PASQUA/ Come potrebbe Cristo non essere risorto, se ci cambia ora?

Posté par atempodiblog le 10 avril 2023

PASQUA/ Come potrebbe Cristo non essere risorto, se ci cambia ora?
La morte è davvero la grande questione della vita. Si dice che duemila anni fa un uomo sia risorto dai morti. Il fatto è che esiste ed opera. Dunque è vero
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

PASQUA/ Come potrebbe Cristo non essere risorto, se ci cambia ora? dans Articoli di Giornali e News Santa-Pasqua

I giorni di Pasqua, come quelli di Natale, sono pieni di auguri: le persone inviano gradevoli messaggi, immagini e frasi che esprimono contenuti e propositi. Nelle banche dati facilmente consultabili in rete, si reperiscono materiali sempre nuovi, idee da comunicare sulle chat personali, nei post, all’interno dei gruppi. È il modo con cui il nostro tempo riduce la festa ad un genere di consumo, qualcosa da cui è possibile assorbire un’emozione di breve durata che ci predisponga velocemente all’emozione successiva. L’importante, in fondo, è che la festa non ci disturbi e non ci cambi. Le parole, in questo modo, smettono di essere lo strumento con cui uno comprende di più quello che vive e diventano il rivestimento con cui ci allontaniamo e ci difendiamo dall’esperienza concreta.

Tutti gli articoli, tutte le riflessioni – perfino quella che scorre adesso sotto gli occhi di chi legge –, si prestano a fare il gioco di chi non ha alcuna intenzione di imparare qualcosa da quello che accade, ma desidera semplicemente perpetrare quello che già sa, quello che già conosce e lo rassicura.

Il paradosso è diventato ancora più grande nel giorno di Pasqua, la festa che introduce il cambiamento più grande e rivoluzionario della storia: un uomo che risorge dai morti. Siamo così abituati a sentire questa storia che quasi ci dimentichiamo che la morte è davvero la grande questione della vita: nostro marito muore, nostra moglie muore, i nostri genitori e i nostri figli muoiono. Ma muore anche la passione per il lavoro, muore l’amore fra due persone, muore il desiderio con cui uno comincia la facoltà o la scuola superiore. Non c’è una cosa che non finisca. E a questa fine non c’è scampo. Camus, volendo aggiungere l’asso in una partita a carte già vinta, diceva che “gli uomini muoiono e non sono felici”.

Non solo l’ombra della fine incombe su tutto, anche sull’ultimo neonato che viene alla vita, ma questa fine è accompagnata da un’oscurità più grande, quella dell’infelicità. Siamo infelici per le nostre scelte, per come siamo trattati, abbandonati, esclusi. Siamo infelici per una vita che non è andata o non sta andando come vorremmo. E tutto è maledettamente in corsa verso la morte.

In questo fosco quadro, che spesso anestetizziamo con un discorsetto preciso e pulito, con l’alcool o con la droga, col sesso o col cinismo dei soldi, accade qualcosa di inaudito: la scomparsa di un corpo. Duemila anni fa un corpo, un corpo di un morto, è letteralmente svanito nel nulla. In tanti dicono che è stato portato via nottetempo, in molti suggeriscono si tratti di un complotto senza precedenti, qualcuno sostiene di averlo visto vivo.

Ora, se nei primi due casi sarebbe per noi impossibile determinare con certezza quanto accadde in quella notte, nel terzo caso la soluzione sarebbe incredibilmente più lineare, più semplice: se un morto è risorto, e non è più morto, esso è ancora vivo. E se è vivo, si badi bene, significa che è possibile ancora oggi incontrarlo, al punto tale che la grande questione del cristianesimo non riguarderebbe tanto la storicità del fatto, bensì se Gesù Cristo sia o sia stato. Se è stato, Egli non è più e quello che rimane è un insegnamento eticamente potente; ma se Egli è, se Egli sta, se Egli è presente, allora il punto è poterlo intercettare, poterlo rivedere.

E, cosa non da poco, questo “poterlo rivedere” non sarebbe ad appannaggio dei soliti capi, dei soliti noti delle gerarchie di qualunque tempio, ma sarebbe ad un passo da tutti, ad un passo da te.

Perché in ognuno di noi il Mistero ha posto un cuore capace di riconoscerLo, capace di sobbalzare ogni qualvolta il Suo sguardo entri in contatto con il nostro sguardo. Un cuore che il tempo, e il cinismo di questo tempo, ha forse messo a tacere, ma che la Chiesa continuamente educa e risveglia, chiamandolo a guardare oltre, ad allargare quella ragione che è un tutt’uno con il cuore e che è affermazione indomita di verità, di bellezza, di giustizia e di amore.

Non si tratta, in questi giorni, di farci gli auguri di Pasqua. Non si tratta di spegnere con i nostri discorsi la sfida affascinante che ci aspetta: si tratta di capire se Colui che dicono essere vivo sia davvero vivo, se la Sua grande presenza possa guarire il nostro amore, il nostro matrimonio, la nostra famiglia, la nostra comunità e la nostra vita dalla fine orribile di un’esistenza senza senso votata all’oblio.

Se questo fosse vero, se questo fosse possibile, come apparirebbero grotteschi i nostri auguri pasquali! Come apparirebbero banali i nostri testi o le nostre devote immagini! Davvero tutto diventerebbe urgente: la nostra amicizia, il nostro pranzo di festa, la nostra preghiera, il nostro ritrovarci. Tutto avrebbe come unica tensione il testimoniarci a vicenda un fatto, con tanto di data e ora, capace di capovolgere tutto. Capace di far ricominciare un’intera vita. E questa sì, allora, sarebbe davvero una buona Pasqua.

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19ENNE SUICIDA/ Quando tutto è “troppo” per vivere, ci serve una risposta senza fine

Posté par atempodiblog le 2 février 2023

19ENNE SUICIDA/ Quando tutto è “troppo” per vivere, ci serve una risposta senza fine
Una 19enne si è suicidata suicida nei bagni dello Iulm a Milano. “Ho fallito negli studi e nella vita”, ha lasciato scritto in un biglietto
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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Togliersi la vita a diciannove anni. Per qualcosa che ti ingombra dentro e che ti dice che, in fondo, non sei all’altezza, non ce la farai. È successo stavolta allo Iulm di Milano, nei bagni dell’edificio 5 che dà su via Santander. È successo ad una studentessa del corso di Arti e Turismo, classe 2003, che certamente sentiva il rimorso per un esame non dato nella prestigiosa e costosa università privata meneghina.

Ma l’esame era solo la punta dell’iceberg di vicende personali e tormenti che hanno fatto apparire la prospettiva di vivere come impossibile. Il suo testamento in un povero biglietto rinvenuto dal custode assieme al corpo. Un corpo impiccato ad una semplicissima sciarpa e un testo segnato da una parola più grande di tutte le altre: fallimento. Ma come può apparire fallita una vita a diciannove anni? Di quali aspettative si sentono oggetto i ventenni di oggi, fragili, nati tutti nel nuovo secolo?

C’è un dolore che abita nel cuore di questi universitari che nessun social, nessun podcast, nessuna notte di sesso o sballo può cancellare. Dopo una vita passata ad essere protetti e schermati dalla realtà, il duro contraccolpo con il mondo adulto rivela un’amara delusione: quel diventare grandi, cercato e agognato per tutta la vita, si scopre che coincide col rimanere soli, senza una vera appartenenza e senza un perché.

E non bastano le serate trascorse ad annegare l’amarezza nei locali delle città, non bastano gli amici che sono messi come te, se non peggio, non bastano le nuove idealità che assicurano la felicità quando tutti avremo il diritto di far tutto. Il cuore è solo e lo sa, sgomento per aver colto che la promessa della vita non coincide più con la promessa della felicità. Il cuore è senza speranza, schiacciato dai propri limiti, dalle proprie sconfitte, dai propri insuccessi. Tutto attorno sembra troppo per continuare a vivere.

E anche gli adulti, quegli adulti fino a quel momento ignorati da un’adolescenza presuntuosa e caparbia – come devono essere tutte le adolescenze –, si mostrano per quello che sono: difettosi e desiderosi di trovare riscatto nella vita dei figli, tutti presi a trasferire su di loro il proprio schema di perfezione, i propri tempi, i propri valori.

Nessun uomo potrebbe vivere a lungo in queste condizioni, nessun uomo – infatti – potrebbe essere trasformato in speranza senza deludere. Quando si perde il senso di Qualcosa di più grande, di Infinito, che possa compiere la vita, l’altro diventa la mia speranza. Mariti che sperano nelle mogli, mogli che sperano nei mariti, genitori che sperano nei figli, amici che sperano negli amici, comunità che sperano in sé stesse. Viviamo nel tempo del grande ricatto, in cui tutti siamo guardati con aspettative infinite che non possiamo soddisfare.

Avendo perso Dio, è rimasto solo l’uomo. Ma l’uomo è troppo poco per il cuore. L’educazione oggi si concentra su alcuni dettagli secondari che non hanno niente a che vedere con l’apertura del cuore che è necessario avere per sostenere fino in fondo l’urto della vita. A quattordici anni i nostri ragazzi sono pieni di nostalgia, a sedici di struggimento, a diciannove di disperazione. E con la disperazione nel cuore o entri nell’ingranaggio del sistema, che soffoca tutto e ti rende perfetto per il consumo, oppure non ce la fai. E ti uccidi. Non basta che la mamma ti voglia bene. Manca l’amore di Dio, la fiducia di Uno che ti offre come prospettiva l’eternità.

Quando la morte non fa più paura è perché è la vita ad essere diventata spaventosa. E chi ci salva dallo spavento è l’abbraccio improvviso di un Altro con cui ricomincia tutto, con cui tutto può essere perdonato.

Nei bagni dello Iulm è dunque rimasta un’ombra di morte. Il dolore che è deflagrato in quei corridoi è un grido che non si spegne e che chiede a tutti, in fondo, di rispondere alla domanda più vera e più radicale di tutte, quella sul motivo per cui siamo al mondo. Quella sul perché le cose, tutte le cose, comincino. Il valore dell’uomo non coincide con quello che riesce a realizzare, ma con lo sguardo che determina la propria vita. In un tempo impregnato dagli odori della morte non c’è cuore che non desideri sentire il profumo della resurrezione. Distrarsi da questo significa soltanto condannarsi alla lunga fila che porta al bagno dell’edificio 5.

Divisore dans San Francesco di Sales

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Russia e Ucraina, l’abbraccio e il perdono

Posté par atempodiblog le 17 mars 2022

Russia e Ucraina, l’abbraccio e il perdono
Il 25 marzo papa Francesco consacrerà la Russia e l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, rinnovando il gesto di san Giovanni Paolo II
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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“Siete andati così bene fino ad oggi, perché adesso voi cattolici tirate fuori il vostro armamentario magico?”. Il bicchierino del primo caffè della mattina finisce nel cestino insieme alla tagliente frase che la collega pronuncia commentando la notizia della consacrazione al Cuore Immacolato di Maria della Russia e dell’Ucraina, decisa da papa Francesco per il prossimo 25 marzo, festa dell’Annunciazione e giornata di preghiera della Chiesa in adorazione eucaristica per le cosiddette “24 ore per il Signore”, momento penitenziale forte all’interno della Quaresima.

Eppure ai vescovi dell’Ucraina che quotidianamente vivono sotto le bombe, rischiando la loro vita per non abbandonare il popolo, non è venuto in mente niente di più concreto e di più solido che chiedere al Papa di compiere proprio quel gesto, attribuendogli un grande significato simbolico, penitenziale e decisivo per le sorti della nazione ucraina.

Il tutto si arricchisce di un’attenzione che lascia trapelare quanto il Pontefice condivida fermamente questa decisione: infatti non solo lui compirà l’atto nella Basilica di San Pietro, ma lo stesso giorno la consacrazione sarà ripetuta dal cardinal Krajewski – Elemosiniere del Papa – proprio a Fatima.

La Chiesa dalla quale ci si aspetta iniziative diplomatiche, provvedimenti per i profughi, raccolte di beni per i più poveri, si presenta ai fedeli con un gesto così apparentemente straniante che viene da chiedersi in quale brandello di esperienza della vita esso trovi senso e fondamento. Il fatto è che consacrare qualcosa, nella dinamica della fede, significa determinare un’appartenenza, un destino, un abbraccio, significa avere fiducia che ciò che veramente cura l’esistenza – e cambia la storia – non è qualcosa che l’uomo può fare, ma un bene a cui deve cedere. Nella mentalità comune l’umanità è abituata prima a mettercela tutta e poi a farsi aiutare, come se la questione dirimente fosse l’azione umana, lo sforzo del singolo: nell’esperienza cristiana ciò che cura e guarisce è lo sguardo di un Altro, l’abbraccio di Qualcuno che cambia il nostro cuore in profondità.

È la Grazia che mette in moto la libertà, non la libertà che genera la Grazia. C’è un punto dell’esistenza, un istante del vivere, in cui l’unica cosa davvero concreta da desiderare è il cambiamento del cuore. In quel preciso spazio la preghiera diventa necessaria come l’aria, affinché il fiotto di un’inaudita primavera irrompa nel grigiore con cui normalmente percepiamo tutto. Mettersi nell’ottica di offrire questo abbraccio all’Ucraina e alla Russia significa scegliere lo sguardo di Dio, uno sguardo che va oltre la politica e le evidenti responsabilità storiche della guerra, per offrirsi a chi piange e a chi soffre come “misericordia” che argine gli errori delle nazioni e restituisce alla storia l’identità di un popolo, identità che è superiore alle barriere degli Stati e che trova nel pieno riconoscimento della reciproca fraternità la sua più completa manifestazione.

Dio sta dalla parte dell’umano, Dio sta dalla parte delle nostre ferite. La maternità di Maria non è un pio esercizio di immaginazione, ma l’irruzione nel tempo di una forza impensata, non scontata, dirompente. Nessuno può fare finta di niente di fronte a Uno che ti abbraccia e ti perdona. È così che Dio spazza via tutte le resistenze, tutte le meschinità, anche il perfido cinismo con cui siamo abituati a bere il primo caffè della mattina.

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PAPA LUCIANI BEATO/ L’umiltà di vivere ogni momento al cospetto del Mistero

Posté par atempodiblog le 14 octobre 2021

PAPA LUCIANI BEATO/ L’umiltà di vivere ogni momento al cospetto del Mistero
La beatificazione di Giovanni Paolo I, Albino Luciani, indica alla Chiesa una strada di umiltà, saggezza e prudenza nel vivere la vede
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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Quando la Chiesa riconosce le condizioni per proclamare uno dei suoi figli “beato”, essa non vuole soltanto offrire ai contemporanei un altro punto sicuro di venerazione, ma intende proporre il carattere del nuovo beato, la sua storia e la sua stessa sensibilità, quale strada sicura per giungere a Dio, per poterne fare esperienza. L’annuncio della prossima beatificazione di Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani (1912-1978) patriarca di Venezia, ha così il potere di comunicare a tutta la cristianità uno stile con cui oggi, in questo tempo così confuso e violento, vivere la fede.

Luciani trascorse tutta la sua vita nell’ombra, custodendo tanto silenzio e grande ironia. Dinnanzi alla tentazione di dire una parola su ogni grande questione del nostro tempo, Luciani ci riporta alla necessità di ascoltare e di sorridere, di cogliere la contraddizione che spesso connota i grandi protagonisti dei nostri giorni senza alcun bisogno di comunicare a chicchessia le nostre posizioni e di iscriverci ad uno dei partiti che animano la vita politica o ecclesiale dei nostri giorni.

Egli non mostra la via dell’ignavia, quanto quella della prudenza, della saggezza, del sapiente distacco dalle diatribe della quotidianità. Ma Luciani significa pure devozione fervida a Maria, Nostra Signora di Fatima, figura con la quale il patriarca di Venezia era ben consapevole che si poteva e si doveva leggere la storia. I nostri non sono giorni abbandonati, ma tempo sacro pensato, voluto e benedetto da Dio.

Infine Giovanni Paolo I implica “humilitas”, la parola che egli stesso si fece apporre come stemma in quei trentatré giorni del 1978, humilitas di chi sa di non sapere tutto, ma di essere sempre e comunque al cospetto del Mistero. Prima dei grandi giorni del papa polacco, la Chiesa seppe vivere i piccoli giorni del papa della Speranza, dell’ironia, della mitezza. E forse sono proprio queste tre cose quelle che oggi ci servono per ripartire. Alla sequela di Cristo.

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FRATELLI TUTTI/ Guerre, creato, pandemia: solo un Padre può guarire noi e la realtà

Posté par atempodiblog le 5 octobre 2020

FRATELLI TUTTI/ Guerre, creato, pandemia: solo un Padre può guarire noi e la realtà
Ieri è stata pubblicata la nuova enciclica di papa Francesco, dal titolo “Fratelli tutti”. Tre considerazioni utili per addentrarsi nella sua lettura
di don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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FRATELLI TUTTI, ENCICLICA DI PAPA FRANCESCO. Sarà la storia a dirci se l’enciclica firmata il 3 ottobre da papa Francesco, e pubblicata nel giorno in cui la Chiesa celebra proprio il poverello di Assisi, sarà anche il testamento del suo pontificato o piuttosto l’ennesima profezia che alza lo sguardo dalla miseria delle vicende terrene in cui è impantanata la Santa Sede per donare nuovamente all’umanità orizzonte e prospettiva. Tuttavia la Fratelli tutti – questo il nome del documento – col suo centinaio abbondante di pagine e i suoi otto capitoli si presenta da subito come un nuovo atto dirompente di questo pontificato. Lo fa nei temi, decisamente non nuovi per l’età bergogliana, ma soprattutto nei toni: la condanna della guerra e la perentorietà con cui si esclude l’esistenza di un conflitto “giusto” suonano come un netto superamento del catechismo del 1992 e hanno il sapore di un pronunciamento dogmatico e definitivo che difficilmente i futuri successori di Pietro potranno ignorare.

Ma l’enciclica non è soltanto questo: c’è dentro un ampliamento radicale dei principi della Dottrina sociale della Chiesa, dalla destinazione universale dei beni al primato del bene comune, dalla sussidiarietà alla solidarietà, dalla necessità di partecipare al processo politico fino al primato della persona in quanto depositaria del mandato divino di custode del creato. Ci saranno riflessioni e voci autorevoli che potranno squadernare implicazioni, tematiche e ripercussioni delle parole impresse dal Papa nell’agone del dibattito intra ed extra ecclesiale, eppure s’indovinano almeno tre prime considerazioni che – a caldo – possono fungere da bussola per tutti coloro che vogliano addentrarsi nella lettura diretta del testo.

In primis, è portata a compimento la profezia di Benedetto XVI quando asseriva che solo la Chiesa – paradossalmente – sarebbe rimasta a difendere i valori illuministi della ragione in virtù del suo legame con l’origine di quei valori, Gesù Cristo. Francesco ripropone la terna parigina di libertà, fraternità e uguaglianza non come pietre con cui seppellire il bimillenario apporto della Chiesa alla società, ma come tasselli con cui oggi la medesima Chiesa richiama l’uomo a ricostruire il tessuto sociale e civile del nostro tempo.

E poi la pandemia, vista come il sintomo con cui la realtà ripresenta all’uomo il bisogno di essere guarita, di avere qualcuno che la risani. Il Papa ne parla citando Enea: “Sono le lacrime che provengono dalle cose e dalle manifestazioni della mortalità a poter toccare davvero le menti”. “Se tutto è connesso – suggerisce Francesco – è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si ribella”, interpellandoci.

Ecco: è questa chiamata all’umano che segna l’orizzonte e la traiettoria della Chiesa di Bergoglio, una chiamata trasversale a tutte le religioni, libera dai condizionamenti politici dei populismi e delle ideologie liberali, ma fortemente radicata in quel Vangelo che il Papa annuncia come autentico servizio all’umanità. Perché che cosa può davvero risvegliare l’umano e renderlo rinnovato protagonista della storia? Non una strategia, non un piano politico, ma solo un fatto capace di calamitare tutta l’energia affettiva e morale dell’Io. Un fatto che sferzi i nostri cuori di pietra e con cui intraprendere la strada del cambiamento, della conversione. La strada che – unica – può rispondere al bisogno di ricominciare, e di rinascere, che si nasconde dentro il cuore di ogni uomo e del mondo intero.

Fratelli tutti dunque, figli pieni di desiderio e mendicanti di un Padre che, come buon samaritano, risani il nostro cuore e le nostre indicibili – a volte perfino scandalose – ferite.

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NOTTE DI SAN LORENZO 2020/ Perché i nostri desideri meritano le “lacrime” di Dio?

Posté par atempodiblog le 10 août 2020

NOTTE DI SAN LORENZO 2020/ Perché i nostri desideri meritano le “lacrime” di Dio?
Nella notte di San Lorenzo “cadono” le stelle. Secondo la tradizione, sono le lacrime del Cielo per il martirio del giovane Lorenzo (225-258)
di don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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NOTTE DI SAN LORENZO. Scolpito in un inconsapevole cielo, il giorno di san Lorenzo suscita come ogni anno stupore e meraviglia. Al di là dell’evento scientifico – il passaggio dello sciame meteoritico delle Perseidi, che stelle cadenti certamente non sono – c’è tutta una fitta storia e un appassionante significato a sorreggere la magia di una notte che da secoli tiene gli occidentali con il naso all’insù, pronti ad unire i loro più profondi desideri alla vista delle scie luminose che feriscono il manto stellato.

Si narra del diacono spagnolo Lorenzo, del suo legame di fede e figliolanza con il colto Sisto e di come quest’ultimo – una volta divenuto Papa – abbia chiamato Lorenzo a Roma per sovrintendere alla grande opera di carità della chiesa capitolina. I fatti, documentati da più fonti, fanno coincidere il pontificato di Sisto con la persecuzione terribile scatenata dall’editto di Valeriano del 258 che, al principio di agosto di quell’anno, metteva a morte tutto il clero di Roma. Arrestato e scortato verso la sua inevitabile fine, papa Sisto fu visto da Lorenzo il quale pianse non per l’angoscia del momento, quanto per non poter egli stesso vivere una tale esperienza di Grazia.

Quelle lacrime, così vere e così profetiche – la tradizione vuole infatti che tre giorni dopo Sisto anche Lorenzo fosse martirizzato –, meravigliarono e stupirono tutti i cristiani del tempo, colpiti dal fatto che si potesse desiderare non questa o quella cosa, ma la morte e l’esperienza stessa del Cielo.

In un mondo di desideri piccoli e di piccoli egoismi, le lacrime di Lorenzo divennero subito un avvenimento tale da portare centinaia e migliaia di fedeli a venerare Lorenzo come uno dei più insigni fra i martiri della Chiesa nascente, uno cui restare attaccati per sperimentare in modo chiaro e inequivocabile la forza di una fede che cambia e che trasforma, aprendo all’uomo le strade di una dignità più compiuta. Il felice connubio tra le lacrime del giovane martire e l’evento atmosferico dello sciame meteoritico generò nel popolo un’ulteriore conferma della fede di Lorenzo e insinuò in molti il proposito di unire alle lacrime del Santo anche quelle generate dai desideri più profondi che la vita si porta con sé.

Fa dunque effetto vedere il Cielo piangere e riconoscere in quel pianto un po’ delle nostre lacrime, al punto da unire al segno nella notte le più profonde aspirazioni dell’anima. Giovanni Pascoli perse in modo drammatico il padre la notte del 10 agosto e riconobbe nelle lacrime del cielo una sorta di partecipazione al dolore umano da parte del mistero di Dio. Quanto l’uomo deve essere prezioso agli occhi del Mistero per meritare le lacrime di Dio!

Possa il ricordo di Lorenzo e la memoria della nostra infinita statura tenerci svegli in questa notte di mezza estate, desiderosi soltanto di poter rivedere riaccadere in noi lo stesso miracolo e lo stesso cuore che ha commosso Lorenzo a tal punto da renderlo per sempre nostro amico, maestro, compagno di un cammino che merita di essere vissuto. Stella dopo stella, desiderio dopo desiderio.

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CHARLIE GARD DEVE MORIRE/ Quella volontà cattiva di sbarazzarci del Mistero

Posté par atempodiblog le 28 juin 2017

CHARLIE GARD DEVE MORIRE/ Quella volontà cattiva di sbarazzarci del Mistero
I giudici della Cedu hanno dato ragione all’Alta corte inglese: Charlie Gard non ha diritto di vivere. Va eliminato. Perché ci rifiutiamo di esserne custodi?
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

CHARLIE GARD DEVE MORIRE/ Quella volontà cattiva di sbarazzarci del Mistero dans Articoli di Giornali e News Charlie_Gard

CHARLIE GARD. Giunge ad un triste epilogo la vicenda di Charlie Gard, il piccolo neonato britannico affetto da una malattia mitocondriale molto rara dinnanzi alla quale i medici hanno pronosticato morte certa, mentre i genitori hanno vagliato qualunque via legale per poterlo tenere in vita. L’ultima carta l’hanno giocata alla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha, dapprima, deferito la decisione e poi, nella serata di ieri, accolto le conclusioni del personale medico inglese e sentenziato che Londra può portare avanti le procedure per interrompere quello che la giustizia di Sua Maestà ha definito un accanimento terapeutico foriero solo di inutile dolore.

La domanda che tocca farsi è però molto diversa da quella che ha animato tanti dibattiti di questi mesi. Non importa, infatti, sapere chi ha ragione, quanto comprendere che tipo di problema Charlie sollevi nella nostra vita. Non si tratta di un problema legale, ossia di determinare fino a che punto le leggi degli stati possano spingersi nella vita degli uomini. Infatti le leggi, in questo caso, regolano atteggiamenti, comportamenti e azioni che vengono prima della legge stessa. Non è neppure un problema di libertà della famiglia: molte famiglie compiono scelte libere ma sbagliate per i loro figli e idolatrare la libertà della famiglia di Charlie oggi, solo perché coincide con quello che si pensa, potrebbe essere deleterio domani, quando magari dovremmo decidere se una famiglia può alimentare in modo vegano un neonato privandolo dell’apporto fondamentale di alcuni nutrienti.

Tutte queste cose sono per esperti, per tecnici che non mancheranno — anche su queste stesse colonne — di fornire i loro pareri e i loro punti di vista. La storia di Charlie è al contrario un problema di realtà e la questione che pone Charlie è il fatto stesso che lui c’è, esista. Mai come in questo caso possiamo toccare con mano che cos’è che ferisce davvero la nostra vita e il nostro amor proprio: il fatto che una cosa, che le cose, ci siano. Charlie è una persona viva, presente, la cui stessa esistenza risulta intollerabile non a lui, ma a chi tutti i giorni deve incrociarne lo sguardo.

Come una moglie, un marito, un collega, un figlio, una madre o un vicino di casa, è il fatto che egli sia che ci tormenta e che ci costringe a metterci in discussione. Charlie non è quello che ci aspettavamo, non è il bambino delle pubblicità, non è l’ideale di figlio che i genitori sognano quando mettono la testa e il cuore sul proprio futuro, ma è quello che c’è, quello che esiste. Più lui permane, più la nostra impotenza come medici e come adulti permane, più lui ci pone un problema, ci pone delle domande, ci sfida. Siamo così presi dalle nostre idee, dalle nostre opinioni, che non possiamo tollerare che qualcosa persista e continui a disturbarci.

Lo vogliono togliere di mezzo. Non le leggi dei giudici inglesi, non i pareri dei medici, ma il cuore degli uomini. I genitori, in tutto questo, non chiedono altro che attendere, che aspettare, che lasciare aperta una porticina, uno spiraglio, alla speranza, alla luce, all’esistenza. Ma si creerebbe troppo imbarazzo se lui, con la sua resilienza, continuasse a vivere, a lottare, a rimanere, si creerebbero costi, rebus collaterali, nuove diatribe. Quella vita, insomma, va eliminata perché disturba. Essa mette troppo in gioco le dinamiche, le strutture e i processi del nostro tempo. E c’è da giurarci che i fedeli garanti della giustizia lo faranno, lo faranno presto, nel giro di poche ore. Senza alcuna compassione, senza alcuna pietà. Col solo desiderio di togliersi dal cuore il dubbio, l’ombra, che Charlie continua a insinuare con la sua esistenza. E se fosse vero? E se la vita non fosse solo nostra?

Non c’è tempo, bisogna agire. E come Caino di ritorno dai campi, a chi dovesse chiedere conto di quanto accaduto si potrà sempre rispondere con una punta di sdegno: “Sono forse io il custode del mio fratello?”, oppure usando parole ben più macabre e più contemporanee, ribadire che – in fondo – “si sono solo eseguiti gli ordini”.

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Bisogno di misericordia

Posté par atempodiblog le 1 août 2015

Bisogno di misericordia
di don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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C’è un fatto di cronaca che, nel brusio delle mille emergenze estive, non è riuscito a far sentire a sufficienza la propria voce. Alcuni giorni fa – erano le 4.30 del mattino – sulla tangenziale di Napoli un uomo di 29 anni (un millenial!), in evidente stato di ebbrezza, ha deciso repentinamente di invertire la rotta del suo viaggio e di intraprendere, senza scrupoli, la tangenziale stessa in senso di marcia contrario. L’ora era davvero molto particolare e per 5 Km quest’uomo, che a bordo aveva anche la propria compagna di 22 anni, non ha incrociato nessuno fin tanto che un altro automobilista, appena svegliatosi per recarsi a lavoro, non ha percorso lo stesso tratto di strada in direzione corretta arrivando inevitabilmente a scontrarsi col ventinovenne ubriaco.

Immediata è partita la richiesta di soccorsi, ma proprio lì – in quel frangente fra la chiamata dei soccorsi e il loro arrivo – un uomo ignaro di tutto è passato accanto all’incidente ed è rimasto sgomento dallo spettacolo delle lamiere accartocciate. Ha constatato che per il povero automobilista sobrio non c’era più niente da fare e ha intercettato il braccio del conducente dell’altro mezzo che cercava di districarsi tra i rottami della tragedia. Accanto a lui i respiri ansimanti di una compagna che si sarebbe spenta in ospedale da lì a poco e il silenzio totale di una tangenziale fantasma in un’anonima alba di luglio. L’uomo ignaro non conosceva la dinamica dell’incidente e si è accostato al “pirata della strada” prendendogli la mano, consolandolo e facendogli forza fino all’arrivo dell’ambulanza.

Che strana questa vicenda! Pur essendo lucida e inequivocabile, è come se nascondesse dentro qualcosa di affascinante e di tremendo allo stesso tempo, ossia la pietà – la compassione – per il carnefice e la sua mostruosità. Nella società della colpa tutto questo è ovviamente impensabile e l’uomo ignaro è stato in poche ore ricoperto da insulti sul web, stigmatizzando una pietà non meritata e un dolore – che il primo soccorritore esprimeva – come un dolore inutile, sprecato.  Non è certamente mia intenzione, dunque, fare la morale su questo episodio, ma porre qualche riflessione sì.

La prima che mi viene in cuore è questa: ci rendiamo conto di quanto sia più facile guardare alle cose per quello che sono quando siamo disarmati e senza pregiudizi? Quell’uomo, il soccorritore, non sapeva niente e – proprio per questo – ha potuto trattare il carnefice da “uomo”. I gesti di carità, nella vita della Chiesa, sono nati in forma anonima proprio per questo: una carità è vera nella misura in cui è gratuita, nella misura in cui l’altro proprio non la merita. Fare la carità a chi la merita non è cristianesimo, è un’ultima forma di filantropia. 

Quanta ribellione sento poter crescere in chi legge queste affermazioni: mi rendo conto che tanti pensano all’assassino dei propri figli, a chi perseguita i cristiani nel mondo, agli irresponsabili che con i loro gesti hanno fatto male alla vita propria e di chi li circondava. Ma la carità, la misericordia, è anzitutto per loro. Il primo perdonato è il buon ladrone che – per inciso – non era crocifisso perché aveva rubato delle pere al mercato, ma quasi certamente per fatti di sangue. Eppure egli per noi è buono. La sua bontà non si è manifestata tanto nel non fare il male, ma nel lasciarsi guardare dal Bene, da Colui che è il Bene.

Il Cristo sulla croce non ha formulato un codice etico esclusivo, ma ha guardato all’altro – perfino al ladrone – come ad un povero. Io sono fermamente convinto che questa nostra resa – parlo di molti cristiani in occidente – alla mentalità capitalista abbia regalato al marxismo in tutte le sue salse la parola “povero”. Mentre la povertà è qualcosa che è entrata nella storia come “sorella” solo con il Cristianesimo. Noi siamo un popolo di poveri, un popolo di salvati. E non possiamo non essere pieni, nei nostri occhi, di quella tenerezza che ci ha tratto fuori dal nulla.

Chi si lascia prendere dalla foga della giustizia spesso non cerca di restituire a ciascuno le sue responsabilità, ma solo di rintracciare un colpevole, qualcuno da biasimare e da odiare. Nel volto dell’altro, diciamocelo, noi non vediamo anzitutto il volto del povero, ma l’incarnazione della parte più meschina di noi condannando la quale crediamo di poter facilmente condannare e chiudere i conti con noi stessi.

Puniamo nostra moglie, ma forse puniamo noi, puniamo i nostri figli, ma forse puniamo il nostro Io, puniamo il mondo, ma forse puniamo il nostro male, quello che abbiamo terribilmente paura di fare e di essere. Per questo il perdono fa bene: perché riporta l’altro a quello che è, ossia il riflesso di un bene promesso, una parte di me nuovamente amabile.

Noi, pertanto, non abbiamo bisogno di vendetta o di vittoria, noi abbiamo bisogno di lacrime, abbiamo bisogno di misericordia. Per questo vorrei finire spingendomi ancora un po’ oltre e chiedermi chi può restituire uno sguardo del genere alla nostra vita. Forse ci costa ammetterlo, ma solo il divino può salvare l’umano, solo la Presenza del divino cambia, trasforma, perdona. Non sono le nostre idee sulla Chiesa, sul Papa, sulla società, sulla politica, sull’amore o sul lavoro a salvare quello che sta avvenendo. Non è l’esibizione scomposta di una lezione morale che salva il nostro matrimonio, che salva i nostri figli, che salva noi stessi dal mostro che siamo. E’ un Altro. E’ il primo soccorritore che passa quando ancora non è arrivata nessuna ambulanza e – senza indagare troppo – ci prende la mano e ci perdona.

Senza la chiarezza di questo bisogno continueremo a giustificare le decisioni già prese con discorsi fondati su parole in definitiva mai vissute. In fin dei conti noi pensiamo di non aver bisogno di nessuno per guardare nostra figlia, per ascoltare nostro marito o per sopportare il nostro collega molesto. Noi sappiamo già come lui dovrebbe essere e abbiamo fior di teorie pronte a spiegare la bontà del nostro giudizio, la sua stessa ortodossia ed evidenza. Rimane il fatto, però, che lui, che lei, c’è, ci sono. E quel braccio che penzola fuori dalle lamiere all’alba di una mattina di luglio rischia di trovarci pieni di giusti giudizi, ma poveri di vera compassione. Lasciandoci soli nel nostro splendido fortino. Capaci di tutto, ma incapaci di piangere per il povero che vive dentro di noi.

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Aereo caduto/ E se anche noi fossimo “complici” di Andreas Lubitz?

Posté par atempodiblog le 30 mars 2015

Aereo caduto/ E se anche noi fossimo “complici” di Andreas Lubitz?
di don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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La verità che emerge dalla tragedia dell’Airbus della Germanwings, schiantatosi martedì mattina sulle Alpi francesi, è quanto mai amara e dolorosa. Il copilota tedesco del velivolo, Andreas Lubitz, 27 anni, ha deliberatamente e lucidamente voluto — fino all’ultimo — far precipitare l’aereo su quelle montagne. La notizia è stata di quelle capaci di togliere il fiato e, benché le motivazioni di una tale decisione siano ancora da appurare, i “coriandoli” che le immagini ci mostrano sulla nuda roccia lasciano attoniti e interdetti a fronte di un fatto per cui non ha alcun senso cercare altri responsabili o altri colpevoli.

La vicenda, al netto di ciò che riscontrerà la magistratura, acquista così un forte valore simbolico e quelle centocinquanta vite scomparse nella brezza dell’Alta Provenza ci appaiono improvvisamente come il segno — diceva Gaber — di qualcosa che “forse stiamo per capire”. L’Airbus A320 della costola low cost della Lufthansa sembra infatti sempre di più il Titanic di questo nostro secolo: come il naufragio della nave salpata da Southampton rappresentò per gli europei il naufragio della Belle Époque e della fiducia incondizionata nel futuro e nel progresso, così lo schianto di quel volo ci appare oggi come lo schianto di un’intera epoca in cui — sempre in Europa — si è creduto che l’uomo fosse ormai un “mistero risolto” e che bastassero alcuni test attitudinali, per altro certamente di altissima professionalità, per conoscerlo e dominarlo.

Purtroppo non è così: nel giro di ottanta giorni Merkel e Hollande si sono trovati più volte alle prese con “umanità fuori controllo” capaci di uccidere a Parigi, di portare il terrore in Libia o a Tunisi e di farsi precipitare nei cieli di Francia. Nessun addestramento o principio democratico li ha fermati, nessun sistema di controllo li ha individuati e bloccati nelle loro azioni criminose. C’è, in tutto questo, qualcosa che va al di là dell’Isis e di qualunque altra giustificazione morale o psicologica, qualcosa che ha le sue radici profonde nell’occidente e che fa diventare gli stessi occidentali carnefici del loro mondo.

Ognuno degli episodi di questi ultimi mesi, infatti, è sorto nella libertà e nel cuore di alcuni esseri umani, nell’Io di individui ostaggio dei propri pensieri e della propria mente, nell’animo di gente che, ultimamente, hanno la stessa mia statura e stoffa umana: quello che è successo a loro, insomma, è qualcosa che riguarda me, che è possibile che accada a me. Oggi più che mai ci troviamo di fronte ad un’umanità intimamente malata che continua a dare valore di verità a ciò che pensa, a ciò che sente e a ciò che vuole, un’umanità che pretende che la propria opinione e la propria percezione delle cose siano l’unico argine per il proprio agire, un’umanità che rivendica i suoi bisogni, ma che è sempre più incapace di ascoltare, accogliere ed incontrare davvero i bisogni degli altri. 

S’avanza dunque dentro di noi un’umanità crudele, talmente occupata dal proprio dolore da non riuscire più a percepire quello di chi sta accanto e a vivere l’altro — ogni altro — come un ostacolo. Per i giornali e i media è facile attribuire la colpa di tutto questo ad una fazione, ad un’etnia o a un disturbo patologico, è difficilissimo — invece — riconoscere in quello che sta accadendo un ultimo disagio del cuore, un ultimo urlo che trova solo nella rabbia e nella violenza la sua vera espressione.

Questo, in effetti, comporterebbe prendere coscienza di un bisogno più grande che nessuna legge o nessun diritto potrà mai colmare: il bisogno di un Altro, di un Qualcuno, che ci salvi. Dalla vita domestica al rapporto con i colleghi di lavoro, dall’amore alla politica, tutto sembra segnato da un’ultima rabbia e da un’ultima paura verso la vita. I pensieri e le ideologie diventano gli abili carcerieri della nostra felicità e la vita di chi ci sta accanto si trasforma in qualcosa “a nostra disposizione” sia che si tratti di una donna, di un bambino o della vita di centocinquanta persone.

Il vero tema del nostro tempo, allora, non è il male, e neppure il dolore, ma la salvezza, il bisogno di essere salvati da tutta questa crudeltà che si fa strada e che ci invade. L’uomo, però, non si salva da solo. Occorre che Uno venga e assuma su di sé il grido del cuore. Senza Redenzione, senza l’atto di “una qualche parola rivelata di un Dio”, i fatti rimarranno prigionieri di sterili analisi ideologiche o psicologiche che attribuiranno a “facili nemici” la causa di comportamenti e scelte che invece derivano da un disagio più profondo che nessun capriccio può davvero colmare, ossia il bisogno di sapere se siamo amati, se qualcuno davvero ci vuole, se qualcuno — almeno — ci può perdonare.

Su quella montagna si sono schiantate non solo centocinquanta vite, ma tutto il desiderio che abbiamo di vivere, di esserci, di sperimentare felicità. Su quel monte si è schiantato l’Occidente e davvero stasera mi domando se tutto quel sangue innocente grondi solo dalle mani di Andreas Lubitz o, in verità, non sia anche un po’ dentro le parole e gli atteggiamenti di ciascuno di noi. Pronti a giudicare tutto, pronti a piangere in piazza e a “corteggiare morbosamente” il dolore degli altri, ma mai pronti a guadarci allo specchio e ad ammettere che siamo noi i primi che hanno realmente bisogno di essere redenti.

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SUORA-MAMMA/ Il peccato, da occasione di misericordia a “scusa” per non amare più

Posté par atempodiblog le 21 janvier 2014

SUORA-MAMMA/ Il peccato, da occasione di misericordia a scusa” per non amare più
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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Caro direttore,
mi permetto di ritornare un attimo sulla vicenda della suora del Salvador che la scorsa settimana a Rieti, tra il clamore dei media e la rozza ironia della Rete, ha partorito un bambino nell’ospedale cittadino. Lo faccio per un particolare – riportato dal Corriere della Sera – tutt’altro che secondario: le suore dell’Istituto cui questa donna appartiene si sarebbero infatti rifiutate di andarle a far visita perché – cito – con quello che ha fatto non pare il caso”. Io non so quanto di vero ci sia in questa ricostruzione giornalistica, ma una risposta del genere mette in luce, una volta per tutte, quale sia la malattia profonda del nostro mondo occidentale: il fatto che tutti, ad un certo punto, ci sentiamo autorizzati e giustificati a smettere di amare.

Infatti, a parte l’ossimoro di suore che non si curano di una loro professa perché peccatrice”, ci sono un sacco di esempi che costellano la nostra quotidianità e che ci dicono che il peccato – l’unico vero peccato – sia proprio questo smettere di amare.

C’è sempre una situazione o un’azione che ci porta a interrompere il bene: per noi stessi, per gli altri, per Dio. Il protestantesimo è nato proprio su questa resa” rispetto alla natura umana: Lutero si guardò dentro e vide che c’era una parte di sé così mostruosa e vecchia” che mai egli avrebbe potuto amare. Ognuno di noi, a volte, smette di amare l’ampiezza e la profondità del proprio cuore, rifugiandosi in qualunque surrogato di bene la vita offra. Nello stesso modo si smette di amare il marito, la moglie, i genitori o i figli, rottamando matrimoni o amicizie come fossero cioccolatini. Eppure tutti noi sbagliamo, tutti pecchiamo. Noi occidentali, però, abbiamo trasformato il peccato da occasione di misericordia a ragione valida per non amare più. Quante volte gli altri ci amano finché non pecchiamo. Quante volte noi amiamo gli altri finché sono perfetti”.

Il cristianesimo è la notizia di un Dio che – dinnanzi al peccato di Adamo – non ha smesso di amare, ma si è fatto Adamo per abbracciare un uomo che, già in quel giardino, aveva deciso che – pur di avere un certo frutto – andava bene anche smettere di amare Dio. A differenza di Cristo noi siamo soliti smettere di amare chi smette di amarsi, i peccatori. Così facendo creiamo delle solitudini affettive” che l’uomo pretende poi di colmare da sé, col compiacimento del potere e l’approvazione dei media.

Per questo il Papa ci sta dicendo che l’unico errore che può fare un cristiano è proprio quello di smettere di amare” sé e l’altro in nome di un’idea, di una dottrina, di un errore. È in questo modo che, in effetti, facciamo spazio al potere, al piacere e al ricatto del far di tutto pur di possedere”. Nessuno, però, è giustificato quando smette di amare, anche se – certamente – l’amore non si può né imporre né pretendere: l’amore è generato sempre  da un’esperienza di amore.

Se noi non sperimentiamo nella nostra vita l’amore di Dio, ma solo il Suo giudizio, ovviamente il giudizio sarà anche il metro con cui misureremo la vita degli altri. Per questo il Papa non si mette l’elmetto e non attacca a testa bassa i peccatori, ma solo le strutture di peccato” che si manifestano nel carrierismo, nello sfruttamento e nelle lobby di pressione internazionale: perché il mondo ha bisogno di perdono e di responsabilità, il mondo ha bisogno di ritrovare tutta la dignità dell’essere uomini, stigmatizzando quegli atteggiamenti e comportamenti che calpestano l’amore totale e definitivo, pretendendo di essere giustificati sempre e comunque. Il dolore, che l’altro può arrecarci col proprio male, non può mai essere fonte di alcun diritto, ma solo occasione per riaprire tutto il proprio cuore nella ricerca di Ciò che è fedele, ciò che non tradisce e non delude.

Questo è quello che auguro alle suore di Rieti e a tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, hanno deciso di interrompere il Bene. Nell’ora del dolore e della prova è un Altro Amore che dobbiamo cercare affinché il nostro cuore si apra e non smetta mai di abbracciare la vita in tutta la sua drammaticità. In ogni vuoto d’amore si fa strada la chiacchiera, la deresponsabilizzazione e la presunzione. L’Occidente non ripartirà mai da una protesta o da una decisione moralmente ordinata: l’unica speranza del nostro tempo è trovare un volto – una valida ragione – per cui valga la pena non cedere alla tentazione di andare oltre, alla tentazione – insomma – di allontanare i poveri e i peccatori dalla nostra presunta perfezione.

È per questo che siamo insieme, è per questo che c’è il Papa. Perché nessun uomo abbia mai un alibi valido e corretto per smettere di amare e di amarsi. Il peccato non è la fine del mondo, ma l’inizio di un Amore più grande. Quello che proviene dalla passione che Cristo mostra tutti i giorni per la mia vita.

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IL CASO/ La suora incinta e le domande sulla vocazione ridotte a “bar sport”

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2014

IL CASO/ La suora incinta e le domande sulla vocazione ridotte a “bar sport”
di  Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

IL CASO/ La suora incinta e le domande sulla vocazione ridotte a “bar sport” dans Articoli di Giornali e News 2z83lsk

Parliamoci chiaro: la notizia di una suora del Salvador di 31 anni che a Rieti, denunciando al 118 dolori addominali, si è scoperta essere incinta, ricorda o una di quelle barzellette che mirano ad ammantare di cinismo la vocazione religiosa, o un’inquietante pagina di Arrigo Boito che – più di cent’anni fa – metteva in guardia dal considerare la realtà come univoca e si divertiva a scandalizzare i ben pensanti, rivelando gli scheletri nell’armadio delle fanciulle apparentemente immacolate.

Il pretesto, infatti, è solare: insinuare il sospetto che la religione altro non sia che una gigantesca messa in scena condita di ipocrisia, un coacervo di perversioni che – sotto l’abito canonico – prende la forma mostruosa del potere e si ripara, grazie al sistema giudiziario ecclesiastico, da ogni tipo di conseguenza. È accaduto con i preti pedofili e accade ogni qual volta un uomo (o una donna) di Chiesa incorre in una condotta non consona alla propria scelta di vita.

La questione, tuttavia, abbraccia almeno tre dimensioni che non possono essere equivocate. Da un lato c’è la responsabilità pubblica. Un religioso non può pensare di avere la stessa “privacy” di un ottimo elettricista; un uomo di Chiesa sa bene che ogni suo gesto – per quanto intimo e nascosto – risulta nel nostro tempo come un “gesto pubblico”. Non serve spostare la riflessione sul diritto alla riservatezza di ogni cittadino: chi abbraccia una certa vita sceglie di non appartenersi più, di vivere di fronte a tutti. Su questo noi “uomini del sacro” abbiamo una responsabilità maggiore, oggettivamente ineludibile. La coscienza di questa responsabilità può crescere nel tempo, ma non può mai essere evitata, soprattutto come tematica cardine per gli anni della formazione.

E qui arriva la seconda dimensione da considerare: quella educativa. Nei mesi in cui infuriava la pedofilia come “scandalo nella Chiesa” sono state elaborate analisi profondamente errate che ancora oggi ci portiamo dietro: il problema di ogni fragilità affettiva – perfino della perversione più sconveniente – non sta infatti nell’impianto dogmatico e morale del cattolicesimo (in rimedio al quale ieri si diceva “fate sposare i preti” e oggi si sussurra “date una famiglia alle suore”), il problema affettivo è una questione dell’uomo, legata all’uomo. Senza voler “scaricare il barile” su nessuno, si può tranquillamente affermare che certi mostri sono il prodotto culturale e antropologico della nostra epoca, non l’esito di una presunta castrazione operata dalla fede. È l’uomo che oggi su questo tema ha bisogno di essere educato, non la Chiesa che deve “aggiornarsi”.

A riprova di ciò possiamo citare la notizia diffusa ieri dalla Santa Sede sui casi, più di 400, di sacerdoti cattolici ridotti allo stato laicale per motivi legati alla sfera affettiva negli ultimi due anni. Non mi risulta che pari provvedimenti siano stati assunti nel mondo della scuola o dello sport dove, per dovere di verità, i numeri dei casi di abuso sui minori sono nettamente maggiori di quelli registrati in passato in seno alla Chiesa, come non mi risulta che il biasimo collettivo per scelte di vita affettivamente difficili raggiunga il mondo delle donne in carriera o degli uomini consacrati al proprio lavoro.

Il cruccio del mondo è quello di trovare il modo di emarginare tutto ciò che disturba o che mette in discussione il sistema, mentre la vera emergenza è quella di un’umanità incapace di amare, affettivamente schiava delle mode e dei ricatti provenienti dai modelli relazionali dell’occidente. Tutto questo rende la dimensione educativa prioritaria per qualunque comunità ecclesiale: ogni storia deve essere sostenuta e protetta, affinché la persona possa degnamente abbracciare le scelte che compie, sviluppando una sensibilità e una maturità adeguata alla propria stagione della vita.

Il caso della suora di Rieti non è preoccupante per lo scivolone morale in cui è occorsa la religiosa, ma per un’esperienza della fede che si rivela incapace di accogliere tutte le domande e il dramma dell’uomo, fino al punto da muoverlo a cercare in altro la propria soddisfazione e la propria consistenza umana. A questo livello non sono pochi gli interrogativi che sorgono sulla cascata di vocazioni che giungono dai paesi del Sud del mondo e che sono accolte, dai vari ordini e dalle congregazioni religiose, spesso in modo acritico e devozionale.

Infine, credo che sia anche fondamentale ricordare che in questa vicenda c’è una dimensione personale ineffabile. Nessuno sa che cosa ci sia nel cuore di quella donna. Far diventare la sua storia tema da “bar sport” o vicenda da strumentalizzare risulta alquanto meschino e grottesco, al punto tale che alla fine non si sa se l’immaturità affettiva sia maggiormente attribuibile alla giovane mamma o ai suoi illustri, e interessati, censori.

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