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Una vita immensa anche in prigione

Posté par atempodiblog le 19 mars 2014

Una vita immensa anche in prigione dans Citazioni, frasi e pensieri 1ifsig

“Continuavo a sognare una città grande come Napoli, in cui vi fossero palazzi, rumore, frastuono, vita… Sì erano tante le cose che sognavo! Ma poi mi parve che si potesse trovare una vita immensa anche in prigione”.

Fëdor Dostoevskij – L’Idiota

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Fëdor, il Papa e la verità nel volto di un bambino

Posté par atempodiblog le 28 décembre 2013

Fëdor, il Papa e la verità nel volto di un bambino
di Alessandro D’Avenia – Avvenire
Tratto da: Una casa sulla Roccia

Fëdor, il Papa e la verità nel volto di un bambino dans Fedor Michajlovic Dostoevskij mt8oiq

Sulla sofferenza dei bambini Papa Francesco cita Dostoevskij come «un maestro di vita» e spiega che «l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché». «Signore, perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo». Alla domanda sulla sofferenza dei bambini: «Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si “sveglia”, non capisce molte cose, si sente minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l’età dei “perché”. Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi “perché?”. Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore, perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».

Il Papa cita Fëdor Dostoevskij come maestro di vita, e non è la prima volta. Un autore di romanzi è considerato a tutti gli effetti qualcuno che può “in-segnare la vita”, perché la bellezza riconcilia la verità con la vita. La verità astratta, senza carne, solleva sensi di colpa o noia. Invece, quando la verità mantiene la sua dimensione carnale, seduce, perché si veste di bellezza incompiuta, che l’uomo riconosce proprio perché incompiuta, e proprio perché bellezza. In questi casi la vita, orfana e rintanata in un cantuccio, prende coraggio, esce fuori e va incontro alla verità fatta consimile. Ci capita leggendo un romanzo di dire: mi ha capito, mi ha salvato, è arrivato al momento giusto. La letteratura a volte, con la sua grazia, affianca l’impresa formidabile della Grazia. Ci riesce Dostoevskij. Nel citarlo il Papa evoca le brucianti pagine in cui Ivan Karamazov, nella sofferenza degli innocenti, scorge un segno dell’assenza di Dio e se ne serve per la sua ribellione. Quella del freddissimo Ivan verso il dolore innocente non è però com-passione ma denuncia, scusa, teoria progettata da un cuore incapace di amare con i fatti e bisognoso quindi di auto-giustificazione. Egli s’aggrappa a quel dolore non per alleviarlo, ma per usarlo. Prende le distanze da quel dolore per mettere a tacere la sua coscienza e Dio, ergendosi a giudice di un mondo e di un Dio sbagliati. Ivan non muove un dito, non si china sul dolore, ma lo lascia lì, per servirsene come atto di accusa e come certificato medico per il suo cuore gelido. Per Ivan il dolore innocente è la frontiera sbarrata a un Dio che non risponde ai perché dell’uomo, la frontiera che segna il confine della terra dell’uomo in cui Dio non può entrare perché non ha i documenti in regola e viene rimandato indietro. Su quella stessa frontiera lo lascia entrare il Papa che incontra proprio lì lo sguardo di Dio, un Dio con la carta d’identità in regola, e tanto di fotografia: Cristo. Anche Dostoevskij smaschera la “colpa originale” di Dio e la rinvia alla libertà dell’uomo. Nelle pagine dello stesso romanzo il monaco Zosima ricorda il fratello Markel, morto giovane. Anche lui, come Ivan, lontano da Dio. Markel però, grazie al suo male, ha una conversione profonda fino a dire «in verità ognuno è colpevole dinanzi a tutti, per tutti e per tutto. Io non so come spiegarlo, ma sento fino allo spasimo che è così». Proprio questa consapevolezza gli ha dato la gioia del Paradiso, perché gli ha aperto occhi e cuore all’Amore. Egli si fa carico del dolore innocente come colpevole: veste così i panni del Dio che nella notte di Natale veste quelli dell’uomo. Sembrano parole provenienti da un mondo altro quelle di Markel, ma sono le parole che usano i santi definendo la propria essenza incapace di amare e benedire. Prima ancora di riferirsi ai peccati effettivamente commessi, essi dicono “sono un peccatore”. E lo dicono proprio perché la santità di Dio li ha toccati.

Sono due le possibilità che Dostoevskij prospetta di fronte al male, all’ingiustizia, al dolore: Ivan, l’uomo che resta uomo, o Markel, l’uomo che è trasformato in un altro Cristo. O si maledice un mondo siffatto, nel quale siamo convocati senza consenso, trincerandosi dietro un legittimo atto di accusa al mondo e a chi l’ha fatto, allontanandocene, accusando la storia fino a disprezzarla: si diventa freddi, rigidi, effettivamente “cattivi”; oppure si benedice il mondo e si assume su di sé la colpa, rimanendo nel dinamismo della storia, accettando il male che ogni giorno riserva (la morte si sconta vivendo), lasciando che la pena ferisca la carne e a contatto con essa, in Cristo, venga superata chinandosi e abbracciando: si diviene più aperti ed effettivamente buoni, di una bontà che non è nostra. Maledire gli altri e il mondo ci porta a maledire Dio e in ultima istanza noi stessi. Ivan. Benedire gli altri e il mondo invece è essere dentro lo sguardo che Dio ha sulle cose e le persone, è essere liberi dal giudizio, e noi saremo giudicati come abbiamo giudicato, salderemo il debito che abbiamo imputato ai nostri debitori. Markel.

Cristo è la via. Non giudica la storia, la prende su di sé con tutto il suo male e chiede di unirsi a lui, per aggiungere liberamente ciò che “manca” alla sua com-passione per l’uomo. Da lì nasce la tenerezza di cui parla il Papa, che altrimenti rischia di esser scambiata per inconcludente emozione verso chi soffre. Tenerezza è affermare la bellezza di ogni persona voluta da Dio (marito, moglie, amico, parente, cliente, passante, estraneo…) anche se ne abbiamo perso le ragioni. Proprio questa è la conversione di Markel a cui Ivan non approda, proprio questo dono è venuto a farci Dio: la trasformazione della nostra incapacità di vedere bene il mondo e il bene nel mondo. Tenero è un Dio che non risponde al nostro perché sul male con un discorso, una teoria, che non ci darebbe soddisfazione se non per poco, perché il male resterebbe lì, ma ci soddisfa col suo sguardo, col suo volto di bambino, con una manina tesa a stringere un pollice adulto. Nessuno si sente giudicato da un neonato, ma solo trasformato, vinto nelle sue resistenze, ammaestrato.

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In un libro che è sottomano…

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2013

 In un libro che è sottomano... dans Citazioni, frasi e pensieri leggere

“Capita a volte di campar anni e anni senza che uno si accorga che tutta quanta la sua vita, per filo e per segno, è descritta in un libro che è sottomano. E quel che prima non sospettava nemmeno dei fatti suoi, appena incomincia a leggere quel libro gli viene a poco a poco in mente, e vede, sbroglia, capisce”.

Fëdor Dostoevskij – Povera Gente

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L’isolamento del monaco

Posté par atempodiblog le 12 novembre 2013

L'isolamento del monaco dans Citazioni, frasi e pensieri zosina

Si rimprovera al monaco il suo isolamento: “Ti sei isolato fra le mura del monastero per far penitenza, ma hai dimenticato la causa della fratellanza fra gli uomini”. Ma vediamo dunque: chi si adopera di più per la fratellanza? Poiché non siamo noi a essere isolati, bensì loro, e non se ne avvedono. Fin dall’antichità vennero dalle nostre fila quelli che si adoperarono per il popolo: per quale motivo non dovrebbero esservi anche oggi? Questi stessi umili e pii digiunatori e osservatori del silenzio si leveranno e si appresteranno a compiere una grande impresa.

Fëdor Dostoevskij – I fratelli Karamàzov

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Dio giudice e Misericordioso

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

Dio giudice e Misericordioso dans Alessandro Manzoni cfbw

Si parlava della celebre frase di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. La pensava così anche il suo contemporaneo Alessandro Manzoni.

Nei “Promessi sposi”, infatti, uno dei personaggi più riusciti è utilizzato dal Manzoni proprio per rendere visibile questo concetto. Parlo dell’Innominato. Quest’uomo malvagio, indurito, ma non per sempre, dai suoi crimini, viene infatti introdotto dal poeta attraverso il paesaggio che lo circonda. L’Innominato infatti abitava “a cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione, apparentemente geografica, dice già tutto quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un giudizio su di sé, in nome della sua completa autonomia.

All’Innominato avviene dunque come ad un personaggio di  Dostoevskij, Sigalev: “Sono partito dalla libertà illimitata e finisco nel dispotismo assoluto”. Non vendendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili.

Diciamolo subito. Si può finire male anche credendo in Dio. Don Abbondio ne è un esempio, così come lo è un personaggio di Chesterton che è solito passeggiare nella parte sopraelevata della sua chiesa, essendo un pastore. Di lì osserva, dall’alto al basso, tutti gli altri. Sino al punto di ritenere che la sua “bontà” gli permetta di ergersi a giudice di un suo fratello, ubriacone e peccatore; sino al punto di fulminarlo, dall’alto, lasciandogli cadere un martello in testa. 

Perché chi crede in Dio può benissimo farne una sorta di soprammobile, come fa don Abbondio, oppure può essere tentato di sentirsi buono e giusto (lui), in un mondo di peccatori (gli altri). La superbia, male per eccellenza, è dunque sempre in agguato. Per questo Dostoevskij fa dire a padre Zosima, ne “I fratelli Karamazov”: “Amate l’uomo anche con il suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è il culmine dell’amore sopra la terra”. Non facile, certo.

Ma torniamo al nostro Innominato. Manzoni ne descrive in modo esemplare la conversione. Dice infatti che all’epoca del rapimento di Lucia da lui ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore” , “una non so qual rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può credere dio, sino ad un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è forti, finché si ha successo, finché si calca la scena tra gli applausi del mondo.

Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia ad intravedere la morte, e sentirsi ancora dio si fa difficile. Come Dorian Gray: si può mettere la coscienza del peccato in soffitta per tanto tempo, ma poi ad un certo punto diventa insopprimibile la domanda: e poi?

L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione, che tacita il rimorso e la paura, ma si trova “ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa quello che ho fatto? Cos’importa?”.

Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia: e l’Innominato, che lo sa, se lo chiede: “io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste?

Manzoni descrive sapientemente questi dilemmi, e decide di descrivere l’Innominato sul punto di suicidarsi, in preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse, ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo.  E’ stato il demonio a suggerirti il suicidio, dirà infatti Federigo Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.

E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio Giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio Misericordioso. Pronto a perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento.  Poi, dopo le parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo abbraccia e rende presente quel perdono. La Fede si diffonde per contagio.  Contagiano coloro che vivono un Dio giusto e misericordioso. Contagiano talora anche coloro che per una vita si sono seduti sul trono di Dio.

Francesco Agnoli – Il Foglio

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La Napoli di Dostoevskij

Posté par atempodiblog le 20 juillet 2013

La Napoli di Dostoevskij
Lo scrittore russo rese omaggio ne “L’idiota” alla città partenopea, in cui soggiornò un paio di volte e che paragonò alla Nuova Gerusalemme. Lo ricorda la studiosa Tat’jana Kasatkina
di Nicola Sellitti – Russia Oggi

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Dostoevskij e Napoli. Un legame intenso, con pochi riferimenti nella storiografia del grande scrittore russo. Un amore per la capitale del Mezzogiorno descritto ne “L’idiota”, realizzato a Firenze nel 1868, in uno dei suoi due viaggi in Italia.

Tatiana Kasatkina, direttrice del Dipartimento di Teoria della Letteratura all’Università pedagogica di Mosca e della commissione di studio su Dostoevskij all’Accademia russa delle Scienze, racconta dell’esperienza napoletana e italiana dell’autore di numerosi capolavori della letteratura ottocentesca, a margine della conferenza “Lo sguardo di Dostoevskij sul mondo e sull’uomo”. Un evento organizzato a Napoli dal Centro Culturale Neapolis su alcuni temi tratti dal libro scritto nel 2012 dalla studiosa “Dal Paradiso all’Inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij” (edizioni Itaca, a cura di Elena Mazzola). Il rapporto tra Cristo e verità, la religione, la libertà. L’uomo che determina l’ambiente che lo circonda, non l’opposto. E il mondo che sarà salvato dalla bellezza.

Professoressa Kasatkina, la storiografia ha lasciato poche tracce sulla presenza del grande scrittore a Napoli.
Dostoevskij arrivò a Napoli con la giovane moglie, Anna Gregorievna Snitkina, sua stenografa e compagna fedele di peregrinazioni. È vero, non ci sono molte notizie sul suo soggiorno napoletano. Ma parla della città ne “L’idiota”. E delineava Napoli come l’immagine della nuova città, della nuova Gerusalemme. Un posto dove l’eroe vuole andare oltre l’orizzonte. Per lui, Napoli era un luogo “dove la Terra respirava il mistero”. Non un luogo legato agli aspetti della quotidianità. Napoli, soprattutto, predisponeva naturalmente alla bellezza.

Crede che il carattere di Dostoevskij fosse compatibile con Napoli, con la visione della vita che hanno i partenopei?
Lo scrittore arrivò in Italia (ci è stato in due occasioni) in un momento particolare della sua vita, non stava bene di salute, la figlia era morta qualche tempo prima, ripensava alle difficoltà dovute alla censura in Russia sulla rivista fondata con il fratello, Vremya – Il Tempo -, e in più, aveva perso molti soldi alla roulette russa a Givevra, in Svizzera. Di sicuro l’approccio alla vita dei napoletani, ottimista e gioioso, gli venne parecchio in aiuto. Senza contare che a Napoli incontrò Herzen, filosofo e intellettuale russo, un mito dell’Ottocento, nobile schierato contro l’autoritarismo e a favore della causa contadina. Non ci sono però notizie sull’esito del loro rapporto napoletano.

In generale, vede punti di contatto tra il carattere, il modo di vivere dei suoi connazionali e dei napoletani?
Certo, vedo molti elementi in comune tra russi e napoletani. Soprattutto, la profondità, la passionalità e un pizzico di follia.

L’Italia è solo una delle tappe europee nel percorso di Dostoevskij. Che considerazione aveva della realtà politica e culturale del Vecchio Continente?
Dostoevskij aveva un’ottima considerazione dell’Europa e soprattutto della cultura europea, elemento determinante nella formazione culturale dei russi. “Per diventare russo si deve possedere la ricchezza europea”, era solito dire più volte. Dell’Europa odiava il fango della quotidianità, così come in Russia. Dostoevskij era anche fortemente convinto dell’amore che i suoi connazionali nutrivano per l’Europa.

Dostoevskij ha scritto L’idiota” a Firenze. Quanto fu influenzato dalla realtà religiosa, politica e sociale italiana?
Più che dalla situazione politica, Dostoevskij fu fortemente ispirato dai messaggi che lanciava la pittura italiana. A Firenze si stava compiendo un passaggio epocale: gli artisti raffiguravano nelle loro opere il messaggio di Gesù Cristo, invitando gli spettatori a cogliere quel messaggio e a metterlo in pratica nella vita quotidiana. E Dostoevskij ne fu affascinato e fece lo stesso nel suo capolavoro.

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Decidere sempre per l’umiltà e per l’amore

Posté par atempodiblog le 5 février 2013

Decidere sempre per l'umiltà e per l'amore dans Citazioni, frasi e pensieri cuoresabbiamare

Certe volte ti sentirai perplesso, specialmente vedendo i peccati degli  uomini e ti chiederai:

Devo ricorrere alla forza oppure all’umiltà e all’amore?”.

Decidi sempre per l’umiltà e per l’amore.

Se prenderai questa decisione una volta per sempre, potrai soggiogare anche tutto il mondo. L’umiltà e l’amore uniti insieme sono una forza formidabile, la più grande forza che ci sia, non ce n’ è un’altra uguale. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto osserva te stesso, sorvegliati, bada che la tua figura sia bella.

Ecco, sei passato accanto ad un bambino, ed eri irritato, pieno di collera, hai detto una brutta parola; tu magari non l’hai neppure notato, quel bambino, ma lui ti ha visto bene e forse la tua figura brutta e cattiva è rimasta impressa nel suo cuoricino indifeso.

Tu non lo sai neppure, ma forse ha già gettato in lui un seme maligno, che probabilmente germoglierà, e tutto perché non sei stato attento, perché non hai coltivato in te l’amore vigile, l’amore attivo.

Fëdor Dostoevskij – I fratelli Karamazov

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Tutto è bello

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2012

Tutto è bello dans Citazioni, frasi e pensieri autunno

-Avete mai visto una foglia d’albero?
-Sì.
-Ne ho vista poco fa una gialla, un po’ verde, un po’ marcita ai bordi. La portava il vento. Quando avevo dieci anni, d’inverno chiudevo gli occhi apposta e m’immaginavo una foglia verde, d’un bel verde acceso, con le venature; e il sole che brillava. Aprivo gli occhi e non ci credevo, perché era tanto bello; poi li richiudevo.
-Che cosa sarebbe? Un’allegoria?
-N…no… perché? Non è un’allegoria, ma semplicemente una foglia, soltato una foglia. La foglia è bella. Tutto è bello.
-Tutto?
-Tutto. L’uomo è infelice perché non sa che è felice; solo per questo. E’ tutto lì, tutto! Chi lo scopre diventa felice, subito, sul momento! […]

Fëdor Dostoevskij – I Demoni

Tratto da: In ogni atomo

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Il segreto dell’esistenza umana

Posté par atempodiblog le 11 octobre 2012

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“Il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive”.

Fëdor Dostoevskij

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Ignorare di essere belli

Posté par atempodiblog le 10 octobre 2012

Ignorare di essere belli dans Citazioni, frasi e pensieri mongolfieracuore

“Tutta la vostra infelicità consiste nell’ignorare di essere belli! Ognuno di voi potrebbe rendere felici tutti; e questo potere è concesso a tutti, soltanto che è sepolto così profondamente dentro di voi stessi che non ci credete neppure più”.

Fëdor Dostoevskij

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Riflessioni sul tema del perdono

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2012

“Riflessioni sul tema del perdono”
intervento di Sua Eminenza il Cardinale Carlo Caffarra all’incontro con padre Aldo Trento “L’ultima parola non è il peccato. È la misericordia!”
Bologna, Aula Magna Santa Lucia, 16 novembre 2010
Tratto da: caffarra.it

Riflessioni sul tema del perdono  dans Alessandro Manzoni

1. Mi è difficile prendere la parola di fronte ad un testimone che ricostruisce quotidianamente con l’abbraccio del perdono umanità devastate. La mia parola, nella sua povertà, servirà solo a mettere in luce la testimonianza seguente.
L’uomo oggi – intendo l’uomo occidentale – sta male, anche se cerca di vivere gaiamente il suo malessere, perché si è interdetto l’esperienza del perdono da parte di Dio, e quindi l’esperienza della sua misericordia. L’uomo non può vivere una buona vita senza questa esperienza.
Egli è capace di agire male, ma è incapace di liberarsi dal male compiuto. Non dico di porre rimedio alle conseguenze che la sua azione ha causato in sé e su gli altri. C’è un testo manzoniano che ci aiuta a capire questo paradosso dell’uomo che può agire male e non può liberarsi dal male compiuto.
È la famosa notte dell’Innominato, nel momento in cui egli passa in rassegna tutte le sue scelleratezze. Erano tutte sue; erano lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione [Promessi Sposi, cap. XXI]. Ed anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora, non potrai esserlo più [VIII, 3].
Colle proprie scelte ciascuno di noi genera se stesso, e diventa genitore di se stesso: sei quello che decidi di essere. Gli atti di ingiustizia non erano solo atti di cui l’Innominato era responsabile: erano lui. Esiste una misteriosa ma reale progressiva identificazione del nostro io colle scelte della nostra libertà. Se penso ad un triangolo, non divento un triangolo. Se compio un furto, divento un ladro.
Posso certo e devo restituire ciò di cui mi sono indebitamente impossessato, ma ciò non toglie il mio essere stato ciò che sono stato. Esiste come un’identificazione della persona coi suoi atti: attaccata a tutti, come dice Manzoni.

2. La soluzione, la via di uscita sarebbe quella di un ricominciare da capo, come una sorta di rinascita e di rigenerazione. Ma come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere? [Gv 3,4].
Ma poiché l’uomo non può compiere questo miracolo, ha elaborato ed inventato altre vie palliative di liberazione dal male. Sono stati inventati vari surrogati dell’unico atto che potrebbe rigenerare l’uomo: il perdono di Dio. Non li enumero tutti. Mi limito a qualche riflessione sul tentativo più tragico, più disperato che l’uomo abbia mai compiuto di vivere senza il perdono di Dio: la negazione del male morale.
È un tentativo che è andato di pari passo con la negazione [dell’esistenza] di Dio. Intendo dire di un Dio coinvolto nel destino della persona umana.
Ciò non è avvenuto per caso. La negazione di Dio non ha coinciso casualmente con la negazione del male morale. I due, esistenza del male morale nell’uomo ed esistenza di Dio, stanno o cadono insieme.
Nessuno come Dostoevskij ci ha fatto riflettere su questo, soprattutto in due grandiosi romanzi, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov. Se Dio non esiste tutto è permesso: il frutto della negazione di Dio per il vero ateo è la liberazione da ogni legge morale. Ma cosa accade in uomini come Raskolnikov o come Ivan Karamazov? Vengono distrutti, alla fine, dal delitto che hanno compiuto. Elimina Dio dalla vita e la voce della coscienza si farà sempre meno imperiosa. Non sono certo la società e lo Stato ad impegnare la coscienza dell’uomo, a legare la sua libertà. È il cuore del dramma dell’uomo di oggi.
Ma c’è qualcosa nell’uomo che ha peccato che gli impedisce alla fine di accontentarsi dei vari surrogati al perdono di Dio. È il trovarsi con se stesso, con un se stesso divorato dalla potenza distruttiva del rimorso. Il castigo che segue al peccato – come hanno ben visto Manzoni e Dostoevskij – precede la condanna di ogni tribunale ed è più terribile di ogni condanna. È questo castigo la prova di Dio. Il peccatore può non riconoscere Dio nel suo castigo, ma se l’uomo non può impunemente offendere la legge, senza che il delitto ricada su di lui, la distruzione psicologica che segue al delitto afferma ugualmente la divinità della legge [D. Barsotti, Dostoevskij. La passione per Cristo, Edizioni Messaggero, Padova 1996, 182].
Ma forse oggi si è già imboccata un’altra strada. Si cerca di spiegare l’emergere del nostro essere coscienti di noi stessi, in prima persona, e quindi l’emergere della nostra libertà da una realtà di tipo neurobiologico, come si spiega un effetto con la sua causa.
Il mistero della coscienza verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza [J. Searle, Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998, 166].

3. L’evento cristiano è la possibilità offerta all’uomo di essere rigenerato mediante il perdono di Dio: di nascere di nuovo e di cominciare di nuovo. Il cristianesimo è la possibilità di dire in qualunque circostanza: ora ricomincio da capo, perché è il perdono di Dio sempre offerto all’uomo, ad ogni uomo.
Dire Dio perdona non significa: Dio decide di non tenere in conto le scelte della tua libertà, con una sorta di dissimulazione. Egli prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate di ogni uomo è la Croce di Cristo.
Ma nello stesso tempo il perdono di Dio consiste nell’azione di Dio che trasforma la nostra libertà e rinnova alla radice il nostro io. Questo atto è più divino, è più grande dello stesso atto della creazione. All’accusa degli uomini, al loro peccato, Dio risponde col suo perdono. Esiste un limite contro
il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio.
Ancora Dostoevskij ha espresso mirabilmente la forza rigeneratrice del perdono di Dio, nel discorso di un ubriaco, incapace di liberarsi dal vizio del
bere che ha portato la sua famiglia nella miseria più nera: nel discorso di Marmeladov, il padre di Sonia, in Delitto e castigo. Marmeladov chiede
pietà.
«Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che tutto e tutti comprese, avrà pietà di noi, egli è il solo giudice, egli verrà nell’ultimo giorno … Tutti
saranno giudicati da lui ed egli perdonerà a tutti: ai buoni e ai tristi, ai santi e ai mansueti … E quando avrà pensato agli altri, allora verrà il nostro
turno: Avvicinatevi anche voi, ci dirà, avvicinateci, voi beoni, avvicinatevi, voi disperati. E ci avvicineremo tutti senza timore…
E i saggi e i benpensanti diranno: Signore, perché accogli costoro?. Io li accolgo … Perché nessuno di loro si è creduto degno di questo favore. E ci
tenderà le braccia e noi ci precipiteremo e scoppieremo in singhiozzi e comprenderemo tutto … E capiremo tutto … Signore venga il tuo Regno”».
La pagina, a mio giudizio fra le più alte della letteratura cristiana di ogni tempo, sembra la filigrana della pagina evangelica che narra il pianto della
prostituta perdonata che ha solo il coraggio di baciare i piedi del Signore. E chi vide quell’incontro non poté non accusare Cristo di comportarsi come fosse Dio. È nella sua misericordia che Egli rivela la sua divinità.

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Kasatkina: la grande “lezione” dell’Inquisitore ai cristiani

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2012

DOSTOEVSKIJ/ Kasatkina: la grande “lezione” dell’Inquisitore ai cristiani
Tratto da: ilsussidiario.net

Kasatkina: la grande “lezione” dell’Inquisitore ai cristiani dans Anticristo

martedì 24 gennaio 2012
Tat’jana Kasatkina, studiosa di letteratura russa, tra i maggiori esperti al mondo di Fëdor Dostoevskij, ha concluso domenica un ciclo di conferenze che l’ha portata in varie città italiane. A Firenze ha accettato di parlare con Ilsussidario.net della «Leggenda del grande Inquisitore», capitolo-capolavoro del romanzo che Dostoevskij riuscì a concludere poco prima della morte, I fratelli Karamazov. Kasatkina ha appena concluso la conferenza che l’ha vista instaurare un dialogo, improvvisato e coinvolgente, con Gustavo Zagrebelsky proprio sulla Leggenda come «enigma della libertà».

Tat’jana Kasatkina, come ha «scoperto» Dostoevskij?
Noi russi siamo cresciuti in un mondo senza Dio, e l’orrore della realtà ridotta unicamente alla sua dimensione materiale forse non per gli adulti, ma per i bambini è certamente insopportabile. Per me è stato come vivere in una situazione di dissonanza cognitiva, perché ho sempre saputo che dietro l’apparenza c’era qualcosa di «altro», ma intorno a me tutti congiuravano a tacerlo. Quando, per la prima volta, a undici anni, ho letto Dostoevskij, ho capito che quell’uomo parlava di ciò che cercavo da tanto tempo – del fatto che ogni cosa è soltanto l’inizio, una introduzione a qualcosa di eterno. Da quel momento l’ho amato per tutta la vita.

Dove passa la via di Dostoevskij alla scoperta dell’uomo, e che posto ha il male in questa scoperta?
Dostoevskij scopre l’uomo penetrando quel male che egli definisce come «fango sovrapposto». Questo è molto singolare, perché di solito gli scrittori, quando parlano dell’uomo, o si fermano alla superficie di questo fango, o cercano di ignorarlo. Invece, nell’uomo che a prima vista noi rifiuteremmo, Dostoevskij ci mostra Cristo, il volto più bello che ci può essere in un uomo.

Nella «Leggenda» di Ivan Karamazov il bene, di cui l’inquisitore si fa garante e custode, è puro oggetto di potere. Il suo disegno vince o è scardinato?
Se l’inquisitore semplicemente si sbagliasse? Se questa domanda non si ponesse, la «Leggenda» non sarebbe un testo che tutti continuano a leggere e rileggere. Sarebbe troppo semplificativo dire che il grande inquisitore ha solo torto quando descrive la situazione dell’uomo nel mondo. Noi stessi sappiamo come vorremmo rinunciare alla nostra libertà, come vorremmo rinunciare a questa continua responsabilità di dover sempre decidere, come vorremmo avere a nostra disposizione un insieme di regole, consegnandoci alle quali esser certi di stare nel giusto. Per questo dobbiamo ringraziarlo…

Ringraziare l’inquisitore?
Egli difende una tentazione che esiste da sempre, quella di consegnarci alle regole e di rivendicarne la validità per tutti. Chi le rispetta fa la cosa giusta ed è buono, chi non le rispetta è cattivo. Per lottare contro i cattivi che non mettono in pratica le regole, abbiamo tentato di creare paradisi umani che sono diventati degli inferni. Il grande inquisitore ci mostra con rigorosa coerenza non solo tutti i punti deboli della natura umana, ma anche dove porta la strada della nostra tentazione. Per questo dobbiamo «ringraziarlo». In fondo a questa via, l’uomo può trovare soltanto il nulla. Invece l’unica legge del cristiano, dice Dostoevskij, è quella di imitare Cristo.

Gustavo Zagrebelsky nella sua analisi ha notato che queste due figure, Cristo e il grande inquisitore, sono specularmente contrarie. Sono «fratelli e al tempo stesso nemici mortali».
È vero. Il professore ha anche ragione nell’affermare che il grande inquisitore è un seduttore. Aggiungerei: è essenzialmente un seduttore. Cristo è lo sposo della Chiesa dell’umanità, l’inquisitore è il loro «don Giovanni». Essi sono uno più vicino all’altro di due fratelli carnali, proprio perché pretendono l’amore della stessa donna. Io riuscirò a fare quello che tu non sei riuscito a fare – Gli dice l’inquisitore, insistendo sul fatto che l’umanità, la sposa, Lo ha ripudiato.

Gesù non dice parola, ma alla fine bacia il vecchio. Qual è la sua lettura di questo artificio finale di Dostoevskij?
Qui si commette sempre un errore fondamentale. Perché Cristo non tace: al contrario, dice due sole parole, importantissime: talità kumi, «fanciulla, alzati». Le si può capire solo in relazione all’inizio di questo straordinario capitolo, che ha un andamento circolare. All’inizio della «Leggenda» Ivan racconta della madre di Gesù, che si getta in ginocchio davanti a Dio implorandolo di perdonare tutti i peccatori senza eccezione. Quando Dio le mostra i piedi e le mani trafitti del Figlio, chiedendole: Come faccio a perdonare i suoi carnefici?, lei ordina a tutti i santi e gli arcangeli di mettersi in ginocchio con lei e di pregare per tutti. È questo il vero inizio della Leggenda, che finisce col bacio di Cristo. Le due parti parlano della stessa cosa: del fatto che Cristo non ha nemici. Cristo torna sulla Terra per cercare l’umanità come figlia e come sposa. Perciò, quando dice «fanciulla, alzati» non lo sta dicendo solo alla ragazza che giace davanti a lui, ma a tutta l’umanità e a tutta la Chiesa.

Compreso l’inquisitore?
Sì, perché egli non è solo un avversario, ma anche un membro del corpo di Cristo che è la Chiesa. Anche lui «è» questa fanciulla che Cristo e venuto a risvegliare. Per questo, alla fine, lo bacia. Il grande inquisitore lotta contro Cristo, ma Cristo non lotta contro il grande inquisitore; il bacio vuol dire che Cristo è venuto per adottare i propri nemici, per diventare loro fratello. Noi possiamo essere nemici di Cristo, ma egli non può essere nostro nemico. Si può aggiungere: i veri cristiani non hanno nemici; possono combattere solo per qualcosa, mai contro.

Che cosa rappresenta per lei questo testo?
Ha chiarito definitivamente in me una domanda che avevo sul senso della salvezza. Sappiamo che si salverà chi percorrerà la «via stretta», non la «via larga». Ma le spiegazioni che ho sentito per queste espressioni non mi hanno mai soddisfatto, fino a che non ho trovato la risposta nella «Leggenda». Ognuno deve andare a Cristo seguendo la strada che è fatta solo per lui. La via larga mi pare quella delle regole comuni, mentre la via stretta è quella che appartiene solo a me come singolo. Nessuno può fare la mia strada, come io non posso fare quella di un altro.

Perché la «Leggenda del grande inquisitore» è sempre attuale?
Perché non siamo ancora compiutamente cristiani.

(Federico Ferraù)

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Far tornare alla luce la tenerezza e la delicatezza

Posté par atempodiblog le 11 août 2012

Far tornare alla luce la tenerezza e la delicatezza dans Citazioni, frasi e pensieri

“In qualsiasi momento, anche nell’ultimo istante, qualsiasi uomo può far tornare alla luce quella profonda tenerezza, quella delicatezza umana che è stata posta in lui da Dio stesso”.

Fëdor Dostoevskij

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“Signore, abbi pietà di tutti coloro che oggi sono comparsi dinanzi a te”.

Posté par atempodiblog le 1 août 2012

“Signore, abbi pietà di tutti coloro che oggi sono comparsi dinanzi a te”. dans Citazioni, frasi e pensieri

Rammenta [...] di ripetere dentro di te, ogni giorno, anzi ogni volta che puoi: “Signore, abbi pietà di tutti coloro che oggi sono comparsi dinanzi a te”. Poiché a ogni ora, a ogni istante migliaia di uomini abbandonano la loro vita in questa terra e le loro anime si presentano cospetto del Signore e quanti di loro lasciano la terra in solitudine, senza che lo si venga a sapere, perché nessuno li piange né sa neppure se abbiano mai vissuto. Ma ecco che forse, dall’estremo opposto della terra, si leva allora la tua preghiera al Signore per l’anima di questo morente benché tu non lo conosca affatto né lui abbia conosciuto te. Come si commuoverà la sua anima, quando comparirà timorosa dinanzi al Signore, nel sentire che in quell’istante che vi è qualcuno che prega anche per lei, che sulla terra è rimasto un essere umano che ama pure lei.
E lo sguardo di Dio sarà più benevolo verso entrambi, poiché se tu hai avuto tanta pietà di quell’uomo, quanta più ne avrà Lui, che ha infinitamente più  misericordia e più amore di te. …E gli perdonerà grazie a te.

Fëdor Dostoevskij

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Nessuna conoscenza e un’illimitata presunzione

Posté par atempodiblog le 8 juillet 2012

 Nessuna conoscenza e un'illimitata presunzione dans Citazioni, frasi e pensieri

Di recente ho letto una dichiarazione di un tedesco che vive in Russia, sui nostri studenti: “Mostrate” scrive “ad uno scolaro russo la carta del cielo stellato, del quale, fino a quel momento, egli non aveva la minima idea, ed egli l’indomani ve la restituirà corretta”. Nessuna conoscenza e un’illimitata presunzione: ecco quel che voleva dire il tedesco dello studente russo.

Fëdor Dostoevskij

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