Un libro per immunizzarsi dalla calunnia anti-cristiana

Posté par atempodiblog le 28 novembre 2017

Un libro per immunizzarsi dalla calunnia anti-cristiana
di Anna Bono – La nuova Bussola Quotidiana

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Natale si avvicina e gli attacchi ai cristiani si intensificano, ormai in gran parte del mondo. Nei paesi in cui sono una minoranza, le aggressioni e le  intimidazioni si fanno più frequenti, aumenta il rischio di attentati nelle chiese durante le cerimonie religiose. In quelli di tradizione cristiana si moltiplicano gli atti di intolleranza nei confronti dei simboli, dei riti, delle celebrazioni che da sempre preparano e accompagnano le feste natalizie: presepi, recite, canti. A Udine ad esempio, quest’anno, la proposta di alcuni cittadini di donare a Borgo Stazione un presepe ha suscitato la reazione indignata di un consigliere comunale. Ecco la motivazione del rifiuto: “perchè è un simbolo che richiama la tradizione esclusivamente cattolica di cui io non mi sento parte. Ci sono altri simboli molto più inclusivi che rappresentano tutti e tutte. Questa invece è una proposta fatta per andare contro qualcosa e qualcuno, una proposta per creare conflitto”.

Escludere i simboli cristiani come se fosse una prepotenza, una provocazione mostrarli è il primo atto di intolleranza. Poi si passa a sradicare la religione cristiana, eliminando dalla vita quotidiana gli atti pubblici di devozione: è l’intenzione di disposizioni come quella del dirigente scolastico che a Palermo ha proibito nel proprio istituto la recita delle preghiere e ha ordinato la rimozione di statue e immagini religiose. L’ulteriore livello di intolleranza, che prelude alla persecuzione vera e propria, lo raggiunge chi non si limita a ignorare il ruolo svolto dalla religione cristiana attraverso i secoli, ma accusa i cristiani, in Italia i cattolici, di aver reso il mondo peggiore e, se questa accusa non regge, imputa loro almeno la colpa di non aver combattuto per un mondo più giusto e libero.

Si riversano sui cristiani disprezzo e risentimento per aver impedito – così si sostiene – il progresso scientifico, aver umiliato le donne, ammesso la schiavitù e anzi aver partecipato alla tratta degli schiavi, torturato e bruciato milioni di streghe, combattuto religioni e popoli inermi in  nome di Dio con le Crociate, giustificato le stragi degli indigeni, a milioni, in Africa e nelle Americhe.

Spesso i fedeli subiscono queste accuse senza replicare, credendole almeno in parte se non del tutto giustificate, provando a scusare il comportamento della Chiesa e dei cristiani con il fatto che erano altri tempi, che il clima culturale era diverso…

Succede perchè i nemici del cristianesimo hanno falsato la storia nel corso dei secoli, mentendo senza scrupoli e sommergendo di calunnie i fatti. La verità riaffiora tuttavia, grazie al lavoro degli storici fedeli alla loro missione di studiosi, che recuperano dati, testimonianze, documenti. Si deve a loro se i cristiani oggi sono in grado di opporre argomenti fondati a chi diffama il cristianesimo. Non approfittare del loro contributo non solo priva i cristiani della possibilità di difendere la loro religione, ma impedisce loro di capire fino in fondo che cosa ha significato per l’umanità, tutta, l’avvento del Cristianesimo.

Lo storico Francesco Agnoli nel suo libro Indagine sul Cristianesimo. Come si è costruito il meglio della civiltà (La fontana di Siloe, 2014) propone per capirlo un mezzo efficace e tutto sommato semplice: il confronto tra il mondo prima e dopo il Cristianesimo e tra la civiltà che dal Cristianesimo è stata forgiata, quella occidentale, e il mondo oltre i suoi confini, là dove il Cristianesimo non è penetrato portando la propria rivoluzione antropologica, sociale, politica, economica e culturale.

Si scopre così – spiega Agnoli -  che l’Incarnazione di Cristo non è stato un evento straordinario solo per chi vi crede, ma ha avuto ripercussioni sulla vita dei popoli e degli individui in generale. Il cristianesimo infatti ha liberato l’uomo antico dalle superstizioni e dalle paure che lo immobilizzavano; ha introdutto l’idea di libertà e di eguaglianza; ha cambiato il modo di guardare gli schiavi, le donne, i bambini, i malati”. Contrariamente a quanto molti affermano, “la nuova religione ha favorito la nascita della scuola e dell’università, la diffusione degli ospedali e l’affermarsi della scienza moderna, proponendo un umanesimo pieno e universale, fatto di solidarietà, compassione e dialogo”.

Preziosi nel libro sono i capitoli che illustrano la posizione assunta dal cristianesimo nei confronti degli schiavi, appunto, delle donne e delle altre categorie sociali ritenute e trattate da inferiori, come le abbia difese e protette, quanto si sia battuto per loro, per dotarli di pari dignità. Più ancora lo sono le pagine in cui l’autore descrive il Cristianesimo smentendo la rappresentazione oppressiva che se ne vuole dare: religione della libertà – “liberi tutti gli uomini perché figli di Dio – e del sì – alla volontà del Padre, alla vita, all’amore e alla fiducia nel prossimo – in contrasto con una dominante “cultura del no alla vita”, che vanta come conquiste di libertà l’aborto, il divorzio, la droga, l’eutanasia.

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Quando Ungaretti credette

Posté par atempodiblog le 15 avril 2015

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Pasqua 1928: Giuseppe Ungaretti – il grande poeta da tutti conosciuto per le sue poesie scritte al fronte durante la prima guerra mondiale-, dopo un periodo trascorso a Subiaco, approda “definitivamente” alla fede cattolica. Suggella la sua conversione con una poesia, La pietà, che inizia con un’ ammissione, “Sono un uomo ferito”,

e continua con versi di questo tenore: “Non ne posso più di stare murato/nel desiderio senza amore/…Fulmina le mie povere emozioni/liberami dall’inquietudine. Sono stanco di urlare senza voce…”.

La conversione di Ungaretti non giunge all’improvviso. Da giovane, come quasi tutti gli uomini di cultura italiani, si innamora del socialismo. Sono gli anni in cui la religione è sostituita dalla politica. La politica è vista come la strada verso la salvezza; è l’azione vera; è la via e la vita. Lo pensano Ungaretti, Mussolini, Battisti, Marinetti e tanti altri.

Pagheremo questa illusione con la prima guerra mondiale e con i suoi figli: comunismo, nazionalsocialismo e fascismo. Cioè con le religione atee della politica. Con l’uomo faber salutis suae; con il sogno di edificare il paradiso in terra. Sogno che genererà l’inferno dei gulag comunisti, dei lager nazisti e la seconda guerra mondiale.

Ungaretti è pienamente figlio di questo tempo. Uno dei tanti socialisti o nazionalisti o nazional-socialisti ante litteram che si gettano con entusiasmo nella prima guerra mondiale, in quell’inutile carneficina che inaugurerà la graduale autodistruzione dell’Europa. Questa guerra, pensa Ungaretti, porrà fine a tutte le guerre. Incendierà il mondo vecchio, per creare il mondo nuovo.

Ma non esiste solo l’utopia; ci sono anche i fatti. Al fronte, sulle montagne del Carso, sull’Isonzo, Ungaretti depone l’ideologia, perché tocca con mano la realtà: l’odio, la morte, la distruzione, la carne dilaniata dei compagni uccisi; ma anche la speranza, l’attaccamento alla vita, il rapporto di solidarietà tra i commilitoni, e il senso di Dio.

Qui, infatti, nel dolore e nella durezza di ogni giorno, Dio riaffiora. Nasce così una poesia poco studiata, benché contenuta nella celebre raccolta “L’Allegria”. E’ del 1916, e si intitola Dannazione. Sono pochi, bellissimi versi: “Chiuso tra cose mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ perché bramo Dio?”.

Il sentimento religioso è già tutto qui: ogni cosa muore, persino “i cieli, passeranno”; eppure nell’uomo, e solo in lui, vi è il desiderio di Dio. Un desiderio che non può rimanere “murato”, e che non può neppure essere saziato da cose, ideologie, illusioni mortali.

L’uomo desidera nulla di meno di Dio, del Bene, della Verità. Desidera nulla di meno dell’Amore. E questo desiderio, potremmo chiosare, balzando dalla poesia alla filosofia, trascende la nostra carne: non viene dai nostri atomi, nè dal nostro intestino. Sgorga dalla nostra anima immortale.

In una nota a Sentimento del tempo, Ungaretti scrive: “La sensazione dell’assenza radicale dell’essere è forse, in realtà, sensazione dell’assenza divina? Solo Dio può sopprimere il vuoto, essendo, Egli, l’Essere, essendo, Egli, la Plenitudine? E’ il sentimento dell’assenza di Dio in noi, rappresentato non simbolicamente, rappresentato, in realtà, da quell’orrore del vuoto, da quella vertigine, da quel terrore? Michelangelo e alcuni uomini dalla fine del ‘400 sino al ‘700 avevano, in Italia, quel sentimento, il sentimento dell’orrore del vuoto, cioè dell’orrore di un mondo privo di Dio”.

Nel 1931, già convertito, Ungaretti scrive un’altra poesia intitolata, come quella del 1916, Dannazione, ma molto più lunga. Sono riflessioni dell’uomo di fede che vacilla, che sente di poter di perdere il tesoro trovato, e che nel contempo ha una consapevolezza ormai incancellabile del suo valore: “Quest’anima/ che sa le vanità del cuore/e perfide ne sa le tentazioni/e del mondo conosce la misura/ e i piani della nostra mente giudica tracotanza,/ perché non può soffrire/ se non rapimenti terreni?/ Tu non mi guardi più, Signore…/E non cerco se non oblio/ nella cecità della carne”.

La carne: cioè gli inganni del mondo, le tentazioni che distolgono l’uomo dal vero oggetto del suo desiderio, che lo accecano; ma anche la realtà, il dolore, la gioia vera sperimentata nella vita concreta. Così, in Pietà, il poeta, memore del detto cristiano “caro cardo salutis est” (la carne è il cardine della salvezza), innalza una preghiera: “Purificante amore/ fa ancora che sia scala di riscatto/la carne ingannatrice”.

In generale, per Ungaretti, la Passione precede la Pasqua. E l’uomo che sa vedere oltre la sconfitta, il dolore, la morte, comprende che quello di Cristo è “un amore non vano”; capisce che Cristo è sempre accanto all’uomo, anche là dove il suo nome viene apertamente rinnegato e combattuto.

Lo ribadirà anche nel pieno della seconda guerra mondiale (1944), in Mio fiume anche tu, avendo come sfondo un’altra guerra, l’occupazione di Roma, gli stermini: “… Vedo ora nella notte triste, imparo,/ So che l’inferno s’apre sulla terra/Su misura di quanto/ L’uomo si sottrae, folle,/ Alla purezza della Tua passione…/Cristo, pensoso palpito,/Astro incarnato nell’umane tenebre,/Fratello che t’immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l’uomo,/Santo, Santo che soffri,/Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,/Santo, Santo che soffri/ Per liberare dalla morte i morti/ E sorreggere noi infelici vivi,/ D’un pianto solo mio non piango più,/Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri”.

di Francesco Agnoli – La Croce – Quotidiano
Tratto da: Libertà e Persona

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Il nazismo ha odiato la Chiesa

Posté par atempodiblog le 14 mars 2015

C’è qualcosa di nazista ancora oggi, tra noi?
Il nazismo ha odiato la Chiesa
di Francesco Agnoli – La Croce – Quotidiano

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Il nazismo è stato, con il comunismo, l’esperienza più terribile, sanguinosa, distruttiva che l’umanità abbia mai vissuto. Pochi ricordano che la II guerra mondiale nacque proprio dall’alleanza tra i due mostri, con il patto von Ribbentrop-Molotov del 1939; non tutti hanno chiaro quanto profonde siano le somiglianze tra nazismo e comunismo, da una parte, ed eresie gnostiche antiche e medievali, dall’altra; non tutti hanno presente quanti siano i punti di contatto tra queste ideologie di sangue e il pensiero dominante odierno, in molti campi, soprattutto della bioetica.

Per tutti però vi è una certezza: il nazismo è stato malvagio, terribile, spaventoso.

Ma cosa pensava, il nazismo, della Chiesa cattolica?

Andiamo alle fonti, ignorando per un attimo la congerie incredibile di libri con cui si è spesso voluta dare del nazismo una lettura indirizzata e spesso tendenziosa.

Partiamo dal celeberrimo Mein Kampf di Adolf Hitler.

Qui si possono rintracciare almeno due idee interessanti: la Chiesa cattolica è, per il futuro dittatore della Germania, “in conflitto con le scienze esatte e con l’indagine scientifica”, mentre il cristianesimo si è imposto grazie ad una “fanatica intolleranza”. “Oggi il singolo deve constatare con dolore, scrive Hitler, che nel mondo antico, assai più libero del moderno, comparve col cristianesimo il primo terrore spirituale” (Adolf Hitler, Mein Kampf, Ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1990, p. 111, 105, 106).

Quest’idea la troviamo assai diffusa in tutta la politica del primo Novecento. Anche il giovane Mussolini, ancora socialista, sostiene che la Chiesa è oscurantista e intollerante. Analoghi pensieri li troviamo espressi negli scritti di Lenin e Stalin, nei medesimi anni.

Adolf Hitler ritorna sul cristianesimo, più e più volte, nel corso dei suoi Discorsi a tavola, con i gerarchi nazionalsocialisti, tra il 1941 e il 1944. Andiamo ancora ai testi originali, trascritti e ordinati dal gerarca nazista Martin Bormann.

La sera dell’11 luglio 1941 Hitler afferma: “Il colpo più duro che l’umanità abbia ricevuto è l’avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è figlio illegittimo del cristianesimo. L’uno e l’altro sono una invenzione degli Ebrei. E’ dal cristianesimo che la menzogna cosciente in fatto di religione è stata introdotta nel mondo. Si tratta di una menzogna della stessa natura di quella che pratica il bolscevismo quando pretende di apportare la libertà agli uomini, mentre in realtà vuol far di loro solo degli schiavi… Il cristianesimo è stata la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell’amore. Il suo segno è l’intolleranza” (Adolf Hitler, Conversazioni a tavola di Hitler, Goriziana, Gorizia, 2010, p. 45)

Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 1942 Hitler afferma,: “Il cristianesimo (a differenza delle religioni animiste pagane, ndr) promulga i suoi dogmi con la forza. Una simile religione porta con sé l’intolleranza e la persecuzione. Non ce n’è di più sanguinose”.

Subito dopo parla dell’osservatorio astronomico che sta facendo costruire a Linz, per combattere l’ignoranza scientifica (idem, p. 308). Il 9 aprile 1942, nel pieno dei massacri di cui è colpevole, afferma: “La Chiesa si è piegata alla necessità di imporre il suo codice morale con la massima brutalità. Non ha indietreggiato neppure dinnanzi alla minaccia di rogo, dando alle fiamme, a migliaia, uomini di grande valore. La nostra società attuale è più umana di quanto non lo sia mai stata la Chiesa” (idem, p. 389).

Ai cristiani e alla Chiesa, nelle 680 pagine dei Discorsi, tra una dichiarazione di vegetarianismo e una di animalismo, Hitler imputa almeno le seguenti colpe: di aver incendiato Roma all’epoca di Nerone; di aver rovinato l’impero romano; di aver distrutto biblioteche e testi antichi; di aver torturato i nemici; di aver bruciato milioni di streghe; di aver negato “le gioie dei sensi”; di instillare una “ribellione contro la natura, una protesta contro la natura” (promuovendo il matrimonio monogamico e indissolubile…); di privilegiare i malformati e i malriusciti, i poveri e gli ignoranti; di proporre un “paradiso insipido”, tutto canti e alleluia; di minacciare la gente con l’inferno (Hitler non ci credeva proprio, ad un giudizio finale); di basarsi su una “storia puerile”, “invenzione di cervelli malati”, che inventa un Dio personale che non esiste, l’assurdità della resurrezione, e un “preteso aldilà” che negherebbe importanza alla vita terrena… Riguardo ai preti essi sono immancabilmente “ripugnanti”, “perversi” e i missionari “gli ultimi dei maiali”.

Quanto al rapporto tra scienza e fede il pensiero già espresso nel Mein Kampf ritorna anch’esso, insistentemente. La sera del 24 ottobre 1941: “la religione è in perpetuo conflitto con lo spirito di ricerca. L’opposizione della Chiesa alla scienza fu talvolta così violenta da sprizzare scintille”, tanto che oggi l’Evoluzione è in contrasto con la credenza puerile nella Creazione (idem, p. 110). Il mondo antico, pre-cristiano, invece, “amava la chiarezza. La ricerca scientifica vi veniva incoraggiata” (idem, p. 301).

Cosa intende Hitler per “scienza”? All’epoca, non solo per lui, sono “scientifici” l’eugenetica (con i suoi corollari: eutanasia di persone malate e aborti di bambini malformati o nati da matrimoni misti), il razzismo (i nazisti ritenevano di avere dalla loro la biologia e l’evoluzionismo, nella sua versione materialista), e la produzione di bambini tramite gli accoppiamenti stabiliti dal regime, tra ariani e ariane certificati. Con annessa nascita di migliaia di bambini senza genitori.

C’è qualcosa di nazista ancora oggi, tra noi?

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La fede fa bene, dice la scienza

Posté par atempodiblog le 24 février 2015

La fede fa bene, dice la scienza
di Francesco Angoli – La Croce – Quotidiano

La fede fa bene, dice la scienza dans Articoli di Giornali e News 161mcef

Quando il fondatore di questo giornale e i suoi collaboratori si battono per il diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre, fanno una battaglia di buon senso, umana, razionale. Ciò che invocano, a monte delle loro argomentazioni, è, in fondo, la natura umana, così come è, accessibile a tutti. Ne deriva, si potrebbe pensare, che sia una battaglia di pura ragione. Come dimostra per esempio il sociologo Giuliano Guzzo nel suo utilissimo e documentatissimo La famiglia è una sola.

Ma la questione è più complicata. La ragione conta, ma non basta. Gli insulti, le maledizioni, l’odio che sovente colpiscono chi difende i bambini – dai ferri del chirurgo, dall’indifferenza della politica e di una certa cultura anti-famiglia, o dal business dell’eterologa e dell’utero in affitto –, lo dimostrano.

Questo perché la ragione umana, in se considerata, è molto debole, fragile. E’ facilmente sopraffatta dall’istinto, dall’egoismo, dalla cattiva volontà. Siamo tutti figli di quel peccato originale che sovente intorbidisce i nostri ragionamenti, inquina le nostre azioni, anche quelle nate con le migliori intenzioni. Per questo a volte non riusciamo a vedere l’evidenza. Per questo Cristo ci ha detto: “Senza di me non potete far nulla”.

Ma come si fa a stare con Cristo? Ci sono la Chiesa, i sacramenti, e la preghiera. Abbiamo tutti bisogno di pregare, cioè di alzare gli occhi al cielo, di vincere i pesi che ci trascinano inevitabilmente verso il basso: l’egoismo, l’orgoglio, l’ira, l’invidia, la stanchezza… Abbiamo tutti necessità di ossigenare non solo il nostro corpo, cui dedichiamo sovente molte, anche troppe attenzioni, ma anche la nostra anima.

“Si potrebbe comparare il senso del sacro – scriveva il premio Nobel per la medicina Alexis Carrel in una meditazione intitolata La preghiera – al bisogno di ossigeno. E la preghiera avrebbe qualche analogia con la funzione respiratoria. Essa dovrebbe essere, allora, considerata come l’agente delle relazioni naturali tra la coscienza e il suo mondo. Come un’attività biologica dipendente dalla nostra struttura. In altri termini, come una funzione normale del nostro corpo e del nostro spirito”.

Nella preghiera, infatti, l’uomo entra in relazione con la sua Origine e il suo Fine, con il substrato, il cuore, per così dire, di ogni cosa. E così facendo, vede, alla luce di Dio, se stesso: nella preghiera – è sempre Carrel che parla – “l’’uomo si vede tale quale è. Scopre il suo egoismo, la sua cupidigia, i suoi errori di giudizio, il suo orgoglio. Egli si abitua a compiere i suoi doveri morali. Tenta di guadagnare l’umiltà intellettuale. Così si apre davanti a lui il regno della grazia”.

Senza preghiera, senza meditazione, senza esame di coscienza, la nostra anima si secca, la nostra coscienza si assopisce piano piano, il nostro istinto animalesco si trova liberato e non esita a mostrare la sua faccia malvagia. Pregare è, in questo senso, la strada per raggiungere l’umiltà, per sconfiggere l’odio (che tenta, talora, di impadronirsi di noi), per diventare più simili agli angeli che alle belve.

Abbiamo dunque bisogno di preghiera: di quella individuale, ma anche di messe celebrate bene, di chiese belle, costruite da artisti di fede, di canti dignitosi, ricchi di senso del sacro, del soprannaturale (magari anche di un po’ di musica gregoriana, ché, per le canzonette, non serve andare in chiesa).

La preghiera guarisce lo spirito, lo ritempra come un bagno freddo, lo predispone a vivere le cose belle e le avversità della giornata con un gusto e una gioia particolari.

Il già citato Carrel, convertitosi a Lourdes, affermava che la preghiera talora guarisce l’anima; talora aiuta a sopportare con incredibile forza i mali del corpo; talora persino guarisce il corpo stesso.

Oggi svariati studi provano che la dimensione spirituale interagisce profondamente con quella fisica. Il mensile Le Scienze del gennaio 2015, riporta varie indagini secondo le quali grazie alla meditazione “avvengono cambiamenti fisiologici… e effetti psicologici benefici”, scientificamente rilevabili. Scrivono gli autori dell’articolo: “Quindici anni di ricerche non hanno solo mostrato che la meditazione produce cambiamenti significativi sia nel funzionamento sia nella struttura del cervello dei praticanti esperti. Gli studi iniziano ora a dimostrare che queste pratiche contemplative potrebbero avere un impatto sostanziale su alcuni processi biologici critici per la salute del corpo”.

Tra i numerosi studi scientifici pubblicati negli ultimi anni, ne segnalo soltanto tre. Il primo, sul Psychol Health 2009 Jan;28(1):117-24, analizza “il rapporto esistente tra l’assiduità nel frequentare la chiesa e la salute del corpo in età matura” e conclude suggerendo che esista “un legame più diretto tra la presenza regolare in chiesa e il benessere”.

Un altro studio, a cura di Rita W.Law, dell’Università dell’Arizona, in Journal of Aging and Health.2009 Sep;21(6):803-23, conclude: “è emerso che la frequentazione di una chiesa ha un effetto protettivo contro il manifestarsi di problemi di natura depressiva tra gli anziani. Inoltre, essere sposati o sposarsi si accompagnava alla diminuzione di stati depressivi, mentre la cessazione del matrimonio produceva l’effetto contrario”.

Il terzo studio, del 2014, pubblicato sul Journal of Aging and Health 26(4): 540-558, a cura di due professori dell’Università del Michigan, indaga se “la vita sociale in associazioni religiose” sia connessa o meno con una migliore salute fisica. I risultati: le persone che vanno più spesso in chiesa riceveranno più supporto spirituale dai membri della chiesa; questo comporta una speranza maggiore; la maggior speranza è collegata ad una miglior salute percepita.

Davanti ad un figlio inatteso o malato, a un matrimonio in crisi o ad una malattia difficile da sopportare – tanto per citare tre “croci” piuttosto diffuse –, servono certamente speranza e fiducia: le possiamo trovare proprio nella preghiera, che ci permette di percepire che non siamo soli, ma figli amati di un Padre buono.

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Il dileggio non è satira, nè libertà di espressione, ma violenza ideologica

Posté par atempodiblog le 8 janvier 2015

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Ho visto alcune vignette del settimanale francese  Charlie hebdo. Sempre violentemente blasfeme, derisorie, cattive, pornografiche (contro Cristo, il papa, miliardi di credenti…). In un paese normale, quale purtroppo la Francia non è, un simile giornale sarebbe stato chiuso da anni. Risparmiando tanti morti.

Perché il dileggio non è satira, nè libertà di espressione, ma violenza ideologica. Perché anche le battaglie culturali si fanno rispettando gli avversari; si fanno anche duramente, ma senza deridere miliardi di persone e ciò che hanno di più caro. In un paese normale non si dovrebbe continuare a fare il tifo per ogni cosa, dall’utero in affitto all’Islam, solo per distruggere la fede e la cultura che fecero grandi, un tempo, la Francia e l’Europa.

Siamo purtroppo  una civiltà in decomposizione in cui l’autodistruzione nichilista della nostra civiltà fa pandant con coloro che, con la nostra complicità, vogliono distruggerci e annichilirci.

di Francesco Agnoli

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Dio: una favola per bambini ed anziani?

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2014

Dio: una favola per bambini ed anziani?
di Francesco Agnoli - Il Foglio
Tratto da: Una casa sulla Roccia

Dio: una favola per bambini ed anziani?  dans Articoli di Giornali e News oj0403

Russell Stannard è un fisico americano che indaga il rapporto tra scienza e fede. In Italia è stato pubblicato un suo testo, La scienza e i miracoli, in cui vengono intervistati molti scienziati, sui temi più scottanti. Alcuni di essi, dopo essere stati genetisti, fisici, astronomi, hanno deciso di diventare anche teologi. Perché la loro scienza non gli bastava.

Il libro inizia con una descrizione: quella di un gruppetto di scolari di 9 anni presso un Osservatorio astronomico. Ad alcune domande sull’origine del cosmo, delle stelle, degli alberi, racconta Stannard, tutti tirano in ballo Dio. Per i bambini Dio è una realtà vera e presente. Vi sono studi che sostengono che l’idea di Dio sia innata negli uomini, e particolarmente efficace proprio nei bambini. Come fossimo “programmati” per credere. Ma la certezza dell’esistenza di Dio, continua Stannard, naufraga clamorosamente quando, invece che bambini, si interrogano giovani universitari o adulti.

Allora Dio diventa… una favola per bambini. Trovo questo fatto interessante. E ammetto subito di simpatizzare per i bambini, il cui innato senso religioso rende conto di un fatto: checché se ne dica spesso, da secoli, la fede non nasce affatto dalla paura, o da chissà quale desiderio da sublimare, ma dallo stupore originario con cui guardiamo il mondo. Stupore originario di chi, oltre all’evidenza, non ha eredità di ragionamenti, nè di scelte morali passate, attraverso cui filtrare la realtà così com’è…

Credo che se si facesse uno studio, si scoprirebbe che la maggior parte delle persone perdono la fede in età adolescenziale, o all’inizio dell’età adulta. Sì, proprio nell’età in cui, se non guidati e sorretti, facilmente si trasforma la brama di esistere e di essere riconosciuti, in ribellione: contro i genitori, la scuola, la realtà, il proprio aspetto fisico… In quest’ansia di agire, di essere, di crescere, di contare… Dio sembra, talora, solo un limite, come i genitori, come molte altre cose… e viene piano piano accantonato. Poi si cresce e un po’ di studio, magari un pezzo di carta chiamato laurea, convince tanti di aver capito tutto: “Dio non serve: è dei bambini e dei vecchi…“. Così i giovani universitari sentiti da Stannard: “O credi nella scienza o credi nella Creazione“.

Eppure i più grandi scienziati (scienziati-bambini?) erano spiriti profondamente contemplativi e religiosi. Personaggi che maneggiavano una lucertola con rispetto, come scrive Chargaff; che guardavano il mondo con stupore e senso del sacro, come scriveva Russell; che cercavano Dio nei cieli e nelle foglioline; che, come Newton, si paragonavano, guarda un po’, ad un bambino che camminando sulla spiaggia osserva sassolini e conchiglie, mentre ha davanti a sé un “oceano di mistero” che gli sorride e lo affascina. Poi, dopo l’età infantile, l’età adolescenziale e l’età adulta: il secolo dei lumi. Con le sue certezze: “Sappiamo tutto; tutto ci è chiaro, ormai“. E’ l’epoca dei filosofi atei, di alcuni scienziati, spesso di mediocre livello, che hanno chiaro che Dio è dei bambini e dei vecchi. Una superstizione che passerà. E invece… oggi abbiamo mille conoscenze in più che in passato. Il cittadino medio sa più cose di Newton e di tutti i filosofi materialisti del Settecento e dell’Ottocento… Eppure, accanto a scienziati atei, vi sono ancora campioni della scienza, premi Nobel ecc che si dichiarano credenti. Che smentirebbero volentieri, se interrogati, la visione dei giovani universitari: “O credi nella scienza o credi nella Creazione”. Quantomeno dichiarando ridicolo l’aut aut.

Ma torniamo al passaggio da bambini ad adulti. Cosa fa il bambino? Sapendo poco, osserva tanto. E così facendo, impara. E l’adulto? Spesso crede di aver osservato abbastanza, e di non averne più bisogno: ha capito. Quanto più si crede di sapere, però, tanto più ci si chiude alla conoscenza vera, profonda, della multiforme e variopinta grandezza della realtà. Sfuggono i colori, le sfumature, ciò che è più profondo, meno evidente, ma non meno reale. La chiusura a priori è un atteggiamento mentale diffuso. E’ proprio di tanti adulti che si ritengono “colti”, arrivati, perché hanno magari una laurea e leggono libri alla moda.

I più ignoranti sono sempre coloro che credono di aver già capito tutto. Ma chi crede di aver capito tutto? Chi ha capito, un po’, un qualchecosa di qualcosa. Così certi scienziati: conoscono benissimo il funzionamento di una reazione chimica, o di una proteina, e, mentre si innamorano dei dettagli, dimenticano che le cause seconde non sono la prima, che il dettaglio non è l’insieme, precludendosi la possibilità di vedere tutto il quadro…

Il meccanismo è quello descritto da Pasteur, e, prima, da Bacone e Boyle: “poca scienza allontana da Dio, molta vi riconduce”. Poca scienza rende, spesso, superbi, tanta umili. Ecco perchè, a mio avviso, la fede è, spesso, dei bambini e degli adulti più maturi, dei vecchi.

Nei bambini c’è un’umile apertura alla realtà (senza paura); in tanti adulti, invece, si mescolano orgoglio, presunzione di sapere e cinismo; il passare degli anni permette a molti di incontrare di nuovo la realtà, non con l’umiltà originaria e meravigliata dei bimbi, ma con quella più sofferta, insegnata dall’esperienza e dalla vita stessa.

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L’ateismo assoluto: una religione totalitaria

Posté par atempodiblog le 11 août 2014

L’ateismo assoluto: una religione totalitaria
di Francesco Agnoli – Il Foglio (2008)
Fonte: Il settimanale di Padre Pio
Tratto da: Noi Chiesa

L'ateismo assoluto: una religione totalitaria dans Articoli di Giornali e News scrfpw

L’enciclica del papa è centrata sulla speranza, ma la parte dedicata all’ateismo del Novecento farà senza dubbio discutere. Eppure il papa, condannando l’ateismo assoluto (non certo l’ateismo « tragico » di chi ricerca e continua a domandare), e riconducendo ad esso gran parte delle atrocità del secolo appena trascorso, non fa che esprimere una opinione che qualsiasi storico potrebbe sottoscrivere. E’ un dato di fatto che i sistemi atei abbiano prodotto la I e la II guerra mondiale, cioè le più grandi stragi della storia dell’umanità, come pure le ideologie di morte del nazismo e del comunismo (e per molti aspetti anche del fascismo). 

I grandi dittatori della storia sono tutti nel Novecento, nel secolo della decadenza e dell’ateismo assoluto, e sono tutti rigorosamente materialisti: Lenin, Stalin, Hitler, Mussolini, Mao, Pol Pot, Hoha, Tito, Milosevic…. Si tratta di un dato storico inconfutabile. Machael Burleigh, docente a Oxford e in varie università degli Stati Uniti, ha appena scritto per Rizzoli un poderoso saggio, “In nome di Dio”, in cui dimostra chiaramente che “negli anni successivi alla prima guerra mondiale l’Europa, gravemente provata dal conflitto, costituì un terreno di coltura per le appassionate predicazioni di fanatici visionari e di profeti che offrivano ‘religioni politiche’ alternative a quelle ufficiali. Sorsero così e si affermarono nel continente movimenti che riuscirono a dar vita a totalitarismi con aspirazioni onnicomprensive: il comunismo, il fascismo, il nazionalsocialismo, i quali, pur con diversità rilevanti tra loro, proponevano il paradiso in terra, la giustizia sociale, la creazione di un ‘uomo nuovo’. Il Partito veniva idealizzato, il Capo quasi divinizzato, investiti entrambi di una dimensione ‘sacrale’ nel corso di adunate e grandiose manifestazioni, producendo inevitabili scontri con le Chiese ufficiali”. 

Burleigh, come tanti altri storici e filosofi, nota cioè come le ideologie atee del Novecento si siano poste come ricette di salvezza umana, con lo scopo di creare il paradiso sulla terra, facendo appunto a meno di Dio, e dando vita poi, nella realtà, all’inferno. Il minimo comune denominatore delle ideologie è infatti quello di presentarsi come surrogati del senso religioso, per proporre una via alternativa a quella della Fede per il raggiungimento della Verità, del Bene e della Giustizia. E’ un fatto che il nazionalismo nasca come “religione della patria”, il nazismo come “religione della razza e del sangue” (non certo dell’anima), il comunismo come religione dell’eguaglianza sociale ed economica, e che tutte queste idee abbiano una matrice atea e materialista. Si legga, a proposito, il celeberrimo saggio di Leon Poliakov, il grande storico del razzismo, “Il mito ariano” (editori Riuniti), in cui si spiega chiaramente che l’origine del razzismo poggia interamente sulla negazione della comune figliolanza degli uomini rispetto a Dio e sulla negazione del dogma cattolico della discendenza di tutti gli uomini da Adamo ed Eva (dogma che comporta la fratellanza universale, e che viene respinto dai primi teorizzatori del razzismo, in nome dell’esistenza di razze superiori ed inferiori che avrebbero dunque origini da ceppi diversi). Poliakov ricorda anche come il razzismo e l’eugenetica siano collegati ad una visione materialistica diffusa a partire dal Settecento, da antropologi, frenologi, antropometri, e da tutti quegli pseudo-scienziati materialisti che cercavano di stabilire la superiorità e l’inferiorità delle razze in base alla misurazione del cranio e degli arti, e cioè delle parti puramente corporali, convinti che l’uomo si esaurisse, appunto, in esse (mentre invece, differendo tra loro i corpi, solo l’anima può garantire l’eguale dignità degli uomini). L’uomo, le masse ideologizzate e secolarizzate del Novecento, si caratterizzano dunque per il fatto di aver abbandonato la Speranza in Dio e nella sua azione salvifica, e per averla riposta interamente nella politica, nel Partito, nello Stato, nel Dittatore. Chiedono ad essi ciò che chiedevano, un tempo, a Dio, anzi di più: tutto, ma subito (non essendovi più l’idea di una Vita ultraterrena). La creazione del mondo perfetto, dell’ “uomo nuovo”, per le ideologie, dunque, urge, incalza, preme: necessita al più presto l’eliminazione, tramite ghigliottine, gulag, lager e polizie segrete, ovre, gestapo, ceka e kgb, di coloro che ostano, che impediscono, che non comprendono, che complottano, che conducono la “controrivoluzione”, che, secondo l’articolo 58 del codice penale sovietico, sono solo sospettati di farlo…: in una parola di quanti meritano l’inferno, anch’esso, come il paradiso, trasferito paradossalmente nell’aldiquà. E’ per questo, per fare un esempio, che la guerra, o la violenza, sempre considerata un male, per quanto talora inevitabile (guerra di difesa), diviene un bene in se stessa: il vento che spazza lo stagno, di Hegel, la guerra che porrà fine alle guerre, per alcuni interventisti italiani della I guerra, “la sola igiene del mondo” per i materialisti futuristi, una esigenza di natura, per i socialdarwinisti, uno splendido cozzare di popoli, per i nazionalisti, la fine del passato oscuro e l’inizio di una nuova era, per tutti i rivoluzionari, da Mussolini a Mao… Sempre per lo stesso motivo, ogni ideologia si afferma come un “mondo nuovo”, un “ordine nuovo”, un’era diversa, che data la sua origine non dall’evento salvifico della nascita di Cristo, ma, come avviene dalla Rivoluzione francese in poi, passando per il fascismo e il nazismo, dall’ascesa al potere, essa sì salvifica, dell’ideologia ateistica di turno. Al culmine del delirio, vi è il regime comunista di Pol Pot, in cui tutte le religioni sono vietate, e la famiglia viene scientificamente distrutta; regime che sarà causa di due milioni di morti su sette milioni di abitanti, in poco più di tre anni (1975-1979), qualcosa di mai visto nella storia, e in cui si arriverà a ordinare per legge non solo il rogo dei libri del passato, ma financo delle fotografie dei privati, affinché fosse cancellato anche il ricordo fotografico di come era il mondo prima dell’avvento del regime comunista-salvifico, “escatologico”, millenaristico, dell’Angkar.

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La forza della preghiera

Posté par atempodiblog le 26 juillet 2014

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Anche il credente che abbia poca dimestichezza con la preghiera, come il sottoscritto, ha in più occasioni la consapevolezza di cosa significhi nella vita di ogni giorno ritagliarsi qualche momento in cui ci si astrae dalla routine quotidiana, e, messi da parte il dormire, il mangiare, il lavorare, il begare… si cerca un contatto con Dio: cioè un attimo di pace, di serenità spirituale, nel quale le passioni si acquietano, i pensieri si elevano, lo sguardo, solitamente contratto e raggomitolato, si estende. Pregare significa accedere all’Origine e al Fine del nostro Essere, contemplare il mistero dell’Incarnazione di Dio, e così mettere a fuoco ciò che è importante e ciò che non lo è. Sei iroso? Nella preghiera trovi la calma e la quiete, una comprensione superiore dei fatti, grazie alla quale l’ira di prima appare inutile e cattiva. Sei in preda allo sconforto? La preghiera rinforza l’anima prostrata, come un bagno freddo che ritempra il corpo e lo rende tonico e forte. Sei in preda alla superbia? La preghiera ti rimette al tuo posto: sei creatura, non Dio, ma creatura amata, il cui unico bisogno non è la fama, l’onore, il potere, ma il Creatore, che è infinitamente di più di tutte le cose create e di tutte le aspirazioni mondane. Soprattutto la preghiera costante permette alla vita dell’uomo di non essere in balia delle onde, delle circostanze, delle situazioni contingenti e sempre cangianti. L’uomo di preghiera, per quanto possibile umanamente, sta, dum volvitur orbis, mentre tutto gira, cambia, muta.

A differenza del pagano, che pregava per ottenere qualcosa, il cristiano anzitutto dovrebbe ringraziare Dio di ciò che ha e lodarlo per i suoi doni; poi, certo, la preghiera è anche richiesta, persino di beni terreni, di aiuti concreti; ma soprattutto richiesta, spesso difficile, di saper vivere ciò che tocca vivere; di sapere  affrontare, ciò che non si vorrebbe affrontare; di saper essere, ciò che si fatica ad essere; di saper  portare ciò che non si vorrebbe portare… Per questo la preghiera cristiana non è fuga, come vorrebbero alcuni, ma, al contrario, coinvolgimento pieno, alla luce dell’Incarnazione.

Madre Teresa di Calcutta, esempio a noi cronologicamente vicino di questa forza della preghiera, era una donnina piccola e curva, in mezzo alle continue tempeste del mondo. Perché le sue suore, con lei, le affrontassero con la forza sufficiente, aveva messo come regola anche un’ora di adorazione davanti al Santissimo ogni sera. Insegnando così alle sue suore che è nella vita contemplativa che si trova la forza per affrontare cristianamente la vita attiva. Ad un visitatore che le chiedeva: “Non le pare troppo lungo questo tempo dedicato alla preghiera?”. No, rispose, perché “senza questo amore personale a Cristo, la nostra vita sarebbe impossibile”.

Ebbene, madre Teresa riassumeva così il suo pensiero: “Il frutto del silenzio è la preghiera / Il frutto della preghiera è la fede / Il frutto della fede è l’amore / Il frutto dell’amore è il servizio / Il frutto del servizio è la pace”. Dal silenzio, condizione prima della preghiera, ad una pace nutrita di fiducia, di amore, di servizio agli altri.

Un premio Nobel per la medicina come Alexis Carrel, nella prima metà del Novecento scrisse un libretto di poche pagine, intitolato “La preghiera”, nato anzitutto dall’osservazione dei malati che andavano a Lourdes, o di quelli che tornavano da quella cittadina francese, anche senza aver ottenuto alcuna guarigione fisica. Osservando quelle persone deboli e prostrate nel corpo, ma forti nello spirito, che non rimanevano schiacciate dalle contingenze, ma si elevavano al di sopra di esse, Carrel comprese che la forza della preghiera sta nel suo corrispondere ad un bisogno dell’animo umano: come il corpo ha bisogno di ossigeno e di cibo, così l’anima (e di conseguenza anche il corpo, che è ad essa unito) ha bisogno della preghiera.

Scriveva Carrel: “Anche quando è di scarso valore e consiste, soprattutto, nella recitazione macchinale di formule, la preghiera esercita un effetto sul comportamento. Essa fortifica, insieme, il senso del sacro e il senso morale. I luoghi dove si prega si distinguono per una certa persistenza del sentimento del dovere e della responsabilità, per minori gelosie e iniquità, per qualche bontà verso il prossimo. Sembra dimostrato che, a parità di sviluppo intellettuale, il carattere e il valore morale sono più elevati negli individui che pregano, anche poco, piuttosto che in coloro che non pregano mai. Quando la preghiera è abituale e veramente fervente, la sua influenza diventa evidentissima. La si può paragonare a quella di una ghiandola a secrezione interna, come, ad esempio, la tiroide e la ghiandola surrenale. Tale influenza consiste in una specie di trasformazione mentale ed organica, questo mutamento avviene progressivamente. Si direbbe che nella profondità della coscienza si accenda una fiamma. L’uomo si vede tale quale è. Scopre il suo egoismo, la sua cupidigia, i suoi errori di giudizio, il suo orgoglio…”.

di Francesco Angoli – Il Foglio
Tratto da: Libertà e Persona

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Quaresima: digiuno, confessione, elemosina

Posté par atempodiblog le 31 mars 2014

La Confessione non può essere ridotta a confessare i peccati e all’assoluzione, ma è quel lavorio all’interno del cuore per cui ogni confessione è efficace nella misura in cui c’è il dolore dei peccati, la consapevolezza di aver offeso Dio, il dispiacere di aver offeso Dio, il proposito di non commetterne più, a queste condizioni c’è il perdono dei peccati che è una grazia talmente grande per cui il Papa sabato prossimo ha promosso una giornata di ringraziamento per il dono del perdono dei peccati, per il dono del sacramento della Confessione. Un invito da parte del Papa a ringraziare e confessarci, un invito della Chiesa e della Madonna insieme, “andate a confessarvi”, prepariamo una bella confessione pasquale e noi sacerdoti organizziamo nelle chiese quegli incontri penitenziali.

di Padre Livio Fanzaga
Tratto da: Medjugorje Liguria

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Il tempo di quaresima è segnato da alcuni gesti forti, importanti. In particolare la tradizione cristiana ha sempre insistito sulla necessità di praticare in special modo, in questo tempo liturgico, il digiuno, la confessione e l’elemosina.

Dai microfoni di radio Maria padre Livio invita spesso gli ascoltatori al digiuno in senso lato: non solo rinuncia al cibo, magari per dare ciò che ci si è tolti, ad altri, ma anche “digiuno degli occhi”, “digiuno delle orecchie”, “digiuno della lingua”. Se in passato rinunciare al cibo poteva essere un gesto forte, per esercitare la proprio temperanza, l’autocontrollo, il dominio dello spirito sul corpo, oggi è più urgente disfarsi delle mille sollecitazioni sensoriali, visive, tattili che il mondo ci presenta per distrarci, per intrattenerci, per anestetizzare la nostra sana inquietudine di uomini.

Televisione, radio, internet… sono un pullulare di sollecitazioni che, sommate l’una all’altra, rischiano di seppellire i veri desideri della mente e del cuore. L’indifferentismo rispetto alla fede, alla vita, al prossimo, è agevolato da questa possibilità che abbiamo di entrare in contatto continuo con un mondo lontano, virtuale, finto, per staccare la spina rispetto alla realtà vicina, al prossimo, a Dio. Per questo giustamente padre Livio ci invita a “liberarci” dalle svariate distrazioni, per concentrare il nostro sguardo, il nostro ascolto, i nostri silenzi, da cui siamo spesso così spaventati, verso le cose che contano. Perché la voce di Dio non può parlare all’uomo indaffarato soverchiamente nel chiassoso nulla.

Oltre al digiuno, la confessione. Il cardinal Raymond Burke, nei suoi “Esercizi spirituali ai sacerdoti” (Fede & Cultura), insiste molto su questo sacramento dimenticato, cui anche il pontefice fa spesso riferimento. Confessarsi significa riconoscersi peccatori, non in senso generico, ma verso Qualcuno. Significa sentirsi bisognosi di perdono, di grazia, di misericordia: senza questa disposizione del cuore, superficialità di vita e superbia mettono radici nel cuore dell’uomo, trasformandolo in una creatura orgogliosa e tronfia del suo nulla.

Ma è ai sacerdoti che il cardinal Burke si rivolge, definendoli, prima ancora che “guide morali”, “araldi e strumenti della misericordia di Dio”, e dicendo loro che “soltanto quando i fedeli avranno raggiunto una più profonda conoscenza della Divina Misericordia, ascolteranno la chiamata alla conversione e alla donazione della loro vita a Dio, cosicché Egli potrà perdonare i loro peccati e rafforzarli nel proposito d’emendamento. E’ soltanto nella luce della bontà divina che riusciamo a capire che cos’è il peccato!”.

E qui il cardinale consiglia ai sacerdoti di confessare spesso, di ritirarsi volentieri in questo piccolo ospedale dell’anima in cui si operano guarigioni e riconciliazione che è il confessionale, e di confessarsi spesso. Essendoci, a mio parere, un grave rischio: se il sacerdote sale solo sul pulpito, e non sta mai in confessionale, ad ascoltare le colpe altrui, a denunciare le proprie, le sue omelie saranno improntate o ad un freddo e duro moralismo, o allo sciocco utopismo del tempo e delle mode. Perché è nel confessionale che il sacerdote diventa conoscitore dell’animo umano, della sua fragilità, della sua debolezza, ed anche dei suoi slanci vitali, delle sue aspirazioni. Ed è questo il campo di battaglia in cui si impara a tenere al centro la Verità, accompagnata però dalla Misericordia, senza trasformare la Verità in ideologia né la Misericordia in buonismo.

L’ultimo elemento classico della quaresima cristiana è l’elemosina, che, secondo i Padri della Chiesa, “copre la moltitudine dei peccati”. Il dovere dell’elemosina si ricollega fortemente alla carnalità di Cristo, ed è per questo che viene spesso frainteso: quando diventa, per chi fa del cristianesimo una filosofia morale, solo esigenza di giustizia sociale; oppure quando il riferimento ai poveri, ai bisognosi, al dovere cristiano di soccorrere e di sovvenire, appare alle orecchie degli spiritualisti come qualcosa di troppo umano, di poco elevato, di confondibile con dottrine materialiste moderne.

Date dunque ai poveri: lo prego, lo esorto, lo comando, lo ingiungo”, scriveva sant’Agostino, mentre il Crisostomo insegnava che la ricchezza non è male, ma “il peccato sta nell’usare male di essa, non ripartendola tra i poveri”. Dio, proseguiva, “non ha fatto nulla di malvagio. Tutto è buono, o addirittura molto buono. Anche le ricchezze lo sono, a condizione che non dominino chi le possiede, e che servano a porre rimedio alla povertà”. Povertà nostra e altrui che rimarrà sempre con noi, sino alla fine dei tempi, in varie forme e modi, come segno del nostro limite e come appello al nostro cuore.

Francesco Agnoli - Il Foglio
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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Donna, solo il cristianesimo ti ama

Posté par atempodiblog le 8 mars 2014

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Una delle grandi novità storicamente rilevabili apportate dal cristianesimo riguarda la concezione della donna. Sovente secondaria e marginale, almeno in linea di diritto, nel mondo greco; sotto perpetua tutela dell’uomo, padre e marito, nel mondo romano; ostaggio della forza maschile, presso i popoli germanici; passibile di ripudio e giuridicamente inferiore nel mondo ebraico; vittima di infiniti abusi e violenze, compreso l’infanticidio, in Cina e India; forma inferiore di reincarnazione nell’induismo tradizionale; sottoposta alla poligamia, umiliante affermazione della sua inferiorità, nel mondo islamico e animista; vittima presso diverse culture di vere e proprie mutilazioni fisiche; sottoposta al ripudio del maschio, in tutte le culture antiche, la donna diventa col cristianesimo creatura di Dio, al pari dell’uomo.

Per approfondire: freccetta.jpg stralci del capitolo “Il cristianesimo e le donne”, tratto dal libro di Francesco Agnoli «Indagine sul Cristianesimo»

 

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Giordano Bruno: un grande mago spacciato per scienziato

Posté par atempodiblog le 4 mars 2014

Giordano Bruno: un grande mago spacciato per scienziato.
di Francesco Angoli – Libertà e Persona
Giordano Bruno: un grande mago spacciato per scienziato dans Articoli di Giornali e News 330fr54

Quando si parla di scienza e di Chiesa il tasso minimo di ideologia presente nell’aria esige che si faccia almeno un cenno a Giordano Bruno, e alla sua esecuzione in Campo dei Fiori. La fama del filosofo Nolano, infatti, è dovuta senz’altro al fascino della sua morte, da ribelle impenitente, più che alla sua produzione culturale, così intrisa di magia, di astrologia, di vitalismo panteistico e, per questo, in nulla moderna, né scientifica (F.Yates, « Giordano bruno e la tradizione ermetica », Laterza). Una fama, dunque, ottenuta dopo la morte, ma cercata con ossessione durante tutta la vita, con una presunzione astrale, « accentuata dalle pratiche magiche cui Bruno si dedica con crescente intensità e che sviluppano in lui un senso di onnipotenza materiale e intellettuale assoluta » (Matteo D’Amico, « Giordano Bruno », Piemme).

Tutta la sua esistenza, infatti, è in vista di una affermazione personale, per sé e per la sua visione del mondo, contro avversari di tutti i paesi e di tutte le confessioni, che divengono via via « porci », « pedanti », « barbari e ignobili ». Il giovane Bruno è già un personaggio non comune, che ama raccontare di essere stato aggredito, a sassate, dagli spiriti, e che ha il suo primo importante scontro teologico nel 1576 con un confratello domenicano, riguardo alla dottrina di Ario, e il secondo nella capitale del calvinismo, a Ginevra. Vi giunge nel 1579, in cerca di fortuna. Ma il suo comportamento è subito ambiguo ed aggressivo ad un tempo: da una parte abbraccia il calvinismo, per essere accettato nei circoli culturali e religiosi della città, e dall’altra attacca violentemente un professore del luogo, dando alle stampe un libello contro di lui, e, a quanto sostiene l’accusa, mentendo calunniosamente. Viene processato dai membri del Concistoro, non cattolico, ma calvinista, e costretto in ginocchio a lacerare il suo opuscolo, ammettendo la propria colpa. Lasciata Ginevra, che dunque non lo capisce, Bruno approda a Parigi nel 1581: la sua fama di esperto nell’ars memoriae gli vale la convocazione del re Enrico III, di cui diviene in breve intimo confidente. Dopo soli due anni Bruno finisce a Londra, presso l’ambasciatore francese Castelnau, in Salisbury Court, vicino al Tamigi. Qui, secondo le recenti indagini di John Bossy (« Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata », Garzanti ) svolge un lavoro di spionaggio contro l’ambasciatore francese di cui è ospite, a tutto svantaggio dei cattolici, arrivando addirittura a rivelare i segreti carpiti in confessione. Infatti, pur essendo già da tempo un feroce nemico del cattolicesimo e della Chiesa, considerati la causa della decadenza dell’Europa, Bruno si finge zelante sacerdote e celebra riti in cui non crede, nell’ambasciata francese, vantando poi d’altra parte la sua apostasia, presso la corte di Elisabetta. Nel suo arrivismo giunge a svelare alla regina l’esistenza di un complotto catto-spagnolo, in realtà inesistente, contro di lei: scrive di esserne venuto a conoscenza in confessione. Nessuno gli crede. A questo punto Bruno, sempre scalpitante, vuole una cattedra a Oxford. Come ottenerla? Si offre volontario, con una umile missiva, in cui si presenta così: « professore di una sapienza più pura e innocua, noto nelle migliori accademie europee, filosofo di gran seguito, ricevuto onorevolmente dovunque, straniero in nessun luogo, se non tra barbari e gli ignobili,…domatore dell’ignoranza presuntuosa e recalcitrante…ricercato dagli onesti e dagli studiosi, il cui genio è applaudito dai più nobili… ». Alla terza lezione verrà accusato di plagio e invitato a togliere il disturbo; le sue invettive feroci contro i londinesi, e contro il prossimo suo in genere, gli procurano, probabilmente, un breve arresto e determinano il ritorno precipitoso a Parigi.

 Ma qui, nel frattempo, il clima politico è cambiato, e i Guisa, la nobile famiglia a capo della Lega Cattolica, ha sempre maggior potere: Bruno non esita a mettersi al suo servizio, e a chiedere di essere riaccolto « nel grembo della Chiesa catholica ». In realtà, ancora una volta, fa il doppio gioco, tessendo rapporti con i protestanti, benché nello « Spaccio della bestia trionfante » del 1584 avesse deprecato violentemente, in mille maniere, la figura di Lutero. Nello stesso periodo viene accusato da Fabrizio Mordente, inventore del compasso differenziale, di volergli carpire l’invenzione: Bruno infatti ne è entusiasta, ma come già per Copernico, ritiene che ai disprezzati matematici sfugga il valore magico ed ermetico delle loro scoperte, che lui solo, invece, ha la capacità di comprendere! Scomunicato dalla Chiesa cattolica e dai calvinisti di Ginevra, cacciato da Oxford e da Londra, Giordano Bruno, nel 1586, dopo l’ennesima disputa finita in rissa, deve abbandonare precipitosamente anche Parigi, perché neppure il vecchio amico Enrico III è più intenzionato ad accoglierlo. La destinazione, questa volta, è la Germania, e in particolare la città protestante di Marburgo. Ancora una volta il filosofo di Nola ottiene, dietro pressanti richieste, una cattedra universitaria, ma, detto fatto, entra in conflitto col rettore, Petrus Nigidius, che lo aveva assunto e che ora lo licenzia. Con la grinta di sempre Bruno riparte, per approdare a Wittenberg, città simbolo del luteranesimo, dove, per cambiare, ottiene il diritto di tenere corsi universitari. E’ qui che Bruno cambia ancora casacca: in occasione del discorso di addio, dopo soli due anni di permanenza, polemiche, e tanti nemici, l’8 marzo 1588 tiene davanti ai professori e agli alunni dell’Università un elogio smaccato della figura di Lutero, contrapposta a quella del papa, presentato, secondo le migliori tradizioni del luogo, come un vero anticristo. « Come ha usato Calvino contro la Chiesa, così adesso usa Lutero: il cattolicesimo emerge come il vero grande nemico » (M.D’Amico, op.cit.).

Chiaramente il gioco può riuscire sperando che a Wittenberg non si conosca il libello bruniano di soli quattro anni prima, e cioè lo »Spaccio ». In esso infatti Bruno auspicava che Lutero e i suoi seguaci fossero « sterminati ed eliminati dalla faccia della terra come locuste, zizzanie, serpenti velenosi », essendo causa di guerre, disordini e discordie senza fine. Inoltre, tanto per toccare con mano la « scientificità » del personaggio, Bruno spiegava la metempsicosi, affermando che coloro i quali abbiano « viso, volto, voci, gesti, affetti ed inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini… », « sono stati o sono per essere porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano »! Lasciata Wittemberg, Bruno approda a Praga, la città prediletta dall’imperatore Rodolfo II, che ne sta facendo una centrale di maghi, alchimisti ed occultisti da tutta Europa. Rodolfo è un tipo bizzarro, preda, spesso di allucinazioni e di crisi depressive. Ancora una volta Bruno cerca il potere, aspira a coniugare le arti magiche, di cui si ritiene in possesso, con alleanze potenti e concrete. C’è ormai in lui il desiderio di non rimanere un teorico, ma di passare all’azione, di essere ispiratore di un rinnovamento del mondo, di una palingenesi, che i segni dei tempi gli dicono vicina, e che lui vuole guidare, con compiti e ruoli non secondari. Ma vuoi per il suo caratteraccio, vuoi perché le vantate arti magiche in suo possesso non danno i frutti sperati e promessi, anche Praga viene presto abbandonata per la città protestante di Helmstadt, nel 1589. Chiaramente Bruno, brigando a suo modo, ottiene di poter insegnare nell’università locale, e per l’ennesima volta, pur fingendosi protestante e scagliandosi contro la Chiesa cattolica, suo bersaglio preferito, viene in breve scomunicato dal pastore della locale chiesa luterana! Ciò nonostante neppure in questa occasione gli viene a mancare quella disponibilità di denari « che gli permette di fare lunghi viaggi, di affittare appartamenti, di tenere a suo servizio, regolarmente, segretari diversi, di pubblicare opere voluminose, di vivere infine per lunghi periodi senza alcun lavoro fisso »: denari, ipotizza il D’Amico, che potrebbero giungere da quell’attività così redditizia di informatore segreto che aveva appreso a Londra.

Nel 1590 Bruno è a Francoforte, senza grande entusiasmo dei suoi allievi, che non riescono a comprendere quanto la miracolosa mnemotecnica bruniana sia da lui mal insegnata, o mal conosciuta. Dopo Francoforte, Zurigo, Padova, ed infine, nel 1591, Venezia. Nella città veneta è accolto con curiosità da una cerchia di nobili da salotto, ed in particolare da Giovanni Mocenigo, che è disposto ad ospitarlo e nutrirlo in cambio dei suoi « segreti ». Ma Bruno non è certo incline a fare il precettore privato: il suo desiderio sembra essere quello di usare le sue conoscenze magiche, espresse nei testi « De magia » e « De Vinculis », per assoggettare nientemeno che il pontefice Gregorio XIV ai suoi disegni di riforma religiosa e politica universale! Ritiene infatti di saper controllare e dominare le forze demoniche presenti nella natura e di poter soggiogare il prossimo con messaggi subliminali, formule magiche non percepibili dagli incantati: « ritmi e canti che racchiudono efficacia grandissima, vincoli magici che si realizzano con un sussurro segreto… » (« De Vinculis »). A Venezia Bruno concepisce dunque il suo folle disegno di « portare cambiamenti (politici) significativi, quantomeno nello scacchiere italiano ».

A tal fine progetta di rientrare nella Chiesa, di recarsi a Roma dal pontefice Clemente VIII, per dedicargli un’opera, e, come si diceva, probabilmente, per riuscire a condizionarlo tramite le arti magiche. Non c’è grande nobiltà nei mezzucci con cui, contraddicendo patentemente il suo credo, persegue i propri fini! Ma nello stesso 1591, cioè non appena si è fatto un po’ conoscere, viene denunciato al Santo Uffizio dal suo stesso ospite: al Mocenigo è bastato un attimo per rimanere deluso dagli insegnamenti di Bruno, e scandalizzato dalle sue bestemmie. Dopo i sogni di potenza, il filosofo nolano precipita dietro il banco degli imputati: in realtà è già abituato ai processi, alle abiure, alle fughe, e forse pensa, in cuor suo, di farla nuovamente franca. La tattica difensiva è abile. Consiste nell’ammettere alcune accuse, nell’attenuarne altre, e nel negare, infine, le più infamanti. Negare tutto sarebbe troppo sciocco, vista la possibilità per il tribunale di venire in possesso dei suoi scritti, e di indagare sul suo passato. Lo scopo è quello di « apparire persona rispettosa della autorità della Chiesa e della sua dottrina, anche se momentaneamente posto al di fuori di essa » (D’Amico). Arriva così a rinnegare alcune sue opere, e a presentare i suoi passati riavvicinamenti alla Chiesa, compiuti sempre e solo per convenienza politica, come testimonianza della sua sostanziale « ortodossia ». Il filosofo degli « eroici furori », in realtà, non ha nulla di eroico: « tutti li errori che io ho commesso…et tutte le heresie…hora io le detesto et abhorrisco… ». Come già coi calvinisti di Ginevra, il ribelle, la spia, l’arrivista in cerca di poltrone universitarie, dopo aver attaccato ed inveito con astio rabbioso, si inginocchia ed abiura, con pari teatralità e finta compunzione.

Ma Roma sospetta, e nel febbraio 1593 avoca a sé il processo, che, in totale, durerà otto lunghi anni: il tribunale inquisitoriale non emette condanne frettolose, ma procede con precisione e scrupolo, convocando testimoni, compulsando le opere, rispettando tutte le procedure, invitando ripetutamente ad abiurare. Bruno si dichiara disposto in più occasioni a cedere: la condanna, e l’affido al braccio secolare, arrivano dopo varie promesse di abiura, ed altrettanti ripensamenti. Nel giorno della condanna giunge al papa un memoriale di Bruno: perché, se aveva già deciso di affrontare la morte? Probabilmente il memoriale, che non conosciamo, conteneva l’ennesima disponibilità all’abiura: forse Bruno credeva di poter ancora dire e disdire, senza conseguenze. A cosa si deve, allora, questa improvvisa accelerazione del processo? Secondo la Yates, a un evento contemporaneo: l’arresto di un altro domenicano ribelle, Tommaso Campanella. Non bisogna infatti dimenticare l’epoca in cui ci troviamo: la Riforma ha portato alla ribalta prima Lutero, con le conseguenti guerre dei cavalieri e dei contadini, e poi personaggi come Matthison di Haarlem, un capo anabattista che si sentiva « incaricato della esecuzione del castigo divino contro gli empi, e mirava semplicemente al massacro universale », e il « profeta Hofmann » di Strasburgo, « il quale andava dicendo di voler fondare la Nuova Gerusalemme » e si accingeva a preparare la mobilitazione « dei cavalieri della strage che con Elia e Enoch appariranno impugnando la spada e vomitando fiamme per sterminare i nemici del Signore ».

Campanella è un tipo umano simile: filosoficamente molto vicino a Bruno, anch’egli ritiene che stia giungendo l’ora dei « grandi mutamenti, l’avvento dell’età dell’oro e della instaurazione della repubblica universale »: per questo organizza una congiura, in meridione, cercando l’alleanza dei Turchi, ed in particolare di feroci pirati come Bassàn Cicala, per realizzare uno stato magico, dittatoriale, di impostazione comunista. La congiura viene sventata nel 1599 (Francesco Forlenza, « La congiura antispagnola di Tommaso Campanella », Temi). Proprio tale nuova minaccia, religiosa e politica, accelera forse la condanna di Bruno, che morirà, alla fine, con dignità: ma dopo essere stato scacciato da almeno dieci città diverse, condannato da cattolici, calvinisti, protestanti e professori universitari; dopo essere stato spia, aver violato il segreto confessionale, aver ripudiato se stesso, per convenienza, innumerevoli volte, e, infine, dopo aver cercato, attraverso la magia e l’intrigo, di rovesciare l’ordine politico, non solo quello religioso, del suo tempo. Spacciarlo per un puro, un eroe, uno scienziato è un delitto contro la verità storica.

I miei tre brevi articoli su Giordano Bruno (la sua vita sul Foglio) hanno scatenato le ire di Giulio Giorello e di Nuccio Ordine, sul « Corriere della Sera » del 30 agosto e del I settembre. Il Giorello, per la verità, si è limitato alle invettive contro i cattolici in genere, di ogni secolo e luogo, per poi riferirsi alle mie osservazioni, definendole assai astrattamente « pettegolezzi da filosofia vista dal buco della serratura ». Poiché l’argomento mi sembra immaginifico, ma deboluccio e sbrigativo, mi permetto di saltarlo a piè pari, per considerare invece le argomentazioni del professor Nuccio Ordine. Costui, forse ritenendo di essere l’unico in Italia ad aver proseguito gli studi oltre le elementari, si è anzitutto offeso del fatto che qualcuno abbia parlato di Giordano Bruno, senza il suo permesso: per lui è automatico che io non abbia letto le opere del filosofo, ma solo « due o tre cattivi libri », forse degni di censura ecclesiastica nucciana (per quanto scritti da insigni studiosi, di cui, almeno la Yates, assai celebre a livello internazionale).

Non interessa nulla che io abbia citato negli articoli in questione, seppur brevemente per mancanza di spazio, opere scottanti e inequivocabili di Bruno come il « De Magia », il « De Vinculis » e « Lo Spaccio »! Ma la cosa più interessante è che il professor Ordine non contesta seriamente una sola delle mie affermazioni storiche. Rimane vero dunque che Bruno fu accusato di plagio a Oxford, scomunicato dai calvinisti e più volte dai protestanti; che abiurò in parecchie occasioni, rinnegando alcune sue opre, che si considerava il più grande sapiente esistente al mondo, che dovette scappare di città in città, non per sua scelta, ma perché sempre e dovunque indesiderato e mal sopportato (da Ginevra, da Parigi, da Oxford, Marburgo, Wittemberg, Helmstadt, Francoforte…). Sembra appurato, inoltre, che indossò e dismise l’abito domenicano più volte, allontanandosi dalla Chiesa, per poi riavvicinarsi, in qualche maniera, in più occasioni…Solo, secondo Ordine, non lo avrebbe fatto con opportunismo, ma con grande coraggio e rigore morale: un « libero pensatore », libero di vagare nel mare delle idee cangianti…

Nell’articolo del 30 agosto, per la verità, si mette anche in dubbio la tesi del Bossy, da me riportata come attendibile, non come certa, sull’opera di Bruno come spia in quel di Londra. Niente di sostanziale, insomma. Il I settembre, invece, il professor Ordine fa le pulci al libro di Anna Foa, in maniera un po’ accademica, sistemando più che altro alcune date. Al sottoscritto, forse perché indegno, sono riservate solo battutine, ma neppure una sola confutazione circostanziata: si parla di « crociata di Francesco Agnoli » che « propina invettive ai lettori del Foglio ». Un po’ di parole, insomma, che dovrebbero da sole, col loro suono e la loro evocatività, screditare l’idiota.

Mi spiace: penso si potrebbe discutere in altro modo, con altro rispetto, almeno per i fatti, e con altro amore per la verità e l’educazione (come invece è accaduto col senatore Contestabile, su Il Foglio). Mi permetto però di tornare su Bruno, per ribadire non solo che non fu un eroe puro, coerente e senza macchia, come già detto, ma soprattutto che non fu assolutamente uno scienziato moderno: su questo mi trovo in accordo con personaggi come Giovanni Reale, Dario Antiseri, Paolo Rossi, Cecilia Gatto Trocchi, A. Koyrè e molti altri. Proprio il Koyrè infatti, nel suo celebre « Dal mondo chiuso all’infinito universo », afferma: « la concezione bruniana del mondo è vitalistica e magica: i suoi pianeti sono esseri animati in libero movimento attraverso lo spazio secondo una reciproca intesa come quelli di Platone o del Patrizi. Bruno non è assolutamente un pensatore moderno ». Il concetto è semplicissimo: per Bruno « natura est deus in rebus », o, con altre parole,  » Iddio tutto è in tutte le cose », come avevano ben capito gli Egizi, che adoravano il sole, la luna, ma anche i coccodrilli, le lucertole, i serpenti e le cipolle… (« Lo Spaccio »). Da una simile concezione, antica quanto la magia e l’animismo, nuova in nulla, scientifica ancor meno, scaturisce l’antichissima idea, presente anche nel « Timeo » platonico, dei pianeti e degli astri non come entità materiali, regolate e mosse secondo leggi fisiche, ma come « dei visibili », « grandi animali », « dei figli di dei ». Così la teoria di Copernico, « aurora » che ha aperto la strada a lui stesso, « sole de l’antiqua vera filosofia » (« Cena delle ceneri »), interessa al Nolano, unico a suo dire ad averla veramente compresa, solo perché gli permette di scorgere, nella Terra che si muove, un principio vitale, un’ « anima propria » mossa da una vita divina, in perfetta coerenza con le dottrine astrologiche. Cosa vi è di scientifico, di moderno, nel credere a stelle e a pianeti animati e divini, capaci di conseguenza, evidentemente, di agire sull’arbitrio umano? Esattamente nulla. Bruno non avanza, ma retrocede terribilmente. Retrocede rispetto a Copernico, che aveva parlato di « macchina del mondo », per eliminare, come scrive il Koyrè nell’introduzione al « De revolutione orbium caelestium » (Einaudi), l’ »astro-biologia degli antichi ». Retrocede anche rispetto alla scuola francescana di Oxford, che secoli prima aveva iniziato a proporre, con Giovanni Buridano, l’innovativa dottrina dell’“impetus”, come possibile spiegazione della meccanica dei corpi celesti. Buridano, infatti, confutando l’insegnamento aristotelico e arabo al riguardo, aveva sostenuto che l’ininterrotto movimento delle sfere celesti non era dovuto a delle anime, e neppure alle intelligenze motrici, bensì ad una forza, un’impetus iniziale, il cui permanente effetto era permesso dalla mancanza di resistenza del mezzo. Si era in qualche modo già vicini all’idea di forza fisica, di forza d’inerzia, capace di muovere i pianeti: per questo il Duhem riconduce « alla teorizzazione buridaniana dell’impetus la data d’inizio della scienza moderna, perché comportò l’abbandono della credenza nella natura divina delle potenze motrici dei cieli” (inutili, se esiste un Dio creatore). Analogamente lo Jammer, sempre a proposito dell’origine della scienza moderna, sottolinea l’importanza di Buridano, come “uno dei primi a ribellarsi alla concezione neoplatonica delle forze intese come enti divini” (mentre Newton sarebbe “colui che diede il colpo di grazia alla teoria delle forze astrologiche”; introduzione a Giovanni Buridano, « Il cielo e il mondo », Rusconi).

Anche le ricerche di Keplero si sarebbero mosse nella stessa direzione, per rinnegare l’idea di un modo animato, magico, « grande animale », caratterizzato da pianeti divini: tutte teorie, ripeto, proprie del modo pagano e della magia rinascimentale, incompatibili con un approccio scientifico e matematico. Nel 1605, confutando implicitamente Bruno, morto da soli 5 anni, Keplero scriverà a Herwart von Hohenberg: “Sono molto occupato nello studio delle cause fisiche. Il mio scopo è dimostrare che la macchina celeste può essere paragonata non ad un organismo divino ma piuttosto ad un meccanismo d’orologeria…in quanto quasi tutti i suoi molteplici movimenti si compiono grazie a una sola forza magnetica, molto semplice, come nell’orologio tutti i moti (sono causati) da un semplice peso. Inoltre io dimostro come questa concezione fisica vada presentata per mezzo del calcolo e della geometria”. « Macchina », « meccanismo », non « organismo divino » né « grande animale »: quanto dista, da questo modo scientifico di vedere l’universo materiale, il vitalismo pampsichista e magico di Bruno?

P.S. In questi giorni è uscito un libro di Paolo Rossi, forse il massimo filosofo della scienza in Italia, intitolato « Il tempo dei maghi » (Raffaello Cortina editore), all’interno della collana diretta dallo stesso Giulio Giorello. Leggendo questo studio, inconfutabile, trovo esposte esattamente le « mie » stesse considerazioni. Paolo Rossi infatti si prende un po’ gioco dei « devoti bruniani », semplicemente andando a leggere quelle opere scomode, a partire dal titolo, che i più preferiscono occultare, o quantomeno stravolgere: « si può sostenere che Bruno non è un mago senza mai occuparsi di opere intitolate De Magia o Theses de magia e del mezzo migliaio di pagine delle opere magiche di Bruno? ». Per Rossi non esiste un Bruno moderno, né un Bruno scienziato, né un Bruno precorritore di alcunché, quanto, semmai, un uomo profondamente legato, per suo stesso dire, alla « sapienza antica » e alla magia: cioè ad un « sapere segreto e riservato a pochi », un « sapere miracoloso (nel senso che dà capacità straordinarie) », intriso di demoni e di fantasmi (vedi capitolo intitolato « Si può ‘sdemonizzare’ la magia di Bruno? »). Nel De Magia, per fare un esempio, Bruno sostiene come un assioma che « nella scala naturae, Dio influisce sugli dei, gli dei sugli astri o corpi celesti che sono divinità corporee, gli astri sui demoni che abitano gli astri, i demoni sugli elementi, gli elementi sui corpi misti o composti, i corpi misti sui sensi, i sensi sull’anima, l’anima su ogni essere animato ».

Siamo di fronte, evidentemente, al pampsichismo tradizionale, origine di ogni credenza magica: da quella nei talismani, all’astrologia, alla pratica, assai tenebrosa, di vincoli spirituali istituibili attraverso formule, e capaci di permettere ai maghi nientemeno che di « penetrare nel corpo » di « colui che vogliono ammaliare », agendo sulla sua ombra. Per non parlare poi della credenza bruniana nelle proprietà magiche di lapilli e gemme, « di alterar il spirito ed ingenerar novi affetti e passioni ne l’anima, non solo nel corpo », e nella possibilità per i negromanti di trarre effetti straordinari dalle ossa dei morti (De la causa). Detto questo ricordo due episodi della vita di Bruno. Il primo, spesso taciuto, è il suo progetto di tornare cattolico, fingendo di abiurare le eresie professate, per andare a Roma e incontrare papa Gregorio XIV, allo scopo di condizionarlo con le sue arti magiche, di renderlo suo « alleato » nella Riforma politica e spirituale del mondo di cui si ritiene il grande profeta. Come pensa di fare? Semplicemente Bruno crede che sia possibile al mago, vero e proprio venator animarum, ottenere « un dominio totale sulle anime e sui corpi altrui », sino ad avvincere un soggetto « in tutte le sue facoltà e parti » (De vinculis in genere). Il secondo episodio è la sua condanna a morte, dopo varie dichiarazioni di pentimento, presentate e ritrattate.

Proprio riguardo a ciò Rossi conclude: « Mi è sempre apparso strano che solo una minoranza degli interpreti abbia collegato l’improvvisa, tardiva decisione di Bruno di scegliere, di fronte ai suoi giudici, la via di una assoluta intransigenza con la sua affermazione di essere dotato di ali e di poter nutrire disprezzo per il dolore e per la morte: come si è visto la quindicesima delle contractiones consente di allontanarsi dalle sensazioni fino al punto di non avvertire più il dolore » corporale e di rimanere impassibili di fronte a qualsiasi condanna (Sigillus). La domanda su Bruno, allora, non è se fu un mago, ma se lo fu sino alla fine.

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Pedofilia: un regalo del 1968

Posté par atempodiblog le 10 février 2014

Pedofilia: per un italiano su tre è accettabile fare sesso con un adolescente (9 febbrario 2014)

Tratto da: Segni di vita, appunti di vita pastorale

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Pedofilia: un regalo del 1968
Tratto da: Chiesa e pedofilia. Colpe vere e presunte. Nemici interni ed esterni alla Barca di Pietro. Di Francesco Angoli. Ed. Cantagalli
Per gentile concessione dell’autore, il libro è stato messo on-line da sito Tempi.it ed è scaricabile 2e2mot5 dans Diego Manetti QUI

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Partiamo da un dato di fatto: i casi di pedofilia nella Chiesa, seppur di gran lunga inferiori rispetto a quello che si vorrebbe far credere, risalgono per lo più agli anni Sessanta e Settanta, e si sono verificati soprattutto negli Stati Uniti. Questi avvenimenti terribili si iscrivono in un aumento generalizzato di abusi sessuali contro minori, che interessa la società tutta, famiglia, single, preti, laici, nessuna categoria esclusa. Basti pensare che ogni giorno nascono decine e decine di nuovi siti pedofili con violenze sessuali sui bambini dai 3 ai 12 anni e che ogni anno milioni di occidentali partono per Cuba, la Thailandia ed altri paesi in cui prospera il turismo sessuale.
Ecco, solo questa banale constatazione, oggettiva e non strumentale, dovrebbe portare ad una domanda che invece per lo più si preferisce evitare: perché?

La risposta mi sembra obbligata: tutto va ricondotto, oltre che ovviamente alla peccaminosità intrinseca nell’uomo, all’origine della mentalità attuale, cioè alla cosiddetta “rivoluzione sessuale”. Dobbiamo andare con la mente agli anni Sessanta, in quel periodo di incubazione che portò poi al 1968 e a tutto quello che ne seguì. L’America e l’Europa sono pervase da queste grida: “abolire i tabù”, “liberare il sesso”, distruggere le vecchie tradizioni, concezioni, istituzioni. La critica investe i rapporti sociali, economici, scolastici, ma soprattutto la famiglia. È lei la grande imputata, a cui, in nome di Marx, Engels, Marcuse, Reich, Cooper, si contrappone l’assoluta possibilità per ogni individuo di  fare le esperienze sessuali più varie, frequenti e “alternative” possibili.

La “monogamia cristiana”, spiegano i teorici delle comuni, molte femministe e i rappresentanti dei nascenti movimenti gay, non è per nulla più naturale e più giusta della poligamia, della poliandria, dell’amore di gruppo, del rapporto istantaneo e diversificato.
Il matrimonio diviene così per molti simbolo di oppressione e la generazione dei figli una schiavitù, un limite, una maledizione: nasce così la cultura della contraccezione, del divorzio e dell’aborto. I bambini saranno, a breve, le vittime designate delle nuove “libertà”: abortiti, separati a forza dai genitori, sballottati da una casa all’altra; un giorno saranno addirittura progettati a tavolino, da una donna single, da due uomini, o da due donne, grazie alle banche degli ovuli, del seme, agli uteri in affitto e domani, chissà, a quelli artificiali. Se si sfoglia Le voci degli Hippies (Laterza, 1969), florilegio di scritti degli anni ’60 in Usa, si possono leggere articoli così intitolati: “In difesa dell’oscenità”; “Sei professori in cerca di… osceno”; “Applauso per l’orgia”.
Dovunque inni alla “liberazione sessuale”, alla pornografia, all’omofilia, ai “rapporti sessuali aperti in modi non tradizionali”, persino all’incesto.

Insomma, è in questi anni di profonda secolarizzazione, di odio verso ciò che resta della tradizione cristiana, che si collocano i primi aperti sostenitori delle più varie perversioni, dall’adulterio come atto legittimo alla zoofilia, dalla necrofilia alla pedofilia. Qui dobbiamo cercare i precursori di Asia Argento che si bacia appassionatamente con un cane, in uno dei suoi film; oppure di quella marea di film pornografici in cui non mancano scene di personaggi che fanno sesso con i morti. Qui dobbiamo cercare l’origine dell’educazione sessuale nelle scuole, intesa spesso come spiegazione, a ragazzini poco più che adolescenti, di cosa sia tecnicamente l’atto sessuale; oppure intesa come possibilità per i piccoli di incontrare a scuola transessuali o “esperti” chiamati a raccontare – come è recentemente avvenuto in una scuola italiana – «cosa avviene quando la coppia è atipica ed entrano in gioco gli animali» (Corriere della sera, 22 gennaio 2010). Qui dobbiamo cercare, ad esempio, il perché dei libretti distribuiti nelle scuole spagnole, in cui si invitano i giovani, a partire dagli 11 anni, a masturbarsi e ad avere relazioni omosessuali e lesbiche, in nome dell’idea per cui «la normalità è scambiare amore e relazioni sessuali con qualunque persona, dell’altro sesso o del proprio», a qualunque età (Libero, 4 novembre 2005).

E la pedofilia? Non è già chiaro che si tratta di un altro personaggio dell’affresco? Se si guarda bene ci sta perfettamente. È lì, sotto la voce “liberazione sessuale”; vicino agli slogan sessantottini “Il sesso è tuo, liberalo”, “Vietato vietare”, “Lotta dura contro natura”, “Inventate nuove perversioni”, “Né maestro né Dio, Dio sono io”; è accanto ai proclami contro la “sessuofobia cristiana” e ai discorsi contro il diritto naturale e a favore del relativismo; è insieme alla desacralizzazione di ogni relazione affettiva, all’aumento dei rapporti precoci tra minori e degli aborti delle minorenni. Insieme alla cultura del sesso liberato, cioè fine a se stesso, della sessualità ridotta materialisticamente a genitalità, e dell’altro visto anzitutto come oggetto di piacere. È lì insieme al disprezzo dei bambini, così facilmente eliminati, così spesso trascurati in nome del “benessere” dei grandi!

Sono sempre questi gli anni in cui nascono, accanto agli asili “antiautoritari”, quelli in cui vengono insegnati ai bambini “giochi erotici” per “liberarli dai tabù”; in cui un leader studentesco, oggi europarlamentare, come Daniel Cohn-Bendit, descrive i suoi toccamenti con i bambini di un asilo “alternativo” e scrive, su Liberation, insieme ad altri notissimi intellettuali francesi di sinistra, da Jean Paul Sartre a Jack Lang, da Simone de Beauvoir a Michel Foucault, da Andrè Glucksman a Bernard Kouchner, un manifesto in difesa della pedofilia (si veda Il Giornale, 16 gennaio 2005 e M. Picozzi, M. Maggi, Pedofilia. Non chiamatelo amore, Guerini e Associati, 2003).

Sono gli anni in cui diviene di moda La rivoluzione sessuale di Wilhelm Reich, edito in Italia da Feltrinelli nel 1963, che predica la distruzione del modello familiare naturale, ritenuto oppressivo anzitutto per la libertà sessuale del bambino, per la sua “genitalità spontanea e priva di complessi di colpa”, negata brutalmente dalla concezione cristiana e “borghese” della famiglia. È il periodo in cui nasce in Italia, col sostegno dei radicali, il F.u.o.r.i. di Mario Mieli, recentemente esaltato dal quotidiano Liberazione, aperto cantore, contro la “Norma eterossessuale” e l’antropologia cristiana, dell’omosessualità, ma anche della coprofilia, della necrofilia e, appunto, della pedofilia. Sono gli anni, ancora, in cui l’ideologa femminista Shulamith Firestone, nel suo La dialettica dei sessi (1970), propone di separare sessualità da riproduzione, e difende una sessualità “liberata”, senza confini, arrivando coerentemente ad auspicare, come avevano già fatto anche alcuni illuministi, la liceità dell’incesto, cioè della pedofilia. L’incesto, infatti, sarebbe un “tabù” che serve “solo a preservare la famiglia”.

Scrive ancora la Firestone, sempre in nome della “liberazione sessuale di donne e bambini”: «Dobbiamo includere anche l’oppressione dei bambini in ogni programma della rivoluzione femminista […] il nostro passo deve essere l’eliminazione della stessa condizione di femminilità ed infanzia», e si deve arrivare a far sì che “tutti i rapporti intimi”, anche quelli tra genitori e figli, adulti e piccini, includano “anche la fisicità” in senso lato. Sono gli anni, per finire, in cui molti attivisti del nascente movimento gay, come racconta Paul Berman nel suo Sessantotto (Einaudi, 2006) sperimentano sin da piccoli, a scuola, o nei parchi, il “sesso tra giovanissimi e adulti”, nel clima appunto di sessualità sfrenata e “liberata” di quegli anni.

Anni dopo questa cultura continuerà a influire sulla cultura anche italiana. Un solo esempio.
Negli anni Novanta uscirà in Italia Diario di un pedofilo, scritto da William Andraghetti, arrestato nell’88 per aver adescato minorenni nelle piscine di Bologna.
Il testo viene pubblicato dall’editrice Stampa Alternativa diretta da tale Marcello Baraghini, con un preciso fine: «Vogliamo prendere di petto gli ultimi tabù, come la pedofilia e l’incesto» (Corriere della sera, 28 aprile 1996). Nella scia, dunque, della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta che ha sdoganato, insieme alla cultura psichedelica, anche quella del divorzio, dell’aborto e la pedofilia.

Ma chi è Baraghini? Nel 1963 lo troviamo insieme a Marco Pannella tra i fondatori della Lid (Lega italiana per il divorzio); militante radicale, nel 1968 fonda Stampa Alternativa; nel 1971 firma l’appello contro Calabresi su l’Espresso. La sua pubblicazione più nota è Contro la famiglia. Manuale di autodifesa e di lotta per minorenni, che vendette, in quegli anni di “liberazione sessuale”, oltre 60.000 copie. Poi, oltre a libri a favore della droga libera, cara ai radicali, come Manuale per la coltivazione della marijuana, che vendette mezzo milione di copie, Baraghini pubblicherà anche un manuale verde, in cui si esprime questa speranza: che un giorno non lontano, l’uccisione di un animale sia considerata al pari di quella di un uomo.

Così insomma, in questa cultura nichilista di fondo, è nato il boom della pedofilia, della pedopornografia, di cui oggi continuiamo a vederne gli effetti, insieme ai nuovi “diritti civili”, alle nuove “libertà”, alla lotta a tutto campo alla purezza e alla famiglia naturale, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, come disegno immodificabile di Dio. Insieme a quella negazione della fede e della morale cristiana di cui Benedetto XVI non cessa di ripetere ogni giorno le ragioni. Si dovrebbe riflettere, al riguardo, sul fatto che nell’epoca della crisi della famiglia, la pedofilia è divenuta un’emergenza, come dimostrano tutti gli studi sull’argomento, proprio nella famiglia stessa, giacché la gran parte delle violenze sui minori avvengono per mano di genitori, parenti e non di rado dei nuovi “genitori” acquisiti in seguito ad un divorzio.

E la pedofilia praticata da uomini di Chiesa? Anzitutto è bene ricordare che cattolici e protestanti furono senza dubbio quasi gli unici avversari della “rivoluzione sessuale”.
Proprio perché la libertà del cristiano è, almeno in teoria, e quindi più facilmente anche in pratica, tutt’altra cosa: si realizza nella fedeltà ad una relazione, non nella intercambiabilità e nella frequenza di esperienze fisiche individuali; si concretizza nella sessualità ordinata e finalizzata, non nella genitalità solo istintiva ed animale. Basta leggere qualche scritto di quegli anni: sovente i “liberatori” si scagliano con virulenza proprio contro la Chiesa, contro i “puritani”, contro il pensiero cristiano in generale, reo di opprimere la libera sessualità, di imporre regole e divieti.
È però vero che la “liberazione sessuale” entra nel Tempio insieme alle altre novità.

Sempre negli stessi testi citati sopra, possiamo trovare l’elogio di quei cristiani, di quei pastori protestanti, di quei preti cattolici, che hanno finalmente capito i “nuovi tempi”, che non rimangono stoltamente ancorati alla morale tradizionale, disobbedendo, se cattolici, a Roma! Il Los Angeles free press del 23 giugno 1967, per esempio, pubblica un articolo intitolato “Un sacerdote underground dice: La Chiesa è morta”. In esso il prete in questione spiega che la Chiesa «ha danneggiato la gente dal punto di vista sessuale, razziale e politico».

Un articolo dell’Open city di Los Angeles del 24 agosto 1967, invece, narra di un “prete hippy”, uno dei tanti protestanti presbiteriani che ha deciso di sposare le nuove idee rivoluzionarie.

Nel mondo cattolico il tanto decantato aggiornamento e la tanto pubblicizzata “apertura al mondo” diventano per molti ecclesiastici e per molti credenti “adulti” un dovere irrinunciabile. Non tutti hanno capito che secolarizzazione fa rima con tristezza, e “liberazione sessuale” con disgregazione della famiglia, pornografia, pedofilia, esplosione del numero dei divorzi, instabilità dei bambini.
Inevitabilmente, poi, l’“aggiornamento” nella Fede diventa anche aggiornamento nella morale.
Ecco così che migliaia e migliaia di sacerdoti abbandonano la veste talare, si spretano, attaccano il celibato, chiedono una revisione della morale della Chiesa, leggono ed elogiano i testi di Reich, per poi finire con lo schierarsi apertamente e violentemente a favore della legalizzazione del divorzio e dell’aborto. Questi religiosi trovano grande accoglienza sulle pagine dei quotidiani progressisti, gli stessi che oggi molto ipocritamente fanno la guerra, ad ogni piè sospinto, a Benedetto XVI.

Un libretto di un famoso benedettino, ArcipelagoChiesa. A quarant’anni dal Concilio, di padre Stanley Jaki (Fede&Cultura), può aiutarci a comprendere meglio queste vicende, specie per quanto riguarda l’America.
Jaki mette anzitutto in luce la perdita di Fede propria di quegli anni, e la detronizzazione del Santissimo dal centro degli altari: essa gli appare il simbolo più evidente della perdita del senso del soprannaturale.
In secondo luogo, Jaki nota la perdita fortissima, nel mondo cattolico, del senso del peccato, «il quale soltanto chiede a gran voce una redenzione». «Ha poco senso – scrive – parlare dello stato decaduto dell’uomo quando la sua caduta originaria è minimizzata in luoghi consacrati»: se il peccato non esiste più, né per il mondo, né per molti uomini di Chiesa, è chiaro che il compierlo diventa più semplice, più banale, più automatico.

È chiaro che, mentre nella società si inizia a sottovalutare, ad esempio, la sacralità del matrimonio, e l’adulterio diventa sempre più normale, se non addirittura un “diritto”, analogamente molti religiosi perdono il senso della loro missione, e quindi anche il significato della loro verginità. Il grave è che non esiste quasi più nessuno che li richiami e che li punisca. Soprattutto perché in tutta la Cristianità, negli Usa e in Germania in particolare, la ribellione al magistero diventa fortissima e investe molti vescovi. Tra costoro Jaki, in questo libretto del marzo 2008, cita l’arcivescovo di Milwaukee, Robert Weakland: un beniamino della stampa progressista di allora, per le sue posizioni, come ha ricordato anche Roberto De Mattei, a favore della “rivoluzione sessuale”. Tale vescovo oggi è ancora più lodato, visto che le sue dichiarazioni sono servite ad attaccare violentemente Benedetto XVI, nonostante la verità sia che egli fu dimissionato nel 2002 “dopo che un ex studente di teologia l’aveva accusato di violenza carnale, rompendo il segreto che lo stesso Weakland gli aveva imposto in cambio di 450 mila dollari detratti dalle casse dell’arcidiocesi”.

La ribellione di molti ecclesiastici alla morale cattolica, racconta Jaki, raggiunge il culmine con la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, rispetto cui la risposta è lo scisma strisciante di tantissimi preti e laici credenti, in tutto l’Occidente. Nel 1976 si arriva addirittura al punto che “5 arcivescovi americani e 15 vescovi erano pronti ad annunciare la formazione di una Chiesa cattolica americana”, separata da Roma. “Da parte di molti cattolici – affermava l’allora cardinal Ratzinger nel 1985, parlando con Vittorio Messori –, c’è stato in questi anni uno spalancarsi senza filtri e freni al mondo, cioè alla mentalità moderna dominante, mettendo nello stesso tempo in discussione le basi stesse del depositum fidei che per molti non erano più chiare”.

La crisi della fede, è giusto dirlo, ha toccato tutti: laici e credenti, e tra costoro cattolici e protestanti. La Chiesa non è restata immune, se è vero che già Paolo VI parlava di “fumo di Satana penetrato nel Tempio”.

Tuttavia, nel caso specifico della pedofilia, rimanendo solo ai credenti, è interessante il fatto che il fenomeno abbia coinvolto maggiormente i pastori protestanti, liberi di sposarsi, rispetto ai preti cattolici, votati al celibato (Indagine sulla pedofilia nella Chiesa, Fede&Cultura, 2010). Mentre infatti molte chiese protestanti hanno ceduto enormemente nei principi, e quindi, di conseguenza, anche nella pratica, al contrario, nella Chiesa cattolica, nonostante gli errori, propri dell’uomo e dei tempi, è sempre rimasta viva una voce controcorrente a contrastare la crisi della Fede e la rivoluzione sessuale: quella del magistero romano. Non è proprio per questa fermezza, perché la Chiesa cattolica ha ceduto meno di altre, che tantissimi anglicani rientrano oggi, sotto Benedetto XVI, nella Chiesa romana, in polemica con le loro gerarchie, troppo aperte verso la “rivoluzione sessuale”?

Quanto al fatto che la stampa progressista, da sempre in prima fila nella “liberazione sessuale”, oggi identifichi tendenziosamente nella Chiesa cattolica il luogo per eccellenza della pedofilia, fingendo di dimenticare i “bei tempi” in cui la Chiesa veniva accusata di imporre troppi tabù, si tratta, come è facile capire, di una vendetta postuma, di chi si improvvisa moralizzatore, strumentalmente, dopo aver contribuito alla demolizione sistematica dell’umano e dell’affettività vera. Il fatto è così chiaro che per un lapsus rivelatore, su Repubblica, il cardinale J. Bernardin, uno dei tantissimi prelati cattolici accusati ingiustamente di pedofilia, e poi scagionato, è stato recentemente confuso con l’eroe del momento, perché anti-romano e anti-papista, cioè il vescovo liberale Robert Weakland, lui sì, come si è visto, veramente colpevole di atti contro la morale, cristiana e naturale.

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Santo e musicista: Alfonso Maria de Liguori

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2014

Santo e musicista  Alfonso Maria de Liguori
di Francesco Agnoli – Il Foglio
Tratto da: La Roccia splendente

Santo e musicista: Alfonso Maria de Liguori dans Canti Coro-canti-di-Natale

Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”: inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato.

L’età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L’ ingresso “nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me’” (T.R.Mermet).

Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell’Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E’ nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere…

Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”. Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”), le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”.

Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.

Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani “scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali”.

Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…”.

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Dio giudice e Misericordioso

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

Dio giudice e Misericordioso dans Alessandro Manzoni cfbw

Si parlava della celebre frase di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. La pensava così anche il suo contemporaneo Alessandro Manzoni.

Nei “Promessi sposi”, infatti, uno dei personaggi più riusciti è utilizzato dal Manzoni proprio per rendere visibile questo concetto. Parlo dell’Innominato. Quest’uomo malvagio, indurito, ma non per sempre, dai suoi crimini, viene infatti introdotto dal poeta attraverso il paesaggio che lo circonda. L’Innominato infatti abitava “a cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione, apparentemente geografica, dice già tutto quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un giudizio su di sé, in nome della sua completa autonomia.

All’Innominato avviene dunque come ad un personaggio di  Dostoevskij, Sigalev: “Sono partito dalla libertà illimitata e finisco nel dispotismo assoluto”. Non vendendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili.

Diciamolo subito. Si può finire male anche credendo in Dio. Don Abbondio ne è un esempio, così come lo è un personaggio di Chesterton che è solito passeggiare nella parte sopraelevata della sua chiesa, essendo un pastore. Di lì osserva, dall’alto al basso, tutti gli altri. Sino al punto di ritenere che la sua “bontà” gli permetta di ergersi a giudice di un suo fratello, ubriacone e peccatore; sino al punto di fulminarlo, dall’alto, lasciandogli cadere un martello in testa. 

Perché chi crede in Dio può benissimo farne una sorta di soprammobile, come fa don Abbondio, oppure può essere tentato di sentirsi buono e giusto (lui), in un mondo di peccatori (gli altri). La superbia, male per eccellenza, è dunque sempre in agguato. Per questo Dostoevskij fa dire a padre Zosima, ne “I fratelli Karamazov”: “Amate l’uomo anche con il suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è il culmine dell’amore sopra la terra”. Non facile, certo.

Ma torniamo al nostro Innominato. Manzoni ne descrive in modo esemplare la conversione. Dice infatti che all’epoca del rapimento di Lucia da lui ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore” , “una non so qual rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può credere dio, sino ad un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è forti, finché si ha successo, finché si calca la scena tra gli applausi del mondo.

Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia ad intravedere la morte, e sentirsi ancora dio si fa difficile. Come Dorian Gray: si può mettere la coscienza del peccato in soffitta per tanto tempo, ma poi ad un certo punto diventa insopprimibile la domanda: e poi?

L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione, che tacita il rimorso e la paura, ma si trova “ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa quello che ho fatto? Cos’importa?”.

Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia: e l’Innominato, che lo sa, se lo chiede: “io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste?

Manzoni descrive sapientemente questi dilemmi, e decide di descrivere l’Innominato sul punto di suicidarsi, in preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse, ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo.  E’ stato il demonio a suggerirti il suicidio, dirà infatti Federigo Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.

E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio Giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio Misericordioso. Pronto a perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento.  Poi, dopo le parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo abbraccia e rende presente quel perdono. La Fede si diffonde per contagio.  Contagiano coloro che vivono un Dio giusto e misericordioso. Contagiano talora anche coloro che per una vita si sono seduti sul trono di Dio.

Francesco Agnoli – Il Foglio

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Sottomettersi l’uno all’altro

Posté par atempodiblog le 23 mai 2013

Sottomettersi l’uno all’altro dans Costanza Miriano fogliealvento

Un coniuge che pesasse sulla bilancia tutti gli errori dell’altro coniuge, e contabilizzasse ogni sbaglio del suo compagno di vita, sarebbe un cristiano?

Francesco Agnoli: Una grande santa educatrice, Teresa Verzeri, scriveva a sua sorella, che ogni tanto le scriveva parlando dei difetti del marito, “sicuramente tuo marito ha grandi difetti, io che ti conosco ti posso dire che li hai anche tu!”. Diceva “sottomettiti” e la parola, come quella che è nel libro di Costanza Miriano, detta così all’uomo di oggi dà molto fastidio eppure il matrimonio, posso dirlo anch’io per la mia esperienza, è continuamente un sottomettersi l’uno all’altro, perché non si può andare avanti, a meno che non ci sia disparità di un carattere santo accanto ad un caratteraccio. Ma di solito non è così… di solito si sta un po’ sulla stessa barca. Bisogna sottomettersi l’uno all’altro, bisogna, nel matrimonio, costantemente piegare il capo una volta l’uno una volta l’altro, c’è chi lo piega di più… però sostanzialmente bisogna cercare di essere sottomessi l’uno all’altro.

Rosanna Brichetti Messori: Anche perché in realtà noi siamo convinti che l’altro debba, come dire, venire incontro ai nostri bisogni e se l’altro non viene incontro… noi ci lamentiamo e non capiamo invece che il segreto vero, io naturalmente credo che ci ho messo cinquant’anni per capirlo, è andare noi incontro all’altro, cioè non pretendere, accettare l’altro com’è. Invece di pretendere che l’altro venga incontro a noi e ci capisca sempre.

Tratta da una conversazione radiofonica

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