire di avere bisogno, disperatamente, anche noi, di misericordia; coscienza che smorza l’ira e la voglia di scagliare pietre, se ci sappiamo, per primi, bisognosi di perdono. In questo sguardo la giustizia non è affatto soppressa, ma procede e fa ciò che deve; liberi però noi dai vapori della rabbia, da quest’ansia che freme per una punizione immediata dei (presunti) colpevoli. Ansia che inquina l’aria e rende cinici e amari, tanto da dire a un ragazzino con il libro di chimica in mano: lascia perdere, studiare è inutile – il bene, in sostanza, è inutile.

Mentre ci domandiamo che cosa può liberarci dalla crisi materiale e morale che ci schiaccia, non dimentichiamo che, parlando cristiano, possiamo ricominciare ogni giorno proprio da noi. Dalla coscienza del male che anche noi facciamo; dalla memoria che anche noi siamo mendicanti di perdono, e che l’atteggiamento più umano è più vero è domandarlo, a mani aperte e vuote.

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Marina Corradi: vi racconto quella ferita « carnale » che mi ha riaperto gli occhi

Posté par atempodiblog le 17 septembre 2010

Marina Corradi: vi racconto quella ferita

L’articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola
Fonte: Il Sussidiario.net

Il reparto dell’ospedale brianzolo è vecchio ma chiaro, pulito, indaffarato in una efficienza padana. Alle otto del mattino gli inservienti lavano i corridoi in un allargarsi di odore di ammoniaca; le infermiere girano coi carrelli delle medicine, assorte e attente a preparare le dosi.

Passa un medico, nei corridoi lo apostrofano con un buongiorno cordiale – come fosse, la sua, una faccia benvoluta e fidata. Qui, pensi, di malasanità nemmeno l’ombra. Tutto va come deve andare, i pazienti tranquilli nelle camere che il cielo del mattino di settembre riempie di luce bianca.

Sì, nell’ospedale alle porte di Milano tutto va, pare, nel migliore dei modi. Ma nell’ingresso c’è su una barella una paziente appena scaricata da un’ambulanza, in attesa del ricovero. È anziana, molto pallida, ha i capelli grigi sciolti sul cuscino in una trasandatezza che certo non le è abituale; nell’abbandono del decoro abituale leggi l’ora della sofferenza, quando alle cose da poco non si bada. La donna, la cannula dell’ossigeno nel naso, respira con un po’ di fatica. Ha una infermiera accanto, non è sola; ma è lo sguardo, lo sguardo che ti butta addosso dai suoi occhi scuri, che nella quiete ordinata del piccolo ospedale ti ferisce e ti taglia.

È lo sguardo di una che ieri sera è andata a dormire tranquilla come ogni altra sera; e poi, che cosa è stato? Un sussulto del cuore, come si fosse inceppato d’improvviso, o il respiro che manca mentre i polmoni si affannano inutilmente ad allargarsi? La vecchia sulla barella ha l’aspetto di una sfollata, di una che un terremoto abbia buttato fuori di casa nella notte; incredula ancora di quello sfratto dalla proprie abituali care cose, e con negli occhi un filo sottile di educata ma spaventosa inquietudine.

Lo sguardo della sconosciuta ti resta addosso – saremo tutti, pensi, un mattino come lei, nel cuore della notte presi e ribaltati, le nostre certezze dissolte. Allora quando dopo poco incontri il medico che aspettavi ti lasci sfuggire ciò che davvero hai in mente: «Vedi – gli dici – è che non tollero più di vedere il dolore». Lui, che ha una certa età e i capelli grigi, annuisce – conosce bene il problema. Tace un momento, poi – come continuando un discorso fra voi già cominciato, anche se vi conoscete appena – risponde: «Ma, sai, io penso spesso al san Tommaso di Caravaggio, quello che mette le dita nelle piaghe del costato di Cristo, e solo allora crede. Dopo una vita da medico sono arrivato a chiedermi se non è proprio il vedere e toccare la ferita – quella degli uomini, che è quella di Cristo – ciò che ci apre gli occhi; se non è proprio attraverso il dolore che finalmente riconosciamo Cristo fra noi».

Ora stai zitta. A quella valenza delle dita di Tommaso dentro la piaga non avevi pensato mai. E ti sembra bello adesso questo ospedale dove un medico guarda così agli uomini e al loro male. Lo sguardo sbalordito della donna sulla barella, i suoi lunghi capelli grigi scomposti, come una nostra comune ferita di cui taciamo sempre; fino a quando, dopo tutta una vita, una mattina il nostro sguardo si fa pura, inerme domanda.

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Per indicare la strada verso la felicità

Posté par atempodiblog le 28 mai 2010

Ai giovani servono misure alte

Per indicare la strada verso la felicità dans Articoli di Giornali e News santopadre

Educare, cos’è? È suscitare la passione dell’io per ciò che lo circonda: per l’altro, dunque, per il « tu »; per gli uomini, per Dio – dice il Papa. Educare, è un coltivare il desiderio che ci spinge verso il reale. È, in fondo, un contagio di passione per l’uomo. Quella passione, dice il Papa, che dobbiamo risvegliare fra noi.

Nell’Aula del Sinodo Benedetto XVI parla ai vescovi italiani in assemblea generale. Due anni sono passati da quando denunciò la profondità della « emergenza educativa ». Oggi la Cei mette al centro della pastorale della Chiesa italiana dei prossimi dieci anni l’educazione. (Come chi, davanti a una casa che sembra instabile, decida di mettere mano alle fondamenta; a ciò che sta sotto, a ciò che viene prima).

E simmetricamente Benedetto, in un discorso che è lezione magistrale e augurio, va alle radici di quella difficoltà opaca, che però chi ha dei figli conosce. Quella strana resistenza a trasmettere ciò che abbiamo di buono, e prima di tutto il senso del vivere; come se qualcosa confusamente ci remasse contro, come se l’anello fra generazioni fosse incrinato. Che cosa è stato, a infrangere una trasmissione, di padre in figlio, antica, così che i padri balbettano, e i figli sembrano spesso incapaci di continuarne la storia? Per Benedetto XVI – ma ci verrebbe da dire per il professor Ratzinger, tale è la lucidità dell’analisi pure in poche righe – le radici di questo male oscuro sono due. Primo, «una falsa idea di autonomia dell’uomo», come di un «io completo in se stesso»; secondo, «la esclusione delle due fonti che da sempre orientano il cammino umano»: natura e Rivelazione. Se la natura non è più creazione di Dio, e la Rivelazione è soltanto figura di un remoto passato, vacillano gli architravi su cui poggia l’Occidente. E non c’è da stupirsi se, in questo humus ereditato, i figli disorientati cercano, senza trovarli, una direzione, e degli argini, come un fiume smarritosi sulla strada del mare.

Ma qui il professor Ratzinger passa la mano al padre: e sollecita a ritrovare la passione dell’educare. A liberare l’io dalla gabbia della fasulla autonomia in cui la modernità l’ha chiuso, e a spingerlo di nuovo al suo destino. Che è altro da sé: è la faccia, per prima, della madre, e poi i mille volti dell’altro, e quel Dio che sta dietro quei volti, e domanda di essere liberamente riconosciuto. E no, «non è una didattica, o una tecnica», educare: è abitare famiglie, scuole, parrocchie dove si incontrino facce credibili nell’annunciare che c’è un destino per ognuno, ed è buono.

Poi, la lezione di Benedetto si fa ancora più audace. Torniamo, dice, «a proporre ai figli la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione». Vocazione al matrimonio come al sacerdozio; « vocazione », comunque, a significare che la vita è risposta a una chiamata, è adesione a un disegno non nostro. E certo, questa è l’antica visione della Chiesa; ma provate, oggi, in un crocchio di ragazzi fuori da una scuola, ad affermare che la vita non è «autorealizzazione» ma vocazione, adesione al disegno di Dio su ciascuno. Tanti vi guarderebbero come dei poveri folli; perché, cresciuti nella idea dell’uomo «come un io completo in se stesso», sono magari generosi, entusiasti, altruisti; e però in un espandersi, comunque, di un io che si concepisce come origine e orizzonte di ogni gesto. Poche cose sono lontane da noi, gente del terzo millennio, come la parola « vocazione »; come l’idea che la felicità possa essere nell’adesione ai piani di un Altro.

Eppure, non è forse proprio questo il nodo più profondo della opaca fatica di educare? Siamo « nostri », o apparteniamo a un Padre? Siamo monadi proprietarie di sé, o figli, e fratelli, chiamati insieme a un destino? La sfida accolta dalla Chiesa italiana nel mettere davanti a tutto, per dieci anni, l’educazione, è grande. A questa Chiesa il Papa indica un orizzonte radicale. Educare cristianamente è testimoniare ai figli, nella dittatura dell’io, nel trionfo orgoglioso dell’umana scienza e potenza: bambino, tu sei di Dio, e quella felicità che fin dai primi passi insegui e cerchi – come a tentoni, ostinatamente – abita, davvero, solo in Lui.

di Marina Corradi – Avvenire

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Ben oltre il folle di Facebook

Posté par atempodiblog le 28 mars 2010

«Scoperti» e «cancellati»

Ben oltre il folle di Facebook dans Marina Corradi marinacorradi

Il  ’gioco’ ignobile del tiro al bersaglio sui Down, spuntato su Facebook nei giorni scorsi, è sparito dalla Rete in poche ore: a furor di popolo, nell’onda di una indignazione generale. La forza di questa sollevazione rassicura: siamo ancora in un mondo umano, verrebbe da dire, se a una simile ripugnante caccia al diverso ci ribelliamo. Possiamo magari, e legittimamente, prendercela con la incontrollabilità dei social network, o con la globalizzazione che ha fatto crollare le frontiere e reso impotenti i codici penali. Certi, però, che quel ‘gioco’ su Facebook è opera solo di un pazzo, o di un idiota. Che la sua logica («I Down sono solo un peso… come eliminarli civilmente?») è del tutto estranea alla gente normale. E, certamente, è così.

Tuttavia, nel leggere questa storia, ci torna in mente una ricerca pubblicata dal British Medical Journal tre mesi fa, sull’incidenza della sindrome di Down in Gran Bretagna (ne riferiamo a pagina 7). Dove si spiega come l’aumento dell’età media delle madri negli ultimi dieci anni abbia portato a un incremento molto forte della sindrome; compensato, però, dal progresso degli screening prenatali, sempre più estesi, così che il 70% dei bambini Down viene individuato prima della nascita. Una diagnosi? No, una sentenza capitale: il 92 % delle donne raggiunte dal responso abortisce. D etect è il verbo usato dalla dottoressa Morris, della Queen Mary University di Lontra, per indicare l’individuazione dei bambini Down. I «detected babies» ben raramente vengono al mondo. «Detected» – in italiano individuati, scoperti. E cancellati, 92 su 100. Questo è il British Medical Journal.

Come dice invece quel pazzo su Facebook? («I Down sono solo un peso… come eliminarli civilmente?»). Dove la differenza è nel tempo, in un ‘prima’ e in un ‘dopo’, tra il feto – nella mentalità corrente, un nulla – e il bambino; ma non è nella sostanza delle cose. Quelli lì, non sono desiderati. E se umanamente l’angoscia di una madre di fronte a un figlio handicappato è comprensibile, resta evidente che tutti o quasi, attorno, le dicono o le fanno capire che no, non bisogna avere un figlio così. Così semplice, così indifeso. Così bambino per sempre. La stessa Morris, intervistata da un quotidiano inglese, si è rallegrata dell’affinamento dei test prenatali. Che riconoscono, nel buio del ventre, i figli ‘sbagliati’. Chiamandoli al loro breve destino. Allora il delirio di un vigliacco che, nascosto dietro a un soprannome, ha enunciato sulla Rete il suo ‘gioco’ abietto, non sarà come il materializzarsi di un sottopensiero inconscio, indicibile, che però esiste, almeno quando si tratti di nascituri – di non ancora nati, e dunque secondo alcuni di non­uomini? (In quella frontiera del ‘prima’ e del ‘dopo’ stabilita a ferrea barriera, per difenderci da dubbi e inquietudini).

Non sarà, quel gioco di vergogna, come il lazzo di un ubriaco, che però riecheggia qualcosa che in qualche modo si è ascoltato dai sobri? («Eliminandoli civilmente»). I «detected babies» non nascono. Scovati. Presi. E ‘civilmente’ respinti. Ma il 30 % sfugge ai controlli. La dottoressa Morris lamenta che c’è uno zoccolo duro di donne, che non accetta lo screening. Che non si sottopone a un esame che è già quasi verdetto. Che si tiene quel bambino, comunque: già figlio, e non clandestino. E questo zoccolo duro di madri ribelli, meraviglia. Forse più questo, che il rigurgito su Facebook di un ubriaco: che si lascia andare, nella sua ubriachezza nella impunità della Rete, a un vergognoso, ben occultato pensiero.

di Marina Corradi – Avvenire

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Davvero la vita è bella?

Posté par atempodiblog le 15 février 2010

Davvero la vita è bella? dans Marina Corradi lager

Ho una amica che dice che la vita è bella. Bella comunque.

Ho una amica che dice che la vita è bella. Bella comunque. Bella perché si respira. E ogni volta che mi vede, questa amica mi domanda sorridendo: allora, Marina, la vita è bella? Sono certa che lo fa, benevolmente, per farmi arrabbiare. E quando me lo dice, a me viene in mente quell’ultimo particolare che ho annotato, come in un segreto taccuino, insieme a tutte le slabbrature e gli squarci che ogni giorno vedo, in questa nostra vita che mi corre davanti. Non è solo Haiti, pure con la sua deflagrante atrocità. Non è solo il Darfur, né le migliaia di aborti ogni giorno serenamente praticati in Occidente. Né è solo il presente. Un sito ebraico ha messo online le foto di centinaia di ebrei italiani morti nei lager. Molti bambini. Le foto li ritraggono prima della “partenza”, ben vestiti, ridenti, le bambine con le trecce e i fiocchi nei capelli. In queste foto “normali” è ancora più evidente la mostruosità. Ti immagini quei bambini uguali ai tuoi strappati alle madri, spinti come pecore, tra urla straniere caricati in treni che partono per sempre. In queste nostre stesse città, poco più di 65 anni fa. La vita, Anna, era bella anche quel giorno? Ed era bella in quegli istituti per orfani e handicappati di Chisinau, in Moldavia, che a distanza di dieci anni rivedo ancora come fosse ieri – quegli occhi di bambini, grandi, attoniti, come ancora meravigliati, nella loro innocenza, di tanto dolore?
E, restando nel presente, di queste storie di inermi clochard bruciati o pestati a sangue così, per gioco, vogliamo parlarne? E senza andare neanche nella cronaca nera, certe sere mi restano in mente gli occhi di qualche vecchio che rincasa solo, adagio, con una magra borsa della spesa in mano; faccia anche lui di mille profonde solitudini, quiete tra le nostre case.
No, Anna, per me la vita non è bella, almeno non come intendi tu. A vent’anni ti avrei detto, dura, che a me stare al mondo non piaceva. Ci ho messo tanto tempo, ma ora comincio a capire dove stia la bellezza della vita, così a lungo incomprensibile. La bellezza per me sta in un Dio che ora intravedo, dentro e accanto a ogni uomo, compagno di ogni passo, e curvo insieme a lui sotto a ogni sofferenza. Un Dio che si è fatto compagno, che colma di sé ogni stanza di dolore. E parallelamente la bellezza sta in una recondita ansa dell’anima, per cui anche il peggiore degli uomini, senza saperlo, tuttavia attende. Spesso non sa cosa. E però una magari infinitesima parte di lui aspetta una bellezza che si riveli.
Ripenso a me liceale che, arrabbiata, dicevo ai miei compagni: ma non vedete che tutto è una illusione? Non avevo completamente torto, ma parlavo come un lucido pagano dell’anno 100 a.C. Perché c’è una bellezza possente nella vita, ma è in Cristo. È nell’andare, per strade pigre o banali o drammatiche, affaticati e mendicanti; magari ladri e bugiardi, magari invece facce di misericordia. In attesa però: che quella Bellezza incarnata, morta, risorta, infine pienamente si riveli. Come scrive Paolo ai Corinzi: «Oggi vediamo come in uno specchio, oscuramente; ma un giorno vedremo in modo chiaro, faccia a faccia».

di Marina Corradi – Tempi

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La sola ricchezza

Posté par atempodiblog le 2 avril 2009

La sola ricchezza dans Marina Corradi Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Nella Francia delle chiese spogliate Gio­vanni Maria Vianney fu mandato in un vil­laggio dove, a detta del suo vescovo, a Dio si pensava ben poco. Eppure, quel paese di 230 anime si trovò come travolto da un turbine di decine di migliaia di pellegrini l’anno. Dall’una di notte si mettevano in coda, aspettando. Non era stato un seminarista brillante, faticava, l’ex contadino, col latino. Ma ripeteva, a messa, additan­do il tabernacolo: ‘Lui è qui’. E ne era co­sì visibilmente certo, e raggiante, che la gente non chiedeva altro. Bastava. Era, dav­vero, la sola ricchezza che cercavano, in un povero prete.

di Marina Corradi
– Avvenire

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Se perde la radice tutto può cominciare a tremare

Posté par atempodiblog le 26 novembre 2008

LA PROFEZIA DI UN GRANDE POETA
SE PERDE LA RADICE
 TUTTO PUÒ COMINCIARE A TREMARE
di Marina Corradi – Avvenire

 

Di fronte all’ansia, che trapela ogni tanto in questo o quel Paese d’Europa, di eliminare il crocifisso dai luoghi pubblici – idea subito accolta da qualche intellettuale italiano con compiacimento, quasi fosse urgente liberare aule e ospedali da quelle mute effigi di un Uomo straziato – ci viene da fare una domanda, da avanzare un dubbio, diciamo, un po’ inquieto. Forse anche perché da giorni tv e stampa non parlano che di quella ragazza in stato vegetativo, e del fatto che si vuole staccare la sonda che la nutre e disseta. 
Come una battaglia oscuramente simmetrica: il crocifisso è l’emblema della sofferenza del Dio fattosi uomo; il volto di Eluana Englaro, invisibile ma incombente nel dialogo di questi giorni, è un’icona della sofferenza degli uomini. Il crocifisso, e la donna immobile e inerme: come casualmente si combatte in due Paesi di forte tradizione cattolica perché l’uno, e l’altra, spariscano.
 
Ma dicevamo di un dubbio. Sappiamo bene che le civiltà antiche, non solo primitive ma anche progredite, eliminavano i figli imperfetti, e lasciavano moribondi e appestati al loro destino. Era questa, la norma fra gli uomini: vive il sano, il più forte, vive chi si può difendere. L’evento storico che capovolge lo sguardo sui sofferenti è il cristianesimo. È il Medioevo cristiano che inaugura in Occidente gli ospedali, e per primi quelli per i diseredati, per gli ‘ incurabili’, nome che ancora adesso portano nelle nostre città alcuni istituti.
 
La domanda allora è: procedendo nella espulsione ideale di Cristo dalla nostra forma mentale, espulsione di cui la lotta al crocifisso è un simbolo, è prevedibile, oppure no, che anche lo sguardo verso i malati subisca una lenta ma inesorabile trasformazione? Madre Teresa a chi le chiedeva perché si portava a casa i moribondi di Calcutta rispondeva che era semplicemente perché in ognuno di loro riconosceva il volto di Cristo. L’origine della carità cristiana è questa: non buonismo, non un alato altruismo, ma il riconoscere, nella faccia dell’altro sofferente, Cristo. Ma, se questo nesso si affievolisce nella memoria, se addirittura quel silenzioso simbolo sui muri suscita insofferenza e ribellione, viene da chiedersi se la buona volontà, i ‘ valori’, la umana solidarietà davvero basterebbero per continuare a praticare la carità ‘ inventata’ dai cristiani. Se basterebbero, queste pur buone intenzioni, staccate dalla loro storica radice, a continuare a trattare come uomini anche i più vecchi, i dementi, i disabili storpiati da malattie inguaribili.
 
O forse invece il naturale istinto umano davanti alla sofferenza senza rimedio è quello del rifiuto, del non volere vedere, dell’eliminare ‘ per pietà’? Le civiltà antiche lasciavano indietro inguaribili e deformi, come zavorra che un’umanità efficiente non poteva portare con sé. Il cristianesimo ha introdotto un altro sguardo. È realistico pensare che il portato del cristianesimo possa sopravvivere ‘ senza’ Cristo? Sappiamo che schiere di laici ottimisti diranno che certamente, che diamine, che i condivisi ‘ valori’ di quel Dio ucciso non hanno alcun bisogno.
 
Quanto a noi, ricordiamo inquieti un verso di Eliot dei
Cori da la Rocca: « Avete bisogno che vi si dica che persino modeste cognizioni / che vi permettono d’essere orgogliosi di una società educata / difficilmente sopravvivranno alla Fede cui devono il loro significato? » . Quel dubbio, già negli anni Trenta, come la percezione di una possibile alienata deriva. La profezia di un grande poeta avvertiva che tutto ciò che ci sembra acquisito, se perde la radice, può cominciare a tremare.

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L’ecologismo integrista

Posté par atempodiblog le 30 juillet 2008

Sporcano l’universo. Smettete di far figli

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L’ultima dalla Gran Bretagna: fate meno bambini, perché inquinano…

L’ultima dalla Gran Bretagna: fate meno bambini, perché inquinano. Il British Medical Journal pubblica l’appello del professor John Guillebaud, professore emerito di Pianificazione familiare all’University College di Londra, che esorta i suoi connazionali di andarci piano, con la riproduzione:
«Un bambino che nasce nel Regno Unito produrrà gas serra in misura 160 volte maggiore a un bambino etiope», denuncia il docente emerito, e spiega che se si vuole lasciare un pianeta abitabile ai nipoti «è opportuno non avere più di due figli». In realtà, quest’ansia pare inattuale, visto che a oggi il tasso di fecondità delle inglesi è di 1, 8 figli per donna, dunque di un figlio a coppia, al massimo due, più o meno come nel resto d’Occidente.
Ma questo non soddisfa i professori dell’«Optimum population trust», dediti ad alacri brain storm (tempeste di cervelli) sulla potenzialità inquinante di quell’invadente animale chiamato uomo. Basta fare due conti: quanto latte in polvere, quanti omogeneizzati e relativi vasetti, quanto detersivo fa consumare ogni nuovo arrivato, mentre ci distrae con quel suo candido sorriso? E i pannolini, vogliamo parlare dei pannolini, sintetici e orribilmente antiecologici? Ogni neonato ne consuma almeno cinque al giorno, per due anni fanno 3650 pannolini da riciclare – senza contare che qualcuno tarda anche di più, a imparare a non farsela addosso. E poi, crescendo, tricicli, biciclette, computer, moto. Plastica, chip, carta, ed energia, e carburante: è una massa opprimente, a pensarci, ciò che consumerà ogni nuovo venuto – con quella sua aria falsamente innocente.
E dunque, dicono dalle aule austere dell’University College, piantatela di fare tanti bambini. Bucano l’ozono, rodono le foreste amazzoniche, surriscaldano il pianeta, squagliano i ghiacci del Polo. Occorre essere responsabili, e pianificare il figlio unico come modello corretto di Famiglia Ecologicamente Sostenibile.
Un’amenità, quella del British Medical Journal, da stampa di mezza estate, quando si tirano fuori dai cassetti i resti che finora non si è osato pubblicare? No, all’«Optimum population trust» fanno sul serio.
L’appello possiede una sua logica, anche se declinata all’estremo: quella di un ecologismo integralista, che individua nell’uomo il distruttore del pianeta, e si affanna a contrastarlo in difesa di un ideale di natura incontaminata, senza strade né case né fabbriche. Un pianeta di foreste vergini, e pinguini e gnu felicemente prolificanti: dove tutte le creature si riproducono liete, tranne l’homo sapiens. L’uomo, che produce gas, e scava discariche, e inquina i cieli – l’uomo, che sporca.
È un idolo la natura per questo ambientalismo, un Eden da restaurare, ma espellendo Adamo. Che è un animale, sì, ma fastidiosamente, ostinatamente diverso: animale che immagina e crea, sempre teso ad andare oltre ciò che ha ereditato dai padri. Come da un altro stampo ricavato. Certo, l’uomo, anche, distrugge. E tuttavia, dalle palafitte al Partenone, alla scoperta del Dna, non tutto il fare dell’uomo può essere ridotto a un parassitario depredare. Ma, l’idolatria di certo ambientalismo sta proprio in questa divinizzazione di una natura intangibile, in antitesi all’operare umano, quasi che del Creato fossimo gli intrusi.
Forse, se gli accorati appelli dei Guillebaud britannici e nostrani venissero integralmente raccolti, secoli dopo l’implosione demografica e il crollo dell’economia sui ruderi delle autostrade tornerebbero a verdeggiare le foreste, e i fiumi scorrerebbero trasparenti come al principio. Un pianeta di nuovo vergine e selvaggio. Peccato che a guardarlo, e a raccontarlo, e a domandarsi chi ha creato tutto questo, non ci sarebbe più nessuno.

image11ha6 dans Marina Corradi di Marina Corradi – Avvenire

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