Francesco a testa in giù

Posté par atempodiblog le 28 mars 2013

Francesco a testa in giù
Passi per il Giullare di Dio, ma non era un tenero dispensatore di buoni sentimenti
Tratto da:
IL FOGLIO.it

Francesco a testa in giù dans Gilbert Keith Chesterton papafrancescoi

Pubblichiamo uno brano dal libro di Gilbert K. Chesterton, “San Francesco d’Assisi”, edito in Italia da Lindau

Se c’è un posto in cui si può trovare il vero spirito francescano al di fuori della storia francescana vera e propria, è il racconto dell’acrobata di Nostra Signora [leggenda medievale su un acrobata che, fattosi monaco, si rese conto di non saper offrire alla Madonna altro che i suoi salti e le sue capriole, ndr]. E quando san Francesco chiamò i suoi seguaci Giullari di Dio, voleva dire qualcosa come Acrobati di Nostro Signore. Da qualche parte in quel passaggio dall’ambizione del trovatore alle buffonate dell’acrobata si nasconde, come sotto una parabola, la verità su san Francesco. Dei due menestrelli o suonatori ambulanti, il giullare era probabilmente il servitore, o quantomeno la figura secondaria. San Francesco dev’essere proprio preso alla lettera quando dice di aver scoperto che il segreto dell’esistenza consiste nell’essere il servitore e la figura secondaria. Alla fin fine, quella condizione di servitù doveva quasi rasentare la spensieratezza. Era paragonabile alla condizione di giocoliere proprio in quanto rasentava la spensieratezza. Il giullare poteva essere libero, mentre il cavaliere era rigoroso; in condizione di servitù si può essere burloni, il che rappresenta la totale libertà. Questo paragone dei due poeti o menestrelli è forse il migliore preambolo alla trasformazione di Francesco, espresso attraverso un’immagine che può essere apprezzata dal mondo moderno. Naturalmente la questione era molto più complessa, e noi dobbiamo sforzarci, per quanto non sarà mai abbastanza, di arrivare al concetto andando al di là dell’immagine. E’ l’approccio dell’acrobata che, per molti, è veramente un concetto a gambe all’aria.

Nel periodo in cui era rimasto rinchiuso in prigione o nella caverna buia – o all’incirca in quel periodo – Francesco aveva subito un’inversione di natura psicologica, che era stata in realtà come il contrario di un salto mortale in quanto, avendo fatto un giro completo, era tornato, o quanto meno pareva essere tornato, alla sua posizione originale. E’ necessario ricorrere alla grottesca similitudine dell’acrobata, perché nessun’altra immagine può essere altrettanto chiarificatrice. Tuttavia, introspettivamente, si trattò di una profonda rivoluzione spirituale. L’uomo uscito dalla caverna non era più quello che vi era entrato, nel senso che era diverso quasi come se fosse morto diventando uno spettro o uno spirito beato. E i risultati che questo ebbe sul suo atteggiamento verso il mondo sono effettivamente tanto straordinari quanto possono apparire da qualsiasi confronto. Guardava al mondo in modo totalmente diverso dagli altri uomini, come se fosse uscito da quella buia caverna cammi- nando sulle mani.
Se applichiamo al caso la parabola dell’acrobata di Nostra Signora, ci avvicineremo molto a quello che era il suo scopo. Ebbene, è proprio vero che a volte una scena, come ad esempio un paesaggio, possa essere vista più chiaramente e con maggiore immediatezza se la si guarda a testa in giù. Ci sono stati dei paesaggisti che hanno adottato questa straordinaria e istrionica posizione per osservare un paesaggio a quel modo anche solo per un attimo. Cosicché, questa visione capovolta, tanto più vivida, strana e accattivante, ha una certa analogia con il mondo visto ogni giorno da un mistico come san Francesco. Ma proprio in questo sta la parte significativa della parabola. L’acrobata di Nostra Signora non stava ritto sulla testa allo scopo di avere una visuale più vivida o più singolare di fiori e piante. Non era questo che faceva, e non gli sarebbe mai venuto in mente di farlo. L’acrobata di Nostra Signora stava ritto sulla testa in omaggio a Nostra Signora. Se san Francesco avesse fatto la stessa cosa, che peraltro sarebbe stato capacissimo di fare, l’avrebbe fatta per lo stesso motivo, dettato da un pensiero soprannaturale. Soltanto dopo il suo entusiasmo si sarebbe esteso e avrebbe messo una specie di aureola a tutte le cose terrene. Ecco perché non è corretto rappresentare san Francesco solo come un romantico precursore del Rinascimento e del risveglio dei piaceri naturali per sé presi. Ci dimostra che il segreto per recuperare i piaceri naturali sta nel guardarli alla luce di un piacere soprannaturale. In altri termini, ha ripetuto su di sè quel processo storico descritto nel capitolo introduttivo: la veglia ascetica che finisce con la visione di un mondo naturale rinnovato. Ma nel suo caso personale c’era di più; c’erano gli elementi che rendono ancora più appropriato il confronto con il giullare o l’acrobata.

Si può immaginare che in quella cella o caverna buia Francesco abbia trascorso le ore più oscure della sua vita. Era per natura il genere di uomo che ha quella vanità che è il contrario dell’orgoglio, quella vanità che si avvicina molto all’umiltà. Non ha mai disprezzato i suoi simili e quindi non ha mai disprezzato l’opinione dei suoi simili, compresa l’ammirazione per i suoi simili. Quella parte della sua natura umana aveva subito i colpi più duri e più pesanti. Può darsi che dopo l’umiliante ritorno dalla sua campagna militare frustrata, sia stato tacciato di vigliaccheria. E’ certo che, dopo la sua disputa con il padre riguardo alle balle di stoffa, fosse stato accusato di furto. E persino quelli che più gli avevano mostrato comprensione, come il prete cui aveva restaurato la chiesa e il vescovo che gli aveva dato la sua benedizione, lo avevano trattato con una condiscendenza quasi sarcastica che aveva lasciato chiaramente intendere quale fosse la conclusione della vicenda. Si era messo in ridicolo. Chiunque sia stato giovane, abbia cavalcato e si sia sentito pronto alla battaglia, che abbia avuto l’ambizione di diventare un trovatore e abbia accettato le regole del cameratismo, si renderà conto del peso grave e schiacciante di quella semplice accusa. La conversione di san Francesco, come quella di san Paolo, era stata in qualche modo come essere disarcionato da un cavallo, ma per certi versi era stata una caduta ancora peggiore, perchè il cavallo era un cavallo da battaglia. A ogni modo non era rimasto nulla di lui che non fosse ridicolo. Tutti sapevano che, a dir poco, si era coperto di ridicolo. Il fatto di essersi reso ridicolo era oggettivo e reale come un paracarro. Si vedeva come una cosuccia piccola ma evidente, come una mosca che cammina sul vetro di una finestra; e quella cosuccia era ridicola. E mentre fissava la parola “ridicolo” scritta davanti a lui a caratteri luminosi, la parola stessa incominciò a risplendere e a cambiare.

Da bambini ci dicevano che se uno avesse scavato un buco attraverso il centro della terra e avesse continuato a scendere sempre più giù, arrivato al centro sarebbe venuto il momento in cui gli sarebbe parso di salire sempre più su. Non so se sia vero. La ragione per cui non so se sia vero è che non mi è mai capitato di scavare un buco attraverso il centro della terra e tanto meno di entrarci dentro. Se non so come ci si senta in questo capovolgimento, è perchè non mi è mai successo. E anche questa è un’allegoria. Non c’è dubbio che lo scrittore, e magari anche il lettore, sia una persona normale cui non è mai successa una cosa del genere. Non ci è dato di seguire san Francesco in quel conclusivo capovolgimento spirituale in cui un’umiliazione totale diventa totale beatitudine o felicità, perché a noi non è mai successo. Io stesso non pretendo di andar oltre quel primo crollo delle barricate romantiche che sono la vanità di un ragazzo, cui ho fatto cenno nell’ultimo paragrafo. E, naturalmente, anche quel paragrafo è pura congettura; una persona può supporre come si sarebbe sentita, ma può darsi che si sarebbe sentita in un modo completamente diverso. Ma per diverso che fosse, era pur sempre una sensazione analoga a quella che prova l’uomo che scava un tunnel attraverso la terra, cioè uno che va sempre più giù fino a un misterioso momento in cui comincia ad andare sempre più su. Non siamo mai andati tanto su perchè non siamo mai andati tanto giù; è ovvio che non siamo capaci di dire che non succede; e più andiamo avanti a leggere con calma e imparzialità la storia del genere umano, e in special modo la storia degli uomini più saggi, più arriviamo alla conclusione che in realtà accade. Non ho la pretesa di scrivere riguardo all’intima essenza di quest’esperienza. Ma ai fini di questa narrazione, si può descrivere il suo aspetto esteriore dicendo che, quando Francesco venne fuori dalla sua spelonca di oscurantismo, portava la parola “ridicolo” come una piuma sul cappello, come un fregio araldico, o persino una corona. Avrebbe continuato a essere ridicolo; sa- rebbe diventato sempre più ridicolo, il buffone di corte del Signore del cielo. E’ uno stato che può essere rappresentato solo in modo simbolico, ma il simbolo del capovolgimento è reale. Se uno ha visto il mondo capovolto, con tutti gli alberi e le torri appesi all’in giù come quando si specchiano in uno stagno, un possibile risultato sarebbe di mettere l’accento sul concetto di dipendenza. La correlazione è latina e letteraria; infatti il termine “dipendente” propriamente significa “appeso”. Darebbe vita al testo delle Scritture in cui si dice che Dio ha appeso il mondo sul nulla. Se in uno dei suoi strani sogni san Francesco avesse visto la città di Assisi capovolta, sarebbe stata perfettamente uguale a se stessa, tranne che per il fatto di essere capovolta. Ma il punto è questo: mentre a un occhio normale la possanza delle sue mura, le massicce fondamenta delle sue torri d’osservazione e la sua alta fortezza l’avrebbero fatta sembrare ancora più sicura e più stabile, nel momento in cui la si capovolge il suo peso stesso la farebbe sembrare più indifesa e più esposta al pericolo. Non è altro che un simbolo; ma si dà il caso che si adatti alla realtà psicologica. San Francesco avrebbe potuto amare la sua cittadina quanto l’amava prima, o forse anche di più; ma pur amandola di più, l’essenza del suo amore sarebbe stata diversa.

Avrebbe potuto vedere e amare ogni tegola dei tetti spioventi e ogni uccello posato sui bastioni, ma li avrebbe visti in una prospettiva nuova e soprannaturale di costante pericolo e dipendenza. Invece di essere semplicemente fiero della sua città perché forte e salda, avrebbe ringraziato Dio onnipotente perché non l’aveva lasciata cadere, avrebbe ringraziato Dio perché non lasciava cadere l’intero cosmo come un vaso di cristallo che si infrangesse in una miriade di stelle cadenti. Forse è così che san Pietro aveva visto il mondo quando fu crocifisso a testa in giù.

di Gilbert K. Chesterton

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La torre già vacilla

Posté par atempodiblog le 25 février 2013

La torre già vacilla dans Citazioni, frasi e pensieri gkchesterton

“Tutto il mondo moderno è in guerra con la ragione, e la torre già vacilla”.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Il cattolicesimo è vero

Posté par atempodiblog le 23 février 2013

Il cattolicesimo è vero dans Citazioni, frasi e pensieri gkchesterton

La difficoltà nello spiegare “perché sono cattolico” consiste nel fatto che vi sono diecimila ragioni, tutte riconducibili ad un’unica ragione: che il cattolicesimo è vero.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Occorre amare ciò che si biasima

Posté par atempodiblog le 8 novembre 2012

Occorre amare ciò che si biasima dans Gilbert Keith Chesterton gkchestertonnatalizio

“Un uomo si trova ad appartenere a questo mondo prima di potersi domandare se sia bello appartenevi. Ha combattuto per la bandiera e spesso ha riportato eroiche vittorie molto prima di essersi arruolato. Per riassumere ciò che sembra fondamentale, si può affermare che in lui la fedeltà precede di molto l’ammirazione…
[…]
La mia accettazione dell’universo non è ottimista, è qualcosa che assomiglia di più al patriottismo. È questione di fedeltà primaria. Il mondo non è una pensione di Brighton, da cui vogliamo andarcene perché è troppo deprimente. È la fortezza della nostra famiglia, con la bandiera che sventola sulla torre e più è miserabile meno la abbandoniamo.
Il punto non è che questo mondo è troppo triste per essere amato o troppo felice per non esserlo, ma è che quando si ama qualcosa la sua felicità è una ragione per amarla e la sua tristezza una ragione per amarla di più.
[…]
Supponiamo di doverci confrontare con una situazione disperata… diciamo Pimlico. Riflettendo su ciò che possa essere più utile nel caso di Pimlico, scopriremo che il filo dei nostri pensieri ci condurrà nel regno del misticismo e dell’arbitrio. Non basta condannare la situazione di Pimlico, chi lo fa o si tira la zappa sui piedi o farebbe meglio a trasferirsi a Chelsea. Non basterà nemmeno accettare Pimlico così com’è, non servirebbe a migliorare minimamente le sue orribili condizioni. L’unica via d’uscita sembrerebbe quella di affezionarsi a Pimlico. Amarlo con un legame spirituale senza alcuna ragione terrena. Se spuntasse qualcuno in grado di amarlo, a Pimlico innalzerebbero torri d’avorio e pinnacoli dorati. Pimlico si adornerebbe come una donna quando è amata, perché gli ornamenti non servono a nascondere cose orribili, ma ad abbellire ciò che è già adorabile. Una mamma non mette al suo bambino un nastro azzurro pensando che senza sarebbe brutto; un innamorato non regala una collana alla sua ragazza per nasconderle il collo. Se la gente amasse Pimlico come le madri amano i loro figli, cioè gratuitamente perché sono i loro figli, nel giro di un anno o due il quartiere potrebbe diventare più bello di Firenze.
Certi lettori diranno che questa è pura fantasia. Io rispondo che questa è la vera storia dell’umanità. E’ in tale modo che le città sono diventate grandi. Provate a tornare indietro alle più lontane origini della civiltà e scoprirete che sono legate a qualche antico altare di pietra o circondano un pozzo sacro. Un popolo prima di rendere glorioso un luogo lo venera. I romani non amavano Roma per la sua grandezza: Roma era grande perché i romani l’avevano amata”.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Il bimbo

Posté par atempodiblog le 18 octobre 2012

« I genitori cooperano con Dio nel dare un corpo al bambino, ma l’anima la crea solo Dio ».

Padre Livio Fanzaga

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Il bimbo è il simbolo e il sacramento per eccellenza della libertà personale.
Egli è la volontà nuova e libera, a cui si aggiungono i voleri del mondo; egli e ciò che i suoi genitori hanno liberamente deciso di procreare e che liberamente scelgono di proteggere.
Possono sentire che tutte le emozioni che dona (e che sono notevoli) provengono realmente da lui e da loro, e da nessun altro.
È nato senza l’intervento di alcun padrone o superiore. È una creazione e un contributo: è il loro contributo originale alla creazione.
Egli è anche qualcosa di molto più bello, meraviglioso, emozionante e sorprendente di tutte quelle storie stantie o quelle canzonette jazz che sfornano le macchine.
Quando le persone perdono questa consapevolezza, allora vuol dire che non riconoscono più il valore delle cose fondamentali, e, di conseguenza, il senso della proporzione in riferimento al mondo.
La gente che preferisce i piaceri meccanici, a quel miracolo, è rozza e schiavizzata. Preferiscono la feccia della vita alla prima sorgente della vita. Preferiscono l’ultima, deforme, distorta, di seconda mano, ripetitiva e spossata realtà di questa nostra civiltà capitalista in declino, a quella realtà che è l’unica fonte di rinnovamento per una qualsiasi civiltà.
Sono loro che si compiacciono delle catene della loro antica schiavitù; è il bimbo colui che è pronto per il nuovo mondo.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Chesterton

Posté par atempodiblog le 31 juillet 2012

Chesterton dans Gilbert Keith Chesterton

«Chesterton fu il primo intellettuale europeo a denunciare, nel 1924, “un credo che sta imponendo decime e impadronendosi delle scuole, il credo che è fatto osservare con multe e arresti, il credo che non è proclamato nelle omelie ma nelle leggi, e diffuso non dai pellegrini ma dai poliziotti. (…). Quel credo è il grande ma controverso sistema di pensiero cominciato con l’Evoluzione e finito con l’Eugenetica”». Cfr. Giulio Meotti, “Il processo della scimmia” (Lindau, p. 21).

di Rino Cammilleri

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Verso le stelle

Posté par atempodiblog le 26 septembre 2011

Verso le stelle dans Citazioni, frasi e pensieri stelle

« Se dei semi nella terra nera possono trasformarsi in rose così belle, cosa non può diventare il cuore dell’uomo nel suo viaggio verso le stelle? ».

-Gilbert Keith Chesterton-

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Il dogma e il pregiudizio

Posté par atempodiblog le 31 août 2011

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« Vi sono persone che non amano il termine dogma. Fortunamente, sono libere e dispongono di un’alternativa. La mente umana conosce due cose, e solo due: il dogma e il pregiudizio. Il Medioevo fu un’età razionale, un’epoca di dottrina. La nostra epoca, al massimo, è un’epoca poetica, un’età di pregiudizio ».

-Gilbert Keith Chesterton-

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Il suicidio del pensiero

Posté par atempodiblog le 16 juin 2011

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[...] Mentre sfoglio tutti questi intelligenti, meravigliosi, noiosi ed inutili libri moderni, gli occhi si fermano sul titolo di uno di essi: «Giovanna d’Arco» di Anatole France. Gli ho dato soltanto un’occhiata, ma un’occhiata mi è bastata per richiamarmi alla mente la «Vita di Gesù» di Renan. Ha la stessa strana impostazione di scetticismo riverente, che scredita delle storie soprannaturali che hanno qualche fondamento per raccontare storie naturali che non ne hanno alcuno. Poiché non possiamo credere a quel che un Santo fece, fingiamo di sapere esattamente che cosa sentì.
Ma io non cito questi libri per criticarli, bensì perché l’incontro fortuito di questi nomi suscita in me due immagini di salute mentale che mi colpiscono e che spazzano via davanti a me tutta questa letteratura.
Giovanna d’Arco non si lasciò inchiodare al crocevia, rifiutando tutti i sentieri come Tolstoj, o accettandoli tutti come Nietzsche. Ne scelse uno e vi si lanciò come un fulmine. E tuttavia Giovanna, se ci pensiamo bene, aveva in sè tutto quello che c’era di vero in Tolstoj e in Nietzsche, tutto quello che c’era in loro di accettabile. Io pensavo a quanto c’è di nobile in Tolstoj: il gusto delle cose ordinarie, l’affetto vivo per la terra, il rispetto per il povero, la dignità delle reni piegate dal lavoro. Giovanna d’Arco ebbe tutto ciò, con questo di più: che sopportò duramente la povertà nell’atto stesso di ammirarla, mentre Tolstoj è il tipo dell’aristocratico che cerca di scoprirne il segreto. Pensavo poi a quanto c’è di coraggio, di fierezza, di passione nello sventurato Nietzsche e al suo disperato ammutinamento contro la vuotaggine e la pusillanimità del nostro tempo; pensavo alla sua invocazione all’equilibrio estatico del vivere pericolosamente, al desiderio dei galoppi sfrenati sui grandi cavalli, ai suoi appelli alle armi. Bene: Giovanna d’Arco ebbe tutto questo e, anche qui, con la differenza che essa non solo esaltò il combattimento, ma combattè. Noi sappiamo che essa non ebbe paura di un esercito, mentre Nietzsche come tutti sappiamo, ebbe paura di una mucca. Tolstoj si limitò a fare l’elogio del contadino; essa fu contadina. Nietzsche si limitò a fare l’elogio del guerriero; essa fu guerriera.
Essa li vince tutti e due sul terreno dei rispettivi, antagonistici ideali: è stata più dolce dell’uno e più forte dell’altro. Essa fu inoltre una persona perfettamente pratica, che fece qualcosa, mentre essi sono dei folli speculatori che non hanno concluso nulla. Era impossibile che non mi attraversasse la mente il pensiero che essa e la sua fede dovevano avere qualche misterioso senso di unità e di utilità morale che è andato perduto.
E questo pensiero ne provocò un altro più grande: anche la colossale figura del suo Maestro attraversò il teatro dei miei pensieri. Il soggetto trattato da Anatole France, come quello trattato da Ernesto Renan, furono oscurati dalle medesime difficoltà derivanti dal pensiero moderno. Anche Renan tenne divise, nel suo eroe, la bontà e la combattività. Renan rappresentò la giusta rabbia di Gerusalemme come un semplice esaurimento nervoso dopo le idilliche aspettative della Galilea. Come se l’amore per l’umanità fosse incompatibile con l’odio per l’inumanità. Gli altruisti, con sottile, debole voce, denunziano Cristo come un egoista. Gli egoisti (con voce ancor più debole e sottile) lo denunziano come altruista. Nel presente clima si comprendono certi cavilli. L’amore di un eroe è più terribile dell’odio di un tiranno. L’odio di un eroe è più generoso dell’amore di un filantropo. C’è, in questo, una sanità profonda ed eroica, di cui gli uomini moderni possono solo raccogliere i frammenti. C’è un gigante di cui vediamo solo le braccia abbandonate e le gambe che si allontanano. Essi hanno lacerato l’anima di Cristo in due brandelli grotteschi, catalogati come egoismo e altruismo, e sono egualmente sconcertati dalla Sua folle magnificenza e dalla Sua insana dolcezza. Si sono divisi le Sue vesti e se le sono giocate a dadi; benché la Sua tunica fosse senza cuciture e tessuta tutto d’un pezzo.

di Gilbert Keith Chesterton

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Ammirare un divino drappello e un divino capitano

Posté par atempodiblog le 6 mai 2011

Ammirare un divino drappello e un divino capitano dans Citazioni, frasi e pensieri chesterton

Il cristianesimo è venuto nel mondo prima di tutto per affermare con violenza che l’uomo doveva guardare non solamente dentro di sé, ma anche fuori, doveva ammirare con stupore ed entusiasmo un divino drappello e un divino capitano. Il solo piacere che si prova a essere cristiani è quello di non sentirsi soli con la Luce interiore, è quello di riconoscere nettamente un’altra Luce, splendida come il sole, chiara come la luna.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Comprendere

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2010

Comprendere dans Citazioni, frasi e pensieri affetto

Comprendere non vuol dire tanto sentire con tutti quelli che sentono, ma soffrire con tutti quelli che soffrono.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Dio conosce la strada per uscire dal sepolcro

Posté par atempodiblog le 15 juin 2010

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“Il Cristianesimo è stato dichiarato morto infinite volte. Ma, alla fine, è sempre risorto, perché Dio conosce bene la strada per uscire dal sepolcro”.

-Gilbert Keith Chesterton-

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Il canto dell’asino

Posté par atempodiblog le 22 octobre 2009

Il canto dell'asino dans Citazioni, frasi e pensieri Domenica-palme

«Il mio verso è ripugnante, ali erratiche le orecchie, sono una diabolica parodia ambulante di ogni quadrupede. Cencioso proscritto dal mondo, vecchia capoccia ostinata, affamami, frustami, deridimi: rimarrò muto, tenendo dentro di me il mio segreto. Stolti! Anch’io ho avuto la mia grande ora, un’ora dolce e fiera: sentivo acclamazioni nelle orecchie e avevo palme sotto i miei piedi!».

S’ititola The Wild Knight, ossia “il cavaliere selvaggio”, ed è una bella poesiola di quell’eccezionale scrittore cattolico inglese che è stato Gilbert K. Chesterton (1874-1936). A parlare, come nelle favole, è un animale, l’asino. Alle sue spalle c’è una storia non certo facile: brutto e sgraziato agli occhi di molti, parodia del ben più elegante e ammirato cavallo, vittima di ostinazioni sue e di violenze altrui, questa povera bestia è l’incarnazione del suddito un po’ fallito e un po’ oppresso. C’è, però, un “ma”. E gli ultimi versi lo dicono in modo evocativo: la domenica delle Palme fu un asino al centro della festa perché su di lui Cristo era salito, proprio come usavano fare in tempo di pace i re che optavano per il più pacato e trotterellante somaro durante i loro percorsi in città. La parabola è chiara: tante persone malvestite e brutte, messe ai margini o sfruttate, hanno chi le stima e pensa a loro. E noi dovremmo qualche volta di più rompere lo schema pubblicitario del bello e perfetto per andare oltre le apparenze e scoprire le anime, i valori nascosti, la bellezza interiore. Infatti, normalmente è più prezioso l’asino del cavallo, la gallina rispetto al pavone: metafora che tutti possono capire.

di Gianfranco Ravasi

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… credere a tutto.

Posté par atempodiblog le 30 mai 2009

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« Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto ».

-Gilbert Keith Chesterton-

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Il guaio dell’uomo moderno

Posté par atempodiblog le 26 janvier 2009

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“Il guaio dell’uomo moderno non è quello di avere perso la fede, ma quello di avere perso la ragione”.

-Gilbert Keith Chesterton-

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