Francesco a testa in giù
Posté par atempodiblog le 28 mars 2013
Francesco a testa in giù
Passi per il Giullare di Dio, ma non era un tenero dispensatore di buoni sentimenti
Tratto da: IL FOGLIO.it
Pubblichiamo uno brano dal libro di Gilbert K. Chesterton, “San Francesco d’Assisi”, edito in Italia da Lindau
Se c’è un posto in cui si può trovare il vero spirito francescano al di fuori della storia francescana vera e propria, è il racconto dell’acrobata di Nostra Signora [leggenda medievale su un acrobata che, fattosi monaco, si rese conto di non saper offrire alla Madonna altro che i suoi salti e le sue capriole, ndr]. E quando san Francesco chiamò i suoi seguaci Giullari di Dio, voleva dire qualcosa come Acrobati di Nostro Signore. Da qualche parte in quel passaggio dall’ambizione del trovatore alle buffonate dell’acrobata si nasconde, come sotto una parabola, la verità su san Francesco. Dei due menestrelli o suonatori ambulanti, il giullare era probabilmente il servitore, o quantomeno la figura secondaria. San Francesco dev’essere proprio preso alla lettera quando dice di aver scoperto che il segreto dell’esistenza consiste nell’essere il servitore e la figura secondaria. Alla fin fine, quella condizione di servitù doveva quasi rasentare la spensieratezza. Era paragonabile alla condizione di giocoliere proprio in quanto rasentava la spensieratezza. Il giullare poteva essere libero, mentre il cavaliere era rigoroso; in condizione di servitù si può essere burloni, il che rappresenta la totale libertà. Questo paragone dei due poeti o menestrelli è forse il migliore preambolo alla trasformazione di Francesco, espresso attraverso un’immagine che può essere apprezzata dal mondo moderno. Naturalmente la questione era molto più complessa, e noi dobbiamo sforzarci, per quanto non sarà mai abbastanza, di arrivare al concetto andando al di là dell’immagine. E’ l’approccio dell’acrobata che, per molti, è veramente un concetto a gambe all’aria.
Nel periodo in cui era rimasto rinchiuso in prigione o nella caverna buia – o all’incirca in quel periodo – Francesco aveva subito un’inversione di natura psicologica, che era stata in realtà come il contrario di un salto mortale in quanto, avendo fatto un giro completo, era tornato, o quanto meno pareva essere tornato, alla sua posizione originale. E’ necessario ricorrere alla grottesca similitudine dell’acrobata, perché nessun’altra immagine può essere altrettanto chiarificatrice. Tuttavia, introspettivamente, si trattò di una profonda rivoluzione spirituale. L’uomo uscito dalla caverna non era più quello che vi era entrato, nel senso che era diverso quasi come se fosse morto diventando uno spettro o uno spirito beato. E i risultati che questo ebbe sul suo atteggiamento verso il mondo sono effettivamente tanto straordinari quanto possono apparire da qualsiasi confronto. Guardava al mondo in modo totalmente diverso dagli altri uomini, come se fosse uscito da quella buia caverna cammi- nando sulle mani.
Se applichiamo al caso la parabola dell’acrobata di Nostra Signora, ci avvicineremo molto a quello che era il suo scopo. Ebbene, è proprio vero che a volte una scena, come ad esempio un paesaggio, possa essere vista più chiaramente e con maggiore immediatezza se la si guarda a testa in giù. Ci sono stati dei paesaggisti che hanno adottato questa straordinaria e istrionica posizione per osservare un paesaggio a quel modo anche solo per un attimo. Cosicché, questa visione capovolta, tanto più vivida, strana e accattivante, ha una certa analogia con il mondo visto ogni giorno da un mistico come san Francesco. Ma proprio in questo sta la parte significativa della parabola. L’acrobata di Nostra Signora non stava ritto sulla testa allo scopo di avere una visuale più vivida o più singolare di fiori e piante. Non era questo che faceva, e non gli sarebbe mai venuto in mente di farlo. L’acrobata di Nostra Signora stava ritto sulla testa in omaggio a Nostra Signora. Se san Francesco avesse fatto la stessa cosa, che peraltro sarebbe stato capacissimo di fare, l’avrebbe fatta per lo stesso motivo, dettato da un pensiero soprannaturale. Soltanto dopo il suo entusiasmo si sarebbe esteso e avrebbe messo una specie di aureola a tutte le cose terrene. Ecco perché non è corretto rappresentare san Francesco solo come un romantico precursore del Rinascimento e del risveglio dei piaceri naturali per sé presi. Ci dimostra che il segreto per recuperare i piaceri naturali sta nel guardarli alla luce di un piacere soprannaturale. In altri termini, ha ripetuto su di sè quel processo storico descritto nel capitolo introduttivo: la veglia ascetica che finisce con la visione di un mondo naturale rinnovato. Ma nel suo caso personale c’era di più; c’erano gli elementi che rendono ancora più appropriato il confronto con il giullare o l’acrobata.
Si può immaginare che in quella cella o caverna buia Francesco abbia trascorso le ore più oscure della sua vita. Era per natura il genere di uomo che ha quella vanità che è il contrario dell’orgoglio, quella vanità che si avvicina molto all’umiltà. Non ha mai disprezzato i suoi simili e quindi non ha mai disprezzato l’opinione dei suoi simili, compresa l’ammirazione per i suoi simili. Quella parte della sua natura umana aveva subito i colpi più duri e più pesanti. Può darsi che dopo l’umiliante ritorno dalla sua campagna militare frustrata, sia stato tacciato di vigliaccheria. E’ certo che, dopo la sua disputa con il padre riguardo alle balle di stoffa, fosse stato accusato di furto. E persino quelli che più gli avevano mostrato comprensione, come il prete cui aveva restaurato la chiesa e il vescovo che gli aveva dato la sua benedizione, lo avevano trattato con una condiscendenza quasi sarcastica che aveva lasciato chiaramente intendere quale fosse la conclusione della vicenda. Si era messo in ridicolo. Chiunque sia stato giovane, abbia cavalcato e si sia sentito pronto alla battaglia, che abbia avuto l’ambizione di diventare un trovatore e abbia accettato le regole del cameratismo, si renderà conto del peso grave e schiacciante di quella semplice accusa. La conversione di san Francesco, come quella di san Paolo, era stata in qualche modo come essere disarcionato da un cavallo, ma per certi versi era stata una caduta ancora peggiore, perchè il cavallo era un cavallo da battaglia. A ogni modo non era rimasto nulla di lui che non fosse ridicolo. Tutti sapevano che, a dir poco, si era coperto di ridicolo. Il fatto di essersi reso ridicolo era oggettivo e reale come un paracarro. Si vedeva come una cosuccia piccola ma evidente, come una mosca che cammina sul vetro di una finestra; e quella cosuccia era ridicola. E mentre fissava la parola “ridicolo” scritta davanti a lui a caratteri luminosi, la parola stessa incominciò a risplendere e a cambiare.
Da bambini ci dicevano che se uno avesse scavato un buco attraverso il centro della terra e avesse continuato a scendere sempre più giù, arrivato al centro sarebbe venuto il momento in cui gli sarebbe parso di salire sempre più su. Non so se sia vero. La ragione per cui non so se sia vero è che non mi è mai capitato di scavare un buco attraverso il centro della terra e tanto meno di entrarci dentro. Se non so come ci si senta in questo capovolgimento, è perchè non mi è mai successo. E anche questa è un’allegoria. Non c’è dubbio che lo scrittore, e magari anche il lettore, sia una persona normale cui non è mai successa una cosa del genere. Non ci è dato di seguire san Francesco in quel conclusivo capovolgimento spirituale in cui un’umiliazione totale diventa totale beatitudine o felicità, perché a noi non è mai successo. Io stesso non pretendo di andar oltre quel primo crollo delle barricate romantiche che sono la vanità di un ragazzo, cui ho fatto cenno nell’ultimo paragrafo. E, naturalmente, anche quel paragrafo è pura congettura; una persona può supporre come si sarebbe sentita, ma può darsi che si sarebbe sentita in un modo completamente diverso. Ma per diverso che fosse, era pur sempre una sensazione analoga a quella che prova l’uomo che scava un tunnel attraverso la terra, cioè uno che va sempre più giù fino a un misterioso momento in cui comincia ad andare sempre più su. Non siamo mai andati tanto su perchè non siamo mai andati tanto giù; è ovvio che non siamo capaci di dire che non succede; e più andiamo avanti a leggere con calma e imparzialità la storia del genere umano, e in special modo la storia degli uomini più saggi, più arriviamo alla conclusione che in realtà accade. Non ho la pretesa di scrivere riguardo all’intima essenza di quest’esperienza. Ma ai fini di questa narrazione, si può descrivere il suo aspetto esteriore dicendo che, quando Francesco venne fuori dalla sua spelonca di oscurantismo, portava la parola “ridicolo” come una piuma sul cappello, come un fregio araldico, o persino una corona. Avrebbe continuato a essere ridicolo; sa- rebbe diventato sempre più ridicolo, il buffone di corte del Signore del cielo. E’ uno stato che può essere rappresentato solo in modo simbolico, ma il simbolo del capovolgimento è reale. Se uno ha visto il mondo capovolto, con tutti gli alberi e le torri appesi all’in giù come quando si specchiano in uno stagno, un possibile risultato sarebbe di mettere l’accento sul concetto di dipendenza. La correlazione è latina e letteraria; infatti il termine “dipendente” propriamente significa “appeso”. Darebbe vita al testo delle Scritture in cui si dice che Dio ha appeso il mondo sul nulla. Se in uno dei suoi strani sogni san Francesco avesse visto la città di Assisi capovolta, sarebbe stata perfettamente uguale a se stessa, tranne che per il fatto di essere capovolta. Ma il punto è questo: mentre a un occhio normale la possanza delle sue mura, le massicce fondamenta delle sue torri d’osservazione e la sua alta fortezza l’avrebbero fatta sembrare ancora più sicura e più stabile, nel momento in cui la si capovolge il suo peso stesso la farebbe sembrare più indifesa e più esposta al pericolo. Non è altro che un simbolo; ma si dà il caso che si adatti alla realtà psicologica. San Francesco avrebbe potuto amare la sua cittadina quanto l’amava prima, o forse anche di più; ma pur amandola di più, l’essenza del suo amore sarebbe stata diversa.
Avrebbe potuto vedere e amare ogni tegola dei tetti spioventi e ogni uccello posato sui bastioni, ma li avrebbe visti in una prospettiva nuova e soprannaturale di costante pericolo e dipendenza. Invece di essere semplicemente fiero della sua città perché forte e salda, avrebbe ringraziato Dio onnipotente perché non l’aveva lasciata cadere, avrebbe ringraziato Dio perché non lasciava cadere l’intero cosmo come un vaso di cristallo che si infrangesse in una miriade di stelle cadenti. Forse è così che san Pietro aveva visto il mondo quando fu crocifisso a testa in giù.
di Gilbert K. Chesterton
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