Morto Marcello D’Orta, il maestro autore di “Io speriamo che me la cavo”

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2013

Morto Marcello D’Orta, il maestro autore di Io speriamo che me la cavo
L’ex maestro autore di Io speriamo che me la cavo avrebbe compiuto 61 anni a gennaio. Domani i funerali
di Luisa De Montis – Il Giornale

È morto a 60 anni Marcello D’Orta, ex maestro elementare diventato famoso per aver scritto il best seller Io speriamo che me la cavo, una raccolta di temi scritti dai bambini di Arzano, nel Napoletano, e pubblicato nel 1990.

Morto Marcello D'Orta, il maestro autore di “Io speriamo che me la cavo” dans Amicizia Marcello-D-Orta
D’Orta era da tempo malato di cancro ed era impegnato nella stesura di un libro su Gesù.

La notizia è stata data dal figlio, padre Giacomo, e dalla moglie Laura. I funerali si terranno domani alle 12 nella Basilica di San Francesco di Paola, in piazza Plebiscito a Napoli.

Nato il 25 gennaio del 1953a Napoli  in una casa di Vico Limoncello, nel Centro antico, in una famiglia di dieci persone, Marcello D’Orta ha insegnato per quindici anni nelle scuole elementari. Il libro che lo ha reso famoso ha venduto in Italia due milioni di copie. Nei è stato tratto il film con Paolo Villaggio per la regia di Lina Wertmuller. Fra le sue opere Dio ci ha creato gratis, Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso, Il maestro sgarrupato, Maradona è meglio ’e Pelè, Storia semiseria del mondo, Nessun porco è signorina, All’apparir del vero, il mistero della conversione e della morte di Giacomo Leopardi, “Aboliamo la scuola, ‘A voce d’e creature”, Era tutta un’altra cosa. I miei (e i vostri) Anni Sessanta.

Da 23 anni non era più maestro proprio grazie (o per colpa del successo i Io speriamo che me la cavo Eppure lo scrittore ha sempre detto di sentirsi un maestro a tutto tondo e ha continuato a occuparsi di scuola: Se lo si è fatto con passione, maestro si rimane per tutta la vita amava ripetere.  Collaboratore di di diversi quotidiani, tra cui il Giornale, le sue opere sono state tradotte in numerosi Paesi.  Un anno e mezzo fa l’ex maestro della scuola di Arzano confidò di avere il cancro e di lottare contro la malattia anche con la scrittura: Scrivo per non morire Un modo, insomma per e scacciare indietro il male.

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Leopardi morì da cristiano? Pare proprio di sì

Posté par atempodiblog le 14 avril 2013

Leopardi morì da cristiano?
Napoli, giugno 1837. Un’indigestione porta in poche ore alla tomba il grande poeta. Le ultime ore di Leopardi sono avvolte dal mistero: c’era un sacerdote al suo capezzale? Secondo i documenti trovati da Il Timone, pare proprio di sì.
di Marcello D’Orta – Il Timone

Leopardi morì da cristiano? Pare proprio di sì dans Marcello D'Orta Giacomo-Leopardi

E’ il 14 giugno 1837, e a Napoli infuria il colera. Antonio Ranieri, l’amico di Giacomo Leopardi, che lo ospita a vico Pero, sulla strada di Capodimonte, ha finalmente convinto il poeta a trasferirsi a Torre del Greco.

La morte di Leopardi
Le ultime ore di Giacomo sono raccontate da Antonio Ranieri. Le sue parole non possono essere confermate o smentite, non esistendo altre testimonianze scritte su quel tragico momento: «S’era oramai ai primi di giugno, e Leopardi mi mercanteggiava i giorni e l’ore. S’andrà domani, s’andrà doman l’altro (…) Si fermò, finalmente, pe’ dodici di giugno (…) lasciami passare qui il tuo nome mi disse (…) Condiscesi (…) Sopraggiunse il dì tredici (…) Si preparò ogni cosa; e Paolina ed io ne andammo un momento dal vecchio padre (…) Egli non vedeva mai la suora di carità [Paolina, la sorella di Ranieri, che fungeva da infermiera del poeta. N.d.A.], che non la empisse di dolci. Quella sera le diede, tra l’altro, due cartocci di confetti cannellini, di Sulmona.
Questi cartocci (…) pesavano una libbra e mezzo ciascuno. La suora li recò difilato al suo infermo, che n’era ghiottissimo. Il dì seguente che fu quello della grande sventura, erano stati già del tutto, in poche ore, consumati».
Paolina, dunque, “smista” i cartocci di confetti ricevuti dal padre a Giacomo, pur sapendo che non può mangiarne. I medici, infatti, glielo avevano proibito in più occasioni. E c’è di più, perché la “suora di carità”, il giorno seguente, non rifiuta al conte una doppia limonata fredda, che segue di poco «un’abbondante colazione di cioccolate» e alcuni sorsi di un brodo caldo. Giacomo comincia a sentirsi male: ha sullo stomaco un chilo e più di confetti, una tazza di cioccolata, una limonata ghiacciata e mezza scodella di brodo caldo.
Affannato chiede a Ranieri di un dottore. Il sodale corre dal dottor Mannella. In poco tempo raggiungono vico Pero, entrano in casa. Mannella, come vede il poeta, sussurra a Ranieri di andare per un prete.

Il monaco misterioso
Ranieri manda qualcuno a cercare un sacerdote.
Nell’attesa si siede al capezzale dell’amico ormai morente. Le ultime parole di Giacomo sono rivolte a lui: «Io non ti veggo più». Quindi chiude gli occhi per sempre. Sono le cinque del pomeriggio. Muore il più grande poeta lirico del mondo.
Ma torniamo al racconto di Ranieri.
Il sodale di Leopardi sostiene che il monaco arrivò a vico Pero quando ormai era troppo tardi, e questo perché non s’era trovato un prete libero. È pur vero che si era in tempo di colera e la presenza di un sacerdote era – per così dire – molto richiesta, ma è altrettanto vero che l’abitazione del Leopardi era nelle immediate vicinanze di chiese o conventi. È dunque possibile che un sacerdote sia arrivato prima che il Poeta spirasse, e forse abbia ascoltato le sue ultime parole di pentimento. Allora perché Ranieri avrebbe mentito? La risposta la diede (se dobbiamo credere alla poetessa Alinda Ripamonti, che riferisce l’accaduto) lo stesso Ranieri al giudice Alessandro Stefanucci Ala: «In confidenza e in segreto ti dirò che Giacomo mi aveva fatto giurare di chiamargli il prete, se lo vedessi in pericolo. E così fu fatto. Ed ebbe il prete e il viatico e tutti i sacramenti». Ma allora perché Ranieri non pubblicò la verità? Lo spiega sempre al magistrato: «Fossi stato un minchione! Avrei rovinato presso i liberi pensatori il Leopardi, la cui fama presso di loro era tutta nell’incredulità».

La fede di Giacomo
Fino a qualche anno fa, pendente dalla spalliera del letto di Leopardi a Villa delle Ginestre, si poteva osservare un rosario, posto lì dalla sorella di Ranieri, Paolina, nella speranza che il Poeta potesse acquistare la fede, perduta nella prima giovinezza. I Leopardi frequentavano la Chiesa, come si evince anche dai posti riservati loro (“gens leoparda”) nella chiesa di San Vito (prospiciente il palazzo Leopardi) dove fu battezzato il poeta. Giacomo aveva iniziato i suoi studi con due religiosi, il gesuita messicano don Giuseppe Torres e l’abate don Sebastiano Sanchini. Educatore fu don Vincenzo Diotallevi. Da bambino – scriveva Monaldo a Ranieri – «voleva sempre ascoltare molte messe, e chiamava felice quel giorno in cui aveva potuto udirne di più»; all’età di circa 14 anni «temeva di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni».
Indossò la veste di abatino e portò la tonsura dall’età di 12 anni a quella di 21. Nella prima giovinezza aveva una forte devozione per san Francesco di Sales, le cui sembianze aveva riprodotto in un disegno. Aveva composto anche poesie e prose di carattere sacro, e tenuto alcuni discorsi religiosi nella chiesa di San Vito (Oratorio dei nobili). Tra questi: La flagellazione, Condanna e viaggio del Redentore al Calvario, Crocifissione e morte di Cristo, “trionfo della croce”.
Questo è uno dei tanti segni che hanno fatto credere in una conversione di Giacomo Leopardi. Gli altri sono soprattutto le sue lettere (in specie quelle indirizzate al padre) nelle quali il nome di Dio compare più volte.

«Munito dei Santissimi Sacramenti»
Nell’archivio della SS. Annunziata a Fonseca (alle spalle di vico Pero) si conserva un vecchio libro dei defunti, dove sono elencati i deceduti della parrocchia dall’anno 1834 al 1835. Questo libro mi è stato mostrato dal parroco don Raffaele Pescicolo, che qui voglio ringraziare. A pago 194, tra i morti del mese di giugno compare il nome di Giacomo Leopardi. E vi si legge: «a 15 d. D. Giacomo Leopardi Conte, figlio di D. Monaldo e Adelaide Andici, di anni 38. munito de’ SS. Sag.ti, morto a 14 d. Sepolto idem, dom.to Vico Pero n°. 2». Chi sostiene la tesi che il Poeta abbia abbracciato la fede negli ultimi istanti della vita, trova conferma nella dicitura «munito dei SS. Sag.ti» (Santissimi Sacramenti). Altri sostengono che la formula «munito dei SS. Sag.ti», nell’Ottocento, era più che altro una frase convenzionale.
Fra i testimoni oculari della morte di Leopardi pare ci fosse anche il notaio Leonardo Anselmi, che dichiarò: «Mi trovai in casa Ranieri il giorno della morte del conte. Verso le 4 pomeridiane il Leopardi chiamò la sorella di Antonio Ranieri, la quale vestitasi in fretta uscì di casa e ritornò col Parroco, il quale verso le 6 pomeridiane gli portò il Viatico. La morte avvenne alle 8 o alle 9 di sera. A tutto questo mi trovai presente e mi ritirai verso mezzanotte». Ma le dichiarazioni più clamorose, perché palesemente contraddittorie, sono proprio quelle di Ranieri, che nel Supplemento alla notizia intorno alla vita ed agli scritti di Giacomo Leopardi afferma che padre Felice era entrato in casa nel momento stesso in cui spirava il poeta, e in due lettere a Monaldo (17 e 26 giugno 1837) scrive che «l’angelo, il quale Iddio ha chiamato alla sua eterna pace, ha fatta la più dolce, la più santa, la più serena e tranquilla morte» e «non senza essere stato munito e antecedentemente e allora stesso, dei più dolci conforti della nostra santa religione».
Se il cantore di Silvia abbia aperto gli occhi a Dio pochi momenti prima di chiuderli al mondo, con ogni probabilità non sapremo mai, ma è indubbio che tutta la sua produzione poetica sia intrisa di religiosità. Il nome di Dio non compare nei suoi canti, mentre i concetti di nulla, di solitudine, di smarrimento, di noia esistenziale, li impregnano. Eppure, si può affermare che Dio è presente anche in quegli stessi componimenti che lo negano. L’aspirazione a una realtà trascendente, l’ansia dell’infinito, lo sbigottimento degli spazi infiniti, l’amore per la natura, gli interrogativi cosmici, la consapevolezza che l’uomo è niente e tutto è vanità, fanno dell’opera poetica di Giacomo Leopardi una delle più alte e commoventi testimonianze religiose del nostro tempo. Questo lo sapeva bene don Giussani, che ripeteva poesie di Leopardi tutti i giorni, che accostava l’autore dell’Infinito a Pascal, che (addirittura) recitava “brani delle sue poesie come ringraziamento alla Santa Comunione”. All’indomani della morte di Giacomo Leopardi, la sorella Paolina scrisse nel suo diario: «Addio caro Giacomo, quando ci rivedremo in Paradiso?».
Possa Iddio aver esaudito il suo desiderio.

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Napoli: filo diretto col Purgatorio

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2012

Napoli: filo diretto col Purgatorio
Il culto delle anime dei defunti segna l’arte e la vita quotidiana di Napoli. L’esempio di una città che, cattolicamente, rispose alle epidemie e alla morte con la fede e la fantasia. Chiese, edicole, devozioni personali parlano all’uomo del suo destino finale.
di Marcello D’Orta – Il Timone

Napoli: filo diretto col Purgatorio dans Festa dei Santi e commemorazione dei fedeli defunti Santa-Maria-delle-Anime-del-Purgatorio-ad-Arco

Si dice che Napoli sia un teatro all’aria aperta; che ogni giorno, specialmente nel centro antico, si rappresenti la Commedia dell’Arte. Nel Seicento anche le chiese di Napoli diventavano palcoscenico. Non vi si recitava l’opera buffa ma il dramma, il dramma della morte e del dolore. Il sec. XVII fu il secolo delle grandi epidemie, ma anche il secolo del barocco e della Controriforma. A Napoli c’è una chiesa che riassume, per dir così, questi tre momenti “spettacolari”. Si tratta della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, altrimenti nota come Purgatorio ad Arco, o chiesa d’e cape ‘e morte.

Questo gioiello dell’architettura barocca sorge in via Tribunali, una delle più affollate e vive strade cittadine. «Chi vuol capire via Tribunali – ha scritto Adrian Martin – deve scomodarsi a scendere nella cripta del Purgatorio. Infatti, come intuire, anche approssimativamente, la totalità della vita, senza essere penetrato nel regno delle ombre? […] La famosa gioia di vivere del popolo napoletano non sarebbe altro che un roseo sentimentalismo da operetta se non vi si contrapponesse, con la stessa passione ed onnipresenza, l’amore per la morte».

Errore. Napoli non ama la morte, Napoli ama la vita. Sempre. L’ama al punto da vestire la morte dei suoi panni. Il culto delle anime del Purgatorio, che in questa chiesa trova la sua massima espressione pittorica e pittoresca (vedremo il perché), nasce proprio da questo sentimento così forte. Nell’ossario di questo tempio (al quale si accede scendendo una lugubre scala) il popolo avviò un quotidiano e confidenziale dialogo con i teschi (capuzzèlle), come si trattasse di gente ancora viva, ma con poteri particolari, primo fra tutti quello di intercedere presso Dio.

Qualunque altra civiltà al mondo avrebbe chinato il capo davanti al trionfo della Morte; Napoli oppose la sua fede e la sua fantasia. Nel 1656 la peste, dopo aver mietuto vittime in mezza Europa, si abbatté sulla città, uccidendo i tre quarti della popolazione. Il numero dei morti era così alto che, non sapendo più dove seppellire i corpi, molti furono stipati in grotte e caverne, altri sotterrati in chiese, orti, spiagge, quando non gettati nelle chiaviche o in mare. La restante popolazione, anziché volgere lo sguardo irato al Cielo, si volse ai suoi santi protettori. Furono composte in onore di San Gennaro e dell’Addolorata (la spagnolesca Vergine dal petto trafitto di spade) processioni che tra canti, preghiere e flagellamenti invocavano la protezione sulla città. Nelle grandi calamità naturali (eruzione del Vesuvio, terremoti, epidemie) e sociali (guerre, rivoluzioni, rivolte), Napoli si è sempre stretta attorno al suo patrono, e san Gennaro – come recita il titolo di un famoso libro – non ha mai detto di no.

Davanti all’ecatombe di morti, i napoletani, lungi dal perdere la speranza e arrendersi alla Parca, hanno elevato un altare alla Vita, certo ricordandosi delle evangeliche parole: «Io sono la Via, la Verità e la Vita. Chi crede in me non morirà in eterno». Fede e fantasia. Siccome la maggior parte dei morti era gettata nelle fosse comuni, chi voleva piangere un figlio, un parente, un amico scomparso, doveva recarsi negli ipogei delle chiese, dove solo i più ricchi o i prelati avevano sepoltura. Qui “adottava” un teschio tra le centinaia ammonticchiate, lo spolverava, gli dava il nome del proprio defunto e lo piangeva come tale. Non sempre il teschio rappresentava un congiunto scomparso; anzi, la pietà si indirizzava per lo più al culto delle cosiddette “anime pezzentelle”, cioè anime del Purgatorio abbandonate da tutti, anche dai parenti, per le quali nessuno versava una lacrima. «Nelle civiltà del nord si nasconde la morte – ha scritto Jean Noel Schifano – mentre qui […] costituisce un modo per comunicare ancora tra i vivi attraverso la memoria del morto. Il culto dei morti è il culto della vita. Non a caso Napoli è la città europea in cui i suicidi sono meno frequenti».

Abbiamo esordito parlando di teatralità. La Controriforma doveva ricordare a tutti la fragilità dell’essere umano, e il momento del Giudizio. Nella chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, il riferimento alla morte è costante, come attestano sculture rappresentanti teschi alati, tibie, femori incrociati, clessidre, e dipinti. Molte funzioni religiose, qui come in altre chiese della città, si svolgevano la notte, perché «giovano non poco al compungimento de’ cuori le tenebre della notte, che coll’horrore natio intimorendo gli animi gli dispongono più attamente a’ colpi del divino timore». Le prediche avevano come soggetto la morte e il castigo per i peccatori. Un momento che senz’altro potremmo definire terrificante era il “dialogo col teschio”. Il predicatore, dal pulpito, prendeva in mano un cranio e gli dava la sua voce, contraffacendola. Quando si rivolgeva al teschio lo guardava, quando era il teschio a rispondere, lo voltava verso i fedeli. Molti di questi erano colti da malore, sicché diventava «necessario al predicatore d’intermettere il discorso […] per dar luogo a gemiti e singhiozzi degli uditori, che gli impedivano di parlare».

Però, terminata la celebrazione, gli stessi animi timorosi si “riconciliavano” con i crani (e quindi con la morte) promettendogli preghiere e suffragi, in cambio di favori. Se la grazia tardava a realizzarsi, il fedele non spolverava più il teschio e poteva giungere pure a percuoterlo.

Il rapporto strettissimo fra la popolazione e le Anime del Purgatorio si evidenzia anche nel numero delle edicole votive, che a Napoli sono non meno di duemila. Molte rappresentano proprio le Anime del Purgatorio, piccole figure di creta avvolte dalle fiamme che stendono le braccia al Crocifisso o alla Madonna. Ogni edicola ha il suo “curatore”, cioè l’abitante del vicolo che controlla la freschezza dei fiori o il corretto funzionamento dell’impianto di illuminazione.

«Vi erano [nell’ipogeo] delle ragazze, anche giovani e belle, che si alzavano in punta di piedi per sussurrare al teschio, con un bacio quasi appassionato, la loro preghiera segreta» (Gustav Herling). È superstizione, questa, o (straordinaria) testimonianza di fede?

Ricorda
«Che cos’è il purgatorio?
Il purgatorio è lo stato di quanti muoiono nell’amicizia di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione, per entrare nella beatitudine celeste.

Come possiamo aiutare la purificazione delle anime del purgatorio?
In virtù della comunione dei santi, i fedeli ancora pellegrini sulla terra possono aiutare le anime del purgatorio offrendo per loro preghiere di suffragio, in particolare il Sacrificio eucaristico, ma anche elemosine, indulgenze e opere di penitenza».

(Catechismo della Chiesa Cattolica, Compendio, nn. 210211).

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