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La storia di Húrin: una voce di speranza cristiana in un mondo triste, brutto e disperato

Posté par atempodiblog le 4 décembre 2014

“Può darsi, se questo lo chiami cadere in basso”, replicò Túrin “può darsi. Ma così è andata; e le parole mi sono rimaste chiuse in gola. Ho letto rimprovero, negli occhi di Mablung, senza che me ne chiedesse ragione, per un atto che non avevo commesso. Fiero era il mio cuore d’Uomo, come ha detto il Re degli Elfi. E tale è ancora, Beleg Cúthalion. Né ancora sopporta che io ritorni in Menegroth e mi attiri sguardi di pietà e perdono, come un ragazzino scapestrato e pentito. Dovrei essere io a concedere, non già a ricevere, perdono. E non sono più un ragazzo, bensì un uomo, secondo quel che è tipico della mia razza; e un uomo tenace per mia sorte”.

J. J. R. Tolkien – I figli di Húrin

La storia di Húrin: una voce di speranza cristiana in un mondo triste, brutto e disperato dans John Ronald Reuel Tolkien dc4uh2

[…] in questo racconto drammatico e oscuro c’è […] tutta un’allegoria di radice religiosa. Tutta l’opera del grande scrittore è infatti intrisa di significati e simbolismi religiosi: Morgoth, ad esempio, un tempo era un angelo, proprio come Lucifero. Ma per rabbia, superbia e invidia aveva abbandonato Dio e aveva iniziato una terrificante lotta contro di lui e contro il suo creato, tra cui elfi e uomini.

Se in questo libro Tolkien scrive di situazioni in cui è il male che sembra prevalere, e dove si sente la nostalgia dell’umorismo e dell’ottimismo dei piccoli grandi Hobbit, tuttavia anche in questa vicenda tragica riesce a far trasparire la speranza cristiana che il male possa essere redento.

Non è pessimismo, dunque, ma realismo cristiano, lo stesso che lo aveva aiutato ad affrontare le difficoltà della vita reale. A conferma della profonda ispirazione religiosa, e peculiarmente cattolica, della sua opera, ci sono le parole che lo stesso Tolkien scrisse in una lettera al padre gesuita Robert Murray: «Dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so». Fa parte del simbolismo cristiano […] anche lo stesso concetto di eroe: un eroe del sacrificio, e della rinuncia del potere, ovvero del male. E non c’è amore più grande di quello di chi sacrifica la vita per i propri amici.

[…]

La storia di Hurin, così come tutta l’opera di Tolkien, non è solo spettacolarità e battaglie, è anche una grandiosa rappresentazione della condizione umana, è una riflessione mitica, intrisa di fascino e di bellezza, sulle questioni umane fondamentali. E’ anche una voce di speranza cristiana che grida in un mondo triste, brutto e disperato.

di Paolo Gulisano

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Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori

Posté par atempodiblog le 2 juin 2014

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Nella nostra cultura occidentale la tradizione cavalleresca è ancora forte, benché, come prodotto della cristianità (e tuttavia tutta un’altra cosa dall’ etica cristiana) i tempi le siano ostili. Idealizza l’amore – e può essere una cosa positiva, perché comprende molto più che il piacere fisico e prescrive se non proprio la purezza, almeno la fedeltà, e quindi la negazione di sé, il «servizio», la cortesia, l’onore e il coraggio.

Il suo punto debole è, naturalmente, la sua origine di divertimento artificiale praticato nelle corti, un modo di godere dell’amore in sé stesso, senza nessun riferimento (anzi negandone la validità) al matrimonio. Il suo centro non era Dio, ma divinità artificiose, l’Amore e la Dama. Tende tuttora a fare della Dama una specie di faro-guida o di divinità: un assioma ormai passato di moda.[...] Anche la donna è un essere umano caduto e anche la sua anima è in pericolo. [Questa tradizione] penso che presenti dei pericoli. Non è completamente vera e non è perfettamente «teo­centrica ». Distoglie, e ha distolto in passato, gli occhi del giovane dalle donne così come sono veramente, compagne nelle avversità della vita e non stelle-guida. Fa dimenticare i desideri, i bisogni, le tentazioni delle donne. Inculca la tesi esagerata dell’«amore vero» come di un fuoco che viene dal di fuori, un’esaltazione permanente, che non prende in considerazione gli anni che passano, i figli che arrivano, la vita di tutti i giorni ed è svincolata dalla volontà e dagli obiettivi. (Uno dei risultati è quello di far cercare ai giovani un «amore» che li tenga sempre al caldo, riparati da un mondo freddo, senza che debbano sforzarsi in nessun modo; e gli inguaribilmente romantici vanno avanti a cercare questo amore a costo di affrontare lo squallore delle cause di divorzio ).

[...] E’ un mondo corrotto, il nostro, e non c’è armonia tra i nostri corpi, la nostra mente e l’anima. Tuttavia, la caratteristica di un mondo corrotto è che il meglio non si può ottenere attraverso il puro godimento, o quella che è chiamata la realizzazione di sé (che di solito è un modo elegante per definire l’autoindulgenza, nemica della realizzazione degli altri); ma attraverso la rinuncia, la sofferenza. La fede nel matrimonio cristiano implica questo: grande mortificazione. Per un cristiano non c’è alternativa. Il matrimonio può aiutarlo a santificare e a dirigere verso un giusto obiettivo i suoi impulsi sessuali; la sua grazia può aiutarlo nella battaglia; ma la battaglia resta. Il matrimonio non lo potrà soddisfare – come un affamato può essere soddisfatto da pasti regolari.[...] Queste cose non vengono quasi mai dette – nemmeno a quelle persone cresciute nella fede della Chiesa. Quelle che vivono al di fuori sembra che non ne abbiano mai sentito parlare. Quando l’innamoramento è passato o quando si è un po’ spento, pensano di aver fatto un errore e di dover ancora trovare la vera anima gemella. Per vera anima gemella troppo spesso si scambia la prima persona sessualmente attraente che si incontra. Qualcuno che forse davvero avrebbero fatto meglio a sposare, se solo… Da qui il divorzio, per risolvere quel «se solo». E naturalmente di solito hanno ragione: avevano fatto un errore. Solo un uomo molto saggio, arrivato al termine della sua vita, potrebbe esprimere un equo giudizio su quale persona, fra tutte, avrebbe fatto meglio a sposare! Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (in un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non siano che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione).[...]

Ma anche nei paesi dove la tradizione romantica ha tanto influenzato le consuetudini sociali da far credere alla gente che la scelta di un compagno riguardi esclusivamente il giovane, solo un raro colpo di fortuna fa sì che si incontrino un uomo e una donna «destinati» l’uno all’altra e in grado di interessare un grande e splendido amore. Questa possibilità ci incanta, ci prende alla gola: moltissime poesie e moltissimi racconti sono stati scritti su questo argomento, probabilmente più numerosi che le storie d’amore reali (e tuttavia le migliori di queste storie non parlano del matrimonio felice di questi grandi amanti, ma della loro tragica separazione; come se persino nella dimensione del racconto la grandezza e lo splendore, in questo mondo corrotto, si raggiungano attraverso il fallimento e la sofferenza). In questi grandi amori, spesso amori a prima vista, cogliamo la visione, suppongo, di quello che sarebbe stato il matrimonio in un mondo incorrotto. In questo mondo corrotto abbiamo come unica guida la prudenza e la saggezza (rare nella gioventù e inutili nella ma­turità), un cuore puro e forza di volontà. [...] La mia stessa storia è così fuori dal comune, così sbagliata e imprudente che mi riesce difficile consigliarti di essere cauto. Tuttavia, le eccezioni possono giustificare la norma [...].

Al di là di questa mia vita oscura, tanto frustrata, io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: i Santi Sacramenti. [...] Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà, gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera.

Da una lettera di John R. R. Tolkien al figlio Michael (6-8 marzo 1941)

Tratto da: John R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza, Bompiani 2001.

Dal blog di Costanza Miriano

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Doni pericolosi

Posté par atempodiblog le 24 février 2014

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“I consigli sono doni pericolosi, anche se scambiati fra saggi, e tutte le strade possono finire in un precipizio. Ma cosa faresti al posto mio? Mi hai detto poco sul tuo conto; come potrei dunque scegliere meglio di te?”.

Tratto da: Il signore degli anelli, di J.R.R. Tolkien. Ed. BOMPIANI 

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Le radici profonde non gelano

Posté par atempodiblog le 19 janvier 2014

«Non tutto quel ch’è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza
E le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L’ombra sprigionerà una scintilla,
Nuova la lama ora rotta,
E re quei ch’è senza corona.

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Forse non è molto buona come poesia, ma rende l’idea, poiché la parola di Elrond non ti basta. Se ti è costata un viaggio di centodieci giorni faresti bene ad ascoltarla». [Bilbo] Si sedette con un grugnito.
«Ho scritto io quei versi», sussurrò a Frodo, «per il Dùnadan, quando mi parlò di sé per la prima volta, tanto tempo fa. Desidererei quasi non aver concluso le mie avventure e poter partire con lui quando giungerà la sua ora».

Aragorn gli sorrise, quindi si rivolse di nuovo a Boromir. «Quanto a me, ti perdono i dubbi», disse. «Rassomiglio poco alle figure di Elendil ed Isildur scolpite in tutta la loro maestà nei saloni di Denethor. Io sono soltanto l’erede d’Isildur, e non Isildur in persona. Ho avuto una vita dura e lunga, e le leghe che separano Gran Burrone da Gondor rappresentano una piccola parte dei miei viaggi. Ho attraversato molte montagne e molti fiumi, e percorso molte pianure, fin nei paesi lontani di Rhûn e Harad dove le stelle sono estranee.
Ma la mia casa è nel Nord. Qui son sempre vissuti gli Eredi di Valandil, una lunga linea ininterrotta per molte generazioni, di padre in figlio. I nostri giorni si sono fatti scuri, e siamo diminuiti; la Spada è sempre passata a un nuovo custode. E ti dirò un’altra cosa, Boromir, prima di concludere:

Siamo uomini solitari, Raminghi delle zone selvagge, cacciatori…, ma ostinati cacciatori dei servi del Nemico, che si trovano in molti luoghi, non soltanto a Mordor.
Se Gondor, Boromir, si è dimostrata una torre robusta, noi abbiamo recitato un’altra parte. Vi sono molte cose malvagie che le vostre forti mura e spade splendenti non arrestano. Sapete poco dei paesi oltre i vostri confini. Pace e libertà, dici? Poco le avrebbe conosciute il Nord, se non fosse stato per noi. Sarebbero state distrutte dalla paura. Ma quando cose oscure vengono dai colli senza case, o strisciano fuori dai boschi senza sole, esse fuggono da noi. Quali strade si oserebbe percorrere, quale la sicurezza delle silenziose campagne, o delle case dei semplici uomini nella notte, se i Numenoreani dormissero, o riposassero tutti nella tomba?
Eppure riceviamo ancora meno ringraziamenti di voi. I viaggiatori ci guardano torvi ed i contadini ci danno nomi spregiativi.

“Grampasso” mi chiama un uomo grasso che vive ad un giorno di marcia dai nemici che gli raggelerebbero il cuore o distruggerebbero la sua cittadina, se non fosse incessantemente protetta. Non desideriamo tuttavia che le cose stiano altrimenti. Se la gente semplice non conosce preoccupazioni e paura, rimarrà tale, e noi per aiutarli dobbiamo restar segreti. Questo è stato il compito della mia gente, con l’accumularsi degli anni, mentre l’erba è cresciuta.
Ma ora il mondo sta cambiando di nuovo. E’ giunta l’ora novella. Il Flagello d’Isildur è scoperto. La Battaglia è prossima. La Spada sarà nuovamente forgiata. Io verrò a Minas Tirith».

Tratto da: Il signore degli anelli, di J.R.R. Tolkien. Ed. BOMPIANI 

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Col suo Hobbit, Tolkien ha tenuto testa anche ai razzisti del Terzo Reich

Posté par atempodiblog le 26 octobre 2013

Col suo Hobbit, Tolkien ha tenuto testa anche ai razzisti del Terzo Reich
di Edoardo Rialti – Il Foglio

Col suo Hobbit, Tolkien ha tenuto testa anche ai razzisti del Terzo Reich dans John Ronald Reuel Tolkien n7ms“E’ pericoloso fare previsioni, ma potrebbe rivelarsi un classico”: è con queste parole che l’amico C. S. Lewis concludeva la sua recensione – il 2 ottobre 1937 per il Times Literary Supplement – de “Lo Hobbit” di J. R. R. Tolkien. Sono passati più di settant’anni, e alla prima neozelandese dell’adattamento cinematografico di Peter Jackson, c’erano oltre centomila persone. Una “festa a lungo attesa” – a citare “Il Signore degli anelli” dello stesso Tolkien, che nello scrivere quella che era nata come semplice narrazione della buonanotte per i suoi bambini si trovò per primo esposto e coinvolto in un viaggio narrativo dalle conseguenze inimmaginabili, che vide affiorare nella sua immaginazione un affresco sempre più vasto: “Quella del signor Baggins è iniziata come storia comica fra convenzionali e inconsistenti gnomi usciti dalle fiabe dei fratelli Grimm eppoi è arrivata ai limiti estremi della fiaba – tanto che alla fine perfino Sauron il terribile vi fa capolino”.

Fu sempre la finezza critica di Lewis a notare come la vicenda del piccolo e comico Hobbit coinvolto nel riscatto del tesoro usurpato dal drago Smaug – il più bel drago letterario che un amante di fiabe abbia mai incontrato, con la sua parlata magnifica e crudele – si facesse pagina dopo pagina sempre più epica e drammatica, tanto che persino il linguaggio si fa sempre più affine a quello delle heimsokn norrene, alle battaglie e al sentenziare nobile e austero delle contese legali nelle saghe antiche come quelle di Njall o Egill – “Vorrei inoltre chiedere quale parte della loro eredità avreste pagato ai nostri consanguinei, se aveste trovato il tesoro incustodito e noi uccisi” – e come, senza mai perdere il suo umoristico contrasto tra la tensione degli eventi e la comica inadeguatezza del suo protagonista, che da buon gentiluomo di campagna inglese si preoccupa spesso di non smarrire il fazzoletto per soffiarsi il naso, “bisogna leggere il libro personalmente per scoprire come questa mutazione sia inevitabile e come prenda velocità assieme al viaggio dell’eroe”.

E una contesa aspra come quelle che infiammavano i vichinghi, seppure condotta stavolta in punta di penna anziché di spada, aspettava proprio lo stesso Tolkien, e il suo libro, che attirò l’attenzione degli editori tedeschi Ruetten e Loening. Questi si dissero disponibili a intraprendere la traduzione del libro e ad acquistarne i diritti, cosa che non avrebbe significato poco per un semplice professore universitario dalla famiglia numerosa, che aveva già messo le mani avanti sulla possibilità di sottoporlo agli “studi della Disney (per tutte le opere della quale ho un odio sentito)”. La casa editrice tedesca, secondo le leggi del Reich, chiese a Tolkien un certificato o una auto attestazione di razza arisch, cosa che in effetti il suo cognome lasciava ben sperare. La risposta di Tolkien è un piccolo capolavoro. Alla buona creanza – “Grazie per la vostra lettera” – segue una sistematica distruzione filologica delle confuse mitologie di Hitler e compagni: “Temo di non aver capito chiaramente che cosa intendete per arisch. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati”. Fino alla stoccata finale: “Ma se voi volevate scoprire se sono di origine ebrea, posso solo rispondere che purtroppo tra i miei antenati non ci siano membri di quel popolo così dotato”.

Tolkien certamente amava la cultura tedesca e si diceva fiero delle sue origini, ma, se queste dovranno farsi indistinguibili dalla “completa perniciosità e non scientificità della dottrina della razza”, allora mancherà davvero “poco al giorno in cui un nome germanico non sarà più motivo di orgoglio”. Aveva ragione Thorin il re dei nani quando, agonizzante, fissa negli occhi l’impacciato Hobbit Bilbo, che piange perché l’amico, dopo anni di esilio e di lotte, come Mosè o i monarchi scandinavi, si vede scivolare via ciò per cui aveva tanto lottato, e morendo lo conforta: “In te c’è più di quanto tu sappia, figlio dell’occidente cortese”. Era vero: lo Hobbit non aveva tenuto la testa solo a Smaug il Magnifico o alla gara di indovinelli di Gollum, ma anche al Terzo Reich.

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J.R.R. Tolkien e le sue lingue

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2013

J.R.R. Tolkien e le sue lingue dans John Ronald Reuel Tolkien b1p
 
J.R.R. Tolkien e le sue lingue
Tolkien era un filologo che conosceva i meccanismi di funzionamento di molte lingue antiche e moderne. Non stupisce quindi che fosse in grado di idearne di nuove. Non inventò, però, le sue lingue per rendere più realistici i suoi romanzi, al contrario erano le sue creazioni linguistiche a dare continui nuovi spunti per le storie. «Nessuno mi crede quando dico che il mio lungo libro», scrive Tolkien (Lettere, n. 205) «è un tentativo di creare un mondo in cui una forma di linguaggio accettabile dal mio personale senso estetico possa sembrare reale. Ma è vero». Creare lingue era quello che Tolkien considerava il suo “vizio segreto”, come scrive in un saggio (in Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2004). Per rendere tutto più realistico, lo scrittore creò inizialmente delle “radici comuni” da cui fece poi derivare tutti i vari vocaboli di ogni lingua parlata in Arda.
Nella History of the Middle-earth (The Lost Road, p. 342), Christopher Tolkien descrive la strategia di suo padre come creatore di linguaggi in una frase formidabile: «Egli, dopotutto, non “inventò” nuovi termini e nomi arbitrariamente: in principio, li concepì entro la struttura storica, procedendo dalle “basi” o radici primitive, aggiungendo suffissi o prefissi o formando combinazioni, decidendo (o, come avrebbe detto, “trovando”) quando il vocabolo entrò nel linguaggio, seguendolo attraverso le modifiche regolari nelle forme cui sarebbe stato sottoposto, e osservando le possibilità di influenze formali o semantiche da altri vocaboli nel corso della sua storia». Queste ed altre regole per variazioni sonore furono così disegnate in modo che i linguaggi risultanti ebbero il genere di musicalità che Tolkien cercava: uno prossimo alla fonologia “finnica” (Quenya), mentre l’altro venne a suonare molto simile al gallese (Sindarin).
«Avrei preferito scrivere in elfico Il Signore degli Anelli!», ammette Tolkien (Lettere, n. 165). «Se avessi tenuto in considerazione i miei gusti piuttosto che lo stomaco del mio eventuale pubblico, ci sarebbe stato molto più elfico nel libro», aggiunge in un’altra lettera (n. 163), «vi ho lasciato quel poco elfico che poteva essere digerito dai lettori. (Scopro ora che molti ne avrebbero gradito di più» (n.165). Lo scrittore in un’altra occasione spiega che «tranne che per alcuni frammenti nella Lingua Nera di Mordor [l’iscrizione sull’Anello, una frase pronunciata dagli orchi di Barad-dur (II, p. 545) e la parola “Nazgul”], un po’ di nomi e un grido di battaglia nella lingua dei Nani, questi sono quasi interamente elfici (Sindarin e Quenya)» (n. 144). Infatti, a differenza delle lingue elfiche, di queste lingue (fatta eccezione per l’Adûnaico) si conoscono solo poche parole ritrovate nei manoscritti di Tolkien, quindi non si può sapere quanto Tolkien ne avesse ulteriormente ampliato la grammatica ed il lessico. Così, ammette lo scrittore inglese, «anche i pezzetti che ci sono richiederebbero, per avere un senso, due fonologie e due grammatiche e un numero molto maggiore di vocaboli» (n. 163). Ecco perciò l’utilità e la validità dello studio che si propone la linguistica tolkieniana.
 
Perché studiare le lingue di Arda
Una delle obiezioni ricorrenti che vengono mosse a chi si occupa di linguistica tolkieniana è proprio la domanda base: perché studiare queste lingue? Cosa c’è di tanto meritevole di impegno, in quelle che, a ben guardare, non appaiono che note di lavoro complementari alla stesura di un lungo racconto, che l’autore ha delineato principalmente per renderlo coerente e verosimile laddove vi si introducono personaggi di razze diverse dall’umana? «Per quanto mi riguarda, lo studio linguistico non era affatto nelle mie corde né nelle mie attitudini», racconta all’ArsT Gianluca Comastri. «Ma imbattersi nel sito Ardalambion mi ha aperto gli occhi su quanto le lingue siano il vero, effettivo fondamento di tutto il legendarium tolkieniano, quanto intimo sia il legame tra lingua, mito e storia del popolo che parla quella lingua – concetto espresso mirabilmente nella prefazione di Claudio Testi a Schegge di Luce, a cui rimando e che ormai sono uso citare pressoché in ogni mio intervento. Così mi parve chiaro che il primo passo per avvicinarsi alla piena comprensione dell’opera del Professore era, inevitabilmente, un passo da muovere verso gli idiomi dei popoli della Terra di Mezzo».
Nel saggio Il vizio non troppo segreto di Tolkien, reperibile su Ardalambion, Helge Fauskanger elenca diverse possibili ragioni per un tale interesse: «Proprio il fatto che nessuna grammatica elfica scritta da Tolkien sia mai stata pubblicata lo rende una affascinante sfida a break the code. O può essere puro romanticismo, una speciale forma di immersione letteraria: con lo studio dei linguaggi Eldarin, si tenta di farsi simili – proprio al loro livello mentale – agli immortali Elfi, saggi e giusti, i Primogeniti di Eru Ilúvatar, tutori dell’umanità ai suoi albori. O, meno romanticamente, si vogliono studiare le costruzioni di un talentuoso linguista e il processo creativo di un genio occupato nel suo amato lavoro. E a molti semplicemente piacciono i linguaggi elfici come a uno può piacere la musica, come elaborati e (secondo il gusto di molti) gloriosamente fortunati esperimenti di quella che Tolkien definì “eufonia”, vale a dire la ricerca di parole e vocalizzi che oltre che semplici da pronunziare siano anche gradevoli all’udito». L’essenza intima della Terra di Mezzo, come a dire del mondo come lo concepiva Tolkien, è in qualche modo catturata e contenuta in quei linguaggi. Viene spontaneo dunque il paragone con i Silmaril, i gioielli primordiali di cui si narra la leggenda nel Silmarillion, che si diceva racchiudessero nel loro purissimo corpo cristallino la Vera Luce del Reame Benedetto e che quindi scatenavano istintivamente la brama di possederli in chiunque vi posasse lo sguardo.
 

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Piace a Francesco l’hobbit inquieto

Posté par atempodiblog le 30 août 2013

Piace a Francesco l’hobbit inquieto
di Andrea Monda – Avvenire

Piace a Francesco l'hobbit inquieto dans Andrea Monda 6un6

Un po’ li ha citati lui, come nel caso di Bloy e Malègue, un po’ le notizie girano e su Jorge Mario Bergoglio lo fanno vorticosamente dal 13 marzo scorso, e quindi già si conoscono alcuni dei poeti e romanzieri preferiti da Papa Francesco: oltre ai due suddetti francesi, ecco due nomi che ci saremmo potuto aspettare, Manzoni e Dostoevskij, ma anche il poeta tedesco Hölderlin, l’argentino Borges (di cui è stato amico personale) e l’inglese Chesterton. Ma ce n’è un altro, sempre inglese, che non è ancora emerso, Tolkien, l’autore di uno dei libri più letti al mondo, Il Signore degli Anelli, che evidentemente ha raggiunto e conquistato l’attuale pontefice preso «alla fine del mondo».

Proprio sessant’anni fa, nel 1953 veniva pubblicata la prima parte della più famosa trilogia letteraria, La Compagnia dell’Anello, e venti anni dopo, esattamente il 2 settembre 1973, in Inghilterra, a Bournemouth, si spegneva l’autore del romanzo che già era diventato uno dei più grandi successi della storia della letteratura mondiale, al punto che Tolkien stesso pare abbia etichettato con l’espressione «deplorevole culto» il fenomeno di fanatismo che specie a partire dalla metà degli anni ’60 (quando negli Usa il romanzo uscirà in edizione paperback) aveva contagiato tutto il mondo anglofono e non solo. A quarant’anni dalla sua morte, oggi l’opera di Tolkien è universalmente conosciuta anche grazie alla cassa di risonanza dei film che il talentuoso regista neozelandese Peter Jackson è andato realizzando, arrivando a quota quattro, ma altri due stanno arrivando, e non è facile fare il punto e dare un giudizio sulla «eredità di Tolkien» (è questo il titolo del convegno che l’associazione culturale La Contea ha organizzato per il 5 settembre a Messina).

Forse il cespite più pregiato del vasto inventario di beni che Tolkien lascia ai lettori di oggi e di domani è rappresentato proprio dall’invenzione degli Hobbit. A parte questi piccoli ometti così buffi e al tempo stesso decisivi per lo sviluppo e l’esito della storia, tutto il resto (cavalli e cavalieri, torri e stregoni, foreste e incantesimi, spade, nani e draghi) Tolkien infatti non lo inventa ma lo attinge dall’immenso bagaglio degli antichi miti e delle leggende medioevali che da raffinato filologo conosceva perfettamente, ma gli Hobbit no, non si sa, non lo sa nemmeno lui, da dove sono spuntati. E gli Hobbit sono davvero molto interessanti; sono il «tocco di Novecento» in questa saga medioevale, sono uomini (anzi, mezzi-uomini) così comuni da essere fuori dal comune nella Terra-di-Mezzo così simile al nostro mondo; sono tutto e il contrario di tutto, forse siamo noi, lettori ad un tempo impigriti e spaesati, nostalgici non si sa bene di cosa, in quest’alba di terzo millennio. Abitano nei buchi come conigli, ma possono rivelare un coraggio da leoni, vivacchiano tra «cavoli e patate» ma vogliono incontrare «elfi e draghi», sono buffi, gretti e goffi ma tenaci e resistenti come pochi alle avversità, pieni di mille risorse (in primis un inguaribile humour) che li rende capaci di sopravvivere ai più grandi disastri. E poi, soprattutto, sono pronti.

Readiness it’s all, la prontezza è tutto, diceva Amleto, e questo è vero per alcuni tra gli abitanti della Contea, la dolce e verde regione collinare dove vegetano pigramente quasi tutti gli Hobbit della mitica Terra-di-Mezzo. Per alcuni, non per tutti: Tolkien parla solo degli Hobbit più “trasgressivi” nel senso etimologico del termine, quelli che fanno il passo al di là, che, spezzando le abitudini, si mettono in cammino e viaggiano oltre i tranquilli confini della Contea.

Sono questi Bilbo e poi suo nipote Frodo Baggins con i quali «ritorna nella letteratura contemporanea l’immagine dell’uomo che è chiamato a mettersi in cammino e, camminando, conoscerà e vivrà il dramma della scelta tra bene e male». A parlare con cognizione di causa è proprio Jorge Mario Bergoglio, che ha dedicato queste parole a Bilbo e Frodo nell’omelia per la Pasqua del 2008, in cui ha parlato anche di altri viaggiatori, Enea, Ulisse e, soprattutto, Abramo, che «chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 11,8), proprio come Frodo che, animato da un «corazón inquieto», parte fedele ad una missione, ad una «vocazione», di cui però non conosce molti dettagli e non controlla l’esito finale (come è noto dirà, nel grave momento della decisione: «Prenderò io l’anello, ma non conosco la strada»).

Al cardinale Bergoglio, e oggi a Papa Francesco, sta molto a cuore questo tema dell’uomo in cammino, che si mette in strada realizzando così il benefico «éxodo de sí mismo», proprio come dovrebbe fare una Chiesa capace di uscire dalle paludi dell’auto-referenzialità e di affidarsi ad un cammino che non è stabilito né controllato ma appunto «obbediente», che nasce cioè dall’ascolto e dall’abbandono fiducioso.

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La vera anima gemella è quella che hai sposato

Posté par atempodiblog le 24 juin 2013

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Una certa tradizione cavalleresca tende tuttora a fare della dama una specie di faro-guida o di divinità …. Tale tradizione non è completamente vera e non è perfettamente “teocentrica”. Distoglie, o ha distolto in passato, gli occhi del giovane dalle donne così come sono veramente, compagne nelle avversità della vita e non stelle-guida. …
Fa dimenticare i desideri, i bisogni, le tentazioni delle donne. Inculca la tesi esagerata dell’“amore vero” come di un fuoco che viene dal di fuori, un’esaltazione permanente, che non prende in considerazione gli anni che passano, i figli che arrivano, la vita di tutti i giorni ed è svincolata dalla volontà e dagli obbiettivi.

Uno dei risultati è quello di far cercare ai giovani un “amore” che li tenga sempre al caldo, riparati da un mondo freddo, senza che debbano sforzarsi in nessun modo . … E’ un mondo corrotto dal peccato originale, il nostro, e non c’è armonia tra i nostri corpi, la nostra mente e l’anima.
Tuttavia, la caratteristica di un mondo corrotto è che il meglio non si può ottenere attraverso il puro godimento …; ma attraverso la rinuncia, la sofferenza. La fede nel matrimonio cristiano implica questo: grande mortificazione. Per un cristiano non c’è alternativa. Il matrimonio può aiutarlo a santificare e a dirigere verso un giusto obbiettivo i suoi impulsi sessuali; la sua grazia può aiutarlo nella battaglia; ma la battaglia resta. Il matrimonio non lo potrà soddisfare mai pienamente …
Queste cose non vengono quasi mai dette – nemmeno a quelle persone cresciute nella fede della Chiesa. … Quando l’innamoramento è passato o quando si è un po’ spento, gli esseri umani pensano di aver fatto un errore e di dover ancora trovare la vera anima gemella. … Solo un uomo molto saggio, arrivato al termine della sua vita, potrebbe esprimere un equo giudizio su quale persona, fra tutte, avrebbe fatto meglio a sposare! Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (in un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato.
… Al di là di questa … vita oscura, tanto frustrata, io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: i Santi Sacramenti. … Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra ….

da una lettera di J.R.R. Tolkien al figlio Michael (6-8 marzo 1941)
Fonte: cristianocattolico.it
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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Papa Francesco e “Il Signore degli Anelli”: la via per la salvezza

Posté par atempodiblog le 10 juin 2013

Papa Francesco e “Il Signore degli Anelli”: la via per la salvezza
di Antonio Socci – Libero

Papa Francesco e “Il Signore degli Anelli”: la via per la salvezza dans Antonio Socci portigrigi

Giovanni Paolo II è stato un grande papa condottiero della libertà. Benedetto XVI è stato il vero illuminista – ha inondato di luce razionale illuminata dalla fede – un occidente ottenebrato dall’irrazionalità nichilista.
Ma né l’uno né l’altro sono stati ascoltati da questa Europa in declino che sembra correre verso il baratro.
Così – per uno spettacolare colpo di fantasia del Conclave (e dello Spirito Santo) – è arrivato papa Francesco che parla più ai piccoli e ai semplici cristiani che alle élite, alle accademie e ai salotti. Col risultato che le élite non lo capiscono. Esce da tutti i loro schemi mentali.
Ebbene, per sintonizzarsi con questo pontificato secondo me bisogna leggere “Il Signore degli Anelli” di John R. R. Tolkien. O meglio rileggerlo attraverso l’interpretazione che ne dà un monaco benedettino, Giulio Meiattini, nel libro “La discrezione di Dio”. Interpretazione che ha, sullo sfondo, il libro di Paolo Gulisano, “Tolkien: il mito e la grazia”, opera che ha il merito di mettere a fuoco la cattolicità di Tolkien.

OCCIDENTE
Padre Meiattini nota che lo scenario  su cui si muovono le vicende narrate dallo scrittore inglese è “quello, storicamente determinato, della crisi contemporanea della civiltà occidentale”, l’epoca di Spengler, Huizinga, Jasper.
Tolkien scrisse il suo poema epico negli anni fra le due guerre mondiali, quando imperversavano i due orrendi totalitarismi, nazista e comunista, e nuove minacce planetarie – come l’arma atomica – venivano apparecchiate dalla scienza.
La Terra di mezzo “possiede alcuni tratti fondamentali del Vecchio Continente, del mondo occidentale europeo” che – in rovina – si trova a dover “fronteggiare un’immensa forza negativa, violenta e distruttrice, che da Est, dalla terra di Mordor, allarga sempre più il suo raggio d’azione”.
In questo quadro l’ultimo “baluardo a difesa dell’Occidente” – come scrive Tolkien, è rappresentato dalla fortezza di Minas Tirith, eretta degli uomini di Gondor. E’ ciò che rimane di quello che fu il magnifico regno di Numenor (nome che significa appunto “regno dell’Occidente”).
Negli anni in cui l’inglese Tolkien scriveva l’Oriente era il luogo dei totalitarismi, dell’orrore e delle ideologie assassine. Proprio perché egli non volle scrivere un poema allegorico a sfondo politico, morale o religioso, ha creato un capolavoro che contiene tutte insieme queste chiavi di lettura.
Così è attuale anche oggi che la minaccia per l’Europa è cambiata. Infatti nella nostra epoca il tenebroso oriente, la terra di Mordor e l’oscuro Sauron sono impersonati da altre forze. Ma i Sauron di tutte le epoche sono accomunati dalla stessa menzogna: la pretesa di porsi al posto di Dio.

LA SPERANZA
Per questo – come scrive Gulisano – “Il Signore degli Anelli rappresenta un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della modernità”.
Anche oggi del resto sentiamo risuonare l’allarme apocalittico di Denethor, re di Gondor: “L’Occidente soccombe. Avvamperà un enorme incendio e tutto scomparirà”.
Qual è dunque – per Tolkien – la via della salvezza? Egli mette sulle labbra del grande e saggio Gandalf  l’intuizione più preziosa: “Le nostre forze sono state appena sufficienti a respingere il primo assalto. Il prossimo sarà più massiccio. Questa guerra è quindi senza speranza, come Denethor aveva intuito. La vittoria non può raggiungersi con le armi”.
Sembrerebbe un’affermazione disperata, ma poi Gandalf precisa: “Ho detto che la vittoria non si potrà raggiungere con le armi. Spero ancora nella vittoria, ma non nelle armi”.
E qui c’è la sorpresa, la grande intuizione di Tolkien, che poi è il paradosso cristiano. In chi Gandalf ripone la sua speranza? In un Eroe solitario? In una pattuglia di arditi? In una qualche stregoneria esoterica? In una nuova arma spettacolare e devastante?
No, nel giovane Frodo Baggins, uno hobbit, un ragazzino inerme, senza alcun potere, senza alcun sapere, un adolescente buono, semplice e inesperto.
E’ lui – la creatura meno tentata dall’Anello (metafora del Potere) – che si prenderà il gravoso incarico di avventurarsi nell’orrida terra del nemico e, in cima al monte Fato, gettare l’Anello nel vulcano.
Quell’Anello va distrutto perché – come dice Gandalf – “se Sauron lo riconquista, il vostro valore è vano e la sua vittoria sarà rapida e totale… se invece l’anello viene distrutto egli soccomberà”.

PER VINCERE
A prima vista viene da obiettare: perché non usare proprio l’anello di Sauron per sconfiggere lo stesso Sauron? Tolkien mostra che questa è la tentazione di tutti, ma è anche l’inganno più terribile e devastante.
“La salvezza dell’Occidente” scrive padre Meiattini “non è dunque dipendente dal potere militare o tecnologico, cose in cui Sauron non teme rivali e sulle quali edifica il suo regno, distruttivo contemporaneamente della natura e dei legami umani più veri”.
La salvezza è di natura spirituale.
“La salvezza” spiega Meiattini “dipende dal solitario cammino di un hobbit debole e inerme che porta, senza cedervi, il peso della tentazione e che alla fine distrugge la tentazione stessa, insieme all’anello che ne è l’oggetto e la fonte, vincendo non per forza propria, ma per un colpo di scena della Grazia”.
Quella di Frodo, “il Portatore dell’Anello”, è un’autentica Via Crucis, ma – osserva padre Meiattini – “chi sceglie la via della debolezza e della povertà, proprio grazie alla sua totale estraneità ai percorsi storici e mentali dell’autoaffermazione prevaricante del soggetto, sfugge alla presa dell’Occhio e dell’Ombra. Questa è l’unica mossa che Sauron non si aspetterebbe mai, l’unica che lo prenderebbe di sorpresa: che qualcuno decidesse di disfarsi dell’Anello del potere, di distruggerlo, invece di usarlo. Per lui questo sarebbe follia”.
E’ precisamente la “follia” cristiana, la “follia” di un Dio onnipotente che si fa uomo e che si lascia crocifiggere.
Conclude Meiattini: “la vera battaglia che salva l’Occidente, perciò, non è quella che si combatte sotto i bastioni di Minas Tirith, ma la battaglia del cuore, della mente e del corpo che in primo luogo Frodo sostiene per tutti”.

IL CAMMINO E LA GRAZIA
La sua “progressiva purificazione”, il sostegno della Compagnia dell’Anello, preziosa pur essendo anche i suoi membri soggetti alla caduta e al tradimento, come lui del resto (ma ce ne sono anche puri e fedeli come l’amico Sam), infine certi aiuti come quel cibo degli elfi, il “lembas”, che è una chiara metafora dell’eucarestia, segnano un cammino spirituale che porta il giovane Frodo alla salvezza del suo mondo.
Frodo vince non con l’autoaffermazione, ma proprio col sacrificio e la rinuncia. Del resto egli è il vero antieroe.
Il Novecento (quel Novecento delle ideologie che tanto hanno disprezzato il “piccolo borghese”) si è ubriacato con il culto dell’eroe, del superuomo, del Capo, delle forze storiche (la Classe, la Razza), delle entità divinizzate a cui sacrificare i popoli (il Mercato, lo Stato, il Partito, la Rivoluzione, la Scienza). Da qui è venuta e viene la minaccia e la rovina per la loro “pretesa divina”.
Invece la salvezza viene dal piccolo e debole uomo singolo, dalla sua silenziosa offerta di sé. Secondo Meiattini “è presente nell’opera di Tolkien una teologia della sostituzione vicaria che lo avvicina ad altri grandi romanzieri cattolici come Bernanos, Mauriac, Gertrude von le Fort”.
Vorrei aggiungere che lo avvicina ai santi del Novecento (cito padre Kolbe e padre Pio per tutti). Ma Frodo, il vero eroe del nostro tempo, è anzitutto il simbolo del bistrattato uomo semplice, del singolo, il fante delle due guerre mondiali, il padre di famiglia, l’uomo comune, il piccolo borghese, l’adolescente.
E’ soprattutto a lui che parla papa Francesco chiamandolo a salvare il mondo. Non con le proprie forze, ma con la Grazia.
Dice Meiattini: “è la grazia infatti la protagonista invisibile, ma palpabile del Signore degli Anelli”. E’ solo la Grazia che crea eroi veri.

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Ecco l’anello che potrebbe aver ispirato le opere di Tolkien

Posté par atempodiblog le 22 avril 2013

Ecco l’anello che potrebbe aver ispirato le opere di Tolkien dans John Ronald Reuel Tolkien anellosignoreanelli

Una nuova esposizione si apre in questi giorni presso la tenuta The Vyne, nella regione inglese dello Hampshire. In quello che una volta era l’ufficio del custode di un palazzo Tudor, è esposto un anello d’oro piuttosto bizzarro. Evidentemente troppo largo per essere indossato a mani nude, era forse pensato per essere portato sopra a un guanto.

Monile di origine romana, raffigura una testa con indosso un diadema – forse una raffigurazione di Venere – e reca una scritta (incisa a posteriori rispetto alla fusione originaria) lungo i suoi dieci lati: “SE | NI | CIA | NE | VI | VA | S | II | NDE”. Diverse fonti interpretano la scritta come una dichiarazione di fede monoteistica accorciata, visto come “Senicianus vivas in Deo”. Una fonte ottocentesca, tuttavia, suggerisce che sia più probabile “Senicia ne vivas iinde”, essendo iinde una forma troncata di una qualsiasi delle molte parole che iniziano con “INDEC” – la maggior parte delle quali indicano il disonore. Ciò si tradurrebbe in “Senicia non vive indecentemente”, il che spiegherebbe la presenza della testa di Venere come simbolo di castità e di onore. In entrambi i casi di traduzione sarebbe un bel contrappunto alla maledizione che grava su questo piccolo oggetto.

Rinvenuto nel 1785 da un contadino intento ad arare il suo campo nei dintorni di Silchester, il gioiello ha alle proprie spalle una maledizione vecchia di circa duemila anni. Trent’anni dopo il ritrovamento dell’anello, nella zona conosciuta come “Collina del Nano”, sito romano con antiche miniere e un tempio celtico dedicato al dio guaritore Nodens, venne alla luce una tavoletta con un’oscura iscrizione:

Deuo Nodenti Silvianus anilum perdedit demediam partem donauit Nodenti inter quibus nomen Seniciani nollis petmittas sanita tem donec perfera(t) usque templum [No] dentis.

Che, tradotto, vuol dire:

Al Dio Nodens: Silviano ha perso il suo anello e ha donato metà del suo valore a Nodens. Tra coloro che portano il nome di Seniziano, a nessuno di essi venga concessa la salute finché non avranno riportato l’anello al tempio di Nodens.

Benché i due reperti non siano stati rinvenuti in zone vicinissime, c’è da dire che Seniziano non è un nome comune. Evidentemente, il signor Seniziano se ne guardò molto bene dal riportare l’anello al tempio di Nodens, e anzi ci fece incidere il suo nome, con una frase il cui sottinteso è “non ho rubato quest’oggetto”. Insomma, diciamo che il nostro ladro aveva in qualche modo avvertito il peso della maledizione.

anelloromano dans John Ronald Reuel Tolkien

Nella mostra presso The Vyne è possibile osservare anche una copia della tavoletta contenente la maledizione e – udite udite – una prima edizione de Lo Hobbit. Come mai? Qual è il nesso con l’opera tolkeniana?

Semplice: nel 1929 Sir Mortimer Wheeler, impegnato negli scavi del tempio di Nodens, ebbe un’illuminazione e collegò l’anello alla tavola maledetta. Incaricò quindi John Ronald Reuel Tolkien, che a quei tempi era “solo” un professore di filologia anglosassone all’Università di Oxford, di effettuare ricerche sull’anello in questione e sulla leggenda a esso legata, nonché sull’etimologia della parola “Nodens”. Tolkien visitò il tempio varie volte in quel periodo e, l’anno successivo, iniziò a lavorare a quello che sarebbe diventato il suo primo successo letterario: Lo Hobbit, in cui il giovane protagonista Bilbo Baggins, come Seniziano, trova – o ruba? – un anello nel buio di una caverna. Non un anello qualsiasi, “un anello d’oro, un anello prezioso”, che reca una scritta ed è portatore di potere e di sventura al tempo stesso. E il precedente proprietario dell’anello, Gollum, lo maledice.

La mostra si sviluppa dunque attorno a quello che è, con tutta probabilità, uno degli oggetti ispiratori de Lo Hobbit e, quindi, della conseguente Trilogia dell’Anello.

Oltre alla sala espositiva, creata con l’aiuto della Tolkien Trust, la tenuta The Vyne ha oggi un sentiero “nanico” per i bambini e un nuovo parco giochi con gallerie circolari e collinette verdi che ricordano la casa di Bilbo, Bag End.

Infine, se vi state preoccupando per la leggenda, sappiate che finora The Vyne è rimasta sana e salva. Quindi, la maledizione sembra essere quantomeno in letargo…

Articolo a cura di Alessia Pelonzi
Tratto da: HobbitFilm.it

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Pesci e patate alla Sam Gamgee. Una ricetta hobbit

Posté par atempodiblog le 27 novembre 2012

Pesci e patate alla Sam Gamgee
Una ricetta hobbit
di Andrea Monda – RaiLibro

Pesci e patate alla Sam Gamgee. Una ricetta hobbit dans Andrea Monda atavolaconglihobbit

Nella schietta concretezza degli Hobbit è racchiuso molto del segreto di Tolkien, e del suo successo, in quegli ometti ad un tempo timidi e spavaldi, a loro modo poetici ma sempre con i piedoni (possibilmente nudi e pelosi) ben piantati per terra. Non a caso la prima battuta del Signore degli anelli è quella di Hamfast Gamgee, padre del più famoso giardiniere della Terra di Mezzo, una battuta destinata a gettare una luce per nulla sinistra sull’intera storia; sentite qua e poi, leggetene pure la ricetta! Buon appetito, pardon, buona lettura!

«Mio figlio Sam ne saprà più di me, va e viene da Casa Baggins. E’ pazzo per le storie dei vecchi tempi e sta ore ed ore ad ascoltare il signor Bilbo che le racconta. Il padrone gli ha anche Insegnato a leggere e scrivere, senza cattive intenzioni, beninteso, e spero che non ne verrà niente di male.. “Elfi e Draghi!” Gli dico. Cavoli e patate soli fatti per gente come noi. Non t’impicciare degli affari dei tuoi superiori, o ti capiteranno guai a non finire, gli dico. E lo dico anche a voi…».

ricettesamgamgee dans Cucina e dintorni

Pesci e patate alla Sam Gamgee
per 4 persone

500 g di merluzzo
500 g di patate
200 ml di latte
farina di grano duro
olio per friggere
sale
aceto per condire

Sbucciate, tagliate e asciugate le patate. Preparate i pesci,  lavateli sotto l’acqua corrente, asciugateli perfettamente, tuffateli nel latte freddo e passateli nella farina. Sistemate quindi i pesci in un setaccio e scuoteteli in modo da far cadere la farina in eccesso. Mettete abbondante olio
in una padella a bordi alti e portatelo a temperatura molto alta. Friggete subito le patate e poi passate alla frittura pochi pesci alla volta in modo che la temperatura non si abbassi mai troppo. È consigliabile friggere i pesci per circa 5 minuti, fino a quando avranno preso una doratura chiara e saranno diventati leggermente croccanti. Condite con abbondante aceto.

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La vita dell’uomo non è una tragedia, ma un felice ritorno a casa

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2012

Piccolo grande hobbit
di Alessandro Gnocchi – Il Timone

Con i suoi antieroi protagonisti, Tolkien celebra l’immutabile saldezza della verità sul bene e sul male. Una grande fiaba che ci parla del peccato e della Grazia, della fede e delle opere. Con una certezza finale: la vita dell’uomo non è una tragedia, ma un felice ritorno a casa

La vita dell’uomo non è una tragedia, ma un felice ritorno a casa dans Alessandro Gnocchi Hobbit

«Egli trasse un profondo sospiro. “Sono tornato”, disse».
Ci voleva un genio per chiudere con una simile riga le 1.258 pagine di un capolavoro come Il Signore degli Anelli. In quell’ultima riga, di cui Samvise Gamgee è protagonista assoluto, si racchiude il segreto dell’immortalità letteraria. Perché la grande epopea, la grande poesia, il grande romanzo, alla fine, non sono altro che il grande racconto del ritorno a casa. Non sono altro che la riscrittura della parabola del figlio prodigo. Perché la grande epopea, la grande poesia, il grande romanzo, alla fine, non sono altro che riti letterari dell’unica vera religione, che è quella cattolica.
L’incauto hobbit Samvise Gamgee, partito da Hobbiville per fedeltà a padron Frodo e nella speranza di incontrare gli Elfi, diventa protagonista di un’epocale battaglia contro Sauron, il Nemico. Una vera e propria epopea al termine della quale sembrerebbe che nulla possa più essere come prima. E invece no: «“Sono tornato” disse». Perché ciò che conta non muta mai. Lo spiega re Aragorn, a Eomer, nipote del Re del Mark: «Il bene e il male sono rimasti immutati da sempre, e il loro significato è il medesimo per gli Elfi, per i Nani e per gli Uomini. Tocca a ognuno di discernerli».

Epifania del sacro
Il mondo fiabesco del capolavoro di Tolkien vive nell’epifania luminosa del sacro, nel bagliore che rivela definitivamente ciò che gli uomini troppo a lungo hanno dimenticato. Per questo, nella Terra di Mezzo, può essere segno di un destino anche il semplice incontro con un Ramingo, un Re, un mago, un Elfo, un nano. L’improvvisa apparizione di queste o chissà quali altre creature producono nelle anime dei personaggi e del lettore un ordine liturgico che, improvvisamente, colloca al loro posto le cose e le parole. Frutto di sapienza letteraria che Tolkien, nel celebre saggio Sulle fiabe, chiama «subcreazione», arte di utilizzare gli elementi della realtà quotidiana per costruire un mondo coerente e vero: «Costruire un Mondo Secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una particolare abilità, una sorta di facoltà magica. Pochi si cimentano in compiti così ardui; ma quando li si affronta e li si attua in misura maggiore o minore, si ottiene un risultato artistico senza pari: arte narrativa, insomma, elaborazione di racconti nella forma primaria e più pregnante».
Nella sua spregiudicatezza antiletteraria, un inventore di fiabe come Tolkien non si preoccupa della parola, se non per considerarla un seme che, affondato nel terreno, sparisce per liberare alla luce il fiore di cui era, misteriosamente, portatore. Nasce in tal modo un linguaggio che esorta alla contemplazione e alla comunione con il divino. In cui le parole, usurate dall’incuria degli uomini, possono compiere il loro ufficio solo riattingendo alla propria forza originaria.

Il «nome delle cose»
Per questo anche le cose hanno un nome nel mondo di Tolkien. «Anduril, Fiamma dell’Occidente» la spada forgiata dagli Elfi per Aragorn, il Re destinato a tornare sul trono. «Pungolo» lo spadino che il vecchio Bilbo consegna a Frodo prima che la Compagnia dell’Anello parta per la propria missione. Anche le cose hanno un nome perché, attingendo alla forza delle origini, assolvono compiti che vanno ben oltre il profano. Si compongono in cerimonia: ciò che trasforma in scrittura una bella prosa. «Alta scrittura senza cerimonia non fu possibile mai», scrive in proposito Cristina Campo nel saggio Parco dei cervi «fosse pure occultata la cerimonia nella convenzione di un sottovoce». «Hai l’aspetto di un normalissimo Hobbit» dice Bilbo a Frodo dopo averlo convinto a indossare sotto gli abiti una cotta di maglia forgiata dalla sapienza dei Nani. «Ma adesso vi è in te più di quanto appaia in superficie». Cos’è, questo, se non puro, rituale sottovoce? Discorso che, per stupire, non ha bisogno di convocare dai quattro punti cardinali legioni di angeli e di demoni da contrapporre in lamenti grandiosi.

Nel mondo c’è qualcosa di sacro
Perché la fiaba è fatta così. Spesso si pensa che nasca dalla sazietà di un’anima al cospetto di una fantasmagoria infinitamente più grande di tutte le delizie attese per tanto tempo. E, invece, sgorga dallo stupore che si prova quando il destino ha avuto cura di disporre una realtà un poco inferiore all’aspettazione. L’artista che se ne sappia abbeverare avrà trovato una fonte di ispirazione perenne. Territorio tutt’altro che rassicurante, dato che racconta i segreti, anche quelli dolorosi della vita.
Su questo tema, nel saggio Della fiaba, scrive Cristina Campo: «A un bambino che legge viene promessa l’apparizione del re: parola rutilante. Ma la scaltra, veggente fiaba la sa più lunga di lui: “Gli araldi diedero fiato alle trombe, le porte d’oro si spalancarono. Apparve il re, pallido e triste, senza scettro né corona, tutto vestito a lutto”». Dolorosa rivelazione che, per un istante, mozza il fiato. Ma, proprio nel momento in cui la vita rallenta fino quasi a fermarsi, il bambino coglie e custodirà per sempre l’idea che nel mondo c’è qualcosa di sacro e di grande.
«Sono tornato» dice Sam, dopo essere passato indenne fra le tentazioni del potere portate nel mondo dall’Anello proprio perché ha sperimentato che nel mondo c’è qualcosa di sacro e di grande. Ma non si giunge a tanta consapevolezza attraverso un viaggio allegro e giocondo. Il territorio delle fiabe si estende fra i poli della bellezza e della paura. Lo splendore soprannaturale del bello e del vero si mostra solo dopo il superamento di terrori concreti e carnali. Non è un caso se gli eroi più grandi di questo genere letterario sono i santi: interpreti di quella fiaba assoluta, quella fiaba delle fiabe, che è il Vangelo.

La presenza della Grazia
Su questo terreno letterario, la sapienza di Tolkien sta nel rendere appena meno visibile la presenza della Grazia per chiedere più forza al dire e al fare dei suoi personaggi. All’impallidire dell’intervento divino, gli uomini sono costretti a farsi persino violenti per andare alla conquista del regno dei cieli. Poi, giunti al limitare delle loro possibilità, dove l’aria è troppo pura per essere alimento di povere creature, ritrovano il sostegno della luminosità pastosa e concreta del soprannaturale.
In un racconto come Il Signore degli Anelli, l’orizzonte si pulisce e raccoglie vicende che sanno veramente dire qualcosa all’uomo. Quelle che chiedono l’esercizio dell’occhio, organo del tragico, e dell’orecchio, organo del comico. Su scenari tragici, passati con tinte violente, l’innesto di dialoghi comici segna l’ingresso della Grazia nelle cose terrene. E si manifesta la tragicommedia, il più cristiano dei generi letterari, il versante evangelico della fiaba.
Lasciata a se stessa, la tragedia racconta l’incontro dell’uomo con la sofferenza e la morte. Ma, allo stesso tempo, è qualche cosa di più della percezione dell’ineluttabilità del morire: è la disperata opposizione a questa crudeltà. La visione tragica del mondo nasce dalla comprensione della natura come grembo originario del prodursi e dell’irrimediabile risolversi di tutto ciò che esiste. Perciò, l’uomo tragico vive in un mondo senza orizzonte, dominato dall’eterno fluire del farsi e del disfarsi.
Il cristiano, per contro, è costituito dalla capacità di sperare contro ogni male, di attendere oltre il limite umano della sopportazione, di proclamare la liberazione da ogni delusione. Un atteggiamento come questo si fonda sulla constatazione delle alterne vicende della vita per cui ci si può sempre attendere il bene nel dolore e, più distrattamente, il male nella gioia. Ma sempre con un senso, dentro un orizzonte luminoso.

Eroismo a portata di tutti
Per questo Frodo arriva fino in fondo alla sua missione. Perché Tolkien gli ha messo nel cuore tutta la propria fiducia nella Grazia e tutta la propria consapevolezza di dovervi unire le buone opere, come dire la propria fede cattolica. È con questa fede che il piccolo hobbit si avvia verso la voragine di Monte Fato trascinando dietro quel povero essere devastato dalla schizofrenia spirituale che è Gollum. In quella salita dolorosa, Frodo, per conto di Tolkien, mostra come la fede cristiana produca qualcosa di inedito e per molti versi imponderabile. Sul ciglio di Monte Fato, non opera più la semplice speranza in ciò che ci si può ragionevolmente attendere, ma la certezza dell’inattingibile, dell’inaudito, convinzione che a Dio nulla è impossibile. Pur nel dolore e nel terrore, Frodo sa che non sarà sfigurato nel grido tremendo come gli eroi della tragedia, uccisi dalle stesse potenze che li avevano generati. Lui potrà durare indefinitamente persino nell’abiezione perché una potenza oscura, sovrana e silenziosa lo sorregge, anche se è lontana e latita.

Fiat voluntas tua
E non caso, il gesto ultimo è compiuto da un oscuro hobbit, invece che da Re Aragorn o da Gandalf il Bianco. La tradizione cristiana è costitutivamente “antieroica” non perché escluda l’eroismo dal suo orizzonte, ma perché lo generalizza. L’eroismo è alla portata di tutti e non è più necessario essere una personalità riuscita per attingervi. Basta pronunciare le poche parole dell’adorazione perfetta: Fiat voluntas tua. E tutto diviene possibile.
Nella fiaba vince il folle che ragiona a rovescio. Colui che, come il santo, crede al cammino sulle acque, alle mura traversate da uno spirito ardente. Colui che, come il poeta, trae dalle parole concreti e carnali concetti, come quel geniale «Sono tornato».

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Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo

Posté par atempodiblog le 19 octobre 2012

Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo dans Citazioni, frasi e pensieri mareeq

“Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare”.

J.R.R. Tolkien

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Decidere come disporre del tempo che ci è dato

Posté par atempodiblog le 5 octobre 2012

Decidere come disporre del tempo che ci è dato dans Citazioni, frasi e pensieri

“Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!”, esclamò Frodo. “Anch’io”, annuì Gandalf, “come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”…

J.R.R. Tolkien

Tratto da: culturacattolica.it

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John R. Tolkien: “Il Signore degli anelli”, il positivismo e la bioetica.

Posté par atempodiblog le 3 avril 2012

John R. Tolkien: “Il Signore degli anelli”, il positivismo e la bioetica. dans Francesco Agnoli

Nell’Inghilterra contemporanea, patria, spesso, delle più incredibili sperimentazioni sulla vita e sull’uomo, si distinguono però, per la loro tenace ed efficace battaglia in difesa dei valori più alti, alcuni personaggi, in particolare due grandi scrittori cattolici, Gilbert Chesterton, l’inventore della figura di padre Brown, e J.R.R.Tolkien, il celebre autore de « Il Signore degli anelli ».

John R. Tolkien nasce nel1892 in sud Africa, ma ben presto si trasferisce in Inghilterra. Rimane precocemente orfano del padre e nel 1900 sua madre, Mabel, si converte dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Non è una scelta facile in Inghilterra, perché comporta l’emarginazione e la riprovazione sociale. Dall’epoca di Enrico VIII infatti, quando venivano squartati e i loro corpi disseminati agli angoli delle strade perché fungessero da monito, i cattolici sono considerati come stranieri, anche se sul finire dell’’800 la loro condizione è in parte mutata.

Presto Tolkien rimane orfano anche della madre e, pur essendo molto povero, con l’aiuto di un prete riesce ad entrare all’università di Oxford, dove studiano i rampolli dell’aristocrazia inglese. Nel 1915 viene chiamato in guerra, la I guerra mondiale, e non potendo sopportare la separazione dalla fidanzata Edith Bratt, si unisce a lei in matrimonio (nasceranno negli anni, quattro figli, uno dei quali diverrà sacerdote). Nella I guerra mondiale l’uomo scopre per la prima volta la sua piccolezza di fronte alle macchine di morte e alla tecnologia che lui stesso ha creato. Crolla così l’illusione illuminista-positivista, l’idea di un uomo capace con le sue forze, grazie alla scienza, di dominare il mondo e la realtà, totalmente, divenendo Dio a se stesso. Affonda, con lo stesso fragore e dolore del Titanic, l’idea di poter procurare la felicità e l’immortalità, qui, su questa terra. Lo scrittore Domenico Giuliotti scrive: “Era il 1913…i cervelli, finchè non si smontavano nella pazzia, funzionavano automaticamente come gli stantuffi delle macchine che avevano inventate e delle quali stavano divenendo, senza saperlo, accessori. Il mondo avvolto giorno e notte nel fumo, nel fragore e nella polvere, puzzava di morchia, di benzina, di bruciaticcio e di bestemmia. E in mezzo a questo ciclo di lordure, l’oro rotolava sulla libidine e la libidine sull’oro, in avvinghiamenti spasmodici. Sembrava che, dopo aver rifiutato il cristianesimo, alla società inebetita fosse caduta la testa e si fosse posta in adorazione, così decapitata, dinnanzi alla materia, mentre questa, divenuta, per un prodigio infernale, micidialmente intelligente, si preparava ad annientarla”.

Nel 1916 Tolkien combatte sulla Somme, in una battaglia epocale, fra le più disastrose della storia. La vita in trincea è segnata dall’ansia dell’attesa e del logoramento, dall’esposizione continua al fuoco di sbarramento, dalle nubi di gas stagnanti nell’aria, dal fango e dalla terra bruciata dalle granate e desertificata. Si diffondono, per la prima volta nella storia, una grande quantità di nuove nevrosi, figlie della guerra industrializzata: la “nevrosi del sepolto vivo”, la “simpatia isterica per il nemico”, isterie che si verificano dopo un trauma da esplosione, con i sintomi di paralisi, spasmi, mutismo, cecità e analoghi.

I medici osservano come un grosso calibro caduto vicino, o un fuoco di sbarramento prolungato danneggino il sistema nervoso del soldato ed il suo autocontrollo, generando scatti improvvisi, pianti isterici, sordità, rifiuto di avanzare, desiderio di suicidio…

Sono scenari, quelli della Somme, che torneranno ne « Il Signore degli anelli », per la descrizione della terra di Mordor, la terra dell’Oscuro Signore; così come torneranno il nemico lontano e senza volto, il coraggio, il sacrificio e il cameratismo dei soldati semplici, i tommies, i Frodo di tutti i giorni, di contro alla viltà e all’inettitudine degli ufficiali. A tale riguardo lo scrittore francese Bernanos, anche lui combattente, afferma: “Dio non ci ha lasciato che il sentimento profondo della sua assenza”; e ancora: “La maggior parte dei soldati ignorava perfino il nome di grazia…Voglio dire soltanto che forse erano stati talvolta degni di questa grazia, di questo sorriso di Dio. Infatti vivevano senza saperlo, in fondo a quelle tane fangose, una vita fraterna”, una vita fraterna, e, tante volte, eroica, alla faccia di chi la guerra la aveva voluta, per lo più meschinamente e segretamente, come nel caso dell’Italia.

Rientrato dalla guerra Tolkien crea un sodalizio di amici con Lewis, Belloc e Chesterton. I quattro si trovano ogni martedì sera in un pub per parlare di letteratura, di fede, di vicende personali. Riguardo all’amicizia Tolkien scrive: “La vita, la vita terrena, non ha dono più grande da offrirci”; e altrove, all’incirca: “quando due divengono amici si allontanano insieme dal gregge”.

Diviene poi professore all’università di Oxford, dove insegna letteratura inglese, studia i miti nordici, si reca ogni giorno a messa e fa i conti con il problema del male.

Dopo la I guerra già un’altra si prepara: la dittatura comunista asservisce duramente 180 milioni di persone, quella nazista 60 milioni di tedeschi. Ma anche la sua Inghilterra, che si ritiene al di sopra di ogni critica, esercita una forte oppressione sull’Irlanda cattolica e sulle sue colonie. E’ nella sua patria che inizia a provare “dispiacere e disgusto” di fronte all’imperialismo inglese, e a divenire, insieme a Chesterton, un amante delle “piccole patrie”, delle specificità e delle tradizioni locali, contro ogni tentativo di unificare, forzatamente o subdolamente. Il mondo non bello che lo circonda nasce dall’orgoglio, dal desiderio di potere, sugli uomini e sulla vita, che, a livello poetico, viene raffigurato nell’anello. Sauron, colui che lo ha forgiato, il Nemico, il menzognero, tende ad unificare il mondo sotto di sé, ad appiattire, a livellare le diversità, gli uomini, i nani, e gli elfi, la Contea, Gran burrone, Gondor e Rohan…Un po’ come fanno, con metodi diversi o analoghi, la Germania, la Russia, l’Inghilterra e l’America: Tolkien non risparmia nessuno. Nel suo poema Sauron vuole imporre a tutti anche la stessa lingua, il Linguaggio Nero, soppiantando così tutti gli idiomi preesistenti: Tolkien, che ama profondamente la parola e i linguaggi, come espressione della diversità multiforme delle culture, ha paura che questo possa veramente avvenire. Nel 1945, lui che apprezzava profondamente il latino liturgico, lingua solenne, maestosa, sacra, e nello stesso tempo universale, cattolica, ha paura che una lingua non della preghiera ma del commercio e del denaro, non che unifica ma che colonizza, l’inglese, il suo inglese, si affermi sulle altre lingue. Nel 1945 prospetta inoltre un mondo post-bellico massificato, omologato, globalizzato, nella lingua, l’inglese, nei gusti, in ogni cosa.

Quando scrive la sua opera più famosa Tolkien ha in mente questo mondo, il nostro, ma lo trasporta in uno mitico, metatemporale, perché sa che il problema del bene e del male è antico come l’uomo. Discende infatti dalla Caduta, termine con cui definisce il peccato originale: c’è in noi, fin da bambini, una tendenza al male che lotta con una tendenza di segno contrario. Si esprime nell’egoismo, nella superbia, nella volontà di dominio, sulle cose, talora nei rapporti con gli altri…

Per Tolkien non esiste, però, una contrapposizione manichea: non ci sono un Dio del bene e un Dio del male. Il suo riferimento filosofico è quello cristiano, da S.Agostino a S.Tommaso: Dio ha creato ogni cosa buona, omnia bona, ma ha lasciato la libertà di scegliere. Gollum, ad esempio, non è originariamente cattivo, anzi è una specie di hobbit: è l’anello a pervertirlo, rendendolo omicida e menzognero. Così Melkor e il suo servo Sauron sono semplicemente, come il Lucifero cristiano, degli angeli (Ainur) decaduti, che hanno deciso di opporsi al loro creatore, di cantare non più la sua musica armoniosa, creatrice, ma una musica propria, stridente e stonata, distruttrice. Melkor, divenuto il Nemico, assume gli attributi tipici di Satana, del diavolo: desideroso di potere, di gloria, menzognero, è, etimologicamente, “colui che è separato e che separa”, che non ama, che cerca di guastare l’opera bella, armoniosa del creatore. Abita in una terra desolata, impervia, in cui pullulano macchinari e rifiuti industriali. Non ha amici o collaboratori, ma solo servi, come Sauron, o sciocchi servitori che sperano di essere un giorno padroni, come Saruman. Del male si può infatti divenire solo servi, perché abbracciando la menzogna e il vizio si perde la propria libertà. Ciò che cerca e ciò che vuole, Sauron, è l’anello: chi lo porta assume poteri immensi ma si lascia a poco a poco soggiogare. Non è il portatore, alla lunga, che decide, ma l’anello che decide per lui. Anche dell’anello si può essere solo servi, e non è lecito usarlo, usare un mezzo cattivo per fini buoni, come vorrebbe Sauron. In una sua lettera ad un figlio, dopo lo sganciamento della bomba atomica, che aveva permesso agli americani, e quindi anche agli inglesi, di essere totalmente vincitori, Tolkien afferma: “abbiamo usato l’anello!”.

Ma se in questo tempo così “feroce” Sauron si è risvegliato, se la sua ombra si allunga da est verso le terre ancora libere e il mistero d’iniquità sembra totalmente dominante, non manca la speranza: l’ “arbitro” della storia non è Melkor, ma Dio, che appare nel libro come una sorta di Provvidenza nascosta, che affida ai suoi il compito immenso di contrastare il male, di caricarsi del “fardello”. “quando le cose sono in pericolo, qualcuno vi deve rinunciare, perderle, affinchè altri possano goderle”. A caricarsi del fardello, come un novello Cristo portatore della croce, è il piccolo Frodo, un mezzouomo, apparentemente il meno adatto di tutti. Eppure è in lui che si realizza il detto secondo cui Dio ha scelto ciò che è debole in questo mondo per confondere i forti. Frodo è una creatura mite, semplice, attaccata alla sua terra, ma capace di sacrificio: questa è la sua grande virtù! Non è chiamato, come nelle cerche dei miti e delle storie passate, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, a conquistare qualcosa, ma a rinunciare, a sacrificarsi: “E’ l’eroismo dell’obbedienza e dell’amore- scrive Tolkien-, non quello dell’orgoglio e dell’ostinazione, a essere il più alto e commovente”. Eppure Frodo non è l’eroe senza macchia, il superuomo di Nietzsche o del positivismo, ma è il mezzouomo, l’uomo di tutti i giorni, il soldato semplice inglese della I guerra, il Tolkien qualsiasi chiamato a vivere in un’epoca spaventosa, ma ciononostante, a vivere con dignità e grandezza interiore. Ha le stesse paure di tutti: “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non accadesse ai miei giorni!”, esclama di fronte a Gandalf, che gli risponde: “Anch’io, come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”. E altrove: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo”. Di fronte al compito immenso che gli è proposto Frodo acconsente e parte; porta l’anello fino a Gran Burrone, ma qui una alleanza di elfi, gnomi, uomini e hobbit, la Compagnia, è chiamata a decidere: cosa fare e a chi affidare l’anello per il viaggio finale. Nessuno sembra adatto, e allora Frodo afferma: “Prenderò io l’anello, ma non conosco la strada”. C’è, in questa affermazione, tutto il concetto che Tolkien ha di eroismo: la generosità, il non arretrare di fronte alle responsabilità (“Prenderò io l’anello”), e nello stesso tempo l’umiltà, la necessità di un aiuto di una compagnia (“ma non conosco la strada”). Se guardiamo alla vita di Tolkien, tramite le sue lettere, la Compagnia diventano la Chiesa, gli amici, e la figura di Gandalf assume i contorni dell’angelo custode.

Eppure, lungo il cammino, Frodo dovrà fare i conti con sé stesso: il male, e questo è uno dei concetti più anti-moderni espressi da Tolkien, non è solo fuori, negli altri, nei sistemi politici ecc., ma in ognuno di noi, e va combattuto con coraggio e strenua lotta interiore. Anche Frodo è preso, talora, dal desiderio dell’anello, gli viene da pensare che in fondo se lo è meritato, oppure viene tentato di non vivere fino in fondo il compito che gli è affidato: devo stare, afferma, « in guardia contro i ritardi, contro la via che pare più agevole, contro lo scrollarmi di dosso il peso che grava sulle mie spalle ».

Lotta con i nemici e lotta con se stesso. La sua forza sta nella disposizione d’animo che risulta, non senza difficoltà, vincente: il sostanziale desiderio di distruggere l’anello. La sua saggezza, ancora una volta come quella di Cristo, è una saggezza che il nemico considera « follia ». Tolkien ha certo in mente questo concetto, la « croce scandalo e follia » per le genti, quando fa dire a Gandalf: « Ebbene, che la follia sia il nostro manto, un velo dinnanzi agli occhi del nemico! Egli è molto sapiente, e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità. Ma l’unica misura che conosce è il desiderio, desiderio di potere, egli giudica tutti i cuori alla sua stregua. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare il tanto bramato potere, o che, possedendo l’anello, voglia distruggerlo: questa deve essere la nostra mira, se vogliamo confondere i suoi calcoli ». Ancora una volta il concetto che l’eroismo, in questo caso la saggezza, consiste nella rinuncia, e non nel possesso. E’, in fondo, un concetto che vale per ogni cosa: basti pensare che ogni vero amore umano, di marito, di moglie, di madre e di padre, di amico, passa dalla rinuncia, cioè dal riconoscere la presenza dell’altro, senza trasformare la persona amata in oggetto di possesso, senza volerlo stringere tra le mani, fino a soffocarlo.

La saggezza fasulla di Sauron, contrapposta alla follia di Frodo, richiama un’altra contrapposizione essenziale: quella tra Gandalf e Saruman. Entrambi rappresentano gli uomini di scienza, che sanno molto, che conoscono molto. Eppure non è dato a loro, non è dato a Gandalf, il compito più alto, quello di portare l’anello: l’intelligenza ed il sapere devono essere al servizio, e non strumento di potere. Inoltre ciò che distingue la nobiltà dei cuori non è la maggior o minor conoscenza, ma la disposizione della volontà, della libertà, al bene. La volontà, la libertà, è l’unica cosa totalmente nostra, mentre l’intelligenza ci è data. Il sapere, dicevo, è cosa buona, originariamente, come tutte, perché nasce dal desiderio naturale dell’uomo di aderire alla realtà, di leggervi dentro (intus legere). Ma come ogni cosa, anche il conoscere, la scienza, può essere usata negativamente, quando diviene orgoglio intellettuale, volontà di dominio, superbia. Saruman si illude di poter collaborare con Sauron e rimanere libero, si illude che egli voglia dividere il potere, si illude che « i saggi come noi potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo » in attesa, pur lungo un cammino di male, di plaudire « all’alta meta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine ». Saruman, come Sauron, come il diavolo Melkor, hanno un loro superbo disegno di mondo, che definiscono sapiente e ordinato, e nelle loro « fucine » plasmano mostri e manipolano creature. Non sono capaci di creare, perché questa è una prerogativa solo di Dio. Secondo la filosofia tomista infatti l’amore è diffusivo di se stesso, o, con una espressione più celebre, solo l’amore crea. I nemici del Creatore, allora, sono solo pallidi imitatori, scimmie di Dio, come Melkor, che cerca di suonare una melodia più bella di quella di Dio, e finisce solo per creare una disarmonia di suoni. Così Saruman, Sauron, Melkor, coloro che fanno cose per se stessi, per esserne i loro Signori, non creano ma manipolano, modificano, alterano, corrompono, determinando creature mostruose, ibridi, chimere come gli Orchetti. Il loro peccato è « il più grande che abbia(no) potuto commettere, l’abuso del (loro) più alto privilegio » .

E’ evidente che nel dire questo Tolkien ha presente la realtà storica del suo tempo, come noi potremmo avere la nostra: conosce le teorie di Aldous Huxley; sa che nella Germania nazional-socialista e nella Russia comunista, gli esperimenti sugli uomini si sprecano. Nelle loro « fucine » diaboliche, nelle loro moderne cliniche, medici manipolatori si accaniscono sulla vita per esserne padroni, in un’ottica di « progresso » futuro e di benessere. Si parla di esperimenti « positivi », che porteranno al miglioramento della razza umana (eugenetica), al miglioramento della vita degli uomini futuri… Come con la bomba atomica si vuole usare l’anello a fin di bene, ma non è possibile! Così i nazisti fanno nascere circa 80.000 bambini nati tramite accoppiamenti stabiliti dall’alto; Himmler fonda una associazione, chiamata Lebensborn, che sceglie donne non sposate da accoppiare a riproduttori ariani; si introducono sterilizzazioni forzate ed eutanasia; si sperimenta sulle donne incinte, per conoscere la vita del feto, la sua resistenza; si scarterebbero gli embrioni con la diagnosi pre-impianto, se fosse una tecnica già conosciuta, per selezionare i « migliori », o per decidere il sesso, o l’altezza, come avviene oggi.

Dottrine eugenetiche attraversano anche tutta la storia del socialismo: dalla « Repubblica » di Platone, in cui accanto alla comunanza di beni e di donne, si parla della necessità che lo Stato imponga chi debba accoppiarsi con chi; a « La Città del Sole » di Campanella, in cui il ministro dell’Amore è chiamato a scegliere i tempi e i soggetti dell’accoppiamento sessuale, al fine di garantire una certa purezza razziale; fino alle più recenti affermazioni dello staliniano Preobrazenskij: “Dal punto di vista socialista non ha senso che un membro della società consideri il proprio corpo come una sua proprietà privata inoppugnabile, perché l’individuo non è che un punto di passaggio tra il passato e il futuro”, tanto che alla società spetta “il diritto totale e incondizionato di intervenire con le sue regole fin nella vita sessuale, per migliorare la razza con la selezione naturale”. Del resto un’eugenetica de facto verrà attuata nei regimi comunisti asiatici, in Cina, Cambogia e Corea del Nord, tramite l’eliminazione di handicappati, invalidi, malati mentali e barboni, di coloro cioè ritenuti incapaci dell’unica attività cui il materialismo riconosce importanza: il lavoro (in Corea gli handicappati vengono ancor oggi deportati in località remote, in montagna o nelle isole del mar Giallo, mentre i nani vengono sistematicamente braccati e isolati: “La razza dei nani deve sparire” ha ordinato Kim Jong II in persona).

Tolkien aveva già visto tutto questo, insieme a tante bruttezze del mondo moderno, e aveva indicato gli antidoti: il coraggio e la purezza di Frodo, l’amicizia dei membri della Compagnia, l’utilizzo della sapienza nei limiti della giustizia, la consapevolezza che, al di là dei « muri di questo mondo », esiste un Dio che dirige la storia, nonostante la presunzione di Saruman e le sue melodie disarmoniche.

Tratto da: Francesco Agnoli, « Voglio una vita manipolata », Ares.
Fonte: Libertà e Persona

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