Quando si dimentica che Cristo è la chiave di tutto…

Posté par atempodiblog le 17 novembre 2013

Quando si dimentica che Cristo è la chiave di tutto... dans Citazioni, frasi e pensieri don_Giussani

“Quando si dimentica che Cristo è la chiave di tutto, il cristianesimo diventa zero (…). La mentalità mondana si inserisce in noi per la paura nostra di essere in minoranza, di non essere considerati al passo”.

Don Luigi Giussani

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Il diritto (e il dovere) del Logos. “La fede è una festa della ragione”. L’errore di quelli che attaccano il Papa e l’errore di ‘Avvenire’ nella risposta

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2013

Il diritto al Logos
Da un cattolico la cui fede è “festa della ragione” prima che dei sentimenti. Il giornale dei vescovi ha sbagliato nella polemica con i tradizionalisti

Il diritto (e il dovere) del Logos. “La fede è una festa della ragione”. L'errore di quelli che attaccano il Papa e l'errore di 'Avvenire' nella risposta dans Alessandro Gnocchi ncwaAl direttore - Mi spiace per Gnocchi e Palmaro, ma un cattolico non può irridere il Papa o accusarlo di eresia con la leggerezza di un articoletto di giornale. Certo, la chiesa non è una caserma e – nella libertà dei figli di Dio – si può dire tutto, ma con rispetto e responsabilità. Magari anche con dolore. Si può e si deve brindare prima alla propria coscienza e poi al Papa, come insegnava il cardinale Newman. Ma trasformando la propria “Opinione” nel magistero supremo si rischia di mettersi da soli fuori dalla chiesa (non solo fuori da Radio Maria).

Quanto all’ormai famosa omelia di Francesco del 17 ottobre, contro il cristiano che trasforma la fede in ideologia, penso si tratti anzitutto di una messa in guardia da una certa mentalità lefebvriana, la quale sostituisce il Vangelo con il Denzinger (“Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum”, pubblicato nel 1854, ndr). E ritengo sia un richiamo prezioso. Perché la salvezza è una persona: Gesù Cristo. Non una formula. Ma ciò non significa affatto che il Papa insegni una fede che fa a meno dell’ortodossia. Lo dimostra il suo magistero. Dunque non si può liquidare spensieratamente il tema della dottrina come sembra fare l’editoriale di Avvenire di venerdì scorso.

In quell’articolo, Stefania Falasca, presentata come esegeta del Papa, con un’impropria citazione di De Lubac squalifica come “specialisti del Logos” coloro che si richiamano all’ortodossia dottrinale (che comprende la morale), contrapponendo a essi una generica “tenerezza”, come se Gesù Cristo, che è la misericordia fatta carne, non avesse affermato la sua pretesa divina davanti al mondo: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Il documento di ieri sui divorziati risposati del prefetto della Dottrina della fede Müller (chiaramente voluto dal Papa) è esemplare su questo. E mette in guardia da “un falso richiamo alla misericordia”, dimostrando che la contrapposizione di “tenerezza” e dottrina, fatta da Avvenire, non corrisponde al magistero di Francesco. Né al magistero costante della chiesa e dei papi. Infatti lei, direttore, aveva giustamente risposto ad Avvenire che “uno specialista universalmente riconosciuto del Logos abita orante le emerite stanze del Vaticano” (è Joseph Ratzinger).

Il Papa del Concilio Vaticano II, Paolo VI (che è anche il papa dell’Humanae vitae) nel discorso del 19 gennaio 1972, mettendo in guardia da “errori che hanno circolato e tuttora affiorano nella cultura del nostro tempo, e che potrebbero rovinare totalmente la nostra concezione cristiana della vita e della storia”, spiegava: “Il modernismo rappresentò l’espressione caratteristica di questi errori, e sotto altri nomi è ancora d’attualità. Noi possiamo allora comprendere perché la chiesa cattolica, ieri e oggi, dia tanta importanza alla rigorosa conservazione della Rivelazione autentica, e la consideri come tesoro inviolabile, e abbia una coscienza così severa del suo fondamentale dovere di difendere e di trasmettere in termini inequivocabili la dottrina della fede; l’ortodossia è la sua prima preoccupazione; il magistero pastorale la sua funzione primaria e provvidenziale; l’insegnamento apostolico fissa infatti i canoni della sua predicazione; e la consegna dell’Apostolo Paolo: Depositum custodi (1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14) costituisce per essa un tale impegno, che sarebbe tradimento violare. La chiesa maestra non inventa la sua dottrina; ella è teste, è custode, è interprete, è tramite; e, per quanto riguarda le verità proprie del messaggio cristiano, essa si può dire conservatrice, intransigente; e a chi la sollecita di rendere più facile, più relativa ai gusti della mutevole mentalità dei tempi la sua fede, risponde con gli Apostoli: Non possumus, non possiamo (Act. 4, 20)”. Già prima, in un discorso del 20 maggio 1970, aveva mostrato che la drammatica crisi della fede era provocata non solo da cattiva teologia, ma da cattiva filosofia, cioè da un relativismo che distrugge la razionalità: “Oggi la verità è in crisi. Alla verità oggettiva, che ci dà il possesso conoscitivo della realtà, si sostituisce quella soggettiva: l’esperienza, la coscienza, la libera opinione personale, quando non sia la critica della nostra capacità di conoscere, di pensare validamente. La verità filosofica cede all’agnosticismo, allo scetticismo, allo ‘snobismo’ del dubbio sistematico e negativo. Si studia, si cerca per demolire, per non trovare. Si preferisce il vuoto. Ce ne avverte il Vangelo: ‘Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce’ (Io. 3, 19). E con la crisi della verità filosofica (oh! dov’è svanita la nostra sana razionalità, la nostra philosophia perennis?) la verità religiosa è crollata in molti animi, che non hanno più saputo sostenere le grandi e solari affermazioni della scienza di Dio, della teologia naturale, e tanto meno quelle della teologia della rivelazione; gli occhi si sono annebbiati, poi accecati; e si è osato scambiare la propria cecità con la morte di Dio”.

Paolo VI proseguiva: “Così la verità cristiana subisce oggi scosse e crisi paurose. Insofferenti dell’insegnamento del magistero, posto da Cristo a tutela e a logico sviluppo della sua dottrina, ch’è quella di Dio (Io. 7. 12; Luc. 10, 16; Marc. 16, 16), v’è chi cerca una fede facile vuotandola, la fede integra e vera, di quelle verità, che non sembrano accettabili dalla mentalità moderna, e scegliendo a proprio talento una qualche verità ritenuta ammissibile (selected faith); altri cerca una fede nuova, specialmente circa la chiesa, tentando di conformarla alle idee della sociologia moderna e della storia profana (ripetendo l’errore d’altri tempi, modellando la struttura canonica della chiesa secondo le istituzioni storiche vigenti); altri vorrebbero fidarsi d’una fede puramente naturalista e filantropica, d’una fede utile, anche se fondata su valori autentici della fede stessa, quelli della carità, erigendola a culto dell’uomo, e trascurandone il valore primo, l’amore e il culto di Dio; ed altri finalmente, con una certa diffidenza verso le esigenze dogmatiche della fede, col pretesto del pluralismo, che consente di studiare le inesauribili ricchezze delle verità divine e di esprimerle in diversità di linguaggio e di mentalità, vorrebbero legittimare espressioni ambigue ed incerte della fede, accontentarsi della sua ricerca per sottrarsi alla sua affermazione, domandare all’opinione dei fedeli che cosa vogliono credere, attribuendo loro un discutibile carisma di competenza e di esperienza, che mette la verità della fede a repentaglio degli arbitri più strani e più volubili. Tutto questo avviene quando non si presta l’ossequio al magistero della Chiesa, con cui il Signore ha voluto proteggere le verità della fede (Cfr. Hebr. 13, 7; 9, 17)”. Concludeva richiamando al coraggio della testimonianza: “Ma per noi che, per divina misericordia, possediamo questo scutum fidei, lo scudo della fede (Eph. 6, 16), cioè una verità difesa, sicura e capace di sostenere l’urto delle opinioni impetuose del mondo moderno (Cfr. Eph. 4, 14), una seconda questione si pone, quella del coraggio: dobbiamo avere, dicevamo, il coraggio della verità. (…) E aggiungeremo che questo coraggio della verità è domandato principalmente a chi della verità è maestro e vindice, esso riguarda anche tutti i cristiani, battezzati e cresimati; e non è un esercizio sportivo e piacevole, ma è una professione di fedeltà doverosa a Cristo e alla sua chiesa, ed è oggi servizio grande al mondo moderno, che forse, più che noi non supponiamo, attende da ciascuno di noi questa benefica e tonificante testimonianza”.

C’è un’ultima illuminante pagina di Paolo VI, dove faceva un amaro bilancio del Concilio, conclusosi da cinque anni, constatando che le attese erano state deluse. Scrisse: “Ecco che molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione. Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo, vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla Tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi”.

Condividendo questo giudizio storico di Paolo VI, due uomini del Concilio come Wojtyla e Ratzinger hanno improntato i loro pontificati al ritrovamento del vero Concilio, sulla linea della ininterrotta tradizione della Chiesa. E la rinascita cristiana che è iniziata dagli anni Settanta mostra che la fedeltà all’ortodossia è tutt’altro che chiusura. Chi ci è stato maestro nella fede – penso a don Giussani – non è stato un “paladino del picchetto” (per usare una formula della Falasca). Ma l’esatto contrario. Proprio perché radicato nell’ortodossia cattolica ha potuto insegnarci un’apertura totale a ciò che è umano, permettendo a migliaia di giovani post ’68 di scoprire e amare Cristo. Con una fede piena di ragioni che sa parlare al nostro tempo. Non a caso don Giussani è stato amico di altri maestri del Logos come Ratzinger, De Lubac e Balthasar, ai cui scritti ci siamo poi abbeverati.

C’è un piccolo episodio rivelatore nella monumentale biografia del Gius, appena pubblicata da Alberto Savorana. Giussani un giorno raccontò che aveva in una sua classe del liceo il figlio dello scultore Pio Manzù. Il giovanotto tornava a casa con pagine e pagine di appunti delle vertiginose lezioni del Gius, che faceva battere i loro cuori con le grandi domande dell’umano, da Pavese a Leopardi a Beethoven, che parlava di Gesù (l’unico ad aver detto: Io sono la risposta) a quei ragazzi alla ricerca del senso delle cose. Il suddetto figlio di Manzù era però amico di un altro prete il quale vedendo quegli appunti prese ad aizzarlo contro il Gius dicendogli: “Vedi quanto complica (questo Giussani)… invece la religione è semplice”. Egli sosteneva che “le ragioni complicano”. E “quanti direbbero così!”, commentava il Gius, che poi aggiungeva con forza: “Invece no, la ricerca delle ragioni non complica, ma illumina!”. Quel prete antagonista del Gius, che già allora ce l’aveva con i maestri del Logos, degradava il cristianesimo a banale sentimentalismo, incapace di rispondere alla sete di verità degli uomini. Giussani commentava: “E’ per quella impostazione che Cristo non è più autorità, ma un oggetto sentimentale e Dio è uno spauracchio e non un amico”. E per questo “la fede diventa arida e difficile, perché diventa un peso e un condizionamento invece che una strada su cui correre”. E qui Giussani se ne uscì con un’immagine bellissima: “La fede è una festa della ragione”. Ovvero, una festa del Logos. In perfetta consonanza con Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e tutto il magistero. Compreso Francesco.

Bergoglio del resto ha scoperto don Giussani negli anni Novanta e ha dichiarato di averlo sentito subito come una ventata di aria fresca. Perché quella tracciata da Giussani, come ebbe a dire Papa Wojtyla, è la strada.
Anche la storia della cristianità dimostra che sa aprirsi e sa andare verso le periferie esistenziali chi è davvero radicato nella fede ortodossa della chiesa. Per esempio uno come san Vincenzo de’ Paoli, il grande padre dei più poveri e delle “periferie”, diceva: “Ho temuto tutta la vita di veder nascere qualche eresia. Consideravo la devastazione che aveva fatto quella di Lutero e Calvino e quante persone di ogni condizione ne avevano succhiato il pernicioso veleno, volendo gustare le false dolcezze della loro pretesa riforma. Ho avuto sempre timore di vedermi circuito dagli errori di qualche nuova dottrina, prima di accorgermene. Sì, l’ho temuto per tutta la vita”. Oggi però c’è chi ha in mente un “nuovo cristianesimo” che – dopo duemila anni – accantona il Logos, il dogma e la dottrina.

Secondo il professore Pietro L. Di Giorni – redattore di Testimonianze – si tratta di “un fenomeno che coinvolge ormai anche il cattolicesimo, specie in America latina, ove si manifestano e prendono sempre più forza movimenti carismatici, comunitari, de-istituzionalizzati, con forme di culto mistico-emozionali, che non sopportano dogmi, apparati, liturgie ordinate, nel nome di un esplicito rifiuto di un cristianesimo europeo-occidentale eccessivamente snervato dal razionalismo post illuministico, e che sembrano ripetere, in modo quasi concorrenziale, il pentecostalismo carismatico americano che si avvia a divenire nuova religione globale proprio perché culturalmente sempre più neutra”.

Ecco. Con la polemica di Avvenire contro il Logos si rischia di sprofondare in queste paludi. Sarebbe l’ultimo atto di quella che Paolo VI chiamava “autodemolizione dall’interno” della chiesa. E della fede cristiana. Perché – come ha spiegato Ratzinger a Ratisbona – Dio “agisce mediante il Logos, che è insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, appunto, come ragione”. Quindi anche come dottrina della fede. Sconcerta che Avvenire pretenda di arruolare per quell’impresa anti Logos una grande mente cattolica come il padre Henri De Lubac, il quale, con Ratzinger, Giussani, Wojtyla, Balthasar, Guardini, dalla fede ha saputo trarre ricchezza di ragioni e cultura.

De Lubac, con la formula “specialisti del Logos” citata dalla Falasca, non fulminava affatto i cattolici su cui si scaglia l’editoriale di Avvenire, ma – al contrario – proprio certi intellettuali laici – nuovi gnostici – simili a quelli che oggi piacciono tanto nelle sacrestie progressiste del Cortile dei gentili. Ecco la citazione che si trova in “Meditazioni sulla chiesa” del gesuita francese (e ditemi voi se questo ritratto non ricorda i Cacciari, gli Scalfari e i Mancuso):  “Da quando esiste, la chiesa si è sempre attirata il disprezzo di una élite. Filosofi o spirituali, molti spiriti superiori, preoccupati d’una vita profonda, le rifiutano la loro adesione. Alcuni le sono apertamente ostili. Come Celso essi sono disgustati da ‘questa accozzaglia di gente semplice’. […] Molti altri, invece, tra questi saggi, sono convinti di rendere giustizia alla chiesa e protestano quando si sentono definire suoi avversari. Sarebbero disposti a proteggerla all’occorrenza! […] Ma conservano le distanze. Non sanno che farsene di una fede che li accomunerebbe a tutti i miserabili, di fronte ai quali si sentono senz’altro superiori per la loro cultura estetica per la loro capacità di ragionamento, o per la loro preoccupazione d’interiorità. Sono ‘aristocratici’ che non intendono affatto mescolarsi con il gregge. La chiesa, secondo loro, conduce gli uomini per vie troppo comuni. (…) La trattano con molta degnazione, si attribuiscono il potere di enucleare, senza il suo consenso, mediante una ‘trasposizione metafisica’, il senso profondo delle sue dottrine e dei suoi atti sacri”.

E ancora: “Al di sopra della sua fede essi mettono la loro intuizione… Si potrebbero chiamare degli ‘specialisti del Logos’, che però non hanno letto in san Paolo che il Logos ‘respinge ogni altezza che si levi contro la conoscenza di Dio’. Sono dei saggi, ma chi è che non vede realizzarsi dopo venti secoli la profezia: ‘Perderò la sapienza dei sapienti’? Sono dei ricchi che hanno ancora da sentire la voce della prima Beatitudine”. Qualcuno di loro – conclude De Lubac – si trasforma “in capo-scuola o capo-setta”. Pure in fondatore e direttore di giornali-partito.

Da padre De Lubac s’impara dunque a non fare concessioni a questi salotti gnostici. Che poi sono l’opposto delle “periferie” verso cui vuole portarci Papa Francesco con un grande slancio missionario. Un appello il suo da accogliere con tutto il cuore. Del resto il Papa è un figlio spirituale di sant’Ignazio e nessuno come Ignazio è stato un maestro del Logos e dell’ortodossia, paladino della retta dottrina, lui che arrivava a scrivere a san Pietro Canisio, il 13 agosto 1554: “Non si dovrebbe tollerare nessun curato, nessun confessore sospetto di eresia: e se li si riconosce colpevoli dovrebbero esser privati immediatamente di tutte le rendite ecclesiastiche. E’ meglio per un gregge essere senza pastore che avere per pastore un lupo”.

di Antonio Socci – Il Foglio

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Il tempo per la gloria di Cristo, la gloria di Cristo come significato del tempo

Posté par atempodiblog le 7 octobre 2013

Il tempo per la gloria di Cristo, la gloria di Cristo come significato del tempo dans Citazioni, frasi e pensieri nz38

“Che la Madonna del rosario, recitato nei suoi misteri gaudiosi — che rappresentano la vita nei suoi chiari e scuri —, nei suoi misteri dolorosi — che rappresentano la vita nei momenti faticosi — nei misteri gloriosi — che son già di questo mondo, perché la Madonna ha visto il Figlio risorto e ascendere al Cielo — ci aiuti a essere meno aridi.
Quanto più uno vive seriamente la volontà di rapporto con Cristo e la dignità sua d’uomo, perciò di lavoratore nel mondo, tanto più c’è come una vertigine possibile. Quella vertigine per cui le due cose restano come due rette sghembe: se uno lavora seriamente, come fa a pensare a Cristo? Se uno pensa a Cristo, come fa a dedicarsi a un lavoro che lo assorbe totalmente?
La regola non è nient’altro che questa: l’assicurare in noi il momento sorgivo dove il fiotto dell’acqua della memoria erompe.
Il grande lavoro è uno: il tempo per la gloria di Cristo, la gloria di Cristo come significato del tempo”.

Don Luigi Giussani

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La potenza della preghiera

Posté par atempodiblog le 18 mai 2013

“Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”.
Don Luigi Giussani

La potenza della preghiera dans Antonio Socci antoniosocci

L’Italia è dentro una crisi economica e finanziaria e c’è una parolina magica che tutti ripetono ma in maniera quasi impotente, possono soltanto ripeterla come un mantra, evocarla, ma non si realizza mai. Tutti parlano della famosa “crescita”. Tutti si arrabattono a dare una ricetta, ma sembrano girare a vuoto perché ciò che manca al nostro paese è l’anima, in senso cristiano. L’anima cristiana di un popolo che da anni l’elite intellettuale è impegnata a deridere.
Alcuni filosofi ritenevano che la violenza fosse generatrice di costruzione, invece è solo generatrice di male. La violenza sta nel cuore dell’uomo e farla tracimare all’esterno significa contribuire personalmente al male nel mondo.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia era al tappeto, non c’erano risorse, non c’erano capitali, era ed è un paese poverissimo di materie prime, non c’erano fonti energetiche, c’erano rovine da ricostruire e bocche da sfamare… quindi nessuna prospettiva… e invece l’Italia divenne una delle principali potenze mondiali…ciò che tenne unite tutte le persone superstiti fu la fede. Infatti, con la preghiera si è risolto tutto.
Oggi, però, ci siamo dimenticati della potenza della preghiera. Dopo la guerra, l’Italia era devastata sul piano umano e morale, oltre che materiale. Usciva come paese sconfitto e quindi non contava quasi niente nelle relazioni internazionali. Andando ancora indietro di qualche anno ci accorgiamo che dopo l’unità d’Italia a milioni partirono per l’America perché c’era, già a quel tempo, fame e miseria. Umanamente non è spiegabile che un paese senza speranza in pochi anni si è risollevato ed è diventato una potenza economica.

Un popolo che ama Dio rinasce da ogni catastrofe e supera qualunque crisi. Un esempio storico è dato dal Duomo di Milano, simbolo di questa prospera città.

Sunto di una conferenza di Antonio Socci

divisore dans Medjugorje

Per approfondire la storia del Duomo di Milano iconarrowti7 Un popolo e il suo Duomo

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Veni sancte Spiritus, Veni per Mariam

Posté par atempodiblog le 16 mai 2013

Veni sancte Spiritus, Veni per Mariam dans Citazioni, frasi e pensieri mariaelospirito

Veni Sancte Spiritus, perché Spiritus est Dominus, Spiritus est Deus (Dio è Spirito, lo Spirito è Dio).

Lo Spirito è Dio, a cui apparteniamo.

Perché lo Spirito è autocoscienza; e se questa è in noi bene applicata fa capire: l’uomo capisce che appartiene, che è appartenenza a un Altro.

È l’appartenenza a una Presenza, a una Presenza, anche qui, misteriosa (misteriosa perché non è nostra, questa Presenza, in un certo senso non lo è; perché se è da un’altra fonte, non è della nostra fonte).

«Vieni Santo Spirito» in ogni mia azione, «Vieni Santo Spirito» in ogni mio momento.

Veni per Mariam, e questo è proprio…

la Madonna è proprio il tocco più potentemente umano e persuasivo che Dio abbia fatto verso il Suo agire sull’uomo.

(Dall’intervento conclusivo di Luigi Giussani agli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e liberazione Rimini, 20 maggio 2001)

Tratto da: Anna Vercors

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Al mattino

Posté par atempodiblog le 16 avril 2013

Al mattino

Al mattino dans Citazioni, frasi e pensieri almattino

Uno s’arresta un istante,
pensando che quelle ore che gli incombono
sono un pezzetto del cammino al destino:
Ti riconosco come il mio scopo!
Padre nostro che stai nei cieli
nel profondo, da cui io nasco.
Ti offro la mia giornata.
Questa mia giornata la riconosco come
un passaggio ulteriore verso di Te,
un pezzo del cammino verso di Te.
Aiutami a che io non mi abbandoni alla violenza
e sia me stesso,
ami, cioè affermi l’Altro,
perché io non mi faccio da me,
e perciò debbo rispettare ciò che sono,
ciò che Tu mi hai fatto.
E debbo rispettare l’altro,
e amare l’altro,
perché Tu l’hai fatto.

 Don Luigi Giussani

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Paolo VI, padre appassionato alla vita del suo popolo

Posté par atempodiblog le 24 mars 2013

Paolo VI, padre appassionato alla vita del suo popolo dans Andrea Tornielli giussanipaolovi

Le parole pronunciate il 23 luglio 1975 da Paolo VI sono per me come un vertice, una sintesi di tutta la sua preoccupazione di Papa per la vita reale della Chiesa, realtà umana e divina che cammina nella storia: «Dov’è il “Popolo di Dio”, del quale tanto si è parlato, e tuttora si parla, dov’è? Questa entità etnica sui generis… Come è scompaginato? Com’è caratterizzato? Com’è organizzato? Come esercita la sua missione ideale e tonificante nella società, nella quale è immerso? Bene sappiamo che il Popolo di Dio ha ora, storicamente, un nome a tutti più familiare: è la Chiesa».

Questo cuore di padre appassionato alla vita reale del suo popolo ci fece sentaire ancora più caro il papa dell’Ecclesiam Suam, egli che da arcivescovo aveva visto nascere e aveva accompagnato la prima insorgenza di Gioventù Studentesca nella Milano degli Anni’50, come tentativo di testimonianza della fede cattolica, stradda ragionevole per la salvezza, secondo le preoccupazioni dell’allora cardinale Montini, che con la grande Missione nelle diocesi di Milano suscitò in tanti giovani un interesse nuovo per la proposta crisitana.

Gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI furono carichi di dolore per la Chiesa di Dio, provata da mille pericoli. Ricordo l’uscita dell’ Humanae Vitae e immagino il dolore che deve avere provato Paolo VI per l’imprevista onda di ostilità suscitata dalla sua enciclica. Quel fatto, mi pare, segna come un punto di svolta tra la prima e la seconda stagione del pontificato. Egli avvertiva la presenza operante del Maligno in lotta con la realtà storica della Chiesa, quasi schiacciandola in certi momenti o luoghi. Ma proprio questa percezione rinnovò in lui la certezza purissima della più forte azione del Signore operante in un “piccolo gregge” a Lui fedele: la comunità cristiana, nata per l’energia dello Spirito di Cristo risorto e unita intorno a Pietro e ai successori degli apostoli.
Ne parlò, quasi “confessandosi”, a Jean Guitton nel 1977:

«C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. [Capita che escano libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. Questo, secondo me, è strano. Rileggo talvolta il Vangelo della fine dei tempi, e constato che emergono oggi alcuni segni di questa fine.] Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia» (J. Guitton, Paolo VI segreto).

Così un libro che ricorda Paolo VI è per fare memoria di una fede maturata nella sofferenza in una purità di abbandono alla volontà del Padre che è nei cieli, e germogliata come tenerezza di sguardo, come quando il Papa salutò i nostri studenti di Firenze, alla fine di dicembre del 1977: «Siate contenti, siate fedeli, siate forti e siate lieti di portare intorno a voi la testimonianza che la fede cristiana è forte, è lieta, è bella e capace di trasformare davvero nell’amore e con l’amore la società in cui essa si inserisce».

dalla Prefazione di Don Luigi Giussani al libro “Paolo VI. Il timoniere del Concilio” di Andrea Tornielli, Ed. PIEMME

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San Giuseppe

Posté par atempodiblog le 6 mars 2012

San Giuseppe dans Don Luigi Giussani

“Guardate che siamo nel mese di san Giuseppe e San Giuseppe è la più bella figura d’uomo concepibile che il cristianesimo ha realizzato.
Era un uomo come tutti gli altri, aveva il peccato originale. Pensate che razza di distanza profonda viveva nella vicinanza assoluta che aveva con Maria.
La vocazione alla verginità è un possesso con un distacco dentro, dove la forza del rapporto amoroso è tutta concentrata e resa visibile nel dolore che c’è, dove ciò che veramente è l’amore si sente, incomincia già: è come un’alba. Non un buco o una separazione: è dolore, perché il rapporto, lì, diventa più drammatico.
San Giuseppe ha vissuto come tutti: non c’è una parola sua, non c’è niente; più povera di così una figura non può essere  Perciò, dite sempre un Gloria a san Giuseppe per la vocazione vostra, di quelli della vostra casa, del Gruppo Adulto e mia”.

Don Luigi Giussani

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CL, don Giussani sarà beato. Così lo raccontò il Pontefice

Posté par atempodiblog le 23 février 2012

Cl, don Giussani sarà beato
Così lo raccontò il Pontefice
L’omelia di Ratzinger ai funerali nel 2005: “La sua grande lezione fu non confondere la fede con il moralismo”. Il popolo di Cl lo vuole sugli altari: “Santo subito”
Tratto da: Il Giornale

CL, don Giussani sarà beato. Così lo raccontò il Pontefice dans Articoli di Giornali e News

Cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,«i discepoli al vedere Gesù gioirono». Queste parole del Vangelo ora letto ci indicano il centro della personalità e della vita del nostro caro don Giussani. Don Giussani era cresciuto in una casa – come dice – povera di pane, ma ricca di musica, e così dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza e non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita, e così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia.

Già da ragazzo ha creato con altri giovani una comunità che si chiamava Studium Christi; il loro programma fu di parlare di nient’altro se non Cristo, perché tutto il resto appariva come perdita di tempo. Naturalmente ha saputo poi superare l’unilateralità, ma la sostanza gli è sempre rimasta, che solo Cristo dà senso a tutto nella nostra vita, sempre ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento. Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta la sua vita era tuttavia lontana da ogni entusiasmo leggero, da ogni romanticismo vago; realmente, vedendo Cristo, ha saputo che incontrare Cristo vuol dire seguire Cristo, che questo incontro è una strada, un cammino, un cammino che attraversa – come abbiamo sentito nel salmo – anche la «valle oscura». E nel Vangelo, nel secondo Vangelo abbiamo sentito proprio l’ultimo buio della sofferenza di Cristo, della apparente assenza di Dio, dell’eclisse del Sole del mondo. Sapeva che seguire è attraversare una «valle oscura», vuol dire andare sulla via della croce, e tuttavia vivere nella vera gioia. Perché è così? Il Signore stesso ha tradotto questo mistero della croce, che in realtà è il mistero dell’amore, con una formula nella quale si esprime tutta la realtà della nostra vita. Il Signore dice: «Chi cerca la sua vita, vuol avere per sé la vita, la perde e chi perde la sua vita, la trova ». Don Giussani realmente voleva non avere per sé la vita, ma ha dato la vita, e proprio così ha trovato la vita non solo per sé, ma per tanti altri. Ha realizzato quanto abbiamo sentito nel primo Vangelo: non voleva essere un padrone, voleva servire, era un fedele servitore del Vangelo, ha distribuito tutta la ricchezza del suo cuore, ha distribuito la ricchezza divina del Vangelo, della quale era penetrato e, servendo così, dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto ricco come vediamo in questo momento, è divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo. Questa centralità di Cristo nella sua vita gli ha dato anche il dono del discernimento, di decifrare in modo giusto i segni dei tempi in un tempo difficile, pieno di tentazioni e di errori, come sappiamo. Pensiamo agli anni ’68 e seguenti,un primo gruppo dei suoi era andato in Brasile e qui si trovò a confronto con questa povertà estrema, con questa miseria. Che cosa fare? Come rispondere? E la tentazione fu grande di dire: adesso dobbiamo, per il momento, prescindere da Cristo, prescindere da Dio, perché ci sono urgenze più pressanti, dobbiamo prima cominciare a cambiare le strutture, le cose esterne, dobbiamo prima migliorare la terra, poi possiamo ritrovare anche il cielo. Era la tentazione grande di quel momento di trasformare il cristianesimo in un moralismo, il moralismo in una politica, di sostituire il credere con il fare.

Perché, che cosa comporta il credere? Si può dire: in questo momento dobbiamo fare qualcosa. E tuttavia, di questo passo, sostituendo la fede col moralismo, il credere con il fare, si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide. Monsignor Giussani, con la sua fede imperterrita e immancabile, ha saputo, che anche in questa situazione, Cristo, l’incontro con Cristo rimane centrale, perché chi non dà Dio, dà troppo poco e chi non dà Dio, chi non fa trovare Dio nel volto di Cristo, non costruisce, ma distrugge, perché fa perdere l’azione umana in dogmatismi ideologici e falsi, come abbiamo visto molto bene.

Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario l’umanità in questo mondo difficile, dove la responsabilità dei cristiani per i poveri nel mondo è grandissima e urgente. Chi crede deve attraversare – abbiamo detto – anche la «valle oscura», le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche che arrivavano fino alle minacce di eliminare i suoi fisicamente per liberarsi da questa altra voce che non si accontenta del fare, ma porta un messaggio più grande, così anche una luce più grande.

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Don Giussani, al via la causa di beatificazione richiesta da Cl al cardinale Scola

Posté par atempodiblog le 22 février 2012

Nel trentesimo anniversario del riconoscimento del movimento e nel settimo della morte
Don Giussani, al via la causa di beatificazione richiesta da Cl al cardinale Scola
Presentato il «supplice libello», la richiesta di apertura dell’iter, all’arcivescovo di Milano, che fu suo amico personale
Redazione Milano online – Corriere della Sera

Don Giussani, al via la causa di beatificazione richiesta da Cl al cardinale Scola dans Don Luigi Giussani

Al via la causa di beatificazione. Comunione e Liberazione ha presentato venerdì 17 febbraio il «supplice libello», cioè la domanda formale di inizio della causa di beatificazione. «In questo modo – spiegala Diocesi – ha avuto inizio l’iter canonico per introdurrela Causa di Beatificazione e Canonizzazione di questo benemerito figlio della Chiesa ambrosiana, secondo la costituzione apostolica “Divinus perfectionis Magister” del 25 gennaio 1983 e secondo le norme “Ab episcopis servandis” del 7 febbraio 1983 e l’istruzione “Sanctorum mater” del 25 settembre 2007. Le procedure canoniche, nella fase diocesana, prevedono, tra l’altro, la richiesta di parere alla Conferenza episcopale regionale sulla importanza e l’opportunità della Causa, la richiesta del consenso della Santa Sede, la nomina della commissione storica e di quella teologica, la raccolta tutta la documentazione, e se verificata la pertinenza della Causa, la raccolta di testimonianze».

LA CELEBRAZIONE - Nel trentesimo anniversario del riconoscimento del movimento e nel settimo della morte, l’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, ha presieduto una celebrazione eucaristica, mercoledì sera, in Duomo. Al termine, don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, renderà noto di avere presentato all’arcivescovo di Milano la richiesta di apertura della causa di beatificazione. «La richiesta è stata inoltrata oggi stesso, 22 febbraio 2012, giorno dell’anniversario e festa della Cattedra di San Pietro – si legge in una nota di CL –  attraverso la postulatrice nominata dal Presidente della Fraternità canonicamente costituitosi Attore di detta Causa: si tratta della professoressa Chiara Minelli, docente di Diritto canonico ed ecclesiastico nell’Università degli Studi di Brescia».

NELLE MANI DI SCOLA - L’istanza è stata presentata all’arcivescovo di Milano, nella cui diocesi è nato, è vissuto e ha operato don Giussani, sacerdote diocesano. A questo punto spetta al cardinale Angelo Scola, che di don Giussani fu amico personale, disporre l’apertura dell’«Inchiesta Informativa Diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità». Dando la notizia, don Carrón si augura che «la Madonna – “di speranza fontana vivace” – ci aiuti ogni giorno a diventare degni delle promesse di Cristo e della immensa grazia che nel carisma di don Giussani abbiamo ricevuto e ancora riceviamo».

LA VITA - Don Giussani, nato a Desio il 15 ottobre del 1922, è morto a Milano il 22 febbraio del2005. A celebrare le esequie fu il cardinale Joseph Ratzinger che, di lì a poco, venne eletto Papa. Il 26 maggio 1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l’ordinazione sacerdotale dal cardinale Ildefonso Schuster, figura storica della Chiesa ambrosiana. Successivamente rimase nel seminario di Venegono come insegnante. Nel 1954 trentaduenne, lasciò l’insegnamento in seminario per quello nelle scuole superiori. All’origine della decisione di don Giussani fu l’incontro con alcuni adolescenti, in treno, che stupirono Giussani perchè non conoscevano i fondamenti del cattolicesimo. L’inizio dell’insegnamento della religione nelle scuole superiori, presso il liceo Berchet di Milano fu il momento cui si fa risalire la nascita del movimento che poi si chiamò Comunione e Liberazione. Don Giussani fu insegnante al Liceo Berchet per dieci anni, fino al 1964. Le prime riunioni di studenti sotto la sua guida si tennero col nome di Gioventù Studentesca (Gs), che fondò insieme all’amico don Francesco Ricci e che fino agli anni settanta fu nell’alveo dell’Azione Cattolica. Giussani in quegli anni iniziò anche un’intensa attività pubblicistica nella quale si poneva all’interno e all’esterno della Chiesa l’attenzione sul problema educativo. Nel 1964, ottenne la cattedra di Introduzione alla Teologia presso l’Universitá Cattolica di Milano, che mantenne fino al 1990.

LA NASCITA DI CL - Negli anni fra il 1969 e il 1970 il movimento giovanile da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione. Giussani ne assunse la guida presiedendone il consiglio generale. L’11 febbraio 1982 il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbela Fraternitá di Comunione e Liberazione. Il sacerdote divenne prelato d’onore di sua santità nel 1983, per volere di Giovanni Paolo II. Nel corso di questi decenni Comunione e liberazione si è diffusa in tutto il mondo, ad essa è legata la struttura imprenditoriale della Compagnia delle opere e ancora a Cl fa riferimento l’associazione per il volontariato internazionale Avsi, quindi l’iniziativa denominata banco alimentare. Il successore di don Giussani è il sacerdote di origini spagnole, don Julian Carròn. Nel corso dell’omelia pronunciata il 24 febbraio del2005 in occasione dei funerali di Giussani, il cardinale Ratzinger disse fra l’altro: «Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario l’umanitá in questo mondo difficile, dove la responsabilitá dei cristiani per i poveri nel mondo è grandissima e urgente». Quindi aggiunge: «Chi crede deve attraversare – abbiamo detto – anche la “valle oscura”, le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche che arrivavano fino alle minacce di eliminare i suoi fisicamente per liberarsi da questa altra voce che non si accontenta del fare, ma porta un messaggio più grande, così anche una luce più grande».

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Il significato della croce in un mondo dove gli stadi hanno preso il posto delle cattedrali

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

Il Dio denaro e la morte di Cristo
Il significato della croce in un mondo dove gli stadi hanno preso il posto delle cattedrali
Un articolo di monsignor Luigi Giussani su la Repubblica

Il significato della croce in un mondo dove gli stadi hanno preso il posto delle cattedrali dans Don Luigi Giussani dongius

Caro direttore, nella mia quotidiana ricerca delle conseguenze estetiche e, quindi, etiche della mia fede in Cristo, l’altro giorno ho ritrovato un verso di Carducci: Cristo «cruciato martire tu cruci gli uomini» (In una chiesa gotica, 1876; in: Odi barbare). Subito mi sono venute queste riflessioni.
La storia di Cristo, per chi la considera reale, non crocifigge gli uomini: e Lui, comunque si sia incontrato, che sale in croce per gli uomini. Perché gli uomini sono tormentati dalla pena del vivere; ma non sanno che questa pena è dovuta a una radice di male che è in loro: il peccato, dice il linguaggio religioso; «peccato!», dice il popolo con riferimento realistico.
Cristo, radice della vita, è ucciso dal male che è fatto nell’uomo dall’uomo. E siccome l’uomo compie tutte le sue azioni libere per poter vivere la propria pretesa «soddisfazione», l’uomo di Carducci chiama Cristo – cioè l’uomo storico che porta il nome di Gesù di Nazareth – «menzogna».

Notizie di tutti i giorni. Si apre alle sei, si comincia a vedere Euronews in tv. In trenta minuti si atterra qualsiasi tranquillità e anche speranza per la vita dell’uomo. Sullo schermo, la notizia di due ragazzi americani che fanno strage in una scuola e di una sparatoria con trenta morti ad un funerale in Georgia… E ancora, qualche mattina fa, le immagini del terremoto nello stadio di Gualdo Tadino coi suoi millecinquecento tifosi; il panico che li assaliva trapassava anche me. Mi rinnovava in modo profondo la pietà per gli uomini e per me stesso.
Ogni giorno nell’Euronews pare che un grido di folla che dia un colpo di reni umano alla vita sia reperibile ormai solo nello sport. Lo sport, con gli stadi al posto delle cattedrali antiche. Il solo luogo affollato, insieme a quegli uffici che esprimono l’unico dio reale della società di oggi: il soldo (noi facciamo lotta continua di fronte al potere: ma il potere sono i soldi, cioè la Borsa di Milano, di New York, di Londra, ecc.).
Eppure tutto il potere in atto, nella sua impotenza, sembra tante volte non offrire neanche un accenno di speranza per il popolo. Così che gli uomini, quando guardano l’orizzonte, e anche il cielo, debbono accusare paura. E anche i più saggi del mondo, coloro che passano per ispiratori della verità dell’uomo e del benessere del popolo, i guru, non sanno che fare. Bobbio deve confessare che tutti gli ideali, compreso il Pci, crollano. Per questo il mondo chiama Cristo l’uomo che mette in croce gli uomini.

Dove trovare ancora il fondamento di una speranza per convogliare gli uomini a rapporti in cui sia possibile una verità di amore? «Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio» (orazione liturgica della settimana santa).
L’unica sorgente di speranza è Cristo in croce: «Per radunare i popoli nel patto dell’amore, distendi le tue braccia sul legno della croce» (Inno del lunedì santo). Unica sorgente di speranza – fino alla possibilità di una letizia inimmaginabile e soprattutto irrealizzabile, in altre forme o in altre sorgenti – è quella che ha costruito la folla del Medioevo, coi suoi livelli di concezione, teorica ed etica – della persona e della società, compreso il potere, che allora non poteva eludere, come ultimo scopo, l’amore e il bene della gente, alla luce di una coscienza del proprio limite, cioè del senso del Mistero.
Questo segna l’esistenza di un popolo nato duemila anni fa. Un popolo che percorre le strade dei disagi di tutti e abita le case come ogni uomo, ma lo fa nella letizia del cuore come risposta a una ineffabile attesa: «Siate lieti sempre, siate lieti», che traduce l’antico detto della Bibbia: «Renderà nota la gloria della mia potenza nella letizia dei loro volti». È l’ebreo Gesù di Nazareth che compie questa promessa, come dice il Vangelo di san Giovanni.

Di fronte a questo non si può sfuggire a un paradosso: chi riconosce Cristo così come afferma tutta la tradizione cristiana, cioè Cristo morto in croce come unica salvezza di tutti gli uomini, non può partecipare alla vita degli altri uomini se non vivendo in una contraddizione: l’incoerenza. In altri termini, non può evitare che lo sguardo degli altri uomini su di lui innanzitutto lo accusi di incoerenza. Per questo in Quaresima la Chiesa mette sulle labbra dei cristiani queste parole: «Contro di te abbiamo peccato, Signore/ chiediamo un perdono che non meritiamo./ La vita nostra sospira nell’angoscia/ ma non si corregge il nostro agire./ Se aspetti, non ci pentiamo,/ se punisci, non resistiamo./ Tendi la mano a noi che siamo caduti,/ tu, che all’assassino pentito apristi il Paradiso». Il Mistero come misericordia resta così l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia. 

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Come nasce un movimento

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2012

Come nasce un movimento
Appunti da una conversazione di don Giussani con responsabili di Comunione e Liberazione durante un raduno internazionale nell’agosto del 1989.
Come nasce l’esperienza del movimento di Comunione e Liberazione, quali sono i fattori che l’hanno fatta sorgere e quale ne è ancora oggi il punto di origine? Ci interessa conoscere anche come è stato per lei l’inizio.
Tratto da: Movimento di Comunione e Liberazione (CL)

Come nasce un movimento dans Don Luigi Giussani dongiussani

Sono un po’ impacciato nel rispondere a questo invito, perché una testimonianza di quanto sia occorso a destare e continuare una esperienza come la nostra è già stata perfino stampata. Ma è pur vero che di ciò che si ama si può sempre parlare: pur ripetendosi, si dicono ugualmente cose nuove, perché il cuore vero è sempre nuovo.
Come nasce un movimento, come nasce una esperienza cristiana? Da una testimonianza, per un dono dello Spirito – ma vi insisterò dopo.
Un quotidiano ad alta diffusione nazionale ha riesumato di recente la figura di Andrea Emo come quella di un grande pensatore ignorato, pubblicandone un’antologia di pensieri, tra cui il seguente: «La Chiesa è stata per molti secoli la protagonista della storia, poi ha assunto la parte non meno gloriosa di antagonista della storia. Oggi è soltanto la cortigiana della storia». Ecco: noi non vogliamo vivere la Chiesa come cortigiana della storia. Se Dio è entrato nel mondo non è per essere cortigiano, ma redentore, salvatore, punto affettivo totale, verità dell’uomo. È questa passione che ci tormenta e determina ogni nostra mossa. Nella contingenza d’una decisione si può, evidentemente, sbagliare, ma lo scopo per cui agiamo è solo questo: che la Chiesa non sia cortigiana, ma protagonista della storia. Questa immanenza della Chiesa alla storia incomincia da me, da te, dove sono, dove sei.
In un recente discorso del Papa ai giovani, in Scandinavia, vi è una frase che riassume tutto il nostro contenuto di messaggio – a noi stessi e quindi agli altri –, che vogliamo gridare a tutto il mondo. «Come tutti i giovani del mondo» dice il Papa «voi siete alla ricerca di ciò che è importante e centrale nella vita. Nonostante alcuni di voi siano distanti dal punto di vista geografico e alcuni possano essere anche lontani dalla fede e dall’affidamento in Dio, siete venuti qui perché siete veramente alla ricerca di qualcosa d’importante su cui basare la vostra vita. Voi volete stabilire salde radici e percepite che la fede religiosa è parte importante per la vita piena che desiderate. Permettetemi di dirvi che io capisco i vostri problemi e le vostre speranze. Per questo desidero oggi, giovani amici, parlarvi a riguardo della pace e della gioia che possono essere trovate, non nel possedere ma nell’essere. E l’essere si afferma conoscendo una Persona e vivendo secondo il Suo insegnamento. Questa Persona si chiama Gesù Cristo, nostro Signore e Amico. Egli è il centro, il punto focale, Colui che tutto riunisce nell’amore».
Se è lecito, vorremmo ripetere: «Noi non conosciamo altro che questo!».

«E il Verbo si è fatto carne»
Come a me è apparsa all’orizzonte tale verità, così che improvvisamente ha abbracciato la mia vita? Ero un giovanissimo seminarista a Milano, un ragazzo probo, obbediente, esemplare. Ma – se ricordo bene quel che dice Concetto Marchesi in un suo testo di letteratura latina – «l’arte ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti». L’arte, cioè la vita – se deve essere creativa, ovvero se deve essere “vita” –, ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti. E io ero stato un seminarista ben riverente, salvo una parentesi in cui il poeta Leopardi, per un mese, mi tenne “agganciato” più di nostro Signore.

Come scrive Camus nei suoi Quaderni: «Non è attraverso degli scrupoli che l’uomo diventerà grande; la grandezza viene per grazia di Dio, come un bel giorno». Per me tutto avvenne come la sorpresa di un «bel giorno», quando un insegnante di prima liceo – avevo 15 anni – lesse e spiegò la prima pagina del Vangelo di san Giovanni. Era allora obbligatorio leggere questa pagina alla fine di ogni Messa; l’avevo sentita dunque migliaia di volte. Ma venne il «bel giorno»: tutto è grazia.
Come dice Adrienne von Speyr, «la grazia ci inonda. Ciò costituisce la sua essenza [la grazia è il Mistero che si comunica; l’essenza del comunicarsi del Mistero è che ci inonda, ci investe]. Essa non chiarisce punto per punto, ma irradia la sua luce come il sole. L’uomo su cui Dio prodiga se stesso dovrebbe essere preso da vertigine così da vedere solo la luce di Dio e non più i propri limiti, la propria debolezza [per questo è ignobile l’atteggiamento di chi si scandalizza dell’entusiasmo di un giovane cui è accaduto il “bel giorno”]. Dovrebbe rinunciare a ogni equilibrio (ricercato da sé), dovrebbe rinunciare a un dialogo tra sé e Dio come due partner, essere un semplice ricevitore con le braccia spalancate che non riescono ad afferrare, poiché la luce scorre su tutto e rimane inafferrabile e rappresenta molto di più di quanto possa accogliere la nostra mossa».
Dopo quarant’anni, leggendo questo brano della von Speyr, ho percepito ciò che mi accadde quando quell’insegnante spiegò la prima pagina del Vangelo di san Giovanni: «Il Verbo di Dio, ovvero ciò di cui tutto consiste, si è fatto carne,» diceva «perciò la bellezza s’è fatta carne, la bontà s’è fatta carne, la giustizia s’è fatta carne, l’amore, la vita, la verità s’è fatta carne: l’essere non sta in un iperuranio platonico, si è fatto carne, è uno tra noi». Mi ricordai in quel momento di una poesia di Leopardi, studiata in quel mese di “fuga” in terza ginnasio, intitolata Alla sua donna. Era un inno non a una delle sue “amanti”, ma alla scoperta che improvvisamente aveva fatto – in quel vertice della sua vita da cui poi decadde – che ciò che cercava nella donna amata era “qualcosa” oltre essa, che si palesava, si comunicava in essa, ma era oltre essa. Questo inno bellissimo alla Donna termina con un’appassionata invocazione: «Se dell’eterne idee / l’una sei tu, cui di sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita, / e fra caduche spoglie / provar gli affanni di funerea vita; / o s’altra terra ne’ superni giri / fra’ mondi innumerabili t’accoglie, / e più vaga del Sol prossima stella / t’irraggia, e più benigno etere spiri; / di qua dove son gli anni infausti e brevi, / questo d’ignoto amante inno ricevi». In quell’istante pensai come quella di Leopardi fosse, 1800 anni dopo, una mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto, di cui san Giovanni dava l’annuncio: «Il Verbo si è fatto carne». Non solo l’essere (bellezza, verità) non ha “sdegnato” di rivestire di carne la Sua perfezione e di portare gli affanni della vita umana, ma è venuto a morire per l’uomo: «Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto», ha bussato a casa sua e non è stato riconosciuto.
Ecco, questo è tutto. Perché la mia vita da giovanissimo è stata letteralmente investita da questo: sia come memoria che persistentemente percuoteva il mio pensiero, sia come stimolo a una rivalutazione della banalità quotidiana. L’istante, da allora, non fu più banalità per me. Tutto ciò che era – perciò tutto ciò che era bello, vero, attraente, affascinante, fin come possibilità – trovava in quel messaggio la sua ragion d’essere, come certezza di presenza e speranza mobilitatrice che tutto faceva abbracciare.
Avevo a quel tempo sul tavolo di studio una figura di Cristo del Carracci, sotto la quale avevo scritto una frase di Möhler (il famoso antesignano dell’ecumenismo, di cui al liceo avevo letto la Simbolica e altri scritti): «Io penso che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare». Adesso, quando faccio l’esame di coscienza, sono costretto a chiedere alla misericordia di Cristo, attraverso la pietà di Maria, che mi faccia ritornare alla semplicità e al coraggio di allora; perché quando un così «bel giorno» accade e si vede improvvisamente qualcosa di bellissimo, non si può non dirlo all’amico vicino, non si può non mettersi a gridare: «Guardate là!». E così successe.

Studium Christi
Successe già in seminario, con i compagni vicini di banco, nella grande classe (eravamo molto numerosi). Così un gruppetto si unì – perché è all’opera sempre la medesima legge: alcuni si rendono più prossimi, si sentono affini alla tua visione, al tuo cuore, alla tua vita – e nacque il primo vero nucleo del movimento, che chiamammo Studium Christi. Ogni mese – poi ogni quindici giorni – facevamo una specie di ciclostilato intitolato Christus, in cui ognuno testimoniava una sua particolare ricerca sul rapporto tra la presenza di Cristo e qualcosa che gli interessava: lo studio, gli avvenimenti, ecc. Un altro gruppo di compagni ironizzava sul nostro tentativo; questo gruppo si coagulò e s’intitolò Studium Diaboli. Nella libertà tutto è possibile. Ma dopo un anno e mezzo il rettore del seminario (che fu poi cardinale a Milano) mi chiamò e mi disse: «La vostra è una bellissima cosa, ma divide la classe e non dovete più farla». Quando era Vescovo a Milano raccontava ancora, un po’ esagerando poeticamente come era nel suo temperamento, che una sera d’inverno, mentre noi seminaristi andavamo in massa in refettorio e lui era dietro di noi senza che ce ne accorgessimo, io dissi ai compagni vicini: «Il rettore ci ha ucciso il “Cristo”» (io, a dire il vero, non ricordo d’averlo detto).

Si tratta però di avvenimenti che non si possono arrestare. Quel seme che ho descritto animò la nostra amicizia per tutta la storia del seminario, ci impose la scelta degli autori da leggere, divenne il motivo degli autori da preferire (al liceo leggendo, per esempio, Möhler, Solov’ev, Newman, comprendendo quel che si poteva comprendere), e rese animoso il nostro studio di teologia, che non restò certamente dottrina cristallizzata.

«Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto»
Dopo una decina d’anni di varie vicende, divenuto insegnante nello stesso seminario teologico, incontrai sul treno un gruppo di studenti e incominciai a discutere di cristianesimo con loro. Li trovai così estranei alle cose più elementari che mi venne come irrefrenabile impeto il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto, affinché anche per loro avesse a sorgere il «bel giorno». Abbandonai perciò, sollecitato dal rettore, l’insegnamento in seminario (mi dedicavo di fatto più ai giovani che alla preparazione delle lezioni) e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato.

Mi ricordo perfettamente quel giorno così importante per la mia vita. Mentre stavo salendo per la prima volta i quattro gradini che dalla strada portavano all’ingresso del liceo «Berchet» di Milano, dicevo a me stesso: «Io vengo qui a dare a questi giovani quello che è stato dato a me». Lo ripeto sempre, perché è questa l’unica ragione per cui abbiamo fatto tutto quel che abbiamo fatto (e continueremo a farlo fino a quando Dio ce lo concederà). L’unica ragione di ogni nostra mossa è che Lo conoscano, che gli uomini conoscano Cristo. Dio è diventato uomo, è venuto tra i suoi: che i suoi non Lo conoscano è il peccato più grave, è l’ingiustizia senza paragone più grande.

Cristo centro del cosmo e della storia
«Cristo centro del cosmo e della storia». Quando ho sentito nel suo primo discorso Giovanni Paolo II ripetere questa frase (letteralmente la stessa frase, lo possono testimoniare i miei amici di allora, è stata fin dall’inizio testo abituale della nostra meditazione), l’emozione provata mi ha ridestato il ricordo di tutta la dialettica che si sviluppò tra me e i giovani e tra i giovani stessi nella scuola, e il ricordo della tensione profonda con cui ci riunimmo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ripetevo sempre ai ragazzi: «Vieni e vedi», o «Vedrai cose maggiori di questa», come dice Gesù nel Vangelo; oppure, come dice una preghiera della Messa: «La Tua Chiesa si riveli al mondo»; o ancora: «Dio gloria del Suo popolo». E osservavo: «Che cosa significa ad esempio “Dio gloria del Suo popolo” se non il cambiamento che Cristo, attraverso il mistero della Sua permanenza nella Chiesa, produce nel singolo e nella società? Tale cambiamento è il miracolo che gli dà gloria».

Questo noi chiediamo a Dio da tanti anni, solo questo: che Cristo ci aiuti a vivere la Chiesa, affinché anche attraverso la nostra vita, la nostra azione, la nostra compagnia, i nostri progetti, Egli appaia sempre di più nel mondo agli uomini prescelti dal Mistero del Padre, affinché cioè appaia sempre di più la gloria di Dio attraverso un’adesione a Cristo che cambi la nostra vita e la vita del mondo trasfigurandole. È questo l’unico scopo per cui ci siamo ritrovati e ci ritroviamo, fino a quando Iddio vorrà.
I primi giorni del mio insegnamento di religione domandavo ai ragazzi, lungo le scale, o sui pianerottoli: «Il cristianesimo è presente qui, nella scuola, secondo te?». Quasi tutti mi guardavano stupiti e ridevano. Chi invece rispondeva diceva: «Ma no!». E io ribadivo: «Ma, allora, o la fede in Cristo non è vera, oppure chiede una modalità nuova». Fu l’inizio della dialettica aperta dall’affermazione che Cristo è il centro del cosmo e della storia, la chiave di volta per conoscere l’uomo e il mondo, l’origine di una possibile pace per il cuore dell’io e per la società, la ragione di un impeto affettivo ignoto e senza paragoni (qualcosa di analogo coglieva Socrate, quando sospendeva improvvisamente il suo discorso – tra i suoi scolari c’erano Platone, Senofonte ecc. – e diceva: «Non è forse vero, amici miei, che quando parliamo della verità dimentichiamo anche le donne?»).
Lo sviluppo dialettico del contenuto del messaggio lentamente polarizzò la curiosità, l’ira e l’affezione dei ragazzi, divenendo il punto più discusso della scuola per dodici anni (tempo in cui vi rimasi come insegnante di religione): Cristo e la Chiesa erano il tema quotidiano, oggetto di accanite discussioni.
« Che alternativa abbiamo,» dicevo allora, e ripeto ora «l’alternativa politica?». Vi è in proposito un’altra frase dai Quaderni di Camus, scritta nel 1953: «Ciò che la sinistra approva [la sinistra costituiva allora il simbolo dell’onestà redentiva dell’energia politica] passa sotto silenzio o viene giudicato inevitabile: 1) la deportazione di migliaia di bambini greci; 2) la distruzione fisica della classe contadina russa; 3) i milioni in campo di concentramento; 4) i sequestri politici; 5) le esecuzioni politiche quotidiane; 6) l’antisemitismo; 7) la stupidità; 8 ) la crudeltà. La lista è aperta». Ma già basta. Non è pessimismo, ma è difficile non far rientrare in queste categorie la politica nella sua attualità.
« Qual è» domandavo allora «l’altro campo di speranza alternativa, più serio della politica, più carico di riuscita? È la scienza?». Solo trent’anni fa, “scienza” era una parola cento volte più “divina” di quanto lo sia adesso. Tanti anni dopo avremmo dovuto sentire Giovanni Paolo II affermare: «La scienza della totalità (perché non è scienza se non ha la pretesa di afferrare l’orizzonte totale) conduce spontaneamente alla domanda sulla totalità stessa; domanda che non trova la sua risposta all’interno di tale totalità». La passione per l’orizzonte totale porta inesorabilmente alla domanda sul senso di questo orizzonte, ma all’interno di esso non è possibile trovare risposta.
Lo sviluppo del nostro interesse alla vita in tutti i suoi aspetti ebbe e ha come riferimento la Sua presenza: «Noi crediamo in Cristo morto e risorto, in Cristo presente qui e ora». Questo ci ha fatto interessare alla politica secondo la totalità della sua accezione, nella perfetta consapevolezza che non è dalla politica che ci può venire la salvezza; e ci ha fatto riappassionare allo studio, alla scienza, non per idolatria o per la promozione, ma per una serietà che scavasse un alveo sempre più preciso alla conoscenza, la quale, ultimamente, ha la sua consistenza in Cristo. Dall’esperienza della Sua presenza sono nate dunque una passione per la vita sociale e politica e una passione per la conoscenza (il Meeting di Rimini, sia pure tentativamente, ma tenacemente e appassionatamente, nasce da questo duplice interesse, o meglio dalla radice che ha creato questo duplice interesse).
Sant’Agostino nel Contra Iulianum osserva: «Questa è l’orrenda radice del vostro errore: voi pretendete di far consistere il dono di Cristo nel suo esempio mentre quel dono è la Sua persona stessa». Tutti parlano con riverenza dell’esempio di Cristo, dei valori morali, anche coloro che scrivono sulla «Voce Repubblicana»; costoro, anzi, insegnano, predicano ai cristiani che debbono vivere i valori morali per sostenere lo Stato. Ma il dono di Cristo è la Sua presenza: questo è il nuovo nel mondo e non vi sarà mai nulla di più nuovo di questo.
Scrive Milosz in una sua poesia: «Sono solo un uomo, ho bisogno di segni sensibili, costruire scale di astrazioni mi stanca presto. Desta, dunque, o Dio, un uomo in un posto qualsiasi della terra e permetti che guardandolo io possa ammirare Te». Cristo è la risposta a questa suprema invocazione umana. L’Incarnazione di Cristo corrisponde all’esigenza propria della natura dell’uomo, corrisponde in modo inconcepibile a un sensibile bisogno, a un bisogno dell’uomo vissuto e appassionato.

«Siamo una cosa sola»
Quanto ha affermato nel suo discorso inaugurale il nuovo arcivescovo di Colonia, cardinal Meisner, pone il tema che occorre ora toccare: «La parola eterna del Padre si è fatta carne. E ora nella Chiesa è rimasta udibile e toccabile per tutti gli uomini». Ma la Chiesa di che cosa è fatta? Di te, di me. Questa è stata la scoperta immediata e spontanea che, nel mese di ottobre in cui entrai nella scuola come insegnante di religione, seguì al messaggio lanciato.

Se Dio è diventato uomo ed è qui e si comunica a noi, tu e io siamo una cosa sola. Tra te e me, estranei, è tolta l’estraneità o, come la chiamava san Paolo, l’inimicizia: siamo amici. Per contrasto, facevo notare ai ragazzi più grandi: «Siete stati cinque anni insieme nella stessa classe, nello stesso banco, siete pieni di connivenze, ma non di amicizia; andate in vacanza insieme, studiate insieme, vi divertite insieme, ma non siete amici: siete compagni provvisori, tra voi non c’è nulla che abbia durata, nessuno è in rapporto con e si sente interessato al destino dell’altro».
Lo dicevo perché Cristo è presente proprio attraverso, dentro, la nostra unità, quell’unità in cui ci immette il gesto con cui Egli ci afferra, il sacramento del Battesimo. Afferrandoci nel Battesimo, Cristo ci ha messi insieme come membra dello stesso corpo (cfr. i capitoli 1-4 della Lettera agli Efesini). Egli è presente qui e ora, in me, attraverso me, e la prima espressione del cambiamento in cui la Sua presenza si documenta è che io mi riconosco unito a te, è che noi siamo una cosa sola.
Come scrive san Paolo nella Lettera ai Galati, al capitolo 3 (un altro brano che sempre citavo): «Tutti voi che siete stati battezzati, vi siete immedesimati con Cristo. Non esiste più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete uno, una sola persona in Cristo Gesù». Qualsiasi utopia l’uomo abbia creato, non è mai giunto a immaginarsi questa unità che il fatto di Cristo ha realizzato in noi. Se lo riconosciamo, agisce, e la nostra vita diventa più umana.
Cristo rende la nostra vita più umana. Perciò l’altra frase del Vangelo che costituiva la sfida con cui entravo nella scuola e che ripetevo in tutte le ore di insegnamento era: «Chi mi segue avrà la vita eterna, e il centuplo quaggiù». «“Chi mi segue avrà la vita eterna”, e questo vi può non interessare» osservavo, «ma avrà “il centuplo quaggiù” – cioè vivrà cento volte meglio l’affezione all’uomo o alla donna, al padre e alla madre, avrà cento volte più passione per lo studio, amore per il lavoro, gusto per la natura –, questo non può non interessarvi».
L’esigenza espressa da Milosz nella poesia citata è propriamente quella di incontrare qualcuno – visibile, toccabile – seguendo il quale si possa fare esperienza del centuplo. «Desta dunque un uomo in un posto qualunque della terra e permetti che guardandolo io possa ammirare Te»: questo è Cristo per l’uomo.
Ma Cristo è in te e in me, e ciò è tremendo (tremendum mysterium): è la sorgente della nostra responsabilità e della nostra umiltà, impossibile a evitarsi, perché siamo il segno fisico della Sua presenza.
Eravamo in quindici quando dicevo che la nostra comunità è il segno reale, anche se contingente, provvisorio, risibile, ma grande, per cui Cristo diventa oggetto di un’esperienza presente. Da quindici che eravamo, l’ultimo anno di insegnamento al liceo, allo stesso raduno, diventammo circa trecento. Ma non importa il numero. Dopo dodici anni avremmo potuto essere in tre, in due (questo è il significato del matrimonio come sacramento; il matrimonio è, dovrebbe essere, il segno per la comunità, perché vi si incontra quell’unità che non nasce dalla carne e dal sangue, ma da Cristo).
La comunità, dilatata senza confine, è il Mistero di questa identità per cui e in cui veramente io posso dire con timore, tremore e amore a Cristo: «Tu». Questa scoperta è stata un passo preciso in un certo raduno tenuto davanti al mare, su una torre, a Varigotti.

La comunità è il luogo della memoria
La memoria è la coscienza di una presenza che è incominciata nel passato e che dura: la memoria è coscienza della presenza di Cristo.

Come diceva Pavese: «La memoria è una passione ripetuta». Noi viviamo una passione per Cristo, una passione ripetuta, perché purtroppo in noi non ci può essere una continuità imperterrita.
Ancora Pavese scrive: «La ricchezza di un’opera [cioè di una generazione o della nostra vita come generazione] è sempre data dalla quantità di passato che essa contiene». Ma si deve trattare di un passato che possa essere nel presente più potentemente che come ricordo, perché il ricordo appiattisce, è come un vestito logoro. La memoria di Cristo è memoria di un passato che diventa così presente da determinare il presente più di ogni altro presente. Memoria è diventata la parola capitale della nostra comunità: la comunità è il luogo dove si vive la memoria.
Voglio ora dettagliare alcuni aspetti di questa realtà comunionale, parola che indica una compagnia che non nasce dalla carne e dal sangue ma da Cristo, e la cui vita è la memoria. «La memoria s’è empita di sangue» affermava santa Caterina da Siena. La memoria si «empie» del sangue della croce e della gloria della resurrezione, perché non si può concepire la croce di Cristo senza la resurrezione. Perciò, diceva giustamente Claudel, la pace, che è l’eredità che Cristo ci ha lasciato come segno della Sua presenza attiva e operante, «in parti uguali di dolore e di gioia è fatta».

La drammaticità di una lotta
Innanzitutto, la vita di comunità non ha mai soppresso la drammaticità, non ha mai preteso da alcuno un passo forzoso. È sempre stata una proposta appassionata, ma ben consapevole della fatica richiesta a chi la riceveva. La verità, certo, porta nella comunicazione di sé la propria evidenza, e l’annuncio di Cristo è talmente corrispondente a quello che l’uomo desidera, attende, che venirne investiti è come un frangente di evidenza che non può evitare di suscitare un positivo sussulto. Ma subito dopo insorge una resistenza. Facevo osservare ai ragazzi: «Mentre io parlo voi siete lì attenti e la vostra faccia inequivocabilmente dice: “Eh già”, ma, subito dopo, la diabolicità, il peccato originale, vi riempie di “ma, se, forse, però, chissà”, cioè di scetticismo, per farvi fuggire dall’evidenza che vi è balenata». Insorge una resistenza, e si apre la drammaticità di una lotta.

La drammaticità è inerente a ogni rapporto (non c’è un solo rapporto realmente umano che non sia drammatico). Nel rapporto con Cristo essa tocca la sua profondità più grande. E la drammaticità non consiste in un’esasperazione isterica, ma nel dire «Tu» con la consapevolezza della differenza e del cammino da compiere.
« Prima la mia volontà [dove innanzitutto si colloca la resistenza] e poi la mia intelligenza» scrive un dissidente lituano «hanno resistito a lungo, ma alla fine mi sono arreso e ho vinto [il vincitore è chi afferma se stesso]. Non è stata una capitolazione di fronte all’avversario. È stata la riconciliazione con il Padre [con l’origine costitutiva di sé]: il Suo possesso di me è la mia liberazione» (ne Il senso religioso, che contiene gli appunti da me dettati in quei primi anni di scuola, questa identificazione tra essere posseduti ed essere liberi viene sviluppata).
Dopo solo un anno dall’inizio del movimento, con i ragazzi di prima e seconda liceo classico, abbiamo stampato un’antologia di Dionigi l’Areopagita, col testo greco a fronte, che conteneva una tra le frasi più belle che abbia mai letto: «Chi mai potrà parlare dell’amore all’uomo proprio di Cristo, traboccante di pace?». È il cuore della frase appena citata: «Il Suo possesso di me è la mia liberazione».

La domanda, gesto supremo dell’uomo
Assistendo alla drammaticità vissuta da quei primi giovani che partecipavano – allora, quando eravamo alcune centinaia, dalla mattina alla sera, anche al di fuori della scuola, stavamo insieme a discutere – ho capito per la prima volta, dopo tutti gli anni del seminario, che cosa vuol dire chiedere.

La domanda è l’espressione suprema dell’uomo, ed è la più elementare: in qualsiasi condizione l’uomo la può realizzare, anche se è ateo. Anzi, quanto più un uomo sente fatica tanto più essa gli è consona. Ne I promessi sposi, a un certo punto, l’ateo – l’Innominato – esclama: «Dio, se ci sei, rivelati a me». Non vi è nulla di più razionale di questo: «Se ci sei» è la categoria della possibilità, dimensione irrinunciabile di una ragione autentica, «rivelati a me» è la domanda.
Saremo tutti giudicati sulla domanda, perché anche nella fossa dei leoni o sotterrati dalla melma, noi possiamo gridare, domandare. Nella Settimana santa, la liturgia ambrosiana (è stupefacente fino a che punto di tenerezza giunge la Chiesa) ci suggerisce una forma commovente di domanda: «Anche se ho fatto tardi non chiudere la Tua porta. Sono venuto a bussare. A chi Ti cerca nel pianto apri, Signore pietoso; accoglimi al Tuo convito, donami il pane del Regno».
Io non ho mai detto ai primi ragazzi che si riunivano: «Pregate». Coloro che venivano, anche se non partecipavano al contenuto, partecipavano al gesto della preghiera. Dopo un po’ di tempo tutti facevano la comunione quotidiana. Ripetevo loro che il sacramento è la preghiera più grande, l’essenza della preghiera, perché è domanda di tutto il proprio io: un uomo vi partecipa anche senza saper pensare, senza saper dire, senza saper nulla, domanda con la sua presenza: «Sono qui». Come fare, allora, a gerarchizzare valori e contenuti? Che cosa dobbiamo ottenere per poter sviluppare la vita? La domanda che cosa deve domandare? L’affezione a Cristo!
Scrive san Tommaso d’Aquino: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (che nel senso latino del termine significa compimento, completezza). La cosa più bella nella storia del nostro movimento è che centinaia, e poi migliaia di giovani hanno imparato e vivono l’affezione a Cristo, che sola permette vera affezione all’amico, alla donna, a sé.
Ma come ottenere questa capacità di affezione a Cristo? Innanzitutto, soprattutto, al di là di tutto, domandandola. La storia religiosa dell’umanità, cioè la Bibbia, termina con questa frase: «Vieni, Signore Gesù». È una domanda “affettiva”, un’espressione vibrante di “attaccamento”. Fino a pochi anni fa era questa la formula che sempre suggerivamo. Adesso se n’è aggiunta un’altra: Veni Sancte Spiritus. Veni per Mariam. È la stessa, più sviluppata e cosciente.

Un’affezione totalizzante
Un’affezione che sostenga la vita, in cui l’uomo trovi la sua compiutezza, deve avere come contenuto, come oggetto, qualcosa che possa pertinere ad omnia (interessare tutto). Vi è in proposito una nota frase di Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa avvenimento nel suo ambito». Se è un grande amore quello tra un uomo e una donna, i sanguinosi fatti di piazza Tienanmen, un canto sentito, il sole davanti agli occhi, tutto ciò che accade, insomma, diventa un avvenimento nel suo ambito.

Occorre che l’oggetto d’amore sia tale da poter inglobare tutto. Per questo Comunione e Liberazione (una volta si chiamava Gioventù Studentesca) non ha mai organizzato gesti che non fossero inequivocabilmente educativi. La scelta della montagna per le vacanze, per fare un esempio, non è casuale (non abbiamo cominciato col mare, perché il mare è più distraente). La sanità dell’ambiente umano, l’imponente bellezza della natura, favoriscono ogni volta il rinnovarsi della domanda sull’essere, sull’ordine, sulla bontà del reale – il reale è la prima provocazione attraverso cui viene destato in noi il senso religioso –. Con la necessaria disciplina, che è sempre stata rigorosamente curata (la disciplina è come l’alveo di un fiume: l’acqua vi scorre più pura, più limpida, più rapida; la disciplina è necessaria in quanto è riconosciuto un senso a tutto), le vacanze in montagna si sono proposte all’esperienza delle persone come una profezia, sia pur fugace, della promessa cristiana di compimento, come un piccolo anticipo di paradiso, e ogni particolare doveva veicolare quella promessa e realizzare quell’anticipo.
Ciò che tutti normalmente ci rimproverano è il segno della nostra grandezza: che tutto avvenga dentro l’orizzonte della presenza di Cristo, cioè della nostra compagnia. Ci rimproverano che l’esperienza dell’amore a Cristo sia totalizzante: ma tutto ciò che è diviso e staccato dalla Sua presenza sarà distrutto! La divisione è l’inizio della distruzione. Per questo noi abbiamo sempre odiato la parola censura. «Non si può censurare nulla» dicevo «non per passione psicanalitica, ma perché tutto venga alla luce, sia chiarito, spiegato e aiutato».

Una letizia in fondo al dolore
Il segno di una vita che cammina nell’affezione a Cristo, che cioè aderisce e partecipa alla Sua compagnia, è la letizia. «Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» ha affermato Cristo poco prima di morire.

La gioia soltanto è madre del sacrificio: non è ragionevole il sacrificio se non è attirato dalla bellezza del vero. È la bellezza – «splendore del vero» – che chiama al sacrificio. Come dice la Bibbia nel libro del Siracide: «Un cuore felice è anche sereno davanti ai cibi, quello che mangia egli gusta».
Questa gioia e questa letizia stanno anche nel fondo del dolore più acuto, che a un certo punto non si può evitare: il dolore del proprio male. Appartenere alla nostra compagnia significa anzi cominciare a presentire che il dolore più grande è quello del proprio male, del peccato. Nessuno può dire: «Non commetterò più il peccato», perché la coerenza alla legge di Dio, cioè il seguire Cristo, è un miracolo della grazia, non è una capacità nostra. Per questo il punto in cui la libertà del Mistero e la libertà dell’uomo s’abbracciano è la domanda.

La grandezza dell’istante
Un’altra scoperta è diventata normale nella nostra storia: la grandezza dell’istante, l’importanza del momento, del contingente, che è il punto di incontro dell’infinità di sollecitazioni con cui il Mistero ci convoca (non abbiamo perciò niente di più amico delle circostanze inevitabili: esse sono il segno oggettivo del Mistero che ci chiama). Ancora nella liturgia ambrosiana si trova questa bella preghiera: «Tu, Dio, doni alla Chiesa di Cristo di celebrare Misteri ineffabili nei quali la nostra esiguità di creature mortali si rende sublime in un rapporto eterno e la nostra esistenza nel tempo comincia a fiorire come vita senza fine. Così, seguendo il Tuo disegno di amore l’uomo passa da una condizione mortale a una prodigiosa salvezza».

Lo stupore dell’incontro
De Lubac, in Paradossi e nuovi paradossi, osserva che «il conformista [chi aderisce alla mentalità comune, cioè chi non aderisce alla Sua compagnia] prende perfino le cose dello spirito per il loro aspetto formale, esteriore. L’obbediente invece prende perfino le cose della terra per il loro aspetto interiore e sublime». Per questo occorre coltivare una dote umana che è immediatamente propria del bambino e diventa grande quando è propria dell’adulto: lo stupore. Come mi è stato scritto: «Non è comunicato se non ciò che è ricevuto gratuitamente (come da un bambino). E si trattiene solo perché si è stupiti». Occorre incrementare dunque la capacità di stupore: «Se non sarete come bambini non entrerete mai».

Nella seconda parte del primo capitolo del Vangelo di Giovanni si racconta di Giovanni e Andrea che si mettono a seguire Gesù. «Gesù si volta e dice: “Che cosa cercate?”. “Maestro, dove abiti?”. “Venite a vedere”. Ed essi andarono e rimasero tutto quel giorno con Lui». Immaginiamo quei due che vanno dietro, tutti intimiditi, a quel giovane uomo che li precede: chissà con quale stupore lo guardavano e lo ascoltavano!
Un’altra pagina del Vangelo mi colpisce come questa. Descrive il momento in cui Gesù passa in mezzo alla folla di Gerico. Il capo della mafia di Gerico, Zaccheo, si arrampica su un sicomoro per vederLo, perché era piccolo di statura. Gesù gli passa vicino, guarda su, dove si era issato, e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19, 5). Immaginiamo che cosa ha dovuto sentire quell’uomo! È come se Cristo gli avesse detto: «Io ti stimo, Zaccheo, fai presto a scendere, vengo a casa tua». Ma quell’incontro non sarebbe vero – sarebbe come se non fosse avvenuto duemila anni fa – se non avvenisse adesso. Un uomo non può aderire a Cristo se non percepisce che è vero oggi! Gli incontri con persone che ci guardano e ci comprendono come Gesù ha guardato e compreso Zaccheo, e che noi possiamo guardare, sono i fatti più importanti della vita. «Guardate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi»: è l’invito di uno dei primi documenti cristiani, la Didaché.

La compagnia, luogo dell’appartenenza
La comunità, la compagnia, dove l’incontro con Cristo accade, è il luogo dell’appartenenza del nostro io, il luogo da cui esso attinge la modalità ultima di percepire e di sentire le cose, di coglierle intellettualmente e di giudicarle, di immaginare, di progettare, di decidere, di fare. Il nostro io appartiene a questo “corpo” che è la nostra compagnia, e da esso attinge il criterio ultimo per affrontare tutte le cose. Perciò il nostro punto di vista non va per la sua strada, ma si obbliga al paragone e nel paragone obbedisce alla comunità, alla compagnia. Come diceva Rilke alla moglie, in riferimento a quell’appartenenza breve ma esemplare che è il rapporto uomo-donna: «Dove rimane all’oscuro qualcosa, esso è di un genere che non esige chiarimenti, ma sottomissione». Grande è la sottomissione che noi sperimentiamo nella vita della nostra compagnia: è sottomissione al Mistero di Cristo che si rende presente nella nostra compagnia e cammina con noi.

Una affermazione di Péguy coglie bene il punto: «Quando l’allievo non fa che ripetere non la stessa risonanza ma un miserabile ricalco del pensiero del maestro; quando l’allievo non è che un allievo, fosse pure il più grande degli allievi, non genererà mai nulla. Un allievo non comincia a creare che quando introduce egli stesso una risonanza nuova (cioè nella misura in cui non è un allievo). Non che non si debba avere un maestro, ma uno deve discendere dall’altro per le vie naturali della figliazione, non per le vie scolastiche della discepolanza».
Questo è il bisogno della nostra compagnia, perché essa sia sorgente di missione in tutto il mondo: non discepolanza, non ripetitività, ma figliolanza. L’introduzione di un’eco e di una risonanza nuova è propria del figlio che ha la natura del padre. Ha la stessa natura, ma è una realtà nuova. Tant’è vero che il figlio può far meglio del padre e il padre può guardare tutto felice il figlio che è diventato più grande di lui. Ma quello che il figlio fa è più grande proprio e solo in quanto realizza di più quello che il padre ha sentito. Perciò, per l’organicità vivente della nostra compagnia, non esiste niente di più contraddittorio che, da un lato, l’affermazione della propria opinione, della propria misura, del proprio modo di sentire e, dall’altro, la ripetitività. È la figliazione che genera: il sangue dell’uno – del padre – passa nel cuore dell’altro – del figlio – e genera una capacità di realizzazione diversa. Così si moltiplica e si dilata il grande Mistero della Sua presenza, affinché tutti Lo vedano dando gloria a Dio.

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Santo Stefano ovvero dell’amicizia di Cristo

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2011

Santo Stefano ovvero dell’amicizia di Cristo
Omelia di Luigi Giussani per la festa di Santo Stefano
Desio, 26 dicembre 1944

Fonte: Tracce.it

Santo Stefano ovvero dell'amicizia di Cristo dans Don Luigi Giussani Santo-Stefano

Veni Sancte Spiritus.
Veni per Mariam.

Le sacre vesti che i ministri rivestono all’altare non han più il candore di ieri. Rosse sono: simbolo di sangue. Accanto alla dolcissima contemplazione di un Dio bambino riscaldato dall’amore della Madre, quale contrasto la visione di Stefano che muore fra il grandinare delle pietre, coperto di sangue! Con che raccapriccio il nostro pensiero passa dal canto degli angeli e dai volti affettuosi dei pastori alle figure urlanti e frementi d’odio dei lapidatori di Stefano!

Ma l’accostamento è denso di significato. Nel fulgore di luce che circonda la capanna di Betlem si delinea maestosa la figura della Croce.

S. Stefano fu il primo che per seguire il Maestro Divino sacrificò la propria vita. La festa del suo martirio unitamente a quella del S. Natale di cui completa il pensiero, ci danno una lezione di sacrificio. Il suo martirio ci indica un mezzo per aiutarci a vivere questa lezione di sacrificio; il suo martirio ce ne fa vedere i frutti preziosi.

Noi non comprenderemo nulla del vero significato del Natale, se non sentiamo vivamente che Dio si fece uomo per salvare noi: e per salvarci doveva sacrificarsi. Il Bambino, che contempliamo in questi giorni con tutto l’affetto e la riconoscenza di uomini credenti, porta impresso sulla sua fronte a programma di tutta la sua vita e monito alla nostra anima pensosa: «Io son nato a morire per te». Quando la nostra mamma da piccoli ci insegnava a compiere ogni giorno della novena del S. Natale un piccolo fioretto perché il Bambino Gesù ci stesse più comodamente sul fieno rigido e la paglia non lo facesse soffrire – Lui che sarebbe morto in Croce per nostro amore -, la nostra mamma senza saperlo coglieva in modo ingenuo, ma reale, il vero senso della nascita di Dio nel mondo, quello cioè di un profondo sacrificio.

Pensiamo: l’Infinito di Dio si è racchiuso in un minuscolo corpo di bambino. Egli, che ha creato tutto ciò che esiste, si è umiliato a nascere come un meschino figlio di uomo. Egli, l’Eterno, Bellissimo, Incorruttibile ha rivestito questa nostra carne, che ci pesa con tutte le sue esigenze, le sue infermità, la sua condanna a morire e a dissolversi. Egli, ai cui cenni tutte quante le creature si muovono come un canto immenso in Suo onore, ha vissuto in mezzo ai piccoli uomini, trattato colla stessa indifferenza con cui guardiamo le persone ignote che ci passano accanto. Egli, che costruì con meravigliosa sapienza tutte le leggi dell’universo e che conosce anche il più piccolo pensiero che s’alza dal nostro cuore nell’oscurità silenziosa della notte, fu trattato da pazzo. Egli, la giustizia vera, fu condannato ingiustamente. Egli, la vita stessa, in cui ogni vita affonda le radici di sua esistenza, morto sul patibolo degli schiavi. Egli, l’Amore, il cui sguardo trasformava una vita intera, la cui parola consolava una vita intera e di cui il tocco solo delle vesti risanava, giustiziato come un assassino.

La storia del Bambino di Nazareth è una storia di dolore ed è come una grande strada su cui tutti gli uomini, senza distinzione, devono camminare: ma vi è chi la percorre bestemmiando; vi è chi la percorre scuotendo la testa incredulo e senza persuasione; vi è chi la percorre come un lungo lamento, intontito, senza comprendere la meta divina; vi è infine chi la percorre con religiosa rassegnazione: vero martire, cioè testimone di Gesù Cristo – come Stefano -, è colui che si sforza almeno di percorrerla con amore. La vita dell’uomo è colma di fatiche, di rinunce, di dolore: ma l’uomo è attaccato alla sua vita terrena con un istinto formidabile; l’uomo su di essa fabbrica tutti i suoi sogni; in essa colloca tutte le sue speranze; per essa spende tutte le sue fatiche; per tenere la sua vita terrena l’uomo rinuncerebbe volentieri alla certezza di una vita felice nell’aldilà; il dolore e le pene che trova, si sforza bene di diminuirle: con un istinto profondo di egoismo, che cerca di scaricare su chi lo circonda la maggior quantità possibile di pesi, che cerca di asservirsi gli altri, che del bisogno e delle pene del prossimo si disinteressa con sollecitudine. In questa mentalità ogni malato è tenuto come un tollerato; ogni povero è un disgraziato; chi piange, un infelice; ogni essere debole e impotente, una cosa disprezzabile; ogni anima mite, un obbrobrio; ogni individuo poco quotato in società, un fallito. Così sorge l’abborrimento a ciò che costa, la nausea del dovere che impone fatica, l’odio al sacrificio.

A questo punto, per contrasto, mi pare quasi che S. Stefano sorga tra il cumulo dei sassi scagliati, a ricordarci una pagina di Vangelo. Un giorno Gesù si azzardò a dire chiaramente ai discepoli che Egli di lì a poco sarebbe dovuto essere crocifisso. Pietro, presolo per un braccio, si mise a rimproverarlo che così parlasse. Gesù, alzato lo sguardo severo ai discepoli, e con una voce che deve aver fatto rimanere assai male il povero Pietro: «Indietro, Satana – gli intimò -, tu ragioni non collo Spirito di Dio, ma collo spirito di questo mondo» (cfr. Mc 8,33). Indietro, Satana! La distinzione tra Cristo e l’anticristo, fra il cristiano e il non cristiano sta proprio in questa valutazione del sacrificio e della vita. Il sacrificio ha una funzione redentrice, perché è la strada che Cristo ha battuto per salvarci e che ognuno di noi deve seguire per giungere alla sua vera casa. Il sacrificio ha una funzione educatrice, perché ci impedisce di cullare l’illusione che la vita terrena debba durare indefinitamente; ci impedisce di scambiare la misera via del pellegrino colla luminosa eterna felicità della patria. Indietro, Satana! aveva risposto Cristo a Pietro; e levando poi la voce perché l’avesse a sentire anche la folla che gli s’andava accalcando intorno: «Chi mi vuol seguire, su, prenda la sua croce. Perché chi non vuole soffrire ora, soffrirà per sempre; ma chi si sacrificherà ora, godrà per sempre. Che importa a un uomo il divenir padrone dell’universo, se poi perde l’anima sua? Che cosa in cambio darà l’uomo per la sua anima?» (cfr. Mc 8,34-37). Come dovette sentire questo pensiero S. Stefano quando veniva spinto a viva forza fuori dalla Sinagoga e trascinato per le viuzze ingombre dalle baracche dei rigattieri fino al Palazzo del Sommo Sacerdote, per essere condannato alla morte.

Lezione di sacrificio quella di Natale e S. Stefano, ma quale il mezzo per poterla vivere? Ce lo indica S. Stefano colla sua appassionata dedizione al Signore Gesù. Si potrebbe esprimere così: «Non bisogna sentirsi da soli». Quando due sposi fedeli si sentono l’uno vicino all’altro; quando i genitori si sentono vicini ai loro figlioli e i figli accanto ai genitori, la loro forza davanti al sacrificio non è forse centuplicata? Quando degli amici veri si sentono solidali e compatti nel loro Ideale, la loro forza davanti ad ogni ostacolo non si ingigantisce a dismisura? Oh fratelli, e sposo e genitore e figlio e amici altro non sono che una espressione sensibile di Cristo benedetto, l’invisibile ma vero sposo e padre e madre e figlio ed amico, sempre desto accanto a noi con affetto infinitamente premuroso per sostenerci colla sua forza divina. Ma bisogna “credergli”. E credere non è appena prestar fede alle sue parole, ma aderire alla Sua Persona, sentire la Sua Persona sempre presente, dominatrice di ogni attività della vita, di ogni relazione sociale, perfino di ogni forma di pensiero e di sentimento interiore. Dobbiamo poter affermare che nella vita giudicheremmo o agiremmo in modo completamente diverso, se Nostro Signore Gesù Cristo non esistesse: perché Egli è ogni giorno il nostro Maestro personale. «Mi chiamate Maestro, e fate bene: perché lo sono» (cfr. Gv 13,13). È questa fede profonda nella presenza vivente di Nostro Signore Gesù Cristo che fece di Stefano il primo martire: eccolo, ritto, colle braccia elevate mentre la gragniuola di sassi gli cade addosso furibonda: e «lo lapidarono, mentre egli pregava dicendo: “Signore Gesù, accogli l’anima mia”» (cfr. At 7,59).

Un ultimo riflesso ci suggerisce la festa di oggi. «Noi abbiamo abbandonato tutto, Signore, per seguirti» (cfr. Mt 19,27), esclamò una volta Pietro a Gesù. E voleva quasi soggiungere: «Che ci darai?». Gesù rispose alla domanda sottintesa: «Il centuplo in questa vita e la vita eterna» (cfr. Mt 19,29). Il centuplo in questa vita. È una gloria anche terrena: dopo tanti secoli ancora oggi milioni di uomini in tutto il mondo rendono il loro canto di omaggio a S. Stefano e la sua apoteosi s’innalza come una magnifica cattedrale, fatta di ammirazione, di gloria, di amore, di entusiasmo, di venerazione. Ma soprattutto il frutto del sacrificio accolto sulla terra è la pace. Il bene dell’esilio è la pace, come il bene della patria è la felicità. Io parlo, fratelli, della pace interiore, senza di cui non si può godere completamente di nulla; della pace interiore, perché quella esterna in tanto è necessaria in quanto che senza di essa diviene molto più difficile il mantenere quella interiore dello spirito: noi oggi ne abbiamo l’esperienza. La pace vera, quella che importa e che è la sicurezza grande della coscienza che cerca di fare la volontà di Dio; la pace vera, quella che importa e che è la tranquillità profonda che ognuno di noi può sentire, ma che è quasi impossibile far capire a uno che non la prova; che ci lascia lo strazio e il dolore e l’ansia della fatica, ma che in fondo all’anima, appena ci ritorniamo, ci fa trovare una fedele rassegnazione, una silenziosa e certa speranza; la pace vera, quella che importa e che è una pazienza piena di bontà e di comprensione per gli altri, che son tutti nostri fratelli e miseri come noi. Ecco Stefano, colpito a morte, cade in ginocchio con un ultimo grido pieno di pace: «Signore, perdona loro questo peccato» (cfr. At 7,60).

Ci dia Gesù Bambino, per intercessione della Madonna, come la diede al Suo primo martire, la forza sovrumana di saperLo seguire sulla strada della Croce, che è la legge di ogni vita, che è la legge di ogni vero amore, che è – ora – soprattutto la legge della vera amicizia con Cristo. Questa forza Egli la darà ai suoi poveri fratelli uomini, i cui giorni disgraziati fanno toccare con mano come non siamo fatti per la terra.

A noi che dobbiamo soffrire e non vogliamo soffrire, noi che dobbiamo piangere e versiamo con amarezza impotente le nostre lacrime; noi che siamo spogliati e martoriati, e ci ribelliamo con istinto di belve ferite agli strappi rudi; noi che dobbiamo morire e vorremmo fuggire dalla morte con raccapriccio e con orrore. Ci dia di soffrire in pace; di piangere in pace; di sentirci martoriati in pace; di morire in pace.

Nella sua visione dell’Apocalisse S. Giovanni vide davanti al trono dell’Agnello, cioè di Cristo, una immensa moltitudine di persone biancovestita, con una palma tra le mani. Domandò chi fossero: «Essi sono coloro che vennero dalla tribolazione e hanno reso bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello [cioè nella croce e nel dolore]. Perciò ora sono davanti al trono di Dio. Essi non avranno più né fame né sete, né il sole mai tramonterà per essi. E l’Agnello li condurrà per sempre alla sorgente della vita, della felicità, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (cfr. Ap 7,14-17). Et absterget Deus omnem lacrimam ex oculis eorum. Che meravigliosa cosa! Ricordiamo, fratelli, nel nostro dolore, la visione di S. Giovanni, e confortiamoci al dolcissimo pensiero che «Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi».

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La verità nasca dalla carne

Posté par atempodiblog le 7 novembre 2011

“Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”.
Emmanuel Mounier

La verità nasca dalla carne dans Don Luigi Giussani cieloi

“La verità nasca dalla carne”. […] si capisce benissimo quel che vuole dire, ma non ci si rende conto di quel che vuole dire. “Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”. Soltanto se la verità nasce dalla carne c’è un parto pieno di letizia, la vita diventa feconda, c’è un’opera che cresce nella pazienza, questa forza suprema e sublime dell’uomo che ha un ideale. E’ solo dalla verità che nasce dalla carne che si stabilisce una storia nuova, piena di calma e di sicurezza, senza presunzione e senza scosse violente, senza violenza.

“Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”. […] Che la verità nasca dalla carne – e la verità è ciò che ci è stato annunciato, è Cristo, in tutto consiste – vuole dire che Cristo sia testimoniato e reso visibile dal tuo modo di alzarti al mattino, ché la carne è alzarsi al mattino; dal tuo modo di intrattenere i rapporti con i tuoi familiari, perché la carne è il modo di stare con i tuoi familiari; dal tuo modo di andare a scuola, perché la carne è la strada che devi percorrere per andare a scuola, è il treno, è il tranvai e l’automobile; dal tuo modo di affrontare la scuola e il professore e il contenuto e i libri e i testi e il tempo da non perdere.

Che la verità nasca dalla carne significa che la verità deve determinare un cambiamento – che la riveli presente – nel tuo rapporto con la ragazza, nel rapporto tra l’uomo e la donna, significa che deve determinare un cambiamento nel comportamento verso te sesso, di sentire te stesso, di sentire fluirti dentro l’attaccamento all’esistenza, nel modo con cui reagisci al sentirti dentro tremare tutto o stancarti o annoiarti, nel modo con cui pensi al tuo passato, nel modo con cui tu guardi l’azione compiuta, nel modo con cui tu guardi questo presente, che sarebbe pieno di uggia, pieno di niente, di aridità, deserto, “nomi senza perché”. Che la verità nasca dalla carne vuole dire che cambino queste cose, perché non si comprende e non si arriva a Cristo, se non dal di dentro di questo cambiamento.

La presenza di Cristo ora, “qui e ora” (Giovanni Paolo II, Discorso al movimento di ‘Comunione e Liberazione’), come diceva il Papa, è sperimentabile in – in, in! -, è sperimentabile in questi cambiamenti. Con la frase di tomistica memoria: “L’essere è là dove agisce”. L’essere lo si percepisce presente dove agisce: se senti il suono di un “din don”, c’è una campana che vibra. L’essere è presente dove agisce. Cristo è presente in questo cambiamento nella tua carne, cioè della tua umanità concreta. […] il parto pieno di gioia è questo, il sentimento dell’opera che cresce con la forza sublime della pazienza (“Nella vostra pazienza possederete voi stessi”) è questo: è dentro, Cristo. La Sua potenza, la potenza della Sua presenza è dentro l’esperienza presente di un cambiamento, che diventa parto, esperienza di generazione, esperienza di un’opera che cresce fino a diventare esperienza di una storia che rimane, tappe che si susseguono con calma, con sicurezza: tutta la misconoscenza, anche di chi dovrebbe aiutarci, non riesce più a togliere la nostra persona dalla strada su cui è stata messa. Se anche si scandalizzano dei vostri errori, dimenticando in modo atroce e inverecondo i loro – come dei genitori che si sfoghino sui piccoli errori dei piccoli, piccoli rispetto a quelli che fanno loro -, non riescono a distrarci da questa strada. Però, occorre che la verità nasca dalla carne: che il discorso diventi esperienza vuol dire che tu sperimenti questo, t’accorgi di questo, lavori per questo, “fabbrichi” questo, perché nulla si cambia in te – salvo il dono originale, che è pure in ogni momento -, nulla si cambia in te, il dono originale non si fissa in te, se non con la tua collaborazione.

Don Luigi Giussani – Ciò che abbiamo di più caro. Ed. Rizzoli

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Una compagnia guidata al destino

Posté par atempodiblog le 7 novembre 2011

Una compagnia guidata al destino dans Amicizia dongius

L’amicizia è una compagnia guidata al destino.
Bisogna cercare questa amicizia.
L’amicizia non è la possibilità di sfogarsi vicendevolmente.
L’amicizia è possedere in comune qualcosa di grande.
L’amicizia è tanto più grande quanto più è grande ciò che si possiede in comune.
Perciò la più grande amicizia è possedere in comune il destino.
Una compagnia guidata al destino.

Don Luigi Giussani

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