Mons. Cavina: «Il Coronavirus ci ricorda che siamo fragili e bisognosi di Dio»

Posté par atempodiblog le 3 mars 2020

Mons. Cavina: «Il Coronavirus ci ricorda che siamo fragili e bisognosi di Dio»
Fonte: Il Timone
Tratto da: Radio Maria

Mons. Cavina: «Il Coronavirus ci ricorda che siamo fragili e bisognosi di Dio» dans Articoli di Giornali e News cavina-madonna-227x309

Un microscopico virus sta paralizzando il mondo e la presunzione dell’uomo di essere padrone del proprio destino si trasforma immediatamente in schiavitù. Una entità talmente piccola, che nemmeno vediamo, ci domina e manda in pezzi il sogno di volere costruire il paradiso in terra.

Si tratta di un evento che, ancora una volta, ci porta a confrontarci con la verità della condizione umana, in quanto ne mette a nudo la debolezza e la fragilità. Nello stesso tempo, esso costituisce un richiamo all’esercizio della virtù dell’umiltà, la quale – quando è vera – ci porta ad inginocchiarci davanti al Signore per comprendere chi è veramente l’uomo.

Dostoevskij nell’opera I Demoni fa dire a Kirillov che la perdita di Dio da parte dell’uomo non è la morte di Dio, ma dell’uomo, che si manifesta nella paura. E l’uomo che vive nella paura è già uno sconfitto perché non è più libero. Una società dove i diritti di Dio e la preghiera non sono più ritenuti necessari è destinata alla rovina. La Chiesa ha la missione di richiamare il primato di Dio, non per la difesa di Dio – che non ha bisogno di essere difeso – ma per la difesa dell’uomo, che privato dell’adorazione, diviene un uomo mutilato.

Scrive il filosofo Gustave Thibon: «Chiudere il cerchio, per l’uomo religioso, significa compiere il ciclo che riporta a Dio ciò che è uscito da Dio. Tutto ciò che i santi di una volta sapevano della creazione era che essa deve ritornare a Dio, e la meta era più importante del cammino. Oggi conosciamo molto meglio la strada della creazione, l’abbiamo picchettata, spianata, resa carrozzabile, ma abbiamo dimenticato la meta e corriamo, precipitati alternativamente dalla falsa speranza alla vera disperazione, su una strada che non conduce da nessuna parte perché gira attorno all’uomo». (In Il tempo perduto, l’eternità ritrovata, D’Ettoris 2019, 266).

Quando l’umanità diventa vittima della grande tentazione di bastare a se stessa, per una specie di orgoglio collettivo, pretende, poi, di risolvere in assoluta autonomia i suoi problemi. Ma non è così! Un mondo ridotto solo a lavoro, organizzazione, tecnica e scienza, in cui manca la preghiera e la contemplazione, diventa una sorta di inferno.

La prova che stiamo vivendo deve portare i cristiani ad affidare i bisogni dell’umanità ferita al Signore per l’intercessione della Beata Vergine Maria. Per questo invito tutti i lettori de Il Timone, il mercoledì delle Ceneri, a pregare il santo Rosario perché anche questa sofferenza si trasformi in grazia. Il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, ricordava: «la vera città è quella in cui gli uomini hanno la loro casa e dove Dio ha la sua casa». In altre parole un’espressione visibile della dimensione dell’adorazione all’interno della società è indispensabile perché la società sia veramente umana.

Lodiamo, dunque, il Signore per la Sua grandezza; ringraziamoLo per i Suoi doni; rivolgiamo a Lui la nostra supplica perché soccorra le nostre povertà, perdoni i nostri peccati e i nostri errori e ci faccia conoscere la gioia di ritornare a Lui, sorgente della vera vita e compimento di ogni desiderio.

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Gustave Thibon, testimone della speranza

Posté par atempodiblog le 2 septembre 2015

Gustave Thibon, testimone della speranza
Vita e opere di un Socrate cristiano nato e morto in terra di Francia. Una saggezza profonda alimentata dal silenzio e dalla comunione coi ritmi naturali – stile che gli valse l’epiteto di “filosofo contadino”. Ne promana un messaggio dirompente per l’Occidente disperato nella sua immemore sazietà
di Emiliano Fumaneri – La Croce – Quotidiano

gustave thibon

Urge nel nostro tempo, così affascinato dalla confusione tra naturale e artificiale, la riscoperta di una grande figura del cattolicesimo francese del XX secolo. Alludo al «filosofo contadino» Gustave Thibon, l’uomo che come pochi altri ha insistito sulla necessità di un «ritorno al reale» (l’espressione che dà il titolo alla sua opera più conosciuta).

Col Rinascimento e la Riforma protestante all’homo simplex aristotelico e cristiano, nel quale soma e pneuma convivono in armonica e dinamica unità, si è progressivamente sostituito un homo duplex caratterizzato dal dualismo e dall’irriducibile scissione di spirito e vita. Tra i due, Thibon prende chiaramente le parti dell’homo simplex. Per lui, infatti, esiste una intima solidarietà tra lo spirito e la vita: «Lo spirito e la vita», scrive, «sono fatti per essere uniti e distinti».

Il reale non è un cumulo di esperienze e fatti sconnessi. Esso possiede una norma oggettiva di verità istillata dal Creatore, origine e fine di tutte le cose. È questa norma a determinarne l’ordine. Solo allora è possibile, analogamente alle leggi che regolano il funzionamento dell’organismo umano, distinguere anche una fisiologia e una patologia del corpo sociale.

Il contatto con la terra è al centro delle attenzioni di Thibon, che nasce il 2 settembre 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche, un piccolo borgo agricolo del Basso Vivarese. È il figlio unico di una famiglia di notabili residente nel villaggio da diversi secoli ma solo da poche generazioni ritornata alla cura della terra e alla coltivazione delle vigne.

A sei anni comincia a frequentare la scuola comunale del piccolo villaggio nativo. La scuola però è un peso per il piccolo Thibon. Il suo desiderio, infatti, è lavorare la terra. Sarà accontentato soltanto nel 1916, a tredici anni, quando il padre viene chiamato alle armi. Toccherà dunque a Gustave occuparsi del rude lavoro dei campi.

Nutrito di poesia dal genitore fin dall’infanzia (conosce a memoria migliaia di versi) ma indifferente ai temi religiosi, il giovane Gustave trascorre un’adolescenza agnostica. Thibon non ama la scuola, ma ha il culto dei libri, che considera i suoi veri maestri. È così che a ventitré anni, assalito da una veemente passione per la conoscenza, si getta con impeto febbrile nello studio delle lingue: impara da solo il latino, il greco e il tedesco. Affronta testi di filosofia e teologia, si cimenta anche nella matematica e nella biologia.

Dopo una giovinezza errabonda che lo porta in Gran Bretagna, in Italia e nell’Africa del Nord, Thibon si riconcilia con la fede cattolica grazie alla lettura di Léon Bloy, all’incontro con Madre Marie-Thérèse du Sacré- Coeur, priora del Carmelo di Avignone, e con Jacques Maritain, cui deve la scoperta dell’opera di san Tommaso d’Aquino. Maritain lo incoraggia a scrivere e la sua amicizia (interrotta in seguito a divergenze di giudizio su Charles Maurras e l’Action française) gli permetterà di pubblicare i primi articoli sulla Revue Thomiste.

Nel 1938 sposa Paulette Gleize, da cui ha una figlia, Marie-Thérèse. Paulette, purtroppo, non sopravvive al parto. L’anno successivo un saggio pubblicato sulla rivista Civilisations lo fa conoscere a Gabriel Marcel, di cui diventa amico. È sempre l’incoraggiamento degli amici a consentirgli di vincere la naturale inclinazione alla modestia e spingerlo così a pubblicare, nel 1940, l’opera che lo rivela al grande pubblico: Diagnostics. Essai de physiologie
sociale (Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale). La raccolta Poèmes nel frattempo gli vale il Prix des Poètes catholiques. Quello stesso anno convola a seconde nozze con Yvette Roudil, che gli darà due figli: Geneviève e JeanPierre.

Il 7 agosto del 1941 accoglie presso di sé la filosofa Simone Weil, caduta in disgrazia per la sua opposizione al Governo di Vichy. È l’incontro decisivo della vita di Thibon. Tra l’inquieta pensatrice di origini ebraiche e il philosophe-paysan si instaura un rapporto profondo improntato alla massima schiettezza e a un’altissima stima reciproca, tanto che la Weil decide di affidargli i propri manoscritti quando lascia la Francia per gli Stati Uniti nell’aprile 1942.

Sempre nel 1942 esce L’Échelle de Jacob (Lascala di Giacobbe), cui segue l’anno successivo Retour au rèel (Ritorno al reale). È la fine agosto del 1943: ad Ashford, poco distante da Londra, si spegne Simone Weil, piegata dalla tubercolosi. Dopo la prematura morte della filosofa è proprio Thibon a incaricarsi di rivelarne al mondo il nome e il genio. Pubblica così alcuni estratti dei suoi diari col titolo La Pesanteur et la Grâce (1947), edito in italiano come L’ombra e la grazia (trad. it., Comunità, Milano 1951).

Successivamente Thibon pubblica Ce que Dieu a uni (1945), Nietzsche ou le dèclin de l’esprit (1948), Solution sociale (1951), Simone Weil telle que nous l’avons connue (1952), Crise moderne de l’amour (1953), Notre regard qui manque à la lumière (1955), Vous serez comme des dieux (1959).

Nel 1964 gli viene assegnato il Grand Prix de littérature dell’Académie française. Seguirà un lungo periodo di inattività editoriale. Solo dopo quindici anni di silenzio Thibon tornerà a pubblicare. Appaiono così L’Ignorance étoilée (1974), L’Équilibre et l’harmonie (1976), Le Voile et le Masque (1958), L‘Illusion féconde (1995). Nel 2000 riceve un altro prestigioso riconoscimento: il Grand Prix de philosophie dell’Acadèmie française.

Alla morte, che lo coglie nel suo villaggio il 19 gennaio 2001, Gustave Thibon lascia al mondo – oltre a tre figli, i nipoti e un ricordo indelebile nel cuore di chi l’ha conosciuto – una ventina di opere, innumerevoli articoli e testi di conferenze, oltre a una considerevole mole di scritti rimasti senza pubblicazione.

Presso le Éditions du Rocher sono usciti, postumi, due volumi di note e pensieri thiboniani – Aux ailes de la lettre. Pensées inédites (1932-1982) e Parodies et mirages ou la décadence d’un monde chrétien. Notes inédites (1935-1978). Infine va segnalato la pubblicazione di un ulteriore volume contenente la trascrizione di alcune conferenze dello scrittore francese: Les hommes de l’éternel. Conférences au grand public (1940- 1985), Mame, 2012.

La diffusione dell’opera di Thibon in Italia è frutto dell’amicizia coi militanti di Alleanza Cattolica, per i quali ancora oggi i suoi testi rimangono un importante punto di riferimento. I due testi, pubblicati negli anni ’70 dalle Edizioni Volpe grazie all’interessamento di Marco Tangheroni, sono stati riproposti da Effedieffe nel 1998 in un unico volume, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con una premessa di Marco Respinti.

Nella nostra lingua sono state tradotte anche le raccolte di aforismi thiboniani La scala di Giacobbe (1947), Il pane di ogni giorno (1949), L’uomo maschera di Dio (1971). Sono stati pubblicati anche Quel che Dio ha unito. Saggio sull’amore (1947), Vivere in due (1955), Crisi moderna dell’amore (1957), Nietszche o il declino dello spirito (1964). Infine va segnalato il librotestimonianza scritto col padre domenicano Joseph- Marie Perrin, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta (2000).

Sebbene orientato da Jacques Maritain sulla via maestra del tomismo, nel pensiero di Gustave Thibon trovano spazio anche la mistica carmelitana di San Giovanni della Croce, l’opera di Ludwig von Klages, Blaise Pascal, Charles Péguy, senza dimenticare la grande ammirazione per Victor Hugo e l’incessante confronto con Friedrich Nietzsche. La stretta comunione con i ritmi della natura e la familiarità col silenzio accumulano in lui quelle vaste riserve interiori che riverserà nelle sue opere, mentre la profondità del pensiero, la penetrante lucidità del giudizio e la folgorante bellezza dello stile – espressa soprattutto in forma aforistica – gli valgono la considerazione di prestigiosi intellettuali come Marcel de Corte, Gabriel Marcel, Henri Massis.

Thibon non ama lo spirito di sistema, è soprattutto scrittore da aforismi. Fedele al dettato di un altro grande cultore della brevità, il colombiano Nicolás Gómez Dávila («I libri seri non ammaestrano: sollecitano»), privilegia il frammento in luogo del sistema chiuso, onnicomprensivo. Niente è più alieno allo scrittore francese che il disprezzo e la sufficienza nei confronti del lettore, i contrassegni della vanità e del divismo letterario. Egli sa, con Pascal, che «ci si convince meglio con le ragioni trovate da se stessi che non con quelle venute in mente ad altri ». L’ebbrezza conquistatrice è sterile: «La verità orgogliosa non può dare niente. I doni supremi devono essere offerti con mani supplichevoli».

Le parole thiboniane, parole sorgive, aurorali, nate dall’intimità col silenzio, circonfuse e nutrite di silenzio, sanno addentrarsi nel segreto dell’anima come schegge luminose. Parole penetranti, che riecheggiano nell’intimità alla ricerca di misteriose corrispondenze. È una scrittura dal lungo respiro, che tende all’infinito dell’eternità. E perciò stesso essa è esigente, richiede la forte collaborazione del lettore. La sua lettura richiede tempo: il tempo della semina, della sedimentazione e della maturazione. È una scrittura folgorante, mossa dall’aspirazione di concentrare la più alta densità di significato nel minimo spazio di parole. Naturale dunque che prediliga la frammentarietà dell’aforisma, la forma letteraria che più si approssima al silenzio.

La filosofia francese è sempre stata percorsa da due correnti fondamentali di pensiero: una di tipo cartesiano, razionalista, e l’altra di stampo pascaliano, intuizionista. Thibon sposa l’immediato dell’intuzione di Pascal, ma non per questo esclude la meditazione razionale e riflessa, concreta e non astratta. Intuire non è sragionare. Così il filosofo di Saint-Marcel confessa la propria predilezione per la via del simbolo e dell’immagine («Credo alle immagini più che alle idee. L’idea circoscrive, l’immagine evoca»), abraccia il metodo dell’intuizione immediata capace di penetrare internamente la fonte inesauribile della realtà per captarne l’essenza profonda.

Nelle sue opere Thibon espone la propria preoccupazione per quello che considera il male più profondo della nostra epoca: la perdita di contatto con il reale. L’irrealismo nasce quando i pensieri, gli affetti e gli atti umani sono privi di comunione col loro oggetto concreto. Thibon non nega certo il ruolo prezioso del ragionamento astratto. Si tratta di uno strumento indispensabile nell’ordine della conoscenza umana, purché non sia privato del contatto con la realtà. Quando ciò accade, l’astrazione viene lasciata a se stessa e finisce per generare l’irrealismo sotto forma di intellettualismo o di soggettivismo, laddove si dia il primato alla ragione o al sentimento.

Ecco perché si rende necessaria, nel nostro tempo, un’opera di apostolato del senso comune. «Un tempo – scrive il filosofo francese in un celebre passo di Ritorno al reale – il cristianesimo dovette lottare contro la natura: quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale».

L’architrave del pensiero thiboniano poggia su due princìpi: l’opposizione agli idoli e l’amore per l’unità. Due momenti che tuttavia, scrive, «si fondono in un unico, perché l’idolo rappresenta la parte innalzata al tutto, ma soltanto distruggendo gli idoli si può ricostruire l’unità». Se «Dio non ha creato che unendo», il peccato dell’uomo consiste nel separare ciò che Dio ha unito: «La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato».

Il nostro tempo, segnato dall’oblio dell’Essere e delle verità supreme, è funestato dalla lotta senza quartiere tra gli idoli. Non può che essere la guerra endemica la condizione strutturale di un mondo dominato da false divinità: nessuna di esse, infatti, può permettere alle altre di elevarsi al di sopra di tutte per reclamare la signoria spettante all’unico vero Dio. Il conflitto tra gli idoli garantisce così l’impossibilità dell’autentica trascendenza. Procurare la
morte rappresenta la vera vocazione dell’idolatria: la sete di sangue divora l’idolo, mentre l’odio viscerale per l’Essere lo vota al nulla e alla menzogna. Per il Socrate cristiano vivente in Thibon l’autentico spirito filosofico consiste invece «nel preferire alle menzogne che fanno vivere le verità che fanno morire».

Il suo pensiero rifiuta tanto le seduzioni del progressismo quanto le sirene del tradizionalismo. Più che un iconoclasta della reazione, Thibon è un testimone della speranza. «L’epoca in cui tutto abbiamo perduto », scrive, «è anche quella in cui tutto possiamo ritrovare». Se la metafisica della speranza thiboniana si rivela impermeabile ai fuochi fatui del progressismo, certo non indulge alle suggestioni tradizionaliste o alle utopie archeologiche. «Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa».

La devota memoria del passato non deve indurci a «considerare la morte delle cose mortali come una sconfitta irreparabile. Non aggrapparsi totalmente, disperatamente alla materialità (nel senso più ampio) di una tradizione, di una istituzione, d’un regime. Occorre salvare l’anima delle cose cui il vento della morte ha spazzato via il corpo». L’affermazione di valori soprastorici ed eterni non va confusa con l’immagine di una realtà storica compiuta e
realizzata. «La vera fedeltà non consiste […] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno».

«Il thibonismo è una filosofia del buon senso », ha scritto il suo allievo Hervé Pasqua. La profondità degli abissi appartiene al grande, immenso oceano della normalità. Piatta e superficiale è solo la terra calpestata dagli idoli. Pertanto la vera saggezza sta nell’essere fedeli tanto al realismo della terra quanto alle verità eterne del cielo, giacché «le cose supreme non fioriscono che al di là della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e la loro fragile semenza è nei nostri cuori, e niente fiorisce nel cielo, che non sia prima germogliato sulla terra».

La tentatazione di quanti giungono all’Assoluto, ha detto Jean Guitton, è di annullare l’esistenza del Relativo. Ciò che è difficile da accettare non è tanto che Dio ci sia, è comprendere perché non sia tutto, capire perché abbia fatto qualcosa che non sia Lui. Non è tanto difficile affermare che Dio esiste, quanto accettare che l’uomo sia. Thibon è un pellegrino dell’assoluto, ma sa anche riconoscere le ragioni del relativo e del contingente. Consapevole che «la nostra eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata», diffida perciò degli eccessi di quegli idealisti che, come dice Péguy, «hanno le mani pure, ma non hanno mani» e che invece di incarnare il proprio ideale se ne servono per denigrare la realtà e l’umano.

È un pensiero incarnato, conscio che questa sintesi di sintesi di assoluto e di relativo deve abbracciare anche il campo sociale. Una comunità umana esercita un’influenza benefica quando sa trasmettere valori eterni. Quando in una civiltà «il temporale è irrigato senza posa dall’eterno», come accadeva ai tempi della cristianità, tradizioni e costumi assolvono la funzione di intermediari tra l’uomo e il suo fine trascendente. L’esempio dei santi provvede a mostrare che i cristiani devono essere al tempo stesso «visionari del cieli e prodigiosi operai sulla terra». L’armonia e la durata di una società sono assicurate soltanto dal rispetto della sua legge fondamentale. È la legge della comunità di destino, che poggia sul principio di interdipendenza o di reciproca solidarietà.

Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide con l’assolvimento del proprio dovere. Una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla.

L’eredità di Gustave Thibon non si esaurisce con la morte del suo autore. La sua opera lascia dietro di sé un messaggio di speranza per l’occidente sazio e disperato: «L’unica nobiltà dell’uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell’amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che «vanità e soffiar di vento», risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò
che non appartiene all’eternità ritrovata appartiene al tempo perduto».

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Quando l’anima ascolta

Posté par atempodiblog le 10 février 2015

Quando l’anima ascolta
tutto ciò che vive ha lingua,
il più dolce mormorio
porta un segno, un senso preciso: 
alberi e fogliame
conversano vivacemente fra loro, 
onde sui fiumi
parlano alto in tono di gioia, 
venti, prati e nubi,
vie per i piedi sacri di Dio,
sono i traduttori discreti
del Verbo, misterioso…
quando l’anima ascolta.

di Guido Gezelle

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Non vediamo il bene che Iddio ci fa, perché Iddio non cessa mai di farci del bene. Niente, quanto un bene continuo, colpisce meno la coscienza. Non si è riconoscenti all’acqua di scorrere senza posa, né al sole di levarsi ogni mattino. Se Iddio non si occupasse di noi che di tanto in tanto, noi penseremmo di più alla Sua bontà. La riconoscenza è prima di tutto uno stupore.

di Gustave Thibon

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Il rancore è una fedeltà avvelenata

Posté par atempodiblog le 30 janvier 2015

“Il vero amore non bada al male ricevuto. Gioisce nel fare del bene”.

Papa Francesco

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Il rancore è una specie di fedeltà avvelenata dove l’offeso stringe legami indissolubili con l’offesa e l’offensore. E quando cessa di essere una passione, diventa un’abitudine e un dovere: esattamente come il matrimonio. Un briciolo di lucidità è sufficiente a purgarci da questo male, poiché l’esperienza della vita ci insegna che le offese riposano sugli stessi malintesi dei benefici.

Gustave Thibon - L’ignorance étoilée

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Violenza e profondità

Posté par atempodiblog le 4 décembre 2014

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La violenza di una passione fa credere spesso alla sua profondità quando, più spesso, invece, la esclude. Una superficie sconvolta attira lo sguardo e turba il cuore più di un abisso silenzioso. Perciò, le passioni generate dalla carne e dall’immaginazione (l’amore dei sensi e gli entusiasmi politici in particolare) sono così inebrianti e così fallaci al tempo stesso. Inebrianti come ho spettacolo di una tempesta sul mare e come essa fugaci…

Gustave Thibon, Il pane di ogni giorno, Morcelliana, Brescia 1949, p. 22
Tratto da: Ritorno al reale

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La prima parola dell’amore: no

Posté par atempodiblog le 17 novembre 2014

“Donne assetate d’amore che si danno senza sicurezza, errori ‘generosi’ di amanti dell’umanità che abbracciano con purezza una causa impura e moltiplicano il male sulla terra, ecc. Bisogna confessare che la mediocrità, l’aridità del cuore costituiscono un eccellente antidoto a tal sorta di peccato. Siamo spesso indotti alle peggiori tentazioni da quanto abbiamo di migliore in noi, o piuttosto dalla febbre e dallo smarrimento di esso. Nulla dunque ha cosi bisogno d’esser purificato e disciplinato come la bontà e la dedizione. La prima parola dell’amore: no”.

Gustave Thibon – Il pane di ogni giorno

La prima parola dell’amore: no dans Citazioni, frasi e pensieri 2q1tpok

“L’azione compassionevole può vivere sempre, ma la passione compassionevole non lo può. La passione compassionevole, la compassione che noi subiamo meramente, il dolore che induce gli uomini a concedere quello che non può essere concesso e a lusingare quand’essi dovrebbero invece dire la verità, la compassione che ha privato più di una donna della sua verginità e più di uno statista della sua onestà, questa deve morire. Essa viene usata come un’arma da gli uomini malvagi contro i buoni: quest’arma dev’essere infranta”.

Clive Staples Lewis – Il grande divorzio

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Sofferenze dell’Apostolo

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2014

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Sofferenze dell’Apostolo — Non voglio conquistarti. Non voglio che tu sia del mio parere; voglio soltanto darti questa verità indipendente da me come la luce del giorno; vorrei che anche tu vedessi il sole! È colpa mia se la Verità è anche la mia verità? Non credi che ne soffra abbastanza? Vorrei poterla donare senza toccarla, senza che nulla di me la contaminasse. Accettala; non guardare le mani che te la offrono. Ho vergogna che Dio debba servirsi di me…

(Gustave Thibon, Il pane di ogni giorno, Morcelliana, Brescia 1949, p. 121)
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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La verità orgogliosa non può dare niente

Posté par atempodiblog le 3 octobre 2014

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“Più una verità è profonda, necessaria e redentrice, più essa deve perdere, espandendosi, la sufficienza e la indiscrezione dell’ebbrezza conquistatrice. La verità orgogliosa non può dare niente. I doni supremi devono essere offerti con mani supplichevoli. Sii umile come un mendicante, tu che porti Dio agli uomini. E quando il tuo Dio è accettato, non dimenticare mai che sei tu che ricevi”.

(Gustave Thibon, La scala di Giacobbe, AVE, Roma 1947, p. 93)
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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