• Accueil
  • > Festa dei Santi e dei fedeli defunti

Il valore della santa Messa

Posté par atempodiblog le 29 juin 2010

Il valore della santa Messa dans Beato Giacomo Alberione dongiacomoalberione

Un povero fanciullo, orfano di padre e di madre, era stato ricevuto in casa di un suo fratello che lo trattava duramente e gli lasciava persino mancare il pane e le vesti. Un giorno trovò per via una moneta d’argento. Cercò, ma non ne rinvenne il padrone. Immaginate la sua gioia! Gli parve di aver trovato un tesoro, e subito pensò di comperarsi diverse cose: abbisognava di tutto! Ma a quel punto ricordò il padre e la madre defunti, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Che fece? Prese una decisione eroica per il suo stato e la sua età, e corse a portare quella moneta ad un Sacerdote, affinché celebrasse la Santa Messa per i suoi poveri genitori.

Da quel giorno, protetto dalle anime del Purgatorio, la fortuna dell’orfanello si cambiò. Un altro fratello lo raccolse, lo fece studiare, e quel bambino diventò Sacerdote, Vescovo, Cardinale, Santo: San Pier Damiani.

Ecco ancora come una sola Messa, fatta celebrare per le anime del Purgatorio, sia stata principio d’immensi vantaggi. Ma oh! quali vantaggi maggiori se alla Messa si unisce la Santa Comunione.

[da Don Giacomo Alberione, “Per i nostri cari defunti”, Ed. Paoline, 1966]
Fonte: Luci sull’Est

Publié dans Beato Giacomo Alberione, Festa dei Santi e dei fedeli defunti, Racconti e storielle, Stile di vita | 1 Commentaire »

Non saremo come acciughe in un barile

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2009

Il paradiso, il purgatorio, l’inferno e lo scandalo della libertà
di Giacomo Biffi

Fede, il vantaggio di essere credenti dans Cardinale Giacomo Biffi Card-Giacomo-Biffi

« Verrà a giudicare i vivi e i morti », diciamo nel Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso comune nella prima comunità. È riportata negli Atti (10, 42). La troviamo usata nella prima lettera di Pietro: « Dovranno rendere conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti » (1 Pietro, 4, 5), e nella lettera seconda a Timoteo: « Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che giudicherà i vivi e i morti… » (ii Timoteo, 4, 4. Per gli scritti postapostolici, cfr. Barnaba, 7, 2; Policarpo, Epistola, 2, 1; 2 Clemente, 1, 1). Che significa questa espressione?
Il significato vero è quello letterale: si vuol dire che Gesù sottoporrà al suo giudizio non solo quelli che troverà in vita alla sua venuta, ma anche tutti gli uomini del passato, che hanno già incontrato la morte. Più semplicemente si vuol dire – attraverso l’uso semitico del binomio di totalità, che indica l’intero mediante la distinta elencazione delle parti (per esempio « il cielo e la terra », per dire « tutto ») – che sarà giudicata tutta l’umanità, senza alcuna eccezione.

Oltre l’universalità delle persone, la Rivelazione ci parla di una universalità dei fatti umani: niente di ciò che è umano sfuggirà alla valutazione del giudice. Non si dovranno offrire vuote frasi adulatrici (Matteo, 21-23), ma si dovrà presentare la totalità delle opere compiute (Matteo, 16, 27; Romani, 2, 6; II Corinzi, 5, 10); e non appena sulle opere saremo giudicati, ma anche sulle parole (Matteo, 12, 36), sulle omissioni (Matteo, 25, 35-46), sui pensieri segreti (1 Corinzi, 4, 5).

Nelle pagine della Bibbia troviamo ricordati alcuni elementi che entrano a comporre la scenografia del giudizio, in un quadro che ha sempre eccitato la fantasia, ma che chiede piuttosto di essere letto, anche nei particolari pittoreschi, secondo il suo vero significato concettuale. Il profeta Gioele colloca il giudizio in una misteriosa « Valle di Giosafat » (Gioele, 4, 2), solo tardivamente – a partire dal IV secolo dopo Cristo – identificata con la valle del Cedron, a sud-est della spianata del tempio. Ancora oggi arabi ed ebrei ambiscono essere seppelliti sull’uno e sull’altro versante dell’avvallamento, per essere più pronti a rispondere all’ultimo appuntamento.

In realtà il nome ci rivela con molta chiarezza nella sua composizione la sua natura simbolica: Giosafat significa Jahvè giudica. Del resto, poco più avanti lo stesso profeta usa un altro nome, ugualmente significativo: « Valle della Decisione » (Gioele, 4, 14). Daniele delinea davanti a noi una vera e propria azione processuale con un giudice, una corte, i libri degli atti (Deuteronomio, 7, 9-10). L’immagine del processo si conserva fino alla predicazione di Gesù, anche se si sovrappongono altre raffigurazioni, come quella del pastore che alla sera esamina attentamente il suo gregge (Matteo, 25, 31-46). Ma, di là dai particolari fantastici, è possibile appurare come avverrà concretamente il nostro giudizio? Pensiamo di sì.

Il nostro mondo è caratterizzato da una quasi totale discordanza tra i valori reali e la loro esterna apparenza, sicché non è di solito possibile assegnare agli uomini e alle cose il giusto prezzo che hanno in faccia a Dio. Questa discordanza ha raggiunto il grado sommo – e ne è stata condannata – al momento dell’uccisione del Figlio di Dio, quando colui che era la nostra stessa « giustizia, santità, redenzione » (1 Corinzi, 1, 30), « è stato annoverato tra i malfattori » (Isaia, 53, 12). L’esecuzione di Gesù fuori della porta di Gerusalemme, cioè « fuori della vigna » che era la sua eredità (cfr. Marco, 12, 8), raffigura e avvera la sconfitta di Dio, che oggi appare come estromesso dal mondo che è suo. Dio è sconfitto, e non tanto dall’uomo che pecca, quanto dall’uomo che, peccando, appare bello, forte, felice, soddisfatto; mentre colui che, tentando di conformarsi alla volontà del Padre, incontra la derisione, la sofferenza, la morte, è associato al mistero della sconfitta del suo Creatore. Il momento del giudizio è appunto la fine di questo stato irrazionale e blasfemo.

Esso perciò consisterà essenzialmente nella brusca lacerazione del velo della esteriorità, così che tutta la creazione appaia « nuda e aperta » agli occhi di tutti, come è nuda e aperta da sempre agli occhi di Dio (Ebrei, 4, 13). Il suono della tromba finale – particolare del quadro che significativamente ritorna sempre nelle descrizioni bibliche della fine (Matteo, 24, 31; 1 Corinzi, 15, 22; 1 Tessalonicesi, 4, 15; Atti degli apostoli, 11, 15) – farà crollare la scena di questo mondo come le trombe di Giosuè squassarono, lasciandole diroccate, le mura di Gerico (Giosuè, 6, 20), e ciascuno sarà visto con la sua interiore ricchezza o con la sua interiore miseria.

Il primo che sarà « manifestato » sarà il Cristo, capo dell’universo e centro della storia umana, fino allora nascosto e quasi sopraffatto dalla futilità del mondo. E ogni essere, improvvisamente privato della maschera che impediva ogni autentico esame, apparirà nella sua vicinanza a lui o nella sua lontananza: questo sarà il giudizio. Gesù sarà dunque l’unico punto di riferimento dal quale tutto sarà misurato: per questo egli sarà il « giudice ». Allora finalmente sarà rovesciato il ricamo della nostra storia, e si potranno contemplare nella loro piena evidenza la bontà, l’armonia, la saggezza del disegno condotto a compimento da Dio, che senza una fede robusta ci è così difficile ravvisare oggi nei casi della storia mondana.

Che cosa determina nella realtà la vicinanza o la lontananza da Cristo? In altre parole, su quale legge saremo giudicati? Certo, saremo giudicati sulla nostra fedeltà alla legge di Dio, perché Gesù non ha abrogato il decalogo, il quale resta per gli uomini di tutti i tempi il codice di comportamento. Ma, poiché il Signore stesso ha chiarito che la legge di Dio ha come compendio, come anima, come significato sostanziale l’amore di Dio sopra ogni altro amore e l’amore del prossimo, come inveramento concreto dell’amore di Dio, possiamo ben dire che « all’ultimo dei giorni – come si esprime san Giovanni della Croce – saremo giudicati sull’amore » (cfr. Matteo, 25, 31-46).

« Tutti risorgeranno – dice il concilio Lateranense quarto – con i loro propri corpi, gli stessi che possiedono ora ». È un’affermazione categorica, ma in fondo non è che l’insegnamento della Sacra Scrittura: « Da Dio ho ricevuto queste membra; queste per le sue leggi disprezzo; queste da lui spero di avere di nuovo », dice il terzo dei fratelli prima del martirio, nella narrazione del secondo libro dei Maccabei (7, 11). E Paolo: « È necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità » (1 Corinzi, 15, 53).

Cristo stesso – archetipo degli uomini che rinascono dalla morte – riprende dal sepolcro lo stesso corpo che è stato spento sul Calvario. Del resto, l’ipotesi di una risurrezione con un corpo diverso rivela una concezione dell’uomo che neppure sul piano di un’antropologia puramente razionale possiamo accettare. Tale ipotesi suppone infatti che l’anima stia nel corpo come una spada nel fodero; e che, come la spada, possa tranquillamente cambiare di fodero senza per questo mutare essa stessa. Ci sembra di dover ammettere con san Tommaso che l’anima intellettiva è l’unica « forma sostanziale » dell’uomo, sicché l’ipotesi fatta ci appare non solo teologicamente errata, ma anche filosoficamente assurda: non solo risorgeremo con il nostro identico corpo, ma neppure possiamo risorgere con un corpo diverso. Se il fatto della identità è fuori discussione, si discute molto sul modo di concepirla.

La soluzione più semplice sta forse nel capire che lo stesso principio spirituale che anima il composto umano è la vera ragione della identità corporea. Poiché è la « forma sostanziale » dell’uomo, l’anima informando qualunque materia dà sempre origine allo stesso corpo, tanto che l’identità del nostro corpo è sempre salvata lungo l’arco della nostra vita, nonostante il continuo fluire degli elementi materiali. Intesa così – e forse non è possibile intenderla diversamente – la dottrina della identità scioglie immediatamente tutte le difficoltà che a prima vista essa stessa sembrerebbe provocare.
Un altro interrogativo, suscitato dall’argomento che stiamo trattando, si riferisce alla condizione dei corpi risorti, che certo non potrà ripetere lo stato di miseria proprio del corpo terrestre. Da parte mia, non credo che saremo tutti come le acciughe nel barile. Io credo che effettivamente i rapporti umani ci saranno. Anche l’amicizia ci sarà.

Non è il caso di anticipare con la fantasia una conoscenza che ci è stata riservata per quel giorno. Né ci sentiamo di seguire con animo tranquillo quei teologi che dal testo di san Paolo prima citato si pensano autorizzati a precisare le prerogative del corpo glorioso nei loro particolari. Tuttavia la Sacra Scrittura ci offre un principio e un modello, come dati sicuri per una riflessione sulla sorte che attende le nostre membra. Il principio è enunciato da san Paolo, quando ci parla di corpo « spiritualizzato » (1 Corinzi, 15, 44). Nel linguaggio dell’apostolo questo significa che la nostra carne, che ci appare così spesso ribelle alla volontà di Dio, sarà docilmente sottoposta all’azione dello Spirito Santo, che tutto trasforma e assimila a sé.
In altre parole, quella trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera fin da adesso nel mondo interiore dell’uomo, si estenderà a tutto il nostro essere, così che anche esteriormente riesca visibile la nostra rinnovazione.

Il modello poi è lo stesso Gesù risorto, che dalle testimonianze apostoliche sappiamo sovranamente libero nella sua azione, senza che le cose materiali o le forze della natura gli diano impaccio alcuno, e senza che i dolori o la morte gli possano più recare alcun danno. A lui già ci siamo interiormente conformati, quando siamo passati dalla vita di colpa a quella di grazia. E a lui ci conformeremo totalmente (Filippesi, 3, 21), quando anche il nostro corpo, dopo la purificazione di una morte cristiana, obbedirà alla sua vocazione di gloria.

Come già s’è detto, l’idea di un « giudizio » porta implicita l’idea di una discriminazione, anzi, poiché si tratta del giudizio ultimo e senza appello, l’idea di una discriminazione definitiva. La riflessione sulla glorificazione dell’uomo non può non coinvolgere dunque una riflessione simmetrica sulla dannazione dell’uomo. Difatti la stessa Rivelazione che ci parla di un premio eterno ci parla anche di un castigo eterno: la proposta di Dio non può essere accolta con beneficio d’inventario; o l’accettiamo o la rifiutiamo in blocco. Perciò la terribile e insopportabile prospettiva di un destino di punizione e di sofferenza è necessaria per una visione non snaturata dell’escatologia cristiana.

Gesù per spiegare la condizione del dannato è ricorso soprattutto al concetto di esclusione: « La porta fu chiusa » (parabola delle vergini: Matteo, 25, 10); « gettatelo fuori » (parabola dei talenti: Matteo, 25, 30); « via lontani da me, maledetti » (Matteo, 25, 41) (cfr. anche Apocalisse, 22, 15). Paolo dà una versione sportiva dello stesso concetto, ricorrendo all’immagine della « squalifica » (1 Corinzi, 9, 27). Occorre però capire bene quanto spaventevole sia questo « star fuori » dalla Gerusalemme celeste, che ha Iddio stesso come fonte della sua luce.

Noi riceviamo tutto da Cristo: siamo stati modellati su di lui, siamo stati creati per manifestare le sue perfezioni, riceviamo da lui continuamente l’alimento della nostra vita. Possiamo dire che tutti, anche i peccatori e gli infedeli, hanno, sia pure in diverso grado e natura, qualche legame con il Verbo incarnato: tutti infatti o sono inseriti o sono inseribili nel suo Corpo mistico. Tutti perciò sono in qualche modo raggiunti dalla sua grazia. All’inferno, l’uomo è invece totalmente avulso da questo Corpo, pur conservando una fondamentale ordinazione a esso: il dannato continua a essere creato a immagine del Salvatore e a glorificare con il suo stesso essere colui che rinnega e bestemmia con la sua volontà; continua ad avere un’assoluta necessità di incorporarsi in colui dal quale si mantiene avulso nel suo odio ostinato.

E poiché è il nostro legame con Gesù a consentirci di essere veramente uniti tra noi, colui che è all’inferno è disperatamente solo. Mentre la sua natura resta una natura sociale, anzi resta chiamata a una comunione soprannaturale – perché la vocazione di Dio è senza pentimenti e rimane anche su chi l’ha rifiutata – è tagliato fuori da qualunque convivenza d’amore, da qualunque amicizia. Anche per questo aspetto il dannato è una natura che si contraddice.

Ma questa avulsione da Dio e dal Regno di Dio non è l’unica ragione di sofferenza nell’inferno, anche se è la principale. La Scrittura – in parte già l’abbiamo visto – parla frequentemente di « fuoco ».
È possibile intendere questo fuoco solo come una immagine che rappresenta il grande dolore di chi è perduto per sempre? La cosa è sotto il profilo strettamente esegetico del tutto improbabile. In primo luogo non abbiamo notizia dell’uso di una tale metafora per indicare una pena puramente interiore. Inoltre tale interpretazione non sembra dare sufficientemente conto né della frequenza del termine, né del senso preciso di alcuni passi in particolare (cfr. Matteo, 25, 41, dove il fuoco è detto « preparato » per i cattivi; Matteo, 13, 40-42, dove il fuoco è l’unico elemento parabolico conservato anche nella spiegazione).

Ovviamente non è necessario ritenere che il fuoco infernale abbia la stessa natura del nostro. Sarà sufficiente pensare a esso come a un elemento materiale estrinseco che, in qualunque modo, influisca tormentosamente sul dannato. Il destino umano sembra governato dal principio della « trasnaturazione »: come lo spirito del giusto è divinizzato con la grazia e il corpo è spiritualizzato con la risurrezione, così la dannazione proietta l’uomo in opposta direzione, materializzandone per così dire lo spirito e sottomettendo lo spirito così materializzato alla schiavitù della materia.
Non è possibile pensare che tutti si salvino? Non basta ammettere l’esistenza dell’inferno? Bisogna proprio pensare anche che ci stia effettivamente qualcuno? La dottrina rivelata, che ci obbliga a credere nella possibilità di dannarci, evita di darci qualche indicazione numerica circa i dannati. Anzi, rigorosamente parlando, non ci impone neppure di ritenere per fede che qualche uomo di fatto ci vada. Tuttavia affermare che l’inferno sia perfettamente vuoto è asserzione infondata, incauta e superficiale.

In primo luogo non si vede in forza di quali argomentazioni possa essere sostenuta. Non avendo nessun argomento « a posteriori » – per il quale, in mancanza di una Rivelazione, ci vorrebbe una esplorazione diretta – è fatale che un simile atteggiamento si appoggi, più o meno consapevolmente, su argomenti « a priori » (come la misericordia di Dio, l’impossibilità di compiere un vero peccato mortale e così via.). Ora gli argomenti « a priori », se provassero, proverebbero non solo la non esistenza ma anche la impossibilità. Il che sarebbe incompatibile con la dottrina rivelata.

In secondo luogo, la Rivelazione ci parla della effettiva riprovazione eterna dei demoni. Sicché non si eliminerebbe neppure il disagio psicologico di pensare a un essere personale prigioniero di una condizione così crudele. E dal momento che la Rivelazione richiama tanto spesso l’idea del castigo eterno, sarà meglio affidarsi a questa divina pedagogia, senza vanificarla con supposizioni che, per quel che ne sappiamo noi, non hanno fondamento.
Non dobbiamo mai dimenticare che chi ci ha parlato con più chiarezza dell’inferno, della sua pena, della sua eternità, è stato Gesù Cristo, cioè colui che più di ogni altro ha conosciuto e rivelato il cuore misericordioso del Padre e più di ogni altro ha avuto amore e compassione per gli uomini. Certo la dannazione resta una realtà misteriosa e incomprensibile. « Sarà soltanto quando saremo passati dall’altra parte che si risolveranno gli ultimi problemi, che cesserà per noi lo « scandalo », che la bontà divina ci apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che essa crea, ma anche nella pazienza che le fa tollerare la rivolta delle sue creature libere. Finché vivremo, il pensiero dell’inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli, perché nessuno tra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l’apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera (Galati, 6, 7) » (Charles Journet, Il male: saggio teologico, Torino, Borla, 1963, pagine 246).

L’inferno insomma è un pensiero insopportabile. Ma l’esistenza umana non ha un lieto fine immancabile, come nei vecchi film americani.
La risurrezione corporea è l’aspetto più appariscente ed esterno di una condizione nuova dell’umanità, che trova la sua radice e insieme la sua dimensione più profonda in un rapporto nuovo con Dio, che eccede l’ambito puramente creaturale. Gesù sembra alludervi, secondo il vangelo di Giovanni, proprio nella sua prima manifestazione, la mattina di Pasqua: « Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro » (Giovanni, 20, 17). L’elemento più importante dello stato di gloria verso cui siamo incamminati sarà appunto una comunione con il Padre così forte e saziante da superare ogni attesa e ogni immaginazione.

Se già la risurrezione è un evento che va oltre ogni capacità di comprensione, il possesso di Dio trascende assolutamente ogni prospettiva e pone in luce ancora più intensa la generosità del piano divino e la grandezza del destino che ci è stato assegnato.
In che cosa consisterà questa intimità con il Padre? Sarà senza dubbio una unione d’amore, e come tale ha già le sue premesse nella vita di grazia. La carità infatti – che ci assimila a Cristo nella sua perfetta adesione al Padre – è la costante che accomuna lo stato del giusto durante il cammino terrestre e la sua condizione finale, ed è ciò che ci consente di essere già adesso nella « vita eterna », secondo l’insegnamento di Giovanni. Perciò san Paolo dice: « La carità non avrà mai fine » (1 Corinzi, 13, 8). La differenza sta nel fatto che l’amore del cristiano sulla terra nasce da una conoscenza che è sì soprannaturale e divinizzante, ma è velata e indiretta; nasce cioè dall’atto di fede, che è la radice e il fondamento di tutta la vita battesimale. Invece l’amore dell’uomo glorificato scaturirà dalla visione immediata di Dio. Dio che, secondo l’insegnamento biblico, è l’Invisibile e l’Inaccessibile, sarà contemplato senza intermediari: « La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che ero da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto » (1 Corinzi, 13, 9-12). La contemplazione diretta di Dio porrà nella massima evidenza il nostro stato di creature divinizzate e di figli che entrano in possesso della loro eredità.

E come il battesimo inizia in noi la presenza di una vita e di una ricchezza « ecclesiali », così la suprema fioritura di questa vita ci troverà partecipi di una « città santa », di un « popolo nuovo », della « Chiesa escatologica », insomma: « Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Apocalisse, 21, 2-4). Vedremo dunque Dio « a faccia a faccia » e sarà una conoscenza ben diversa da quella che oggi ci è consentita. Quanto al purgatorio, è una cosa, da un certo punto di vista, molto semplice. Nel disegno di Dio bisogna purificarsi, non basta dire: io ho sbagliato. Sono però da considerarsi errate le tendenze della pietà popolare e di una certa teologia che ha interpretato il purgatorio come un piccolo inferno. Il clima del purgatorio è la serenità. Le anime sono in grazia di Dio. Il cardinale Schuster diceva che il purgatorio è come un corso di esercizi spirituali: uno riflette, pensa, vede le cose sbagliate che ha fatto, gli dispiace, si purifica. Mi piace pensare che il nostro purgatorio, il purgatorio di ciascuno, sia quello di vedere tutte le stupidaggini che abbiamo fatto nella vita. Mi è congeniale in questo senso la descrizione dantesca delle anime « che vanno a farsi belle ».

Le narrazioni del Nuovo Testamento circa l’ultimo giorno parlano tutte di uno sconvolgimento cosmico terrificante. Citiamo per esempio la seconda lettera di Pietro: « Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta » (ii Pietro, 3, 10, cfr. anche Matteo, 24, 29; Apocalisse, 6, 12-14). Ma è difficile assegnare un contenuto preciso a queste descrizioni, che appartengono al genere letterario apocalittico e non devono essere prese alla lettera.
Quanto alla data, è sempre stata oggetto di curiosità viva e morbosa in tutte le epoche della storia cristiana. San Paolo aveva già bisogno di ammonire severamente su questo punto la comunità di Tessalonica, che nella convinzione della imminente fine aveva a buon conto smesso di lavorare. In particolare, l’apostolo raccomanda – e non solo ai Tessalonicesi, visto che anche ai nostri tempi ogni tanto questo stato d’animo rinasce – che non ci si debba attenere a rivelazioni private o ad annunci divini o a lettere apostoliche che dichiarano prossimo il giorno del Signore (II Tessalonicesi, 2, 2).
Se c’è una cosa chiara nella Rivelazione, è la non conoscibilità della data: il Padre se l’è riservata come un segreto geloso e ogni notizia che circola a questo proposito non può certo essere considerata di provenienza divina: « Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre » (Marco, 14, 32).

Resta da vedere se la Rivelazione ci indichi chiaramente dei segni premonitori della fine. Il segno che più ha colpito la fantasia popolare è la venuta di uno speciale nemico di Gesù che l’apostolo Giovanni chiama appunto Anticristo (1 Giovanni, 2, 18) e che san Paolo qualifica come l’Uomo del peccato, il Figlio della perdizione, l’Avversario, l’Iniquo (II Tessalonicesi, 2, 3-10). Egli si manifesterà negli ultimi tempi e sarà distrutto dall’alito della bocca del Signore e dallo splendore della sua venuta (II Tessalonicesi, 2, 8).
Ma se la comparsa di questo misterioso personaggio è certa, la sua natura è discussa, e gli uomini di tutte le epoche non hanno mancato di riconoscerlo in qualche abominato contemporaneo. Già san Giovanni, dicendo che « gli anticristi sono molti » (1 Giovanni, 2, 18), pone le premesse per una interpretazione collettivistica, che riconosca questo avversario di Dio in tutte le forze del male agenti lungo la storia, le quali si scateneranno con particolare violenza prima della loro finale eliminazione. In connessione con l’ »Uomo di iniquità », san Paolo parla anche di « apostasia » che dovrà colpire i cristiani, senza offrirci però nessuna notizia particolare (II Tessalonicesi, 2, 1).

Nel discorso escatologico, poi, Gesù ha preannunciato l’universale predicazione del vangelo in tutto il mondo abitato, e solo dopo, ha detto, « verrà la fine » (Matteo, 24, 14). Ma poiché il contesto sembra riferirsi piuttosto alla distruzione di Gerusalemme, anche questa profezia deve considerarsi compiuta con la missione apostolica in tutto il mondo greco-romano. Infine san Paolo predice in termini abbastanza espliciti la conversione della nazione giudaica, che avrebbe dovuto essere la prima a entrare nel Regno e che invece sarà l’ultima, secondo un oscuro e sapiente piano di provvidenza (Romani, 11, 25-36). Ma non ci dice nulla sulla vera natura e sulle modalità di questo ritorno.
Come si vede, nessuno di questi segni è tale da togliere o sminuire il carattere di « sorpresa », così ripetutamente attribuito dal libro sacro all’ultimo giorno della nostra storia.

(© L’Osservatore Romano – 6 settembre 2009. Il testo dell’arcivescovo emerito di Bologna, Giacomo Biffi, è pubblicato nel quarto numero del 2009 della rivista del bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore « Vita e Pensiero »).
Fonte: corrispondenzaromana.it

Publié dans Anticristo, Cardinale Giacomo Biffi, Fede, morale e teologia, Festa dei Santi e dei fedeli defunti | Pas de Commentaire »

Papa: Nella Comunione dei santi non siamo mai soli, come in famiglia o fra amici

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2009

Benedetto XVI corregge l’interpretazione macabra della festa di Halloween. La festa di tutti i santi è una festa di solidarietà. Nella visita ai cimiteri occorre ricordare che le anime dei defunti “sono nelle mani di Dio”. Un ricordo della Dichiarazione comune di Augusta, fra Federazione luterana mondiale e Chiesa cattolica, definita da Giovanni Paolo II “una pietra miliare sulla non facile strada della ricomposizione della piena unità tra i cristiani”.

Papa: Nella Comunione dei santi non siamo mai soli, come in famiglia o fra amici dans Articoli di Giornali e News santopadre

La “comunione dei santi” è una realtà “bella e consolante” perché dice che “non siamo mai soli”. Benedetto XVI ha presentato così la solennità di Tutti i santi – che si celebra oggi – ai fedeli radunati nella piazza san Pietro per l’Angelus. La definizione del papa si mette in totale opposizione al modo in cui questa festa è stata commercializzata, trasformandola in “Halloween” e in una festa macabra, di mostri e di zombie nemici dell’uomo.

“Facciamo parte di una ‘compagnia’ spirituale in cui regna una profonda solidarietà: il bene di ciascuno va a vantaggio di tutti e, viceversa, la felicità comune si irradia sui singoli. E’ un mistero che, in qualche misura, possiamo già sperimentare in questo mondo, nella famiglia, nell’amicizia, specialmente nella comunità spirituale della Chiesa”.

Il pontefice ricorda l’antico culto dei martiri nella Chiesa primitiva, divenuto poi culto per tutti i santi, « una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (Ap 7,9)”.

Fra tutti, in questo Anno sacerdotale, il papa ricorda “i santi sacerdoti, sia quelli che la Chiesa ha canonizzato…; sia quelli – ben più numerosi – che sono noti al Signore”.

“Ognuno di noi – sottolinea il pontefice – conserva la grata memoria di qualcuno di essi, che ci ha aiutato a crescere nella fede e ci ha fatto sentire la bontà e la vicinanza di Dio”.

Il papa offre anche spunti per riflettere e vivere la giornata di domani, di Commemorazione dei fedeli defunti. “Vorrei invitare  - ha detto il pontefice – a vivere questa ricorrenza secondo l’autentico spirito cristiano, cioè nella luce che proviene dal Mistero pasquale. Cristo è morto e risorto e ci ha aperto il passaggio alla casa del Padre, il Regno della vita e della pace. Chi segue Gesù in questa vita è accolto dove Lui ci ha preceduto. Mentre dunque facciamo visita ai cimiteri, ricordiamoci che lì, nelle tombe, riposano solo le spoglie mortali dei nostri cari in attesa della risurrezione finale. Le loro anime – come dice la Scrittura – già ‘sono nelle mani di Dio’ (Sap 3,1). Pertanto, il modo più proprio ed efficace di onorarli è pregare per loro, offrendo atti di fede, di speranza e di carità. In unione al Sacrificio eucaristico, possiamo intercedere per la loro salvezza eterna, e sperimentare la più profonda comunione, in attesa di ritrovarci insieme, a godere per sempre dell’Amore che ci ha creati e redenti”.

Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI ha ricordato i 10 anni dalla Dichiarazione congiunta di Augusta, firmata il 31 ottobre 1999 fra la Federazione Luterana Mondiale e la Chiesa cattolica, che Giovanni Paolo II definì “una pietra miliare sulla non facile strada della ricomposizione della piena unità tra i cristiani”.

“Quel documento – ha detto il papa – attestò un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali della dottrina della giustificazione, verità che ci conducono al cuore stesso del Vangelo e a questioni essenziali della nostra vita. Da Dio siamo accolti e redenti; la nostra esistenza si iscrive nell’orizzonte della grazia, è guidata da un Dio misericordioso, che perdona il nostro peccato e ci chiama ad una nuova vita nella sequela del suo Figlio; viviamo della grazia di Dio e siamo chiamati a rispondere al suo dono; tutto questo ci libera dalla paura e ci infonde speranza e coraggio in un mondo pieno di incertezza, inquietudine, sofferenza”.

“Questo anniversario  - ha continuato – è dunque un’occasione per ricordare la verità sulla giustificazione dell’uomo, testimoniata insieme, per riunirci in celebrazioni ecumeniche e per approfondire ulteriormente tale tematica e le altre che sono oggetto del dialogo ecumenico. Spero di cuore che questa importante ricorrenza contribuisca a far progredire il cammino verso l’unità piena e visibile di tutti i discepoli di Cristo”.

Fonte: AsiaNews.it

Publié dans Articoli di Giornali e News, Festa dei Santi e dei fedeli defunti | Pas de Commentaire »

“Il grande giorno della Tua eterna vita”

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2009

“Il grande giorno della Tua eterna vita” dans Citazioni, frasi e pensieri pian-003

“O mio Dio e mio tutto, questo mio piccolo giorno della mia breve vita mortale, saluta il grande giorno della Tua eterna vita”.

Don Giustino Maria Russolillo

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri, Don Giustino Maria Russolillo, Festa dei Santi e dei fedeli defunti | Pas de Commentaire »

Tutti i Santi

Posté par atempodiblog le 1 novembre 2009

Tutti i Santi

«La festa di oggi ci parla di beatitudine, di felicità piena e duratura. Chiediamo perdono al Signore se abbiamo cercato di costruire la nostra felicità prescindendo dalle parole di Cristo; oppure se abbiamo atteso passivamente di possederla senza assumerci quaggiù le nostre responsabilità. La nostra unica tristezza dovrebbe essere “quella di non essere santi”».

Léon Bloy

Publié dans Citazioni, frasi e pensieri, Festa dei Santi e dei fedeli defunti, Léon Bloy, Ognissanti | Pas de Commentaire »

Il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere

Posté par atempodiblog le 31 octobre 2009

Il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere dans Fede, morale e teologia Tutti-i-Santi

La festività di tutti i Santi e la commemorazione dei fedeli defunti ci ricordano che la vita è un cammino verso l’eternità e che il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere.
Se l’uomo si identificasse col suo corpo e la sua persona si dissolvesse   in una manciata di polvere, avrebbe un senso la vita?
Gesù risorto ha vinto la morte, quella spirituale e quella corporale. Ha sconfitto l’impero delle tenebre e le porte dell’inferno, aprendo per tutti gli uomini la possibilità del paradiso.
La gioia senza fine del paradiso è un dono, ma anche una conquista. Si entra nell’oceano d’amore della Santissima Trinità rivestiti della veste candida della santità.
Incominciamo a fare il primo passo verso il Cielo celebrando la festa di tutti i Santi in grazia di Dio e accostiamoci, se necessario, al sacramento della confessione.
La vita di grazia è un cammino di santità che tutti possiamo percorrere. E’ una piccola via che porta molto in alto. Si tratta di fare tutto, anche le cose più piccole e insignificanti, per amore di Dio.
Facciamoci prendere per mano dalla Vergine Maria, la Tutta Santa, grande Maestra della santità umile e nascosta.

di Padre Livio Fanzaga

Publié dans Fede, morale e teologia, Festa dei Santi e dei fedeli defunti, Ognissanti, Padre Livio Fanzaga | Pas de Commentaire »

La morte: tappa o termine della vita?

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2008

La morte: tappa o termine della vita?
di Mons. Alessandro Maggiolini

La morte: tappa o termine della vita? dans Fede, morale e teologia monsalessandromaggiolin

Sfogliamo il Nuovo Testamento. «Dio ha stabilito che ogni uomo muoia» e allora «dovrà rendere conto del bene e del male compiuto». Non vi è eccezione: il destino di ciascuno è quello di vedersi troncare la libertà di decidere il proprio destino e di lasciare che il Signore tragga le conseguenze del proprio amore accettato o rifiutato.
Mi metto sul bordo di Viale Certosa, quello che porta al Cimitero comunale: motori che rombano e sfrecciano nel traffico cittadino, gonne variopinte al vento, perché la vita è bella – questo è il ritornello – e bisogna spremerla fino alla feccia del piacere. E accanto, lemme lemme e silenzioso, passa il carro funebre per di più mascherato da automobile civile, poiché sembra che ci si sia accordati per non pensare e alludere mai alla morte: e se nei discorsi comuni cade il tema, appare subito una sgarbatezza. Siamo eterni? Mi torna alla mente la novella di Pirandello dove il conduttore del carro funebre ha lasciato il mestiere del cocchiere civile e, per l’abitudine che ha, si avvicina al marciapiede dove un signore impettito cammina verso l’ignoto e si sente invitare: «Signore, vuoi salire? C’è posto».
Non c’è bisogno di molti ragionamenti: la vita, lunga o breve che sia, viene spezzata. E che cosa ci attende, dopo? E perché questa cesura, violenta o dolce, che pone fine alla nostra libertà? O meglio: che libera o imprigiona la nostra libertà?
Già. Poiché si può anche fingere per tutta la vita di giocare al girotondo dei giorni e degli anni. Ma la vita non è un cerchio che ritorna monotonamente su se stessa: è un vettore – se si vuoi parlare in termini scientifici – che ha un inizio e ha inevitabilmente un termine. Davvero si tratta di un termine? All’ultimo sospiro, che cosa succede? Si dà un annientamento della persona? Ma la persona è creata e redenta per l’eternità: per una eternità che si rinnova ogni momento.
Ed ecco l’interrogativo sul « dopo » che aiuta a cogliere il senso del morire e del vivere che ne può seguire. È un pensiero che può rivelarsi angoscioso quello di chi intuisce che esiste un termine al costruire il proprio destino in un dialogo di amore con Dio che può essere accolto piangendo di commozione, o rifiutato con rabbia irrivedibile.
Ma come? In un tempo come il nostro, dove tutto sembra essere dominabile, ha ancor senso accennare, sia pure di striscio, o buttare in faccia alla gente il destino eterno di beatitudine o di dannazione? E l’uomo non è fatto per la felicità che gli spot pubblicitari presentano ossessivamente? E che senso ha il peccato in sé e nelle sue conseguenze, quando ciò significa il fallimento della persona?
Ma si ponga che la vita terrena non abbia una conclusione.
La monotonia e una noia mortale non opprime i nostri giorni?
Ricordo una pagina di Gratry, il quale, alla fine delle scuole secondarie, si interroga sul suo domani: professore universitario? Lavoratore della terra? Poeta? E le domande che si ripresentano martellanti: e poi? E poi? Poi giunge un’ora di definitività e si prenderà coscienza di una solitudine disperata a cui si è votati o di una gioia larga come il cielo e splendente, dove ci attende il Signore che ha voluto morire per noi e che, risorto, ci attende a braccia aperte, impaziente.
Ecco il dramma della vita che non può essere cancellato come una banalità, né quando si è in chiesa, né quando si è al supermercato. Il Signore del cielo e della terra, l’Amore senza limiti che si è lasciato affiggere alla croce per noi ci attende.
Uno può anche fingere che tutto ciò sia fola di ritorno da un medioevo terrificante. E invece non si è che davanti al mistero della libertà: della libertà di chi stabilisce il proprio futuro e di chi non può impedire che Dio lo ami immisuratamente come vuole: può tentare di dimenticare questo orizzonte di ambiguità, ma non può impedire che Dio ami. E Dio, nel Signore Gesù, attende almeno una invocazione alla misericordia.
Buona morte. Che significa: buona vita, poiché la gioia che ci attende ha le sue anticipazioni anche nel nostro povero e traballante calendario. San Tommaso parla della grazia di Dio come di «praelibatio vitae aeternae»; c’è bisogno di tradurre?
«Expertus potest credere quid sit Jesum dirigere». C’è bisogno di tradurre?
A partire da queste considerazioni ci si può inoltrare nel mistero del male e della felicità – anche dell’attesa, prima del paradiso -, di cui ancora recentemente il Papa ha parlato nella sua splendida enciclica sulla Speranza. Perché lasciare cadere questi testi di un professore universitario che si fa umile fedele e alunno della Parola divina e fratello della sorte universale degli uomini?
Certo, ci si può anche lamentare perché la Chiesa sembra aver paura di toccare questi temi del destino eterno, e pare taccia per il timore di non essere accolta o per il desiderio di assecondare la direzione del vento della sciatta moda culturale di oggi – se si può parlare di cultura -. Il fatto è che quando il Papa, con lucidità di mistico, e con la semplicità del contadino che sale in cattedra, non dimentica la fatica di vivere; quando anche il Papa parla di questi argomenti, si volge l’attenzione ad altro. E invece, unica è la cosa necessaria nella vita. Chi ricorda il Catechismo sa bene a quali verità si allude. I Novissimi sono sempre certezze attuali e incidenti nella vita di ogni giorno.

Fonte: iltimone.org

Publié dans Fede, morale e teologia, Festa dei Santi e dei fedeli defunti | Pas de Commentaire »

Tempo Liturgico Novembre 2008 – Tempo Ordinario

Posté par atempodiblog le 1 novembre 2008

Tempo Liturgico – Novembre 2008
Tratto da: Radio Maria

Tempo Ordinario
Il mese di Novembre ha una duplice caratteristica. Da una parte è illuminato dalla Festa dei Santi e dei Fedeli defunti. La Chiesa pellegrinante nel tempo è chiamata a guardare all’eternità verso la quale è incamminata. Dall’altra inaugura il tempo di Avvento, durante il quale la Chiesa si prepara a rivivere la venuta di Gesù Cristo nell’umiltà della carne, in attesa della sua manifestazione nella gloria.

1 Novembre: festa di Tutti i santi
E’ una festa di precetto con l’obbligo della partecipazione alla S. Messa.. E’ un invito per tutti a vivere la chiamata alla santità nella vita ordinaria.

2 Novembre: Commemorazione dei fedeli defunti
In ogni parrocchia ci sono tre sante messe, per dare la possibilità ai fedeli di partecipare, offrendo suffragi per i propri cari defunti e per le anime più abbandonate del purgatorio.

Da mezzogiorno del 1 Novembre a tutto il 2 Novembre si può lucrare, una sola volta, l’indulgenza plenaria, applicabile solo ai defunti, visitando in loro suffragio una Chiesa dove recitare un Padre nostro e il Credo e adempiendo alle solite tre condizioni: Confessione Sacramentale – Comunione eucaristica – Preghiera per le intenzioni del Sommo Pontefice.

Nei giorni 1-8 Novembre i fedeli che visitano il cimitero e pregano per i defunti possono ottenere una volta al giorno l’indulogenza plenaria,( applicabile solo ai defunti), seguendo le tre condizioni suddette.

Domenica 23 Novembre
Festa di Cristo Re e Conclusione dell’Anno Liturgico

Domenica 30 Novembre
Prima Domenica di Avvento e inizio del tempo di preparazione al Natale.

Festività e Santi particolarmente significativi:

4 Novembre
S. Carlo Borromeo

10 Novembre
S. Leone Magno

21 Novembre
Presentazione della Beata Vergine Maria

27 Novembre
Madonna della Medaglia miracolosa

Publié dans Fede, morale e teologia, Festa dei Santi e dei fedeli defunti | Pas de Commentaire »

Il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere

Posté par atempodiblog le 1 novembre 2008

Il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere dans Fede, morale e teologia padreliviofanzaga

La festa dei Santi e la commemorazione di tutti i fedeli defunti ci ricorda che il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere. Nel medesimo tempo abbiamo l’occasione di fare dono dell’indulgenzia plenaria a un’anima di un defunto che si trova in purgatorio, alle seguenti condizioni:

- Conversione del cuore ed esclusione di qualsiasi affetto al peccato, anche veniale.

- Confessione individuale.

- Partecipare alla S. Messa e Comunione eucaristica.

- Dal 1° al 8° novembre visitare il cimitero e, durante la visita, pregare, anche solo mentalmente, per i defunti.

- Oppure dal mezzogiorno del 1° a tutto il 2 novembre visitare una chiesa o una cappella e, durante la visita, recitare il Credo, il Padre nostro e infine una preghiera secondo le intenzioni del Sommo Pontefice (Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre o altra preghiera).

Pregare per le anime del purgatorio è un atto di grande carità. Ci facciamo degli amici che pregheranno per noi.

Padre Livio Fanzaga

Publié dans Fede, morale e teologia, Festa dei Santi e dei fedeli defunti, Padre Livio Fanzaga | Pas de Commentaire »

La vita è adesso?

Posté par atempodiblog le 26 septembre 2007

La vita è adesso? dans Anticristo cuoreb

Oggi c’è una visione della vita in cui non esiste più la prospettiva dell’eternità, parafrasando un noto spot televisivo si potrebbe dire che per molti « life is now », come se la vita fosse un fenomeno rinchiuso nel tempo ed in cui “si vive una sola volta quindi godiamocela”.
La Regina della Pace a Medjugorje ci ricorda « figliolini, non dimenticate che la vostra vita passa come un fiorellino di primavera, che oggi è meraviglioso e domani non se ne trova traccia » e ancora « non dimenticate che siete passeggeri come un fiore in un campo che si vede da lontano, ma in un attimo sparisce » e ci invita ad essere apostoli dell’amore, portatori della pace, testimoni della fede e mani gioiosamente estese verso coloro che non credono.Il messaggio della cultura dominante del nostro tempo è che “senza Dio sarai felice, senza Dio si vive bene, atei è bello”. In questo tempo non pochi sono quelli che si presentano come coloro che ti indicano la realizzazione della tua vita al di fuori della Legge di Dio, al di fuori della Fede in Dio, al di fuori della sottomissione a Dio e al di fuori della Legge Morale. satana si presenta come consigliere perché senza Dio puoi fare quello che vuoi, sei il signore di te stesso e sei il padrone della tua vita. Molti giovani vivono il carpe diem perché sono sollecitati da più parti ad afferrare il giorno e l’opportunità del momento, a godersi la vita, e a fare di questa vita quello che si vuole. I maestri dell’errore insegnano l’arte di consumare la vita nel tempo e non alla luce dell’eternità, dicono godi e poi ti dissolvi nel nulla. Questa è un’attività satanica presente nella storia, soprattutto presente nella società del nostro tempo, attraverso i falsi maestri, i falsi profeti che sono quelli che occupano le cattedre, cioè quelli che formano le coscienze (o meglio, deformano e ottenebrano). Naturalmente chi mangia questo frutto che satana gli offre si trova solo, disperato e infelice. La disperazione è la conseguenza del messaggio satanico. Come ha detto la Regina della Pace “volete costruire un mondo senza Dio per questo siete infelici”. satana, attraverso gli uomini, vuole fare il maestro di vita, ma t’insegna una vita dove Dio non c’è e che si trasforma per te in un boccone velenoso. I falsi maestri sono nelle scuole, in televisione… ovunque. I ragazzi abbandonano di colpo la Fede perché c’è chi li ha convinti che la loro menzogna è più credibile della Parola di Dio che avevano imparato. Per Divina Grazia succede che trovandosi con i porci a contendersi il pasto si accorgono di dove sono caduti. Purtroppo non tutti riescono ad alzarsi in piedi come il figliol prodigo ed a tornare a casa. Dio approfitta delle crisi esistenziali per far aprire il cuore alla fame di assoluto.I giovani oggi si trovano in una situazione molto difficile perché trovano poche persone che li indirizzano verso il bene, mentre sono un esercito coloro che li spingono al male. Stanno provocando, in Occidente, la più grande apostasia della Fede che si sia mai avuta in oltre 2000 anni di storia cristiana. Per molti tutto è oggetto e l’uomo è una cosa. La falsa scienza di oggi ti dice che l’uomo è il suo corpo e quindi una cosa. Ma chi dice che “tutto è cosa” è una cosa o un “io”? Chi dice che tutto è oggetto è un soggetto (che è autocoscienza). L’uomo è capace di pensare, di scegliere, è autocosciente ed è aperto all’Infinito. Trascende la materia e va aldilà dell’orizzonte della finitezza. La vita è un cammino che dal tempo va all’eternità ed il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere. E’ questione di tempo, chiunque nasce è condannato a morte. Questa cosa va pensata fin da giovani per impostare bene la vita. Prima dei 35 anni (più o meno) si guarda avanti e si vedono orizzonti infiniti (diventerò…, farò…, chissà…), dopo si inizia a tirare il freno. Ti trovi con la vita davanti che si esaurisce come fa la clessidra. Gli anni si consumano e le persone diventano dei sopravvissuti perché han perso le motivazioni di vivere. Non sanno più perché vivono. Mantengono se stessi in vita. Quando, però, la vita è impostata come camino nel tempo verso l’eternità, ogni anno che passa una persona è sempre più realizzata, è sempre più vicina alla meta (il Cielo): raggiungere Dio è il fine della vita. Questa è un’occasione unica perché la si vive una sola volta e, in questo tempo che Dio ci ha dato (che può essere lungo o corto), decidiamo la nostra eternità. Se gli altri obiettivi che si hanno non si raggiungono (diventare Presidente della Repubblica, astronauta, manager, calciatore, ecc…) state tranquilli che non succede niente. Come dice Gesù: “che giova l’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?”. Potete essere bocciati a tutti gli esami ma non a questo!
Per decidersi alla santità bisogna essere motivati e ciò che motiva è che la vita passa. Tutti gli obiettivi materiali si dissolvono o, comunque, li devi lasciare perché la vita è breve. Devi scegliere quello che conta e conta solo Dio. E’ una cosa da assimilare per non farci prendere dalle false luci, ricordando la frase di Santa Teresa: tutto passa solo Dio basta.

Publié dans Anticristo, Fede, morale e teologia, Festa dei Santi e dei fedeli defunti | Pas de Commentaire »

1...45678
 

Neturei Karta - נ... |
eternelle jardin |
SOS: Ecoute, partage.... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Cehl Meeah
| le monde selon Darwicha
| La sainte Vierge Marie Livr...