Dio giudice e Misericordioso

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

Dio giudice e Misericordioso dans Alessandro Manzoni cfbw

Si parlava della celebre frase di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. La pensava così anche il suo contemporaneo Alessandro Manzoni.

Nei “Promessi sposi”, infatti, uno dei personaggi più riusciti è utilizzato dal Manzoni proprio per rendere visibile questo concetto. Parlo dell’Innominato. Quest’uomo malvagio, indurito, ma non per sempre, dai suoi crimini, viene infatti introdotto dal poeta attraverso il paesaggio che lo circonda. L’Innominato infatti abitava “a cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione, apparentemente geografica, dice già tutto quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un giudizio su di sé, in nome della sua completa autonomia.

All’Innominato avviene dunque come ad un personaggio di  Dostoevskij, Sigalev: “Sono partito dalla libertà illimitata e finisco nel dispotismo assoluto”. Non vendendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili.

Diciamolo subito. Si può finire male anche credendo in Dio. Don Abbondio ne è un esempio, così come lo è un personaggio di Chesterton che è solito passeggiare nella parte sopraelevata della sua chiesa, essendo un pastore. Di lì osserva, dall’alto al basso, tutti gli altri. Sino al punto di ritenere che la sua “bontà” gli permetta di ergersi a giudice di un suo fratello, ubriacone e peccatore; sino al punto di fulminarlo, dall’alto, lasciandogli cadere un martello in testa. 

Perché chi crede in Dio può benissimo farne una sorta di soprammobile, come fa don Abbondio, oppure può essere tentato di sentirsi buono e giusto (lui), in un mondo di peccatori (gli altri). La superbia, male per eccellenza, è dunque sempre in agguato. Per questo Dostoevskij fa dire a padre Zosima, ne “I fratelli Karamazov”: “Amate l’uomo anche con il suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è il culmine dell’amore sopra la terra”. Non facile, certo.

Ma torniamo al nostro Innominato. Manzoni ne descrive in modo esemplare la conversione. Dice infatti che all’epoca del rapimento di Lucia da lui ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore” , “una non so qual rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può credere dio, sino ad un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è forti, finché si ha successo, finché si calca la scena tra gli applausi del mondo.

Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia ad intravedere la morte, e sentirsi ancora dio si fa difficile. Come Dorian Gray: si può mettere la coscienza del peccato in soffitta per tanto tempo, ma poi ad un certo punto diventa insopprimibile la domanda: e poi?

L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione, che tacita il rimorso e la paura, ma si trova “ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa quello che ho fatto? Cos’importa?”.

Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia: e l’Innominato, che lo sa, se lo chiede: “io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste?

Manzoni descrive sapientemente questi dilemmi, e decide di descrivere l’Innominato sul punto di suicidarsi, in preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse, ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo.  E’ stato il demonio a suggerirti il suicidio, dirà infatti Federigo Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.

E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio Giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio Misericordioso. Pronto a perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento.  Poi, dopo le parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo abbraccia e rende presente quel perdono. La Fede si diffonde per contagio.  Contagiano coloro che vivono un Dio giusto e misericordioso. Contagiano talora anche coloro che per una vita si sono seduti sul trono di Dio.

Francesco Agnoli – Il Foglio

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Sottomettersi l’uno all’altro

Posté par atempodiblog le 23 mai 2013

Sottomettersi l’uno all’altro dans Francesco Agnoli fogliealvento

Un coniuge che pesasse sulla bilancia tutti gli errori dell’altro coniuge, e contabilizzasse ogni sbaglio del suo compagno di vita, sarebbe un cristiano?

Francesco Agnoli: Una grande santa educatrice, Teresa Verzeri, scriveva a sua sorella, che ogni tanto le scriveva parlando dei difetti del marito, “sicuramente tuo marito ha grandi difetti, io che ti conosco ti posso dire che li hai anche tu!”. Diceva “sottomettiti” e la parola, come quella che è nel libro di Costanza Miriano, detta così all’uomo di oggi dà molto fastidio eppure il matrimonio, posso dirlo anch’io per la mia esperienza, è continuamente un sottomettersi l’uno all’altro, perché non si può andare avanti, a meno che non ci sia disparità di un carattere santo accanto ad un caratteraccio. Ma di solito non è così… di solito si sta un po’ sulla stessa barca. Bisogna sottomettersi l’uno all’altro, bisogna, nel matrimonio, costantemente piegare il capo una volta l’uno una volta l’altro, c’è chi lo piega di più… però sostanzialmente bisogna cercare di essere sottomessi l’uno all’altro.

Rosanna Brichetti Messori: Anche perché in realtà noi siamo convinti che l’altro debba, come dire, venire incontro ai nostri bisogni e se l’altro non viene incontro… noi ci lamentiamo e non capiamo invece che il segreto vero, io naturalmente credo che ci ho messo cinquant’anni per capirlo, è andare noi incontro all’altro, cioè non pretendere, accettare l’altro com’è. Invece di pretendere che l’altro venga incontro a noi e ci capisca sempre.

Tratta da una conversazione radiofonica

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Alcune semplici riflessioni sul nuovo pontefice

Posté par atempodiblog le 21 mars 2013

Alcune semplici riflessioni sul nuovo pontefice
Francesco Agnoli, da “Il Foglio” di oggi, 21/3/2013
Tratto da: Kairòs

Alcune semplici riflessioni sul nuovo pontefice dans Articoli di Giornali e News francescoagnoli

Applausi: tantissimi. Viene da pensare a Gesù: alla domenica delle Palme, all’entusiasmo della folla, seguì poi l’abbandono. Anche un altro papa, Pio IX, fu accolto dall’esultanza non solo delle folle, ma dei media di allora. Poi dovette fuggire dal Vaticano in gran fretta. E’ bello che ci sia tanto entusiasmo: da una parte c’è un desiderio vero di un Padre, c’è attesa verso la Chiesa. Ma non pochi applausi sono ipocriti: provengono da chi vorrebbe non riforma, ma rivoluzione; da tanti che vorrebbero archiviare al più presto, alzando la voce, ciò che di scomodo ha detto, in questi anni, Benedetto XVI.

Liturgia: il modo di predicare di Papa Francesco appare essenziale, chiaro, da parroco di campagna: Cristo, croce, Madonna e, non di rado, il diavolo. Certamente un modo molto diverso da quello del teologo Ratzinger, ma da un certo punto di vista quasi più tradizionale. Così come la recita, subito del Pater noster e dell’ave Maria e il gesto, così semplice e popolare, di portare fiori alla Madonna. Meno tradizionale, invece, il modo di celebrare. E’ però una falsità grossolana -che dimostra ancora una volta il tentativo di strumentalizzazione di alcuni- la notizia secondo cui Bergoglio avrebbe detto a monsignor Marini, che gli porgeva gli abituali abiti pontificali, di mettersela lui quella “roba” perché “è finito il carnevale” (se anche lo avesse detto, cosa che non è stata, nessuno lo potrebbe sapere, dal momento che nella stanza delle lacrime si recano solo il Maestro delle cerimonie e il nuovo papa).

Evangelizzazione: è prematuro formulare giudizi su quali saranno i fondamenti della evangelizzazione di papa Francesco. Leggendo alcune sue prediche passate sembra di vedere un certo desiderio di tenere insieme verità e carità. Un equilibrio, certo, sempre difficile. Ma sempre necessario. I rischi infatti sono due: da una parte chi enfatizzando la Verità, dimentica la carità; dall’altra chi, per sottolineare la Verità, da altri negata, cercando di fare da contrappeso, scade nel rigorismo. Abbiamo così i cattolici modernisti che, figli del relativismo mondano, non evangelizzano più, perché, in ultima analisi, non credono né nell’unico Salvatore, né nella sua Chiesa. Dall’altra cattolici che, osservando la triste situazione odierna, sono quasi paralizzati e annichiliti dalla potenza del male: finendo per non evangelizzare più neanche loro, perché privi della virtù teologale della Speranza.

Se chi mette la verità da una parte, in nome dell’amore, non ama neppure più, d’altra parte chi afferma la verità come possesso personale, a denti stretti, quasi come ripicca, come rivalsa, con zelo amaro, con vanità, come affermazione di una superiorità, mirando al giudizio più che alla correzione fraterna… tradisce la verità stessa. In passato il cardinal Bergoglio ha citato come emblematico, per l’oggi, la figura di Giona: “… Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il suo perdono e nutrirli con la sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta…”.

Evangelizzare significa allora rinunciare a dire la verità, a dire che Ninive è Ninive? No, certamente. Significa però, per un uomo di Dio, per chi incontra il prossimo non con un libro o un articolo di giornale, non trasformare Dio-Padre né in uno sciocco buonista né in un giudice senza Misericordia. Cosa sarebbe la verità, per esempio, senza perdono? Se un cristiano, offeso, pensasse solo a far valere il suo diritto, pur vero, che seguace di Gesù sarebbe? Un coniuge che pesasse sulla bilancia tutti gli errori dell’altro coniuge, e contabilizzasse ogni sbaglio del suo compagno di vita, sarebbe un cristiano? Nessuno, neppure il papa, ha il diritto, con la Rivelazione, di fare come fosse cosa sua. Ciò che è rivelato da Dio come bene, è e rimane tale; ciò che è male, rimane male. Non è possibile in questo, che la Chiesa si adatti; che cambi, che segua i tempi… Ma nella concretezza della vita, ogni volta che un fratello compie il male, l’umiltà deve essere la virtù che ci impedisce di ergerci a giudici di chi non possiamo, in ultima analisi, giudicare; la carità con cui agiremo eviterà che la nostra correzione chiuda il fratello alla speranza del perdono.

Non c’è alcuna autorità che condanni l’aborto più della Chiesa; eppure i cattolici sono i primi a dedicarsi all’aiuto delle ragazze madri e di chi ha abortito. Così la Chiesa, che predica la purezza, ha sempre dedicato la sua compassione anche alle prostitute, o, in tempi più recenti, ai malati di aids. Se non predicasse più la purezza tradirebbe Cristo; se non amasse più i peccatori, lo stesso. Quando si professa la verità, senza la carità, la si deturpa, come i farisei; quando si professa la carità, senza la verità, si è degli ingannatori.

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Abortiti da vivi. Le nuove “idee” sull’infanticidio e la scienza di Carlo Bellieni per alleviare il dolore dei feti.

Posté par atempodiblog le 19 janvier 2013

Abortiti da vivi
Le nuove “idee” sull’infanticidio e la scienza di Carlo Bellieni per alleviare il dolore dei feti.
di Francesco Agnoli - Il Foglio (8-03-2012)
Tratto da: Marcia per la vita

Abortiti da vivi. Le nuove “idee” sull’infanticidio e la scienza di Carlo Bellieni per alleviare il dolore dei feti. dans Aborto aborto

[...] due soggetti italiani, momentaneamente all’estero (quando la fuga dei cervelli coincide con la fuga del cervello), Alberto Giubilini e Francesca Minerva, hanno proposto, su un giornale scientifico di rilievo, il Journal of Medical Ethics, un articolo a sostegno dell’infanticidio, intitolato: “Aborto dopo la nascita, perché il bambino dovrebbe vivere?”. Giusto! Perché? Minerva e Giubilini, dall’alto della loro “filosofia” e delle loro prestigiose collaborazioni, Oxford compresa, se lo chiedono.

E poi danno senza imbarazzo, risposte chiare, precise: c’è chi può (vivere) e chi non può. E’ il miracolo del relativismo: in nome dell’assenza di ogni Verità, due soggetti che un signore tedesco, non bello, con i baffi, anni Trenta, avrebbe forse corteggiato per uno dei suoi progettini di miglioramento della specie comminano pene di morte ai loro simili rei soltanto di esistere.

Detto questo, per accennare al fatto che tutto si tiene, vorrei notare che i due soggetti sopra indicati, a cui non posso togliere lo status di “persone” che invece loro negano ai feti e ai neonati (i quali non avrebbero “lo status morale di una reale persona umana”), fanno parte di un comitato di bioetica presieduto da quel Maurizio Mori che è stato il grande consigliere di Beppino Englaro e che viene spesso omaggiato sulla grande stampa italiana. La stessa che sbeffeggia, o meglio ignora, quei poveri retrogradi dei bioeticisti cattolici.

Ma perché farci il sangue amaro con questi attardati fans della rupe Tarpea e del monte Taigeto? Meglio soffermarsi su un vero cervello, nostrano, che continua ad abitare in Italia, ma viene consultato di continuo all’estero, nei paesi più svariati del mondo, dal Giappone all’Arabia Saudita, non per le sue biocretinerie filosofiche senza fondamento, ma per la sua serietà, per i suoi lavori scientifici sui bambini, dentro e fuori l’utero materno.

Sto parlando di Carlo Bellieni, noto neonatologo, membro della Pontifica Accademia per la vita, collaboratore di prestigiose riviste scientifiche di tutto il mondo (oltre che di vari quotidiani italiani, dall’Osservatore Romano ad Avvenire). Il lavoro di Bellieni incomincia nel 2000 dall’osservazione di quanto i piccoli feti nati precocemente (anch’essi “non persone”, per Minerva e soci), vanno incontro ad interventi dolorosi e, all’epoca, con scarsa attenzione al loro dolore, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Bellieni inizia così a fare studi su come certe manovre senza l’uso di farmaci possano vincere questo dolore; e vede come prima cosa che se gli si danno una serie di stimoli, assieme alla somministrazione di una soluzione di zucchero, il dolore sparisce: chiama tutto ciò “saturazione sensoriale”, espressione  che oggi è entrata nelle linee-guida in diversi Paesi.

Togliere il dolore a questi piccoli feti prematuri è il primo passo; il secondo è misurarlo, con l’aiuto di alcune esperte di ingegneria e di fisica, analizzando lo spettro vocale del pianto del feto prematuro e del neonato a termine, per creare delle scale di misurazione (e degli apparecchi appositi).

Lavorando con feti fuori dal pancione, Bellieni comincia a chiedersi: cosa proverebbero se fossero ancora dentro? La risposta diventa possibile iniziando a misurare le risposte che i bambini già nati danno a certi stimoli, e vedendo se differenti risposte sono legate a differenti esperienze prenatali. Bellieni inizia studiando un gruppo di bambini nati dopo che le loro mamme sono state tenute ferme a letto in gravidanza per motivi clinici; poi studia i figli di mamme ballerine, che hanno continuato a praticare danza durante la gestazione: i loro figli richiedono di essere cullati più energicamente degli altri per addormentarsi, segno evidente della continuità tra la vita uterina e quella post uterina.

Un ulteriore studio di Bellieni è poi verificare come il feto nel pancione reagisca agli stimoli e soprattutto se si abitua ad essi, come succede ai bambini già nati, che, dopo un brusco stimolo, alla terza o quarta volta che gli si propone, non trasaliscono più. Con l’osservazione ecografica di una ventina di feti di circa 30 settimane di gestazione, nota che dando uno stimolo rumoroso attraverso il pancione, il feto strizza gli occhi e gira la testa dall’altra parte, proprio come un bambino più grande, e proprio come questo smette di farlo dopo un certo numero di stimoli.

Di qui e da altri esperimenti nascerà il testo “Sento, dunque sono” (Cantagalli), che raccoglie quello che al mondo si sa sulle sensazioni fetali. Tra i sensi fetali c’è proprio il dolore. C’è nel neonato e c’è già nel feto! Per raccontarlo Bellieni, insieme al professor Giuseppe Buonocore, ha raccolto in un altro testo, in inglese, quanto anche in questo campo i maggiori studiosi mostrano nella loro pratica clinica: “Neonatal pain: pain, suffering and risk of brain damage in the fetus and newborn” (Springer Ed).

Ai predicatori dell’infanticidio manca, non solo il cuore, ma anche la scienza… due cose che vanno, spesso, insieme.

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San Giuseppe Moscati

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2012

San Giuseppe Moscati

San Giuseppe Moscati dans Francesco Agnoli San-Giuseppe-Moscati

Medico e professore di prim’ordine, dedicò la sua vita ai malati ed ai poveri, consapevole che sovente “la scienza gonfia”, mentre “la carità edifica”.
Riflettendo sul lavoro del medico, nobilissimo ma incapace, in ultima analisi, di sconfiggere la morte corporale, ricordava che il medico non deve solo essere uomo di scienza, ma anche uomo di carità e amore.
Scriveva: “Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini sono passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene”.

di Francesco Agnoli

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Dopo Auschwitz è possibile credere in Dio?

Posté par atempodiblog le 9 novembre 2012

Dopo Auschwitz è possibile credere in Dio?
di Francesco Agnoli – Il Foglio (2010)
Tratto da: Libertà e Persona

Dopo Auschwitz è possibile credere in Dio? dans Articoli di Giornali e News conversazioniatavoladih

C’è un ritornello che si sente spesso: “E’ possibile credere a Dio, dopo Auschwitz?” Come tutti i luoghi comuni, questa domanda, pur mal posta, ha un suo significato. Già Agostino, infatti, si chiedeva: “Si Deus est, unde malum?” (se Dio esiste, da dove il male?).

Severino Boezio formulava un pensiero analogo, ma più completo: “Si quidam Deus est, unde mala? Bona vero unde, si non est?” (Da dove i mali, se Dio c’è? Ma se non c’è, da dove il Bene?). Come a dire che postulare come inesistente Dio, non solo non risolve il problema del bene e del male, ma lo aggrava.

Se Dio non esiste, infatti, è la distinzione stessa tra bene e male che cade, come il relativismo insegna. L’ateo assoluto, intransigente, può infatti giustificare, al più, l’esistenza del male fisico, come effetto di una imperfezione insita nella casualità della natura, ma non può neppure discutere, se è coerente, sul bene e sul male morali. Odi, omicidi, guerre ecc.: in base a quale principio questi eventi “naturali” sarebbero un male morale, se Dio non esiste? Lo sterminio degli ebrei e dei polacchi fu stabilito da un potere umano “legittimo”. Come ritenerlo iniquo, se quel potere non fosse giudicabile da un altro Potere, da una Giustizia ad esso superiore?

Ecco perché per condannare Auschwitz, in verità, bisogna non essere del tutto relativisti e credere ancora ad una natura umana non puramente materiale (altrimenti perché Auschwitz piuttosto che una tonnara?), alla Verità, alla Giustizia, cioè a qualcosa di metastorico, eterno, divino.

Ma non è tutto. La frase citata all’inizio, pur umanamente comprensibile, risulta anzitutto incompleta. Infatti, dal momento che i gulag vengono prima dei lager, e non hanno nulla da invidiare ad essi, bisognerebbe aggiungere: “E dopo Arcipelago Gulag, come credere in Dio?”. Perché questa aggiunta non viene mai fatta? Forse perché è chiara a tutti l’essenza profondamente atea del comunismo? Forse perché è noto che molti degli oppositori al sistema dei gulag, da Solgenicyn in Urss, a Valladares a Cuba, sino a Harry Wu e Liu Xiaobo, in Cina, sono o sono stati credenti?

Ecco che le vicende del Novecento, cioè del secolo più violento e sanguinoso della storia, se guardate con occhio sincero, svelano che in verità, dopo i gulag e i lager, non è più possibile credere, anzitutto, all’uomo, soprattutto all’uomo che si erge a Salvatore.

Ma per rispondere ancora meglio alla domanda iniziale, “E’ possibile credere a Dio, dopo Auschwitz?”, penso sia utile anche un libro, “Conversazioni a tavola di Adolf Hitler”, ristampato proprio quest’anno, dopo ben 50 anni, dall’ editrice Goriziana.

Quest’opera, per chi abbia affrontato testi fondamentali del nazismo, come il Mythus di Alfred Rosemberg, le memorie di Albert Speer, i diari di Goebbels, le conversazioni di H. Rauschning, i discorsi di Walter Darrè ecc., non dice nulla di sostanzialmente nuovo: Hitler era un fierissimo avversario della visione biblica, cioè dell’idea di un Dio Creatore del cosmo, come di ogni singolo uomo.

Sono idee, dicevo, ben conosciute dallo storico, ma non dalla vulgata, se è vero come è vero che non di rado si può sentire il personaggio di turno ripetere, come un disco rotto: “Ma Hitler era cattolico e battezzato!”.

Vediamo allora cosa spiegava il dittatore impegnato ad istruire i suoi ospiti, in tutta libertà, cioè non vincolato da considerazione di opportunità politica o di strategia mediatica. Nelle sue conversazioni a tavola egli ricordava il suo professore di religione, l’abate Schwarz: “Lo provocavo”, raccontava, ponendo “domande imbarazzanti sulla Bibbia”, poiché “non potevo sopportare tutte quelle ipocrisie. Ho ancora dinnanzi quello Schwarz col suo naso lungo. Guardandolo vedevo rosso. E ricominciavo peggio di prima. Appena mia madre venne a scuola, egli si precipitò su di lei per spiegarle che ero un’anima perduta”.

Il colpo più duro che l’umanità abbia ricevuto, dichiarava Hitler la notte tra l’11 e il 2 luglio 1941, è l’avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è un figlio illegittimo del cristianesimo. L’uno e l’altro sono un’invenzione degli Ebrei”.

Il cristianesimo, proseguiva, dopo aver esaltato “Giuliano il Grande” e deplorato “Costantino l’Apostata”, è “un’ invenzione di cervelli malati”, un insieme di “mistificazioni ebraiche manipolate dai preti”, “la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell’amore”; è intollerante, inganna il popolo, contraddice la ragione e “lo sviluppo scientifico”; proclama un egualitarismo iniquo, diffonde l’idea pericolosa e nociva dell’aldilà e di un Dio trascendente (in contrasto, a suo dire, con “la teoria dell’Evoluzione”); venera “il volto contorto di un crocifisso”; separa l’uomo dalla materia, mentre “non esiste alcuna frontiera tra l’organico e l’inorganico“…

Quanto ai preti, sono “aborti in sottana“, “brulichio di cimici nere”, “rettili”: è la Chiesa cattolica stessa che “non ha che un desiderio: la nostra rovina”. Così parlava il creatore dei lager, mentre tesseva l’elogio del vegetarianesimo e descriveva l’uomo come “il microbo più pericoloso che si possa immaginare”.

La domanda iniziale mi sembra dunque che vada riformulata: “Dopo lager e gulag, comunismo e nazionalsocialismo, è ancora possibile fare a meno di Dio?”.

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Il vero Che Guevara

Posté par atempodiblog le 20 octobre 2012

Il vero Che Guevara
di Francesco Agnoli – Radici Cristiane 2008
Tratto da: Corrispondenza Romana

Il vero Che Guevara dans Articoli di Giornali e News proffrancescoagnoli

Il mito del Che è costante, non passa mai di moda presso i ragazzi, gonfiato  ad arte da chi vuole “educare” le giovani generazioni ad una prospettiva alternativa e antisistema. Nella cinematografia, invece, questo mito ritorna ogni tanto…ma ritorna.
Dopo El Che Guevara (scritto da Adriano Bolzoni, diretto da Paolo Heusch e interpretato da Francisco Rabal), dopo Che! (diretto da Richard Fleischer e interpretato da Omar Sharif), dopo Diari della motocicletta (di Walter Salles, con Gael Garcia Barnal), adesso esce Che (di Steven Soderbergh e interpretato da  Benicio Del Toro). Film, quest’ultimo, presentato al recente Festival di Cannes.
Alla domanda di un giornalista su quale fosse la sua opinione sul Che, il regista Soderbergh ha risposto: «Le sue idee hanno superato frontiere politiche e barriere culturali. Guevara non aveva bisogno di un film per elogiarlo o demolirlo. Ero io ad avere bisogno di una grande storia da raccontare» (Il Giornale, 23/5/2008) Francesco Gallo, inviato ANSA a Cannes, così recensisce il film: «Va bene che si toccava un’icona come Che Guevara e che bisognava far bene, Ma Steven Soderbergh con il suo “Che” si è inoltrato troppo sulla strada del santino, dell’agiografia. E alla fine di quattro ore e mezzo della proiezione qualcuno, che era stato così coraggioso da rischiare fame e disidratazione, avrebbe voluto, anche solo per proiettare il suo disagio, conoscere almeno un difetto del rivoluzionario argentino. Ma niente. (…). A pensarci bene un momento di rabbia il protagonista l’ha avuto, ma a farne le spese è stato solo un povero cavallo che ad un certo punto colpisce con una pietra».
Un film come questo tende solo a confermare una falsa mitologia su un  personaggio che non merita alcuna rappresentazione oleografica, ma anche
semplicemente descrittiva senza giudizi di sorta. 

Diciamo la verità

Chi fu davvero Ernesto Che Guevara? Viene presentato come una sorta di cavaliere senza macchia e senza paura, come un liberatore amante della giustizia e dell’uomo, una sorta di santo laico. Tutto falso.
Quando a qualche studente mi capita di raccontare che Che Guevara disse una volta al comunista italiano Pietro Ingrao: «Se un venezuelano mi chiedesse oggi un consiglio, gli risponderei così: “quello che dovete fare è cominciare a sparare alla testa e ammazzare tutti i borghesi dai quindici anni in su”», ebbene, quel giovane mi guarda quasi sempre stupito come se gli raccontassi la più grande delle assurdità. Eppure è così.
Procediamo con ordine. Che Guevara si distinse più volte per la durezza dei metodi. Anzi, polemizzava con chi decideva di essere per lui troppo “morbido”. Arrivò a definire lo stesso Fidel Castro come “leader radicale della borghesia di sinistra”, perché a suo dire era troppo “sensibile” a inutili calcoli politici.
Che Guevara si distinse sempre per il suo favore a processi che non dovevano andare per le lunghe, meglio se sommari. Sempre ai ribelli venezuelani
una volta disse di non aspettare verdetti e indagini ma di “prendere un fucile e sparare su ogni imperialista”.
Nella Rivoluzione cubana, durante l’avanzata del 1957, si distinse per l’efferatezza con la quale interpretò il suo modo di essere rivoluzionario e di liquidare nemici e presunti traditori.
Famoso è il caso di Eutimio Guerra, un guerrigliero che venne accusato di collusione con il nemico, cioè con l’esercito di Fulgencio Batista, l’allora
dittatore di Cuba. Guerra venne immediatamente deferito ad un’improvvisata corte marziale. Che Guevara, malgrado i tempi già rapidi, ne anticipò il verdetto.
Raccontò successivamente un suo commilitone: “Io avevo un fucile e in quel momento il Che tira fuori una pistola calibro 22 e pac, gli pianta una pallottola qui. Che hai fatto? Lo hai ucciso. Eutimio cadde a pancia in su, boccheggiando”.

Aguzzino e sanguinario

Nell’anno della “liberazione” di Cuba, il 1959, Che Guevara venne convocato da Castro e il 7 settembre ricevette l’incarico provvisorio di procuratore militare. Fu il convulso periodo che segue ogni cambiamento di regime, fu la caccia agli sconfitti, l’epurazione degli avversari.
Anche in questo periodo Che Guevara si distinse per la durezza. Si aprì a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale” (cioè di lavoro forzato), e fu
proprio Che Guevara a disporlo preventivamente e a organizzarlo nella penisola di Guanaha. Poi lui stesso ne istituì altri: ad Arco Iris, a Nueva Vida e a Palos. Gli ultimi due destinati addirittura ai bambini sotto i dieci anni, figli degli oppositori politici, che, in quel Campo, sarebbero dovuti essere educati ai principi della “pace”, della “libertà” e della “tolleranza”.
381 prigionieri, che si erano arresi alle truppe di Castro sull’Escambray, furono incarcerati a Loma de los Coches e tutti fucilati. Che Guevara rifiutò categoricamente la grazia a Humberto Sorì Marin per il quale aveva chiesto misericordia la madre in persona.
Fu proprio Che Guevara a volere la famosa DSE (il Dipartimento della Sicurezza dello Stato) e fu lui a decidere le punizioni corporali a cui dovevano essere sottoposti i dissidenti pericolosi: salire le scale delle prigioni con scarpe zavorrate di piombo, tagliare l’erba con i denti, essere impiegati nudi nei lavori agricoli, essere immersi nei pozzi neri.

Un vero marxista

E naturalmente, da buon marxista, Che Guevara se la prese anche con la Chiesa. Pascal Fontaine, nel suo libro America Latina alla prova, calcola che a
Cuba 121 sacerdoti persero la vita fino al 1961, cioè nel periodo in cui proprio Che Guevara era il massimo artefice del sistema segregazionista del regime.
Per concludere, proprio di Che Guevara furono queste parole: “Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini perché questo rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”.
Non c’è da stupirsene, se è vero (come è vero) che già Lenin (che spesso viene presentato come il volto ancora pacifico del comunismo) aveva affermato: «La dittatura del proletariato è un dominio non limitato dalla legge, si regge sulla violenza».

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Eutanasia e fede

Posté par atempodiblog le 6 septembre 2012

Eutanasia e fede dans Articoli di Giornali e News

Ovunque vada, Beppino Englaro, viene accolto da una folla, plaudente, quasi entusiasta. E’ una di quelle persone che riescono ancora a tirar fuori la gente di casa. Ma chi siete andati a vedere?, verrebbe da chiedere. Recentemente Englaro è venuto in un paesino della mia terra, Mezzolombardo, in cui molte persone, su invito di un assessore che proviene dal PATT (forse l’unico partito in Italia che nello statuto si propone di seguire la dottrina sociale della Chiesa), avevano firmato la richiesta perché si introducesse nel comune il testamento biologico. Quel testamento, poi, non lo ha firmato nessuno.

Perché una cosa è plaudire al principio secondo cui chi vuole morire, deve poterlo fare quando vuole, altra cosa invece è pensare alla propria morte, e all’eventualità che un giorno qualcuno ci aiuti ad andarcene, magari con troppo fretta o superficialità…
Tante firme, dunque, nessun testamento, e tanti ad applaudire Englaro. Mi viene da pensare che sia solo questione di tempo. L’eutanasia, se le cose continuano così, entrerà a breve in tutte le legislature europee. Chi si batte per la vita, deve ovviamente lottare anche sul fronte delle leggi. Ricordando, però, che se la battaglia rimane ferma lì, a vincerla sarà solo chi, come i radicali, ha la pazienza di erodere un confine alla volta. La battaglia vera è ancora una volta teologica.
Perché l’eutanasia, come il suicidio, in ogni tempo, ci porta ad una sola domanda: esiste Dio? In una società in cui il senso di Dio è presente, in cui Dio è Creatore e amico dell’uomo, l’eutanasia non entrerà mai. In una società, invece, in cui Dio è espulso dalla vita di ogni giorno, il suicidio è inevitabile. Da un punto di vista logico, è facilissimo da comprendere: Cristo, infatti, cioè un Dio “con noi”, rende ogni vita, e ogni morte, quale che essa sia, degna di essere vissuta. Ogni vita, perché la vita ha senso solo se ha un respiro che vada al di là dei muri di questo mondo; ogni morte, perché ogni morte è un evento vero e significativo solo se apre a qualcosa. Altrimenti è un non evento.
Ma questa verità può essere compresa anche da un punto di vista storico. Il sociologo Marzio Barbagli, nel suo “Congedarsi dal mondo”, ci ricorda che nel mondo cristiano il suicidio era più raro, ed è invece più diffuso laddove la società è più secolarizzata (nei regimi atei si raggiunge sempre il top). In un mondo cristiano la vita è anzitutto dono di Dio: un dono non si butta via, non si spreca; ed è anche un compito: un compito da portare a termine. Dio ci dona la vita, ma ce ne chiede anche conto. Chi crede in Lui, dunque, vi attinge fede, speranza e carità: fede, cioè fiducia che tutto ciò che accade, anche il male, sia in fondo grazia perché anche dal male si può trarre il bene; speranza, cioè certezza nella presenza di Dio accanto a noi; carità, cioè amore, per Dio, ma di conseguenza anche per noi stessi, sue creature, e per chi ci sta vicino (per cui uccidersi diventa tradire l’amore, per Dio, per sé, per gli altri che ci amano).
A fermare il gesto estremo di molte persone, nella società cristiana, ricorda sempre il Barbagli, furono spesso, oltre all’amore per Dio, la paura dell’inferno e la consolazione della confessione. L’uomo di fede sa dunque che, come di fronte al male fisico vi è sempre la possibilità di affrontarlo, così di fronte a quello morale, non si è mai definitivamente sconfitti dalla propria colpa, dal senso della propria miseria. In varie culture esiste il “suicidio di vergogna”, come ammissione di un fallimento: nel cristianesimo, nessuno è mai fallito del tutto, perché tutti possono rinascere a vita nuova, perdonati da Cristo, lavati dal suo sangue. Infine, nota sempre il Barbagli, la società cristiana aveva una forte coesione sociale: ciò significa che l’esistenza di una famiglia salvava tantissime persone dalla disperazione, vuoi perché sperimentavano l’amore di qualcuno, vuoi perché sentivano, nei suoi confronti, un forte senso del dovere.
Se tutto questo è vero, vivere è, nelle società di fatto atee e secolarizzate, un impegno sempre più gravoso: siamo soli, esistenzialmente, se Dio non c’è (senza una fede e una speranza che siano soprannaturali e non soltanto buoni auspici). Non amiamo Dio, né lo temiamo, né ne cerchiamo il conforto ed il perdono.
Inoltre proprio l’aver scacciato Dio dalla nostra vita, ci consegna al nostro egoismo, all’individualismo: non per caso viene oggi a mancare anche la coesione sociale. La famiglia è sempre più disgregata e ridotta. Pochi matrimoni e pochi figli. Vuoto demografico. Così la solitudine esistenziale, metafisica, diventa solitudine concreta, di tutti i giorni.

Così Englaro, annunciatore non della buona novella, non della resurrezione, ma della morte “autonoma”, può avere tanti fans. Oggi che la vita è sempre meno sacra, perché non vi è più Dio, può rimanere, sacro, il dolore? Può rimanere evento da preparare, cui giungere “parati” (estote parati, si diceva un tempo), la morte? Se è il nulla eterno che ci aspetta, il nulla ci circonda. Circonda vita e morte. Balzarci dentro, prima o dopo, per un infarto o per suicidio assistito, cambia nulla…

di Francesco Agnoli – Il Foglio

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Ha senso la morale senza Dio? Rispondono Dostoevskij e Francis Collins

Posté par atempodiblog le 3 mai 2012

Ha senso la morale senza Dio? Rispondono Dostoevskij e Francis Collins
di Francesco Agnoli
Fonte: “Perché non possiamo essere atei” (Piemme 2009)
Tratto da: Uninone Cristiani Cattolici Razionali (uccr)

Ha senso la morale senza Dio? Rispondono Dostoevskij e Francis Collins dans Fedor Michajlovic Dostoevskij

Pensiamoci bene. Che senso ha la vita morale degli individui, se non esiste un criterio superiore di giustizia? Chi è autore della legge? Esiste una legge vera, giusta, che valga per tutti perché superiore, precedente all’uomo, oppure ogni uomo ha il diritto di credere ciò che vuole, di farsi la sua verità morale, la sua etica? L’uomo è un animale in-cosciente, le cui azioni sono sempre “buone”, come quelle degli animali, perché volute dalla natura, regolate dall’istinto, oppure è un essere cosciente (quale differenza!) capace di scegliere, padrone della sua vita, che può essere libero dall’imperiosità brutale dell’istinto e dei sensi? A ben vedere proprio l’esistenza di una vita morale ha convinto grandi uomini della storia che la natura dell’uomo è non solo animale ma anche spirituale, e li ha portati a porsi la domanda su Dio. Ne citerò solo due: il grande romanziere Fedor Dostoevskij e uno scienziato moderno, uno dei più importanti genetisti di questo secolo, Francis Collins.

Dostoevskij è il massimo rappresentante del realismo russo, nell’epoca in cui altri letterati, come l’ “ateo-diversamente credente” Emile Zola, ritengono che l’uomo possa col tempo diventare “onnipotente” grazie alle sue conoscenze scientifiche, e possa essere studiato esattamente come un “ciottolo della strada”, non essendo, in fondo, nulla di più. Dostoevskij “esplora le strade della città, i vicoli più solitari e ignorati, descrivendo le bettole più sordide, gli antri più sinistri, le stamberghe più malsane… il ventre infetto e brulicante di Pietroburgo, sede del vizio e della degradazione umana”, alcolizzati e prostitute, contadini trasformati in operai, costretti ad una vita infame, e poi in rivoluzionari violenti e nichilisti: ma c’è, nell’autore russo, una distanza enorme dal positivismo e dal determinismo di Emile Zola (che dà importanza assoluta all’ambiente, alle condizioni materiali e sociali); c’è una indagine continua sulla spiritualità del singolo uomo, dotato di libero arbitrio, chiamato a scegliere (e qui c’è il dramma esistenziale) tra il bene e il male,la Fede e l’ateismo…

Dio, il male, la colpa (cioè la morale) sono proprio la tematica fondamentale del nostro autore, ignorata dai naturalisti francesi, che fa di lui un romanziere profondamente dotato di senso religioso e, insieme, un “romanziere psicologico”, precursore degli esistenzialisti. Siamo dunque agli antipodi della cultura positivista dell’epoca, come pure di quella odierna: mentre Dostoevskij racconta e approfondisce gli abissi umani, medici positivisti come Emilio Littre affermano che “il delitto è pazzia”; criminologi come Cesare Lombroso analizzano e catalogano i “crani deficienti”, ritenendo così di poter chiudere la personalità, la libertà, l’originalità di ogni singolo uomo nelle sue caratteristiche fisionomiche; credendo – anche qui la parola non è a caso – che l’uomo sia definito ed esaurito da ciò che si vede e si tocca, dall’ampiezza del cranio, dalla lunghezza degli arti, dalle malformazioni, dalla volumetria e dai bernoccoli della testa. Esattamente come faranno i primi teorici del razzismo; o Charles Darwin, quando riterrà che il cranio della donna, di dimensioni più ridotte rispetto a quello del maschio, sia un segno della sua inferiorità ; o i nazionalsocialisti, quando gireranno il mondo, sino in Tibet, per fare calchi di gesso sul volto degli indigeni, per risalire, tramite misurazioni e fisionomia, all’originaria razza superiore. Un po’ come oggi, allorché sempre più spesso si cerca di far passare una tendenza sessuale, una devianza, o una virtù, come una pura questione genetica.

Per comprendere la visione del mondo di Dostoevskij occorre ripercorrerne, brevemente, la vita: Fedor frequenta ambienti sovversivi, atei, propugnatori di una rivoluzione in Russia, per abbattere lo zar e creare una nuova società. Nel 1849, però, molti di loro, tra cui il nostro, vengono arrestati dalla polizia zarista. Dostoevskij viene condannato a morte, poi lo zar commuta la pena in quattro anni di deportazione in Siberia. L’unica lettura, in questo lunghissimo periodo, sarà quella di un Vangelo, regalatogli da una donna mentre viene portato a scontare la pena. In seguito a questa esperienza il nostro muterà fortemente prospettiva, divenendo critico verso le proprie idee del passato e mostrando un profondo rispetto per la chiesa ortodossa e l’autorità costituita e un certo disprezzo per gli intellettuali russi che leggono gli illuministi europei disprezzando profondamente la propria terra e la propria patria. Intanto il suo matrimonio fallisce, viaggia per l’Europa, ricadendo di continuo nella passione per il gioco e per le donne, scrivendo articoli di giornale e romanzi a ritmo continuo, anche per far fronte alle spese ed ai creditori (spesso scrive i romanzi di notte, imbottito di caffè e di tabacco per rimanere sveglio). La sua vita disordinata si conclude nel 1881.

Tra i grandi romanzi spiccano “Delitto e castigo” (1866), “I demoni” (1871) e “I fratelli Karamazov” (1880). Nel primo di questi compare la tematica, che poi affascinerà Nietzsche, della ricerca della libertà come affermazione dell’io al di là di ogni morale, di ogni coscienza, “al di là del bene e del male”. Il protagonista, un ex studente squattrinato, Raskòl’nikov, uccidendo a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole, oltre che ottenere dei soldi, chiarire a sé stesso se è un “Napoleone” o un “pidocchio”, se appartiene alla categoria della massa, degli “uomini comuni”, per i quali la legge morale è sacra, o agli “uomini non comuni”, destinati a grandi imprese, per i quali non valgono le leggi ordinarie. Per questo può dire: “Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!”. Questo principio è l’affermazione di una superiorità delle leggi morali, di una superiorità di Dio che quelle leggi oggettive impone: ai personaggi di Dostoevskij che vogliono affermare la loro illimitata libertà è chiaro il concetto che per fare ciò debbono sbarazzarsi di Dio, affermare la propria divinità, per divenire “uomo-dio” (se si scarta Dio è l’uomo ad essere assolutizzato). Ma Raskòl’nikov fallisce: compiuto il delitto non riesce neppure a rubare, i nervi gli cedono, è preso dal delirio e dal panico, non ha neppure la lucidità di occultare subito eventuali indizi. Diviene conscio di non essere un secondo Napoleone, e in lui rimane il vuoto, un forte senso di indegnità. Se infatti tutta la nostra possibilità di affermarci passa per questo mondo, chi non ottiene prestigio, potere, onore, come Napoleone, per che cosa è vissuto? Che scopo ha raggiunto? Ma Raskòl’nikov viene cambiato dall’incontro con Sonja, una ragazza buona, dolce, intensamente cristiana, che si prostituisce per salvare i genitori dalla mendicità. Col tempo le cose cambieranno: “una futura redenzione”, “una nuova concezione della vita” si affacceranno nell’animo di Raskòl’nikov. Ma Dostoevskij accenna soltanto alla sua rinascita, al suo cambiamento: è un’altra storia, che non racconta. Gli interessa solo un fatto: la coscienza esiste, si fa sentire, batte i suoi colpi; il Bene e la Verità non sono relativi al capriccio dell’uomo, ma oggettivi. Ciò che è giusto, è giusto, perché Dio esiste: ciò che è sbagliato, malvagio, cattivo, nessun uomo potrà renderlo giusto e buono, perché non è Dio ! Per concludere, in “Delitto e castigo” è presente la dialettica cristiana peccato-sofferenza che redime – misericordia. Il peccato rende impossibile la vita a Raskòl’nikov, lo isola, lo estranea dal resto dell’umanità; la sofferenza, la croce portata con rassegnazione e consapevolezza, è il mezzo per la sua redenzione, come gli dice Sonia nella frase sopra citata; la misericordia è l’amore gratuito di Sonia verso di lui che lo stupisce e lo spinge a cambiare.

Nel romanzo “I demoni”, invece, Dostoevskij parte dall’”affare Necaev”, un intellettuale anarchico che piacerà molto a Lenin, autore del “Catechismo del rivoluzionario”, processato ai suoi tempi per aver fatto uccidere un membro del suo gruppo e che alla fine si suicida. Dostoevskij sceglie dunque una vicenda reale per esprimere le sue nuove idee politiche. Nel romanzo, che descrive appunto i terroristi, definiti anche “nichilisti” o “demoni”, Necaev diviene Verchovenskij e l’anarchico Bakunin diviene Stavrogin. Entrambi, essendo atei, vivono nella dimensione del “tutto è permesso”: Verchovenskij ha un progetto politico, di “distruzione universale”, che non si arresta di fronte a nulla: come Marat all’epoca della rivoluzione francese, invita a “tagliare teste”, a “lapidare” pur di costruire una società secondo il proprio disegno. Alla fine Stavrogin, impazzito, si impicca; così anche un altro protagonista, Kirillov: il suo è un suicidio metafisico, una dimostrazione di disprezzo verso la nozione di Dio. Anche in questo romanzo l’autore ci dà un messaggio esistenziale chiaro: escluso Dio, l’uomo non può che mettersi al suo posto. Chiamato a decidere, a scegliere, non ha altro metro, altro riferimento, che se stesso, la propria idea, la propria soggettività, il proprio egoismo. L’io che non riconosce una origine, una dipendenza, un limite, si fa inevitabilmente Dio, mentre si proclama ateo.

Ma il più grande romanzo di Dostoevskij è forse “I fratelli Karamazov”: quest’opera ha, come altre del nostro, il fascino di un grande racconto poliziesco, ricco di suspanse, nato dalla riflessione su un vero parricidio, di cui Dostoevskij, in Siberia, aveva conosciuto l’autore. “La principale questione che sarà agitata in tutte le parti del libro – scrive Dostoevskij – è la stessa della quale ho sofferto coscientemente o incoscientemente per tutta la vita: l’esistenza di Dio. Giganteggiano due figure, quella di Alioscia Karamazov, con la sua visione cristiana del mondo (il modello di ciò che l’autore russo vorrebbe essere?) e quella, opposta, di suo fratello Ivan, con la sua tormentata ricerca della libertà attraverso la rivoluzione nichilista, con il suo essere malato di occidentalismo, cioè, per Dostoevskij, di ateismo; con la sua incapacità di accettare certe realtà della religione, come la sofferenza, l’umiliazione e la croce. Ivan, con i suoi discorsi e le sue filosofie, è il vero ispiratore dell’uccisione del padre, sebbene non ne sia l’esecutore materiale. Anche qui un’uccisione “filosofica”, perché con i suoi discorsi ha convinto il futuro assassino, il fratellastro Smerdiakov, che tutto è legittimo, perché Dio non esiste. Lo ribadisce il diavolo ad Ivan: “La coscienza! Che cosa è la coscienza? Sono io stesso che me la invento. Perché mai mi tortura? Per un’abitudine. Per un’universale abitudine del genere umano, vecchia di settemila anni. Liberiamocene, e saremo degli dei!”. Si ripete, così, lo stesso concetto di Raskòl’nikov e di Kirìllov: “Se non esiste Dio, tutto è permesso”. Alla fine Ivan, sentendosi colpevole per la morte del padre e per l’ingiusta condanna dell’altro fratello, il violento e passionale Dimitrij, impazzisce; Smerdiakòv, l’omicida materiale, si uccide, e Dimitrij, che tanto aveva odiato il padre sino a volerlo eliminare in cuor suo, verrà condannato, pur essendo innocente. Delitto, coscienza, libertà, accettazione del castigo, riconoscimento che esiste una legge morale oggettiva, divina: questa, in sintesi, l’antropologia di Dostoevskij.

Pochi anni più tardi la Russiasarebbe stata sconvolta dalla rivoluzione comunista e dall’ondata di morte e di persecuzione di Lenin e Stalin. Il primo, inventore dei gulag, avrebbe affermato: “Per noi non esiste e non può esistere il vecchio sistema di moralità e di umanità…La nostra moralità è nuova…A noi tutto è permesso…Sangue? E sangue sia…” (R.W. Clark, “Lenin”, Bompiani). Stalin, invece, prefigurato profeticamente, insieme ai suoi seguaci, nei “demoni” senza Dio di Dostoevskij, avrebbe detto: “Ivan il Terribile era estremamente crudele. Ma bisogna far vedere perché doveva essere crudele. Uno degli errori di Ivan il Terribile sta nel fatto che non ha sterminato fino alla fine cinque grandi famiglie feudali…lui ammazzava qualcuno e poi pregava e si pentiva a lungo. Dio era per lui un impaccio in questa opera. Bisognava essere ancor più risoluti (Gianni Rocca, “Stalin”, Mondadori, Milano, 1988, p.352). Dio, cioè una legge morale superiore e precedente all’uomo, non fu dunque, per l’“uomo d’acciaio”, per l’autore dello sterminio dei kulaki, per il carceriere dei gulag, per l’inventore della “grandi purghe”, un “impaccio” e un freno! Fu, Stalin, un uomo emancipato da Dio, un Raskòl’nikov, un Ivan, un Necaev coerente sino alla fine e senza pentimenti. Non temettela Giustizia di Dio, né ritenne di dover invocare la sua Misericordia, perché aveva deciso di non riconoscere alcuno al di sopra di sé.

Francis Collins non è un romanziere, come Dostoevskij, ma un famoso scienziato americano, nativo della Virginia, che si specializza nella seconda metà del Novecento in chimica e fisica a Yale, “alla ricerca di quella eleganza matematica”, scrive, che lo “aveva attirato in questo ramo della scienza”. La sua posizione rispetto a Dio è quella di un agnostico, che non si chiede più di tanto e che scivola via via nell’ateismo pratico e poi teorico. Dalla chimica alla biochimica, alla medicina, alla genetica: “ero sbalordito dall’eleganza del codice genetico umano e dalle molteplici conseguenze di quei rari momenti in cui il suo meccanismo di trascrizione si inceppava”. Col tempo, soprattutto a causa di certi incontri, con situazioni e persone, Collins si rende conto di “aver optato per una cecità volontaria e di essere caduto vittima di qualcosa che si poteva descrivere solo come arroganza, avendo evitato di prendere seriamente in considerazione il fatto che Dio potesse rappresentare una possibilità reale”. Colui che prenderà il posto del genetista ateo James Watson alla direzione del più importante progetto di studio sul genoma umano, il Progetto Genoma, si rende cioè conto che la sua grande curiosità per la natura, la genetica, l’immensamente piccolo, convive con una chiusura alla totalità della realtà, alla domanda sul senso ultimo, totale, di ciò che esiste.

In una tortuosa ricerca Collins finisce per leggere “Scusi, qual è il suo Dio?”, di Clive S. Lewis, un ex ateo che si era riproposto di confutare tramite la logica l’esistenza di Dio, ma che era approdato al risultato opposto. Lewis offre a Collins la possibilità di interrogarsi sulla legge morale, sul bene e sul male, sulla loro origine: il senso del bene e del male è solo l’effetto di determinate tradizioni culturali? E’ solamente una conseguenza di pressioni evolutive, come sostengono i sociobiologi? L’impulso altruistico nasce da un interesse personale, del tipo “io ti do qualcosa affinché tu mi dia”, e null’altro? Collins riflette sulla natura umana, sul rimorso che ci attanaglia, quando riteniamo di aver sbagliato, pur magari avendone ricevuto un vantaggio; sulla coscienza che ci interroga e ci suggerisce, sulla capacità di certe persone, come madre Teresa o altre figure storiche, di dare totalmente se stesse, gratuitamente, al di fuori di qualsiasi orizzonte materialistico. Socrate, Gesù, Madre Teresa, coloro che muoiono per un bene più grande, ma intangibile, per il prossimo, per un ideale spirituale, sono forse solo dei pazzi, degli errori genetici, o non piuttosto uno schiaffo in faccia alle teorie materialistiche e deterministiche sull’uomo? L’altruismo disinteressato, scrive Collins, “costituisce una sfida rilevante per l’evoluzionista e rappresenta un vero scandalo per il pensiero riduzionista”, e “l’agape di Oskar Schindler e madre Teresa smentisce questo tipo di pensiero. Incredibile ma vero, la legge morale mi chiederà di salvare l’uomo che sta affogando anche se è mio nemico” (F. Collins, “Il linguaggio di Dio”, Sperling & Kupfer, Milano 2007, pp. 20-22). Questo, checché ne dicano coloro che ritengono l’uomo determinato in tutto dalla genetica: aggressivo o mite, fedele o infedele, giusto o malvagio, a seconda di determinati geni, di determinati meccanismi interni, indipendenti dalla volontà, dalla libertà, pur relativa, dell’uomo. Collins, che di geni si intende, capisce che l’uomo è assolutamente qualcosa di diverso, di non determinato, di non riducibile ad una sua parte, quella fisica: può progettarsi, costruirsi, lottare contro certe tendenze malvagie, o assecondarle; può scegliere una strada, pentirsi, riscattarsi o proseguire nell’abisso dell’egoismo e della cattiveria. Ogni azione, ogni scelta è una possibilità libera, in cui l’uomo si realizza, esprime se stesso, indipendentemente da comandamenti genetici, o da impulsi interni incontrollabili. Condizionato, certo, dalle circostanze e dalla sua natura corporale, ma non totalmente determinato, come i sassi, o le stelle, né regolato dagli istinti, solamente, come gli animali.

Dopo le considerazioni sulla legge morale, Collins prosegue analizzando le sue conoscenze scientifiche e paragonandole alla fede cui è approdato. Il Big Bang? “L’idea di un inizio finito dell’universo non è del tutto consonante con la concezione buddista”, come non lo è con le visioni panteiste, ma si accorda perfettamente con l’idea di un Dio Creatore trascendente ed è quindi perfettamente compatibile con la teologia medievale cristiana e col pensiero biblico. Anzi, si può tranquillamente dire che è un’idea filosoficamente già intuita da pensatori cristiani assai prima della nascita della scienza moderna. La genetica? Per lui è “il manuale di istruzioni di Dio”, “il linguaggio di Dio”, che però “non spiegherà mai certi speciali attributi umani, come la conoscenza della legge morale e l’universalità delle ricerca di Dio”.

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Case di Dio e ospedali degli uomini

Posté par atempodiblog le 18 avril 2012

Case di Dio e ospedali degli uomini
Francesco Agnoli – Fede&Cultura
Tratto da: Radici Cristiane

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«Agli ospedali siamo tutti abituati. Diamo per scontato che ogni città ne abbia più d’uno, e che funzioni! Ma difficilmente ci si chiede: come sono nati, gli ospedali?». Si apre con questo interrogativo, l’appassionante indagine storica che Francesco Agnoli, professore nonché scrittore affermato e collaboratore di numerose testate tra cui Il Foglio, Il Timone e la nostra Radici Cristiane, propone ai lettori con la sua ultima fatica.

La cura nell’antichità era roba per ricchi
Un’indagine che parte da lontano, dall’antichità. E che ci mostra subito come nella polis dell’antica Grecia già esistessero strutture paragonabili – sia pure con parecchi distinguo – agli ospedali.  Peccato che, a quel tempo, si ritenessero degni di cura solo i «cittadini liberi e soprattutto quelli che potevano guarire sicuramente».
Platone in persona si  fece promotore di questa concezione esclusivista e discriminatrice della cura medica: «Allora, insieme con tale arte giudiziaria, codificherai tu nel nostro stato anche la medicina nella forma da noi detta? Così, tra i tuoi cittadini, esse cureranno quelli che siano naturalmente sani di corpo e d’anima. Quanto a quelli che non lo siano, i medici lasceranno morire chi è fisicamente malato» (Repubblica, 409e-410a).
Difficile, dunque, stupirsi del fatto che nell’antichità le cure mediche fossero in sostanza “roba da ricchi” e che il tempio di Esculapio, a Pergamo, rinomato per la capacità taumaturgiche dei suoi sacerdoti e meta di pellegrinaggi provenienti da tutta la Grecia, accettasse gli infermi solo dietro pagamento.
Le cose cambiarono, anzi furono letteralmente rivoluzionate dall’avvento del Cristianesimo e del concetto di persona, una nozione così estranea al razionalismo classico – ha osservato il marxista Roger Garaudy – che i Padri greci incontrarono forti difficoltà nel trovare nella filosofia ellenica categorie e parole per esprimerla.
Con stile accessibile e una narrazione costellata di interessanti esempi, Agnoli ci accompagna quindi alla scoperta di uno sguardo del tutto sconosciuto, prima dell’avvento cristiano, nei confronti della malattia e del malato, spiegandoci come esso è gradualmente maturato nel corso dei secoli.

Il cristianesimo cambia le cose…
In principio furono due facoltose donne romane, Fabiola e Marcella, a farsi promotrici, nel quarto secolo d.C., dell’istituzione dei primi ospedali dove trovarono accoglienza «tutti gli ammalati raccolti per le strade», mentre l’Oriente deve a san Basilio (329-379) la fondazione del primo e grandissimo ospedale.
Seguì poi la tradizione monastica coi grandiosi contributi di Cassiodoro (ca. 485-580) e san Benedetto da Norcia (480-547), e la gloriosa storia medievale, nella quale, da Siena a Varese, da Udine a Pisa, fiorirono ospedali magnifici per la loro bellezza artistica e l’umanità con la quale i bisognosi erano accolti e curati.
Ed è proprio su questo, sulla cura e sull’attenzione praticata negli ospedali medievali, che Agnoli intende in definitiva porre l’attenzione, mettendo in luce l’immensa importanza che in tutto ciò ebbe l’antropologia cristiana.
Un modo di intendere l’uomo nel suo valore intrinseco e di vedere nel corpo non – come credeva Platone – un «involucro, immagine di una prigione» (Cratilo, 400 C), bensì la componente fisica della persona umana, per la prima volta concepita e apprezzata in modo unitario.
Ora, se si pensa che per lo stesso Aristotele l’unione delle anime coi corpi era paragonabile a quella dei «vivi con i morti» (Protrettico, fr. 10 Ross), si può capire quanto ebbe di rivoluzionario l’affermazione cristiana dell’individuo.
E da questo punto di vista, oltre che come utile manuale della storia degli ospedali, l’ultima fatica di Agnoli si configura come uno stimolante invito a leggere la diffusione storica dei questi come una benefica conseguenza della filosofia e soprattutto della carità cristiana

… e contribuisce a incrementare la ricerca medica
Questo tuttavia non impedisce all’Autore di sviluppare anche un’altra, interessante riflessione a proposito dello sviluppo delle scienze mediche. Le quali, è vero, nacquero ben prima del Cristianesimo ma che da questo trassero una spinta conoscitiva tutta particolare come dimostrano, ad esempio, la nascita e lo sviluppo dell’anatomia. Che non si registrarono nel mondo antico, ma che, appunto, ebbero nell’ambiente culturale cristiano e, in particolare, nella città di Bologna, i loro albori.
Il che ci aiuta a smascherare una volta di più la colossale menzogna secondo la quale la Chiesa, e più in generale il Cristianesimo, sarebbero portatori di una visione “oscurantista” della scienza. Tutt’altro. E in “Case di Dio e ospedali degli uomini”, anche questo, è dimostrato benissimo.
Per concludere non possiamo allora che ritenere di grande spessore scientifico e filosofico la storia degli ospedali che ci propone Francesco Agnoli. Una storia che, come abbiamo visto, a sua volta contiene molte altre storie. Molte di queste differenti fra loro e verificatesi a distanza di secoli l’una dall’altra. Ma tutte accomunate dalla luce inconfondibile dell’amore cristiano.

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John R. Tolkien: “Il Signore degli anelli”, il positivismo e la bioetica.

Posté par atempodiblog le 3 avril 2012

John R. Tolkien: “Il Signore degli anelli”, il positivismo e la bioetica. dans Francesco Agnoli

Nell’Inghilterra contemporanea, patria, spesso, delle più incredibili sperimentazioni sulla vita e sull’uomo, si distinguono però, per la loro tenace ed efficace battaglia in difesa dei valori più alti, alcuni personaggi, in particolare due grandi scrittori cattolici, Gilbert Chesterton, l’inventore della figura di padre Brown, e J.R.R.Tolkien, il celebre autore de « Il Signore degli anelli ».

John R. Tolkien nasce nel1892 in sud Africa, ma ben presto si trasferisce in Inghilterra. Rimane precocemente orfano del padre e nel 1900 sua madre, Mabel, si converte dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Non è una scelta facile in Inghilterra, perché comporta l’emarginazione e la riprovazione sociale. Dall’epoca di Enrico VIII infatti, quando venivano squartati e i loro corpi disseminati agli angoli delle strade perché fungessero da monito, i cattolici sono considerati come stranieri, anche se sul finire dell’’800 la loro condizione è in parte mutata.

Presto Tolkien rimane orfano anche della madre e, pur essendo molto povero, con l’aiuto di un prete riesce ad entrare all’università di Oxford, dove studiano i rampolli dell’aristocrazia inglese. Nel 1915 viene chiamato in guerra, la I guerra mondiale, e non potendo sopportare la separazione dalla fidanzata Edith Bratt, si unisce a lei in matrimonio (nasceranno negli anni, quattro figli, uno dei quali diverrà sacerdote). Nella I guerra mondiale l’uomo scopre per la prima volta la sua piccolezza di fronte alle macchine di morte e alla tecnologia che lui stesso ha creato. Crolla così l’illusione illuminista-positivista, l’idea di un uomo capace con le sue forze, grazie alla scienza, di dominare il mondo e la realtà, totalmente, divenendo Dio a se stesso. Affonda, con lo stesso fragore e dolore del Titanic, l’idea di poter procurare la felicità e l’immortalità, qui, su questa terra. Lo scrittore Domenico Giuliotti scrive: “Era il 1913…i cervelli, finchè non si smontavano nella pazzia, funzionavano automaticamente come gli stantuffi delle macchine che avevano inventate e delle quali stavano divenendo, senza saperlo, accessori. Il mondo avvolto giorno e notte nel fumo, nel fragore e nella polvere, puzzava di morchia, di benzina, di bruciaticcio e di bestemmia. E in mezzo a questo ciclo di lordure, l’oro rotolava sulla libidine e la libidine sull’oro, in avvinghiamenti spasmodici. Sembrava che, dopo aver rifiutato il cristianesimo, alla società inebetita fosse caduta la testa e si fosse posta in adorazione, così decapitata, dinnanzi alla materia, mentre questa, divenuta, per un prodigio infernale, micidialmente intelligente, si preparava ad annientarla”.

Nel 1916 Tolkien combatte sulla Somme, in una battaglia epocale, fra le più disastrose della storia. La vita in trincea è segnata dall’ansia dell’attesa e del logoramento, dall’esposizione continua al fuoco di sbarramento, dalle nubi di gas stagnanti nell’aria, dal fango e dalla terra bruciata dalle granate e desertificata. Si diffondono, per la prima volta nella storia, una grande quantità di nuove nevrosi, figlie della guerra industrializzata: la “nevrosi del sepolto vivo”, la “simpatia isterica per il nemico”, isterie che si verificano dopo un trauma da esplosione, con i sintomi di paralisi, spasmi, mutismo, cecità e analoghi.

I medici osservano come un grosso calibro caduto vicino, o un fuoco di sbarramento prolungato danneggino il sistema nervoso del soldato ed il suo autocontrollo, generando scatti improvvisi, pianti isterici, sordità, rifiuto di avanzare, desiderio di suicidio…

Sono scenari, quelli della Somme, che torneranno ne « Il Signore degli anelli », per la descrizione della terra di Mordor, la terra dell’Oscuro Signore; così come torneranno il nemico lontano e senza volto, il coraggio, il sacrificio e il cameratismo dei soldati semplici, i tommies, i Frodo di tutti i giorni, di contro alla viltà e all’inettitudine degli ufficiali. A tale riguardo lo scrittore francese Bernanos, anche lui combattente, afferma: “Dio non ci ha lasciato che il sentimento profondo della sua assenza”; e ancora: “La maggior parte dei soldati ignorava perfino il nome di grazia…Voglio dire soltanto che forse erano stati talvolta degni di questa grazia, di questo sorriso di Dio. Infatti vivevano senza saperlo, in fondo a quelle tane fangose, una vita fraterna”, una vita fraterna, e, tante volte, eroica, alla faccia di chi la guerra la aveva voluta, per lo più meschinamente e segretamente, come nel caso dell’Italia.

Rientrato dalla guerra Tolkien crea un sodalizio di amici con Lewis, Belloc e Chesterton. I quattro si trovano ogni martedì sera in un pub per parlare di letteratura, di fede, di vicende personali. Riguardo all’amicizia Tolkien scrive: “La vita, la vita terrena, non ha dono più grande da offrirci”; e altrove, all’incirca: “quando due divengono amici si allontanano insieme dal gregge”.

Diviene poi professore all’università di Oxford, dove insegna letteratura inglese, studia i miti nordici, si reca ogni giorno a messa e fa i conti con il problema del male.

Dopo la I guerra già un’altra si prepara: la dittatura comunista asservisce duramente 180 milioni di persone, quella nazista 60 milioni di tedeschi. Ma anche la sua Inghilterra, che si ritiene al di sopra di ogni critica, esercita una forte oppressione sull’Irlanda cattolica e sulle sue colonie. E’ nella sua patria che inizia a provare “dispiacere e disgusto” di fronte all’imperialismo inglese, e a divenire, insieme a Chesterton, un amante delle “piccole patrie”, delle specificità e delle tradizioni locali, contro ogni tentativo di unificare, forzatamente o subdolamente. Il mondo non bello che lo circonda nasce dall’orgoglio, dal desiderio di potere, sugli uomini e sulla vita, che, a livello poetico, viene raffigurato nell’anello. Sauron, colui che lo ha forgiato, il Nemico, il menzognero, tende ad unificare il mondo sotto di sé, ad appiattire, a livellare le diversità, gli uomini, i nani, e gli elfi, la Contea, Gran burrone, Gondor e Rohan…Un po’ come fanno, con metodi diversi o analoghi, la Germania, la Russia, l’Inghilterra e l’America: Tolkien non risparmia nessuno. Nel suo poema Sauron vuole imporre a tutti anche la stessa lingua, il Linguaggio Nero, soppiantando così tutti gli idiomi preesistenti: Tolkien, che ama profondamente la parola e i linguaggi, come espressione della diversità multiforme delle culture, ha paura che questo possa veramente avvenire. Nel 1945, lui che apprezzava profondamente il latino liturgico, lingua solenne, maestosa, sacra, e nello stesso tempo universale, cattolica, ha paura che una lingua non della preghiera ma del commercio e del denaro, non che unifica ma che colonizza, l’inglese, il suo inglese, si affermi sulle altre lingue. Nel 1945 prospetta inoltre un mondo post-bellico massificato, omologato, globalizzato, nella lingua, l’inglese, nei gusti, in ogni cosa.

Quando scrive la sua opera più famosa Tolkien ha in mente questo mondo, il nostro, ma lo trasporta in uno mitico, metatemporale, perché sa che il problema del bene e del male è antico come l’uomo. Discende infatti dalla Caduta, termine con cui definisce il peccato originale: c’è in noi, fin da bambini, una tendenza al male che lotta con una tendenza di segno contrario. Si esprime nell’egoismo, nella superbia, nella volontà di dominio, sulle cose, talora nei rapporti con gli altri…

Per Tolkien non esiste, però, una contrapposizione manichea: non ci sono un Dio del bene e un Dio del male. Il suo riferimento filosofico è quello cristiano, da S.Agostino a S.Tommaso: Dio ha creato ogni cosa buona, omnia bona, ma ha lasciato la libertà di scegliere. Gollum, ad esempio, non è originariamente cattivo, anzi è una specie di hobbit: è l’anello a pervertirlo, rendendolo omicida e menzognero. Così Melkor e il suo servo Sauron sono semplicemente, come il Lucifero cristiano, degli angeli (Ainur) decaduti, che hanno deciso di opporsi al loro creatore, di cantare non più la sua musica armoniosa, creatrice, ma una musica propria, stridente e stonata, distruttrice. Melkor, divenuto il Nemico, assume gli attributi tipici di Satana, del diavolo: desideroso di potere, di gloria, menzognero, è, etimologicamente, “colui che è separato e che separa”, che non ama, che cerca di guastare l’opera bella, armoniosa del creatore. Abita in una terra desolata, impervia, in cui pullulano macchinari e rifiuti industriali. Non ha amici o collaboratori, ma solo servi, come Sauron, o sciocchi servitori che sperano di essere un giorno padroni, come Saruman. Del male si può infatti divenire solo servi, perché abbracciando la menzogna e il vizio si perde la propria libertà. Ciò che cerca e ciò che vuole, Sauron, è l’anello: chi lo porta assume poteri immensi ma si lascia a poco a poco soggiogare. Non è il portatore, alla lunga, che decide, ma l’anello che decide per lui. Anche dell’anello si può essere solo servi, e non è lecito usarlo, usare un mezzo cattivo per fini buoni, come vorrebbe Sauron. In una sua lettera ad un figlio, dopo lo sganciamento della bomba atomica, che aveva permesso agli americani, e quindi anche agli inglesi, di essere totalmente vincitori, Tolkien afferma: “abbiamo usato l’anello!”.

Ma se in questo tempo così “feroce” Sauron si è risvegliato, se la sua ombra si allunga da est verso le terre ancora libere e il mistero d’iniquità sembra totalmente dominante, non manca la speranza: l’ “arbitro” della storia non è Melkor, ma Dio, che appare nel libro come una sorta di Provvidenza nascosta, che affida ai suoi il compito immenso di contrastare il male, di caricarsi del “fardello”. “quando le cose sono in pericolo, qualcuno vi deve rinunciare, perderle, affinchè altri possano goderle”. A caricarsi del fardello, come un novello Cristo portatore della croce, è il piccolo Frodo, un mezzouomo, apparentemente il meno adatto di tutti. Eppure è in lui che si realizza il detto secondo cui Dio ha scelto ciò che è debole in questo mondo per confondere i forti. Frodo è una creatura mite, semplice, attaccata alla sua terra, ma capace di sacrificio: questa è la sua grande virtù! Non è chiamato, come nelle cerche dei miti e delle storie passate, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, a conquistare qualcosa, ma a rinunciare, a sacrificarsi: “E’ l’eroismo dell’obbedienza e dell’amore- scrive Tolkien-, non quello dell’orgoglio e dell’ostinazione, a essere il più alto e commovente”. Eppure Frodo non è l’eroe senza macchia, il superuomo di Nietzsche o del positivismo, ma è il mezzouomo, l’uomo di tutti i giorni, il soldato semplice inglese della I guerra, il Tolkien qualsiasi chiamato a vivere in un’epoca spaventosa, ma ciononostante, a vivere con dignità e grandezza interiore. Ha le stesse paure di tutti: “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non accadesse ai miei giorni!”, esclama di fronte a Gandalf, che gli risponde: “Anch’io, come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”. E altrove: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo”. Di fronte al compito immenso che gli è proposto Frodo acconsente e parte; porta l’anello fino a Gran Burrone, ma qui una alleanza di elfi, gnomi, uomini e hobbit, la Compagnia, è chiamata a decidere: cosa fare e a chi affidare l’anello per il viaggio finale. Nessuno sembra adatto, e allora Frodo afferma: “Prenderò io l’anello, ma non conosco la strada”. C’è, in questa affermazione, tutto il concetto che Tolkien ha di eroismo: la generosità, il non arretrare di fronte alle responsabilità (“Prenderò io l’anello”), e nello stesso tempo l’umiltà, la necessità di un aiuto di una compagnia (“ma non conosco la strada”). Se guardiamo alla vita di Tolkien, tramite le sue lettere, la Compagnia diventano la Chiesa, gli amici, e la figura di Gandalf assume i contorni dell’angelo custode.

Eppure, lungo il cammino, Frodo dovrà fare i conti con sé stesso: il male, e questo è uno dei concetti più anti-moderni espressi da Tolkien, non è solo fuori, negli altri, nei sistemi politici ecc., ma in ognuno di noi, e va combattuto con coraggio e strenua lotta interiore. Anche Frodo è preso, talora, dal desiderio dell’anello, gli viene da pensare che in fondo se lo è meritato, oppure viene tentato di non vivere fino in fondo il compito che gli è affidato: devo stare, afferma, « in guardia contro i ritardi, contro la via che pare più agevole, contro lo scrollarmi di dosso il peso che grava sulle mie spalle ».

Lotta con i nemici e lotta con se stesso. La sua forza sta nella disposizione d’animo che risulta, non senza difficoltà, vincente: il sostanziale desiderio di distruggere l’anello. La sua saggezza, ancora una volta come quella di Cristo, è una saggezza che il nemico considera « follia ». Tolkien ha certo in mente questo concetto, la « croce scandalo e follia » per le genti, quando fa dire a Gandalf: « Ebbene, che la follia sia il nostro manto, un velo dinnanzi agli occhi del nemico! Egli è molto sapiente, e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità. Ma l’unica misura che conosce è il desiderio, desiderio di potere, egli giudica tutti i cuori alla sua stregua. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare il tanto bramato potere, o che, possedendo l’anello, voglia distruggerlo: questa deve essere la nostra mira, se vogliamo confondere i suoi calcoli ». Ancora una volta il concetto che l’eroismo, in questo caso la saggezza, consiste nella rinuncia, e non nel possesso. E’, in fondo, un concetto che vale per ogni cosa: basti pensare che ogni vero amore umano, di marito, di moglie, di madre e di padre, di amico, passa dalla rinuncia, cioè dal riconoscere la presenza dell’altro, senza trasformare la persona amata in oggetto di possesso, senza volerlo stringere tra le mani, fino a soffocarlo.

La saggezza fasulla di Sauron, contrapposta alla follia di Frodo, richiama un’altra contrapposizione essenziale: quella tra Gandalf e Saruman. Entrambi rappresentano gli uomini di scienza, che sanno molto, che conoscono molto. Eppure non è dato a loro, non è dato a Gandalf, il compito più alto, quello di portare l’anello: l’intelligenza ed il sapere devono essere al servizio, e non strumento di potere. Inoltre ciò che distingue la nobiltà dei cuori non è la maggior o minor conoscenza, ma la disposizione della volontà, della libertà, al bene. La volontà, la libertà, è l’unica cosa totalmente nostra, mentre l’intelligenza ci è data. Il sapere, dicevo, è cosa buona, originariamente, come tutte, perché nasce dal desiderio naturale dell’uomo di aderire alla realtà, di leggervi dentro (intus legere). Ma come ogni cosa, anche il conoscere, la scienza, può essere usata negativamente, quando diviene orgoglio intellettuale, volontà di dominio, superbia. Saruman si illude di poter collaborare con Sauron e rimanere libero, si illude che egli voglia dividere il potere, si illude che « i saggi come noi potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo » in attesa, pur lungo un cammino di male, di plaudire « all’alta meta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine ». Saruman, come Sauron, come il diavolo Melkor, hanno un loro superbo disegno di mondo, che definiscono sapiente e ordinato, e nelle loro « fucine » plasmano mostri e manipolano creature. Non sono capaci di creare, perché questa è una prerogativa solo di Dio. Secondo la filosofia tomista infatti l’amore è diffusivo di se stesso, o, con una espressione più celebre, solo l’amore crea. I nemici del Creatore, allora, sono solo pallidi imitatori, scimmie di Dio, come Melkor, che cerca di suonare una melodia più bella di quella di Dio, e finisce solo per creare una disarmonia di suoni. Così Saruman, Sauron, Melkor, coloro che fanno cose per se stessi, per esserne i loro Signori, non creano ma manipolano, modificano, alterano, corrompono, determinando creature mostruose, ibridi, chimere come gli Orchetti. Il loro peccato è « il più grande che abbia(no) potuto commettere, l’abuso del (loro) più alto privilegio » .

E’ evidente che nel dire questo Tolkien ha presente la realtà storica del suo tempo, come noi potremmo avere la nostra: conosce le teorie di Aldous Huxley; sa che nella Germania nazional-socialista e nella Russia comunista, gli esperimenti sugli uomini si sprecano. Nelle loro « fucine » diaboliche, nelle loro moderne cliniche, medici manipolatori si accaniscono sulla vita per esserne padroni, in un’ottica di « progresso » futuro e di benessere. Si parla di esperimenti « positivi », che porteranno al miglioramento della razza umana (eugenetica), al miglioramento della vita degli uomini futuri… Come con la bomba atomica si vuole usare l’anello a fin di bene, ma non è possibile! Così i nazisti fanno nascere circa 80.000 bambini nati tramite accoppiamenti stabiliti dall’alto; Himmler fonda una associazione, chiamata Lebensborn, che sceglie donne non sposate da accoppiare a riproduttori ariani; si introducono sterilizzazioni forzate ed eutanasia; si sperimenta sulle donne incinte, per conoscere la vita del feto, la sua resistenza; si scarterebbero gli embrioni con la diagnosi pre-impianto, se fosse una tecnica già conosciuta, per selezionare i « migliori », o per decidere il sesso, o l’altezza, come avviene oggi.

Dottrine eugenetiche attraversano anche tutta la storia del socialismo: dalla « Repubblica » di Platone, in cui accanto alla comunanza di beni e di donne, si parla della necessità che lo Stato imponga chi debba accoppiarsi con chi; a « La Città del Sole » di Campanella, in cui il ministro dell’Amore è chiamato a scegliere i tempi e i soggetti dell’accoppiamento sessuale, al fine di garantire una certa purezza razziale; fino alle più recenti affermazioni dello staliniano Preobrazenskij: “Dal punto di vista socialista non ha senso che un membro della società consideri il proprio corpo come una sua proprietà privata inoppugnabile, perché l’individuo non è che un punto di passaggio tra il passato e il futuro”, tanto che alla società spetta “il diritto totale e incondizionato di intervenire con le sue regole fin nella vita sessuale, per migliorare la razza con la selezione naturale”. Del resto un’eugenetica de facto verrà attuata nei regimi comunisti asiatici, in Cina, Cambogia e Corea del Nord, tramite l’eliminazione di handicappati, invalidi, malati mentali e barboni, di coloro cioè ritenuti incapaci dell’unica attività cui il materialismo riconosce importanza: il lavoro (in Corea gli handicappati vengono ancor oggi deportati in località remote, in montagna o nelle isole del mar Giallo, mentre i nani vengono sistematicamente braccati e isolati: “La razza dei nani deve sparire” ha ordinato Kim Jong II in persona).

Tolkien aveva già visto tutto questo, insieme a tante bruttezze del mondo moderno, e aveva indicato gli antidoti: il coraggio e la purezza di Frodo, l’amicizia dei membri della Compagnia, l’utilizzo della sapienza nei limiti della giustizia, la consapevolezza che, al di là dei « muri di questo mondo », esiste un Dio che dirige la storia, nonostante la presunzione di Saruman e le sue melodie disarmoniche.

Tratto da: Francesco Agnoli, « Voglio una vita manipolata », Ares.
Fonte: Libertà e Persona

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La Madonna a Fatima predisse un grande segno nel cielo prima della II° guerra mondiale

Posté par atempodiblog le 31 mars 2012

Le albe di Fatima
Il sole si mise a ballare e poi, come era stato predetto, il cielo annunciò una nuova guerra. Era l’aurora boreale del 1938

La Madonna a Fatima predisse un grande segno nel cielo prima della II° guerra mondiale dans Articoli di Giornali e News midlhx

Le apparizioni della Madonna a Fatima sono una pagina della storia della Chiesa piuttosto speciale. Per decenni ci si è interrogati sul famoso Terzo segreto di Lucia, e forse non ne siamo ancora venuti a capo. A molti infatti, sembra che certe cose non tornino, e che nel segreto della Madonna, oltre ai riferimenti agli attacchi esterni alla Chiesa, resi noti, ci sarebbe stato un cenno alla apostasia della Chiesa stessa, ad una perdita di fede non solo del mondo, ma anche del clero, dei pastori.
Ma non è di questo che voglio parlare, rimandando, per chi fosse interessato, agli ottimi lavori di Antonio Socci e Marco Tosatti.
Quello che vorrei approfondire, perché mi sembra non sia stato fatto a sufficienza, è la (poco) famosa aurora boreale del 25-26 gennaio 1938.
Nelle apparizioni portoghesi la Madonna venne a mostrare ai pastorelli l’Inferno, cioè il castigo eterno, ma non solo. Dichiarò anche che sotto il pontificato di Pio XI, se gli uomini non si fossero convertiti, sarebbe scoppiata un’altra guerra mondiale, più spaventosa della prima, annunciata da una “notte illuminata da una luce sconosciuta”. Decisamente la Madonna di Fatima non fu, diciamo così, rassicurante. Fatto sta, però, che se l’apparizione è vera, il messaggio è chiaro: conversione, penitenza, preghiera, altrimenti castigo. Nel senso che altrimenti Dio avrebbe lasciato l’uomo in balia di se stesso e della sua cattiveria: non c’è peggior castigo, infatti, di quello che noi uomini spesso siamo così bravi ad infliggerci, da soli. Come la virtù ha già in sé, in parte, il suo premio, così il peccato in sè porta una pena: è male non solo di fronte a Dio, ma anche per l’uomo.
La rivelazione della “notte illuminata da una luce sconosciuta” , con la connessa affermazione secondo cui la Russia avrebbe sparso i suoi errori nel mondo, fu messa per iscritto da Lucia, per il vescovo di Leira-Fatima, soltanto il 31 agosto 1941. Qualcuno ha quindi potuto dichiarare che si tratterebbe soltanto di una profezia post eventum, un po’ troppo facile.
Forse è meglio analizzare bene i fatti.
Ragionando prima proprio sulle date: è vero, Lucia parla ufficialmente dell’ aurora boreale del 1938 dopo che essa è già avvenuta. Però vi sono alcuni fatti da prendere in considerazione. Il primo: un segno celeste era già stato annunciato da Lucia nel 1917, e si era veramente verificato, come vedremo, proprio in quell’anno.
Il secondo: nel 1941 sarebbe stato veramente più opportuno e intelligente, umanamente parlando, annunciare il pericolo nazionalsocialista, o comunque entrambi, quello comunista sovietico e quello nazista. Infatti la Germania sembrava trionfante: possedeva tutta l’Europa, esclusa la Gran Bretagna; gli Usa non erano ancora entrati in guerra e l’Urss appariva destinato alla sconfitta, sotto il tallone tedesco, da un momento all’altro. Invece Lucia, contro ogni logico ragionamento umano, fu molto chiara (come lo era stata già in precedenza): sarà la Russia, non la Germania, “a spargere i suoi errori nel mondo”, “promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa”.
In effetti andò proprio così: pochi anni dopo il “Reich millenario” crollò miseramente, per fortuna, e per sempre; al contrario la Russia non solo vinse la guerra, ma si vide “regalare” dagli alleati mezza Europa. Il comunismo conobbe così una diffusione immensa, inimmaginabile, tanto più se ricordiamo che nel 1949 anche la Cina sarebbe divenuta comunista. Dovunque i comunisti arrivarono, dalla Polonia all’Albania, la Chiesa fu attaccata, perseguitata, distrutta.
C’è qualcosa, dunque, nella profezia di Lucia, che lascia interdetti. Anche perché la “fissazione” del comunismo Lucia e i veggenti la dimostrarono anche molto prima del 1941: del resto la Madonna era apparsa loro, non a caso, nel 1917, solo pochi mesi prima della rivoluzione bolscevica. Abbiamo molte testimonianze di questo. Dalle parole di Giacinta, che già nel 1920 annunciava un castigo, “prima per la Spagna”; al voto anticomunista dell’episcopato portoghese, nel 1936, al fine di essere preservati dal comunismo che sembrava potesse trionfare nella vicina Spagna e sfondare poi in Portogallo; alla lettera del vescovo di Leira, nel 1937, al pontefice, affinché provvedesse, come diceva Lucia, alla Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria; sino, per fare un ultimo esempio, ad una lettera al papa Pio XII della stessa Lucia, datata 24 ottobre 1940 (cioè prima dell’entrata nella seconda guerra mondiale della Russia), in cui si ri-domandava la Consacrazione della Russia stessa, considerata, anche in quella data per certi versi insignificante, il pericolo imminente!
Infine un’ultima considerazione: il Portogallo, nelle varie lettere di Lucia, appariva come “privilegiato” dalla Madonna (Lucia parlava e scriveva di una “protezione speciale”). In effetti il paese non fu coinvolto nella guerra di Spagna, come sarebbe stato molto facile, e rimase fuori anche dalla II guerra mondiale, dichiarandosi neutrale (e rimanendolo, cosa non facile, sino alla fine).
Ma torniamo, indietro, ai fatti del 1917. I veggenti erano in grossa difficoltà in un Portogallo allora in mano ad un governo ferocemente anticlericale e trovavano molti oppositori anche tra amici e parenti, oltre che nelle autorità locali. Eppure la piccola Lucia, che finì persino in prigione, perché osteggiata dal sindaco massone del paese, sfidò il mondo: la Madonna, disse, darà un segno, e convocò tutti per il 13 ottobre 1917 alla Cova da Iria, pur capendo bene che se il segno non ci fosse stato, sarebbe stato un bel guaio. Anche perché erano allora vietate dal governo portoghese le adunanze religiose fuori dalle chiese.
Il 13 ottobre migliaia e migliaia di persone si radunarono nella Cova. Le fonti dell’epoca parlano di almeno 40-50 mila persone, ma forse molte di più. Ebbene, cosa accadde? Ce lo raccontano innumerevoli testimoni, ma soprattutto, tra i tanti, un giornalista presente ai fatti, tale Avelino de Almedia, redattore capo di “O Sèculo”, quotidiano socialista di Lisbona, di orientamento positivista ed anticlericale, che in precedenza aveva ridicolizzato gli eventi di Fatima. Costui, sul numero del 15 ottobre, scrisse tra l’ altro: “Cose fenomenali. Come il sole ballò a mezzogiorno a Fatima [...] Il sole sorge, ma l’aspetto del cielo minaccia temporale. Nuvole nere si ammassano sulla folla di Fatima. [...] Alle dieci il cielo si oscura totalmente e non tarda a cadere una forte pioggia. [...] I fanciulli affermano che la Signora aveva parlato loro ancora una volta, e il cielo, prima caliginoso, comincia subito a schiarirsi in alto; la pioggia cessa e si presenta il sole che inonda di luce il paesaggio. [...] L’ora mattutina è la regola per questa moltitudine, che calcoli imparziali di persone colte e di tutto rispetto, punto rapite come per influenza mistica, contano in trenta o quaranta mila creature… La manifestazione miracolosa, il segno visibile annunciato sta per essere prodotto – assicurano molti pellegrini…
E si assiste a uno spettacolo unico e incredibile per chi non fu testimone di esso. Dalla cima della strada, dove si ammassano i carri e sostano molte centinaia di persone, alle quali manca la voglia di mettersi nella terra fangosa, si vede tutta l’immensa moltitudine voltarsi verso il sole, che si mostra libero dalle nuvole, nello zenit. L’astro sembra un disco di argento scuro ed è possibile fissarlo senza il minimo sforzo. Non brucia, non acceca. Si direbbe realizzarsi un’eclissi. Ma ecco che un grido colossale si alza, e dagli spettatori che si trovano più vicini si ode gridare: « Miracolo, Miracolo! Meraviglia, meraviglia! » Agli occhi sbalorditi di quella folla, il cui atteggiamento ci riporta ai tempi biblici e che, pallida di sorpresa, con la testa scoperta, fissa l’azzurro (cielo), il sole tremò ed ebbe mai visti movimenti bruschi fuori da tutte le leggi cosmiche, il sole « ballò », secondo la tipica espressione dei contadini”.
Negli anni, tanti hanno ragionato su questi fatti, che di per se stessi sono innegabili perché ampiamente dimostrati, sia dalle testimonianze più insospettabili, sia dai quotidiani vari dell’epoca, sia dalle foto, in cui si vede chiaramente una moltitudine esterrefatta, sbalordita, attonita, dinnanzi agli strani movimenti del sole.
Molti credettero e credono, altri parlarono di coincidenza, di fenomeno naturale, scientificamente spiegabile in qualche modo. Difficile, però, spiegare davvero come potesse Lucia, una semplice fanciulla di campagna, prevedere in anticipo che sarebbe successo qualcosa di simile. A meno di non ipotizzare che nascondesse in camera potentissimi cannocchiali e che fosse una astronoma di eccezionali qualità!
Un qualche collegamento tra il sole e la Madonna di Fatima, insomma, è lecito supporlo.
Anche alla luce dei fatti successivi. Siamo finalmente all’aurora boreale del 1938.
Andiamo ora a vedere bene cosa accadde la notte tra il 25 e il 26 gennaio di quell’anno. Ci fu, come si accennava, una grande aurora boreale, vista la quale Lucia, ben prima di scriverlo nel resoconto ufficiale del 1941, si affannò a dire, a destra e a sinistra, che quello era il segno terribile predetto dalla Madonna.
L’aurora venne descritta dal quotidiano laico italiano, La Stampa, del 26 gennaio 1938, sotto il titolo: “Un singolare fenomeno celeste. Un’aurora boreale sull’Italia”. Vi si poteva leggere di una “aurora boreale di eccezionale luminosità apparsa ieri su gran parte dell’ Europa meridionale e centrale: Alta Italia, Mezzogiorno della Francia, Germania, Svizzera e Austria, suscitando ovunque per la sua luminosità sorpresa e ammirazione”. Il quotidiano notava che l’intensità del fenomeno e soprattutto la sua diffusione su gran parte dell’Europa, era eccezionale, ripetendo che si era trattato di un “insolito fenomeno celeste… che rarissimamente viene osservato alle nostre latitudini”. Inoltre, dando conto dei vari luoghi in cui l’aurora era stata osservata, si notava con insistenza il fatto che il cielo si era colorato “di un rosso di fuoco a levante, come se si trattasse di un grande incendio”; qualche riga dopo si insisteva sul colore del cielo, impressionante, definito, questa volta, “rosso-sangue”.
Il giorno successivo, il 27 gennaio, La Stampa riportava questo titolo: “Un’altra aurora boreale tra l’una e le due di notte”. L’astronomo intervistato dal quotidiano metteva in luce il fatto che solitamente le aurore boreali si manifestano al nord, e che molto raramente assumono estensione e luminosità come quella appena osservata. “Stampa sera” del 28-29 gennaio titolava: “Il nostro Sole è in tumulto”. Si notava che “il sole attraversa un periodo di grande, grandissima attività”, piuttosto rara e straordinaria.
Un altro giornale, “Il Brennero” del 29 gennaio 1938, notava l’estensione dell’aurora, che si era vista chiaramente anche in Portogallo, oltre che nel resto d’Europa, e commentava così: “Fenomeno rarissimo. L’aurora boreale non si manifesta che raramente nelle nostre regioni ed in Europa centrale…L’aurora che ha incendiato l’altro giorno il cielo dell’Europa sembra essere stata di una estensione e di una intensità senza pari…”.
Un’altra fonte interessante per capire l’entità del fenomeno è la relazione di Eugenio Guerrieri, “La grande aurora boreale del 25-26 gennaio 1938”, pubblicata dall’Osservatorio Astronomico di Capodimonte-Napoli (Contributi astronomici, serie II, n.22, 1938, estratto da: Rivista di Fisica, matematica e scienze naturali anno 13, serie II, Ottobre-novembre 1938-XVII -N.1-).
Scrive tra l’altro il Guerrieri: “L’Aurora boreale osservata nella notte dal 25 al 26 gennaio 1938 è stata veramente splendida e deve considerarsi come fenomeno straordinario per la sua magnificenza, anormale per la sua visibilità, oltre che nelle regioni nordiche dell’Europa e dell’America, anche in quelle di bassa latitudine nel nostro emisfero. Dovunque fu oggetto di ammirazione in tutta l’Europa, in Germania ed in Inghilterra specialmente; grande sviluppo in longitudine dal Portogallo alla Russia ed in latitudine dalla penisola Scandinava alla Sicilia e finanche in molti paesi del Nord Africa”. Guerrieri nota che il cielo si è colorato in maniera incredibile, di “rosso sangue”, come se vi fosse un “incendio gigantesco”, e continua: “Nell’Atlantide e negli Stati Uniti d’America l’a.b. è stata grandiosa”, mentre ha destato “ammirazione e sorpresa, nella Spagna e nel Portogallo, dove il fenomeno non si vedeva da mezzo secolo. Questo è stato egualmente osservato a Biserta, Fez, Hammamet, Toza, ed in molti paesi della Tunisia e del Marocco dove l’a.b. rarissimamente si osserva e l’ultima è stata quella del 1891: in questi paesi gli europei hanno creduto ad un vastissimo incendio lontano, mentre gli indigeni, molto spaventati, hanno supposto segnali ed avvertimenti celesti”.

Alla notizia della aurora boreale, come si è detto, Lucia ritenne che si trattasse del segno della Madonna e continuò a ripeterlo anche dopo che gli accordi di Monaco sembrarono per un attimo scongiurare il conflitto. Nel 1938, però, la annessione nazionalsocialista dell’Austria può essere veramente considerata l’antefatto della II guerra mondiale. Anche perché proprio la sera del 25 gennaio Hitler aveva ricevuto il barone Werner Fritsch, generale e comandante in capo della Reichwehr, “che continuava ad avanzare obiezioni sui piani di guerra hitleriani”, per farlo definitivamente fuori. Come è risaputo, infatti, ufficiali e generali tedeschi, per lo più, non volevano la guerra e costituivano l’unico potere rimasto in grado di impensierire il dittatore. Proprio la defenestrazione di Fritsch fu dunque un evento preliminare alla guerra non indifferente (Antonio Spinosa, “Hitler”, Mondadori, Milano, 1991, p. 240-241), così come le purghe di Stalin, all’epoca del 1938 ormai quasi concluse, furono importanti per eliminare quei generali che si sarebbero messi di traverso rispetto all’alleanza con Hitler del 1939.
A questo punto un ultimo dettaglio. Gli storici concordano nel dire che nel 1938 la guerra era in un certo senso ormai nell’aria. Ma il fatto che segnò definitivamente lo scoppio del conflitto fu il patto von Ribbentrop-Molotov, cioè la spartizione della Polonia e di altre zone di influenza tra Hitler e Stalin. La II guerra mondiale, insomma, nacque definitivamente con l’accordo tra nazisti tedeschi e comunisti russi, tra Hitler e Stalin. Ebbene, questo patto fu firmato la sera del 23 agosto 1939 (von Ribbentrop, da una parte, Stalin e Molotov, dall’altra).
Manco farlo apposta, proprio quella stessa sera, in alcune zone, fu segnalata una nuova aurora boreale, non così straordinaria come quella del 1938, ma certo imponente.
Ce la descrisse nientemeno che il gerarca nazista Albert Speer nelle sue “Memorie del Terzo Reich”: “Quella notte- racconta Speer- ci intrattenemmo con Hitler sulla terrazza del Berghof ad ammirare un raro fenomeno celeste: per un’ora circa, un’intensa aurora boreale illuminò di luce rossa il leggendario Untersberg che ci stava di fronte, mentre la volta del cielo era una tavolozza di tutti i colori dell’arcobaleno. L’ultimo atto del ‘Crepuscolo degli dei’ non avrebbe potuto essere messo in scena in modo più efficace. Anche i nostri volti e le nostre mani erano tinti di un rosso innaturale. Lo spettacolo produsse nelle nostre menti una profonda inquietudine. Di colpo, rivolto a uno dei suoi consiglieri militari, Hitler disse: ‘Fa pensare a molto sangue. Questa volta non potremmo fare a meno di usare la forza’”. Già da “due o tre settimane- continua Speer- l’attenzione di Hitler si era chiaramente spostata sulle questioni militari” e il “partito favorevole alla guerra” prendeva sempre più piede. In margine a queste osservazione di Speer, il curatore delle sue memorie annota: “Il 23 agosto 1939, il Volkischer Beobachter (giornale nazista, ndr) annunciò quanto segue: “Martedì mattina (22 agosto) alle ore 2.45 l’osservatorio astronomico del Sonneberg ha notato una gran luce nel cielo settentrionale” (Albert Speer, Memorie del terzo Reich, Mondadori, Milano, 1997, p. 197).
Un altro gerarca nazista, presente alla scena, Nicolaus von Below, ricorderà a sua volta: “All’inizio abbiamo pensato che si trattasse di un grande incendio in una delle città a nord dell’Untersberg, ma poi quella luce rossa ha illuminato tutto il cielo a nord e allora è stato chiaro che si trattava di una manifestazione insolitamente intensa di luci nordiche, un fenomeno naturale che si verifica raramente nella Germania meridionale”. “Intimorito da quella scena, commenta T. Ryback, von Below disse a Hitler che forse quello era il presagio di un’imminente guerra sanguinosa. “Se così dev’essere, allora che sia più veloce possibile” replicò Hitler” (cit. in Timothy W. Ryback, “La biblioteca di Hitler”, Mondadori, Milano, 2008, p. 148-149).
Concludo con un fatto: molti dicono chela Madonna, a Medjugorje, completi, diciamo così, le apparizioni di Fatima. Anche lì, dove il sole avrebbe “ballato”, secondo molte testimonianze, in più di un’occasione,la Vergine avrebbe annunciato dieci segreti, per svelare qualcosa di importante al mondo. Uno di questi, a quanto sembra, prevede una grande segno nel cielo…

Francesco Agnoli - Il Foglio
Tratto da: Libertà e Persona

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Per carità

Posté par atempodiblog le 22 mars 2012

Cari cattolici pauperisti, anche le opere di bene nascono dai soldi. Un po’ di esempi da non scordare

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Prendo in mano una rivista del mondo cattolico progressista, e trovo scritto che la chiesa ha fatto una scelta, un’“opzione preferenziale”, per i poveri, i “malriusciti”, gli emarginati, gli ultimi ecc. Non è una constatazione nuova. Ben prima della triste teologia della liberazione, lo notavano i primi avversari del cristianesimo, Celso e Porfirio. In tempi più recenti, Nietzsche e Hitler dicevano lo stesso, ovviamente con un analogo disgusto. E’ senza dubbio vero: sotto ogni cielo e in ogni epoca, chi più chi meno, perché sempre uomini e peccatori, i cristiani hanno soccorso orfani e vedove; hanno creato ospedali e xenodochi; hanno riscattato schiavi e prigionieri. Eppure, nel modo in cui questa “preferenza” viene espressa oggi in certi ambienti, vedo qualcosa di ideologico, cioè di parziale e limitante. Parziale e limitante perché talora si dimentica quante volte sono stati uomini e donne ricchi, facoltosi, a fare del bene ai poveri, a divenire poveri con i poveri. Possiamo ricordare la generosità delle principesse dei primi secoli, come Pulcheria, di ricche matrone come Melania, Fabiola e Marcella, di nobildonne ottocentesche come la contessa di Barolo, Maddalena di Canossa, Teresa Verzeri. Anche san Francesco, il più verace sposo di “madonna povertà”, nacque ricco e si fece povero. Povero volontario. Parziale e limitato, il pauperismo di certuni, perché dimentica quante opere di misericordia sono nate anche dai soldi, non sempre del tutto puliti, di mercanti e usurai, che tra medioevo e rinascimento hanno spesso finanziato prodigiose opere di carità; perché dimentica quante volte uomini poveri come il Cottolengo, o san Giovanni Bosco, hanno saputo salire le scale dei ricchi, anche di uomini non integerrimi, senza disprezzo manicheo sulle labbra, per ottenerne pane per i poveri, con grande frutto. Parziale, ancora, perché come non sono mai mancati i ricchi generosi, e distaccati dalle loro stesse ricchezze, cosa non certo facile, non scarseggiano neppure i poveri che, una volta divenuti ricchi, vogliono assaporare con assoluto egoismo la loro nuova condizione. Sì, la chiesa, come Cristo, deve amare i poveri, ma non è materialista come l’ideologia marxista. Crede dunque che i ricchi, come i poveri, abbiano l’anima, e che tra eternità e tempo vi sia una gerarchia: la vita eterna è una ricchezza più grande di ogni ricchezza terrena, e non è in ciò che è materiale, necessariamente, che si realizza l’equità e la giustizia; non è nel benessere, che pure è cosa buona, che si compie la felicità umana. Certo, tra i peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio”, Leone XIII mise il negare la “giusta paga agli operai”, e prima di lui Ambrogio si scagliava contro i ricchi che credono che la terra sia loro proprietà; certo, dopo Leone XIII, Pio XI attaccò il “funesto ed esecrabile internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro”, così come i suoi predecessori medievali avevano stigmatizzato i banchieri usurai e i guadagni illeciti. Ciò non toglie che per la chiesa l’anima dei ricchi non vale di meno di quella dei poveri, e quella dei poveri non vale di più di quella dei ricchi. Non mi convince, ancora, la visione pauperista in stile marxista di certo mondo “cattolico”, perché si riduce troppo spesso a predica, a utopia, a vagheggiamento di una attenzione verso i lontani, che mi sembra, a volte, un po’ troppo facile. Perché dimentica troppo spesso quello che una santa che di poveri se ne intendeva, Madre Teresa di Calcutta, definiva “il più povero tra i poveri”, cioè il bambino nel grembo materno. Non di rado, quando si parla di questo tema, in troppi di questi cattolici, esplode una rabbia strana, che si palesa in espressioni come queste: “A te interessano gli embrioni, i feti, e dimentichi gli uomini”. A me pare sia vero il contrario: chi ha attenzione verso il più piccolo dei fratelli, la avrà, necessariamente, anche verso gli altri. Chi vede l’umanità anche dove essa è più nascosta, e più fragile, più facilmente la scorgerà anche dove è più evidente. Chi è disposto ad accogliere il figlio non aspettato o “imperfetto”, saprà accogliere anche il prossimo suo, più di chi, al contrario, sopprime la carne della sua carne e il sangue del suo sangue.

Chi sono i nuovi poveri
Oggi però dobbiamo chiederci, come cristiani, chi sono i nuovi poveri. Certo, sono anche coloro che non hanno beni materiali a sufficienza. Non siamo puri spiriti e Cristo si dedicava anche a moltiplicare pani e pesci. Ma nel nostro occidente la povertà odierna più grande, quella che molti pauperisti non sanno vedere, è quella spirituale. Abbondano i poveri che mancano del senso della vita: così soli e indigenti da vivere senza Dio; così poveri da non sapere cosa siamo al mondo a fare; così poveri da cercare inutilmente, nell’egoismo sfrenato e nel consumismo di beni materiali o di affetti sciupati, un goccio di vita vera. A costoro la chiesa deve spezzare il pane della sapienza, anche tornando ad essere luogo di bellezza, nel canto, nell’arte, nella liturgia. Deve ridare Dio, il senso della grazia e del peccato, e il senso del sacro. Sono questi i maggiori doni che si possono fare ai poveri di spirito, pasciuti o non pasciuti, ma spesso egualmente disperati, di oggi.

Francesco Agnoli – Il Foglio
Tratto da: Saint Francis Assisi

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Degna sepoltura per i bimbi non nati

Posté par atempodiblog le 31 juillet 2011

Degna sepoltura per i bimbi non nati dans Aborto fetobambinochedorme

La notizia non è nuova, ma ha ora un certo rilievo sui grandi media: a Caserta, l’associazione Difendere la vita con Maria, fondata e presieduta da don Maurizio Gagliardini, ha siglato un protocollo di intesa, approvato con delibera del 22 luglio 2011, con l’Azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano, per promuove il seppellimento dei «bambini non nati».

Il sindaco della città ha dato la propria disponibilità a concedere un apposito spazio nel cimitero cittadino, ma, come sempe in questi casi, si è levata, violenta e intollerante, la voce di alcuni protestatari – rappresentati dal sindacato medico Fp-Cgil Medici – che sono divenuti, per il Corriere della Sera, « i medici » tout court. Il che non dovrebbe essere, dal momento che nel nostro Paese la maggioranza dei ginecologi sono obiettori e quindi ritengono l’aborto quantomeno qualcosa di negativo. Secondo il sindacato di sinistra, si tratterebbe di «violenza psicologica sulle donne da fermare».

A queste lamentazioni, si è unito, puntuale e immancabile, l’anatema dei Radicali, con un comunicato di Maria Antonietta Farina Coscioni, che comincia così: «Apripista è stata la regione Lombardia di Formigoni, che ha varato provvedimenti che vanno ben oltre le sue competenze disponendo la sepoltura dei feti come fossero esseri umani e mettendo in essere una vergognosa speculazione». Perché tanta rabbia, tanto ingiustificato livore?

A Caserta, infatti, non è successo nulla di nuovo, sia perché la sepoltura dei feti, morti per aborto spontaneo, o uccisi tramite ivg, è già realtà in varie zone del nostro paese, come, appunto, la Lombardia, sia perché nulla cambia, dal punto di vista della legge 194, in quanto l’aborto procurato rimane libero e gratuito, esattamente come prima. Cerchiamo di capire come stanno i fatti.

Nel nostro Paese è previsto il seppellimento dei feti superiori alle 20 settimane, le cui fattezze umane così evidenti e visibili impediscono anche ai più cinici di gettare questi resti umani nell’inceneritore. Un dpr del 21 ottobre 1975, n. 803, stabilisce, all’articolo 7, «su richiesta dei genitori il seppellimento anche dei prodotti di concepimento abortivi di presunta età inferiore alle 20 settimane». Proprio sulla base di questo dpr, l’allora ministro alla Sanità Donat Cattin emanò la circolare telegrafica n.500/2/4 del 13 marzo 1988, tutt’ora in vigore, in cui si stabiliva la sepoltura di feti anche in assenza di richiesta dei genitori, e si ricordava che «lo smaltimento attraverso rete fognante o i rifiuti urbani ordinari costituisce violazione del Regolamento di polizia mortuaria e del Regolamento di igiene», mentre lo «smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali, seppur legittimo, urta contro i principi dell’etica comune».

Il dpr n. 285 del 1990 prevede ugualmente che i bambini, definiti «prodotti abortivi», di età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane vengano sepolti a cura della struttura ospedaliera. A richiesta dei genitori possono essere raccolti nel cimitero, con la stessa procedura, i resti di «prodotti del concepimento» di età inferiore alle 20 settimane. In questo caso i genitori, a titolo proprio, o associazioni come quella fondata da don Gagliardini, attraverso convenzioni mirate, possono raccogliere i resti dei bambini non nati e chiedere all’unità sanitaria locale i relativi permessi del trasporto e del seppellimento. Infine dovranno accordarsi con i servizi cimiteriali, per l’atto di pietà dell’inumazione.

Riassumendo: i feti oltre le 20 settimane hanno automatico diritto alla sepoltura, anche se sovente questo avviene con ben poca cura (in modo anonimo, cumulativo, senza possibilità di conoscere il luogo), mentre per quelli più piccoli sarebbe richiesta un’analoga pietas, trattandosi pur sempre di resti umani, ma nella realtà dei fatti essi finiscono spesso bruciati nell’inceneritore insieme ai « rifiuti speciali », quando non buttati, come un tempo avveniva sicuramente più spesso, nelle fogne.

«La nostra associazione – spiegano Maria Luisa e Francesca, dell’associazione Life di Ospedaletto Euganeo, che si occupa proprio della sepoltura dei feti – è cominciata agli inizi del 2000 in seguito alla richiesta di una madre, che aveva perso il proprio bambino nelle prime settimane di gestazione. Questa madre desiderava sapere se poteva salutare il suo bambino attraverso un rito religioso. Da allora abbiamo capito l’importanza di venire in aiuto al dolore di alcune madri, e nello stesso tempo di compiere un atto dovuto a creature umane. Proprio in questi giorni una famiglia che si trova nel dolore per la perdita del proprio figlio, ha richiesto di poter seppellire il proprio bambino, morto a 18 settimane di gestazione, e ha richiesto il nostro aiuto. Il rito ha avuto luogo giovedì 12 maggio alle ore 8.30 presso l’ospedale di Monselice», che è uno dei tanti, oltre a quello di Caserta, ad aver riconosciuto questa possibilità.

La sepoltura dei feti non è però, come si potrebbe pensare, un sollievo solo per le madri che hanno visto morire un bambino desiderato, e che per questo sentono il dovere di tributargli un ultimo gesto di affetto. Può esserlo anche per quelle che, essendosi sottoposte all’aborto procurato (spesso spinte da qualcuno, dalla solitudine, dalle circostanze, da una cultura disumana…), sono poi cadute, come spesso accade, in un profondo stato di desolazione, e cercano quantomeno un luogo in cui piangere, per non essere del tutto impotenti di fronte al fantasma del loro bambino, rimpianto e perduto, ma non scomparso dal loro cuore.
Rimangono a questo punto da proporre alcune considerazioni.

La prima: gli abortisti aborrono la sepoltura dei feti, tirando in ballo contro di essa ora « i costi », ora la « violenza psicologica sulle donne », perché seppellire un feto significa riconoscergli una dignità. Significa riconoscere che è un essere umano.
Invece la mentalità abortista, ben esemplificata nella frase menzognera della Coscioni («…feti come fossero esseri umani…»), vuole che questo non avvenga: lotta perché nell’immaginario collettivo, nonostante le evidenze scientifiche, accessibili con qualsiasi ecografia, un feto rimanga un « grumo di cellule », un qualcosa di indistinto, di inumano; lotta perché abortire o partorire siano due decisioni esattamente equivalenti, in ogni circostanza. Per questo gli abortisti devono negare completamente la realtà del bambino nell’utero materno, ad ogni stadio, e anche dopo la morte.

La seconda considerazione porta un po’ più lontano, al senso stesso della vita e della morte, e quindi anche della sepoltura. Un poeta ateo come Ugo Foscolo notava che «dal dì che nozze tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui», gli uomini provvidero a seppellire i loro morti, sottraendoli alle ingiurie degli animali e degli agenti atmosferici. Foscolo riteneva che gli uomini fossero solo materia: eppure, dimostrando una lodevole e significativa incoerenza, negava potesse essere « civile » una società che sottrae ai suoi morti un ultimo tributo. La sepoltura è infatti un segno chiaro della dignità umana.

Solo gli uomini, infatti, seppelliscono i loro simili, dalla notte dei tempi. Le bestie mortali non lo fanno. Uno scienziato contemporaneo, anch’egli ateo, come Edoardo Boncinelli sostiene che tutto ciò che esiste, in un universo, anche umano, solo materiale, è sempre in vista di qualche utilità concreta. Eppure, nota in un suo libro, il fatto che gli uomini abbiano sempre seppellito i loro defunti, è, da un punto di vista puramente naturalistico e materialistico, ingiustificabile, incomprensibile. A meno che, diciamo noi, non si riconosca che l’uomo, da sempre, ha visto nei suoi cari qualcosa di più della loro carne, della loro materia: cioè una vita spirituale, un destino eterno, immortale.

Ecco, coloro che seppelliscono oggi i feti abortiti, spontaneamente o in modo procurato, saranno un giorno ricordati per la loro coraggiosa testimonianza: si dirà che in un’epoca di disumanità – che ha partorito lager e gulag, guerre mondiali e sperimentazioni sugli uomini, tentativi di clonazione e pompe Karman per fare a pezzi i bambini -, qualcuno ha lottato, con gesti simbolici e umanizzanti, per affermare la dignità di ogni singolo uomo, piccolo o grande, di 20 settimane o di 25, sano o malato che fosse. Si dirà che in tempi di feroce ateismo, quando la legge di Dio è stata sostituita dal capriccio e dall’arbitrio di ogni singolo uomo, cioè dalla legge del più forte, qualcuno ha voluto tener viva la sacra pietas e, con essa, la differenza che corre tra le cose e le persone, tra un tumore strappato dalla carne, e gettato nel water o tra i “rifiuti speciali”, e un bimbo, strappato, suo malgrado, dal grembo di sua madre e dal cuore di suo padre.

di Francesco Agnoli – La Bussola Quotidiana

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Quando Hitler vide un segno nel cielo

Posté par atempodiblog le 25 juillet 2010

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Adolf Hitler amava l’astronomia, ed anzi promosse la creazione di alcuni osservatori, spiegando che la scienza era la vera nemica della Chiesa e del suo oscurantismo. Oltre che nell’astronomia, il nostro credeva, e molto, nell’astrologia.
T. Ryback, che ha scandagliato la sua biblioteca personale, ha notato molti testi sull’argomento: “Il terzo gruppo (di volumi hitleriani, ndr) comprende libri su astrologia e spiritismo provenienti da ogni parte del mondo… Ci sono foto spiritistiche e, nascoste sottochiave, le 200 fotografie delle costellazioni nei giorni importanti della sua vita. Queste foto presentano annotazioni di suo pugno e ognuna è protetta dalla propria busta individuale” (“La biblioteca di Hitler”, 2008).
Insomma il Fuhrer era convinto che la sua esistenza fosse scritta nelle stelle. Per questo ho trovato veramente suggestivo un passo delle “Memorie del Terzo Reich” di Albert Speer , suo amico, architetto personale e ministro. Speer acconta che una sera Hitler annunciò ai suoi commensali, tra cui lui stesso, che aveva concluso un patto di non aggressione, noto come von Ribbentrop-Molotov, con la Russia.
Anzi, mostrò il telegramma appena giunto che dava per avvenuto l’accordo, proprio in quelle stesse ore del 23 agosto 1939. “Quella notte- racconta Speer- ci intrattenemmo con Hitler sulla terrazza del Berghof ad ammirare un raro fenomeno celeste: per un’ora circa, un’intensa aurora boreale illuminò di luce rossa il leggendario Untersberg che ci stava di fronte, mentre la volta del cielo era una tavolozza di tutti i colori dell’arcobaleno. L’ultimo atto del ‘Crepuscolo degli dei’ non avrebbe potuto essere messo in scena in modo più efficace. Anche i nostri volti e le nostre mani erano tinti di un rosso innaturale. Lo spettacolo produsse nelle nostre menti una profonda inquietudine. Di colpo, rivolto a uno dei suoi consiglieri militari, Hitler disse: ‘Fa pensare a molto sangue. Questa volta non potremmo fare a meno di usare la forza’”.
Già da “due o tre settimane -continua Speer- l’attenzione di Hitler si era chiaramente spostata sulle questioni militari” e il “partito favorevole alla guerra” prendeva sempre più piede.
In margine a queste osservazione di Speer, il curatore delle sue memorie annota: “Il 23 agosto 1939, il Volkischer Beobachter (giornale nazista, ndr) annunciò quanto segue: “Martedì mattina (22 agosto) alle ore 2.45 l’osservatorio astronomico del Sonneberg ha notato una gran luce nel cielo settentrionale”.

Un’apparizione mariana
Ho letto e riletto queste righe con attenzione. Perché mi hanno ricordato una apparizione mariana di cui si è tornati a parlare: quella di Fatima. E’ risaputo infatti che tra i segreti rivelati dalla Madonna nelle apparizioni del 1917, e divulgati, vi erano le seguenti affermazioni: in breve sarebbe successo qualcosa di straordinario in Russia e la I guerra sarebbe presto finita, “ma se non cessano di offendere il Signore, nel regno di Pio XI ne incomincerà un’altra peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che quello è il segno che vi dà Iddio che prossima è la punizione del mondo per i tanti suoi delitti mediante la guerra, la fame, la persecuzione contro la Chiesa”. E aggiungeva: “per evitare tutto ciò, Io verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato, e la comunione di riparazione del primo sabato del mese. Se le Mie richieste saranno esaudite, la Russia si convertirà e ci sarà la pace, altrimenti essa spargerà i suoi errori in tutto il mondo, facendo nascere guerre e persecuzioni contro la Chiesa. Molti buoni saranno martirizzati, il Santo Padre dovrà soffrire molto. Varie Nazioni saranno annientate”.
Ebbene, se è vero che proprio a Fatima nel 1917 il sole compì originali acrobazie, descritte anche dai giornali socialisti dell’epoca, è altrettanto vero che nei cieli dell’Europa Occidentale e dell’America settentrionale un’aurora boreale apparve nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1938: nel febbraio Hitler avrebbe assunto il comando supremo delle forze armate tedesche e successivamente l’aggressione all’Austria avrebbe iniziato l’escalation che avrebbe portato alla guerra.
La quale ha forse avuto come vera e propria data d’inizio proprio quel 23 agosto in cui fu firmato il patto von Ribbentrop-Molotov, e Hitler, Speer ed altri gerarchi, come si è visto, notarono nel cielo uno “segno” strano ed inquietante. Qualcuno potrebbe chiedere: perché la Madonna ha parlato di Pio XI, quando egli morì nel febbraio del 1939? Si potrebbe rispondere che l’annessione dell’Austria, del 1938, può essere in effetti considerata come chiaro segno di una guerra imminente. E che Pio XI è stato il papa che ha condannato nazismo e comunismo.
E se si domandasse: perché la Madonna ha messo in luce gli errori della Russia, e non quelli della Germania? Penso che in questo caso si possa notare anzitutto che la II guerra mondiale ebbe non uno, ma due colpevoli, con simile responsabilità: Hitler e Stalin. Ma mentre il primo sarebbe durato per pochi anni, cioè “solo” sino al 1945, sarebbe stata proprio la Russia a spargere “i suoi errori in tutto il mondo”, finendo per conquistare mezz’Europa, anche quella nazista, e contribuendo a diffondere l’ideologia comunista in Cina ed anche in altri paesi. Anche quel “in tutto il mondo”, a ben vedere, così come le due aurore boreali, mi sembra piuttosto profetico: inimmaginabile sia nel 1917, sia allo scoppio della II, nel 1939.

di Francesco Agnoli – Il Foglio
Tratto da: Libertà e Persona

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