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Chiara Corbella Petrillo, la grazia di dire “sì” a Dio

Posté par atempodiblog le 13 juin 2022

Il decennale
Chiara Corbella Petrillo, la grazia di dire “sì” a Dio
Ricorrono oggi dieci anni dalla morte della Serva di Dio. Una ragazza del suo tempo, vivace, intuitiva, empatica, ironica, con molti interessi, dai viaggi alla musica. Una “santa della porta accanto”, che ha affrontato la malattia con fortezza ed è stata madre eroica dei suoi tre figli, fino al dono della vita.
di Luca Marcolivo – La nuova Bussola Quotidiana
Tratto da: 
Radio Maria

Chiara Corbella Petrillo, la grazia di dire “sì” a Dio dans Articoli di Giornali e News Chiara-Corbello-Petrillo

Ci sono santi di cui apprendiamo l’esistenza al momento della beatificazione o canonizzazione. Altri, al contrario, diventano celebri subito dopo la morte. La Serva di Dio Chiara Corbella Petrillo (1984-2012) è sicuramente tra questi ultimi. Il suo processo canonico è iniziato il 21 settembre 2018, a poco più di sei anni dalla morte. In tempi recenti, soltanto San Giovanni Paolo II (1920-2005) e Santa Teresa di Calcutta (1910-1997) e pochi altri sono stati avviati sulla via degli altari con più rapidità.

La popolarità di Chiara Corbella divampò immediatamente dopo il suo funerale, celebrato il 16 giugno 2012, in una gremitissima parrocchia di Santa Francesca Romana all’Ardeatino. La storia della giovane sposa e madre romana aveva avuto immediato risalto mediatico, grazie soprattutto alle sue virtù non comuni, in particolare al coraggio nell’affrontare una malattia incurabile e nell’aprirsi alla vita dei tre figli, due dei quali morti subito dopo la nascita. L’allora cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, l’aveva definita la “nuova Gianna Beretta Molla”: un parallelo non inopportuno, sebbene negli anni siano emerse notevoli peculiarità che rendono questa storia unica nel suo genere.

Già nei mesi precedenti la sua nascita al Cielo, in tutta la diocesi di Roma erano girate numerose richieste di preghiere per Chiara, gravemente malata. Poco dopo la morte della loro prima figlia, era diventato virale il video caricato su YouTube della testimonianza di Chiara e di suo marito Enrico Petrillo, riguardo a un dramma che, vissuto in pace con Dio, si era trasformato in una sorprendente grazia.

Nei suoi 28 anni di vita, Chiara Corbella ha convintamente abbracciato la via della santità che il Signore ha voluto per lei. Un percorso di certo non facile, particolarmente drammatico nell’ultima fase della sua vita. Un percorso tanto coerente quanto aperto agli impulsi imprevedibili che la Provvidenza le metteva davanti. Chiara attinse a carismi ecclesiali diversi e complementari: cresciuta nel Rinnovamento Carismatico, si rafforzò e si plasmò definitivamente nella spiritualità francescana, sotto la guida di padre Vito D’Amato, OFM. In particolare, dopo il matrimonio, Chiara ed Enrico furono molto vicini a don Fabio Rosini, seguendo con attenzione il ciclo catechetico delle “Dieci Parole”. La Serva di Dio ha quindi vissuto una spiritualità a 360 gradi, molto dinamica e versatile, ma, al tempo stesso, articolata su discernimenti molto rigorosi. Il vero elemento “vincente” della spiritualità di Chiara è stato comunque la devozione mariana: un aspetto che non è sfuggito a padre Romano Gambalunga, carmelitano e postulatore della causa di beatificazione, che ha sempre colto nella Serva di Dio un “modello di santità molto attuale” che la rende una santa “della porta accanto”. Una ragazza del suo tempo, vivace, intuitiva, empatica, ironica, con molti interessi, dai viaggi alla musica (suonava piuttosto bene il violino).

Come Maria Beltrame Quattrocchi (1884-1965) o la già citata Gianna Beretta Molla (1922-1962), Chiara Corbella vive un percorso di santità che si realizza soprattutto nella vocazione familiare. Una vocazione che diventa fertile, grazie alla straordinaria attitudine alla disponibilità.

Chiara è innanzitutto disponibile con Dio. Fin da bambina impara subito che la preghiera non è un formulario ma un autentico e radicale colloquio con Gesù, che orienta ogni scelta della vita. Anche per questo, nemmeno durante l’adolescenza, Chiara ebbe grandi tentennamenti nella sua fede, che, al contrario, crebbe e maturò, al punto che, già in quegli anni, la vocazione al matrimonio le apparve molto nitida. È proprio nell’incontro con Enrico Petrillo (avvenuto a Medjugorje, il 2 agosto 2002, festa francescana del Perdono d’Assisi), che Chiara compie il passo decisivo nella sua disponibilità all’amore: non certo un amore mondano, zuccheroso ed effimero ma un amore maturo, solido, concreto e, al contempo, ambizioso ed elevato, alla stregua di quello che Gesù manifesta sulla Croce. Con questo spirito, Chiara, negli anni del liceo, respinge delicatamente più di un corteggiatore, preferendo attendere l’unico vero amore della sua vita. Quando conosce Enrico, Chiara intuisce subito il destino che li unirà nel sacramento matrimoniale. Per lui è disposta a scommettere tutto, persino ad accettare – se fosse stata volontà di Dio – l’idea di un’eventuale rottura definitiva nel momento più critico del loro fidanzamento. Enrico e Chiara sono una coppia che vive le stesse ansie e gli stessi dubbi dei loro coetanei: hanno però l’umiltà – lei per prima – di aprirsi all’Amore vero, quello che non pretende e che non conosce orgoglio: da quel momento, il loro legame spiccherà il volo, fino al matrimonio, celebrato nella chiesa di San Pietro ad Assisi, il 21 settembre 2008.

Il successivo passo è la disponibilità alla vita. Anche nella sua maternità, Chiara non conosce mezze misure. Accoglie la malattia e la morte dei piccoli Maria Grazia Letizia (2009) e Davide Giovanni (2010), perché, con gli anni, ha imparato che il possesso è il contrario dell’amore e loro sono figli di Dio, prima che figli suoi. Quando, poi, ad ammalarsi sarà lei, Chiara anteporrà la vita del suo terzogenito Francesco (2011) alla sua, scegliendo di posticipare le cure per sé stessa. Scelte coraggiose, non comprese da tutti ma compiute in totale libertà. Scelte che hanno reso straordinaria una vita simile a molte altre, sebbene indubbiamente “sopra la media” e felicemente intrisa di Spirito Santo.

L’ultimo passaggio chiave nella vita di Chiara Corbella è nella sua disponibilità all’incontro definitivo con lo Sposo. Proprio lei, che aveva fatto del matrimonio la sua vocazione terrena, arriva più che preparata allo sposalizio celeste. Sul letto di morte, al marito che le domanda: “Ma questo giogo è davvero dolce?”, lei risponde: “Sì, è tanto dolce”. Così Enrico vede svanire miracolosamente la sua tristezza: sua moglie – dice – sta andando “da Uno che la ama più di me!”. Circondata dall’affetto di Enrico, del piccolo Francesco, della mamma Anselma, del papà Roberto, della sorella Elisa e di un’impagabile comunità di amici in Cristo, Chiara Corbella si spegne serenamente il 13 giugno 2012, nella provvidenziale coincidenza della memoria liturgica di un francescano: Sant’Antonio di Padova.

Nel decennale della sua nascita al Cielo, che si celebra oggi, Chiara Corbella offre una grande opportunità a chi conosce la sua storia e, ancor più, a chi la conosce poco: quella di imparare ad abbracciare la propria vocazione senza compromessi, nella consapevolezza che non c’è amore senza Croce ma, soprattutto, non c’è Croce che non sia una prova d’amore.

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Il dolore del Papa per il Rapporto sugli abusi nella Chiesa di Francia

Posté par atempodiblog le 6 octobre 2021

Il dolore del Papa per il Rapporto sugli abusi nella Chiesa di Francia
Dispiacere per le ferite subite, ma anche gratitudine per il coraggio della denuncia. E’ quanto esprime Francesco alla luce dei dati raccolti in due anni e mezzo di indagine e presentati oggi a Parigi, dalla Commissione indipendente sugli abusi sessuali su minori nella Chiesa francese: 216.000 vittime di preti e religiosi cattolici dal 1950. Alla conferenza stampa anche il nunzio apostolico, monsignor Celestino Migliore
di Cyprien Viet e Gabriella Ceraso – Vatican News

Il dolore del Papa per il Rapporto sugli abusi nella Chiesa di Francia dans Articoli di Giornali e News Jean-Marc-Sauv-consegna-il-rapporto-della-CIASE-al-presidente-dei-vescovi-francesi-monsignor-ric-d

Le vittime e la Chiesa di Francia sono oggi nel cuore del Papa, colmo di dispiacere per una “terribile realtà”. Al termine della presentazione a Parigi del Rapporto, frutto di oltre due anni di lavoro, il direttore della Sala Stampa vaticana Matteo Bruni comunica che Francesco, che proprio nei giorni scorsi ha incontrato i vescovi d’Oltralpe in visita ad limina, ne è stato informato.

“Il suo pensiero va anzitutto alle vittime, con grande dispiacere, per le loro ferite, e gratitudine, per il loro coraggio nel denunciare, e alla Chiesa di Francia, perché, nella consapevolezza di questa terribile realtà , unita alla sofferenza del Signore per i suoi figli più vulnerabili, possa intraprendere una via di redenzione”.

Ancora le vittime sono al centro della preghiera del Papa. Francesco – fa sapere Matteo Bruni – nella preghiera affida al Signore il “popolo di Dio in Francia” particolarmente le vittime, “perché doni loro conforto e consolazione e con la giustizia possa giungere il miracolo della guarigione”.

Le parole e la preghiera arrivano dunque al termine di una mattinata delicata e difficile. Come preannunciato alla stampa, il Rapporto nella sua integrità  è ampio e dettagliato. E’ stato un lavoro faticoso e intenso quello dei 21 membri della Commissione indipendente incaricata dai vescovi e dai religiosi di Francia. Aprendo la conferenza stampa il presidente, Jean-Marc Sauvé, ha citato la lettera di una vittima, per dire proprio che quanto emerso in circa due anni e mezzo può essere talvolta “destabilizzante e scoraggiante” ma dà la speranza “di un nuovo inizio”, di “un altro rapporto” con questa storia di dolore. Un “clima umano” ha sottolineato un membro della Commissione, ha caratterizzato l’ascolto delle vittime – aspetto centrale nella stesura del Rapporto -  ricordando in particolare le “lacrime di un settantenne” e la “rabbia di una donna”. Ascolto dunque prima che indagine di esperti.

A nome degli abusati ha parlato François Devaux, vittima di padre Preynat nella diocesi di Lione e co-fondatore dell’associazione La Parole Libérée. Un discorso il suo, pieno di sofferenza e di rabbia, ma anche di gratitudine per il lavoro della Commissione definito un “sacrificio per il bene comune”. “È dall’inferno che voi, membri della Commissione, siete tornati” – ha detto – chiedendo alla Chiesa profonde riforme, esprimendo il suo senso di tradimento per i silenzi e le “disfunzioni sistemiche” che ha affrontato nella sua lotta dolorosa.

I numeri raccapriccianti
Il Rapporto basato su testimonianze, ricerche e dati d’archivio è molto dettagliato – come ha spiegato il presidente Sauvè – ma non ha la pretesa di essere esaustivo. Come già preannunciato alla stampa nei giorni scorsi, la Commissione ha stimato in 2.900 a 3.200, i preti e i religiosi coinvolti in crimini di pedofilia in Francia tra il 1950 e il 2020. Ma la valutazione è parziale. Un sondaggio nazionale conta che un totale di 216.000 persone in Francia oggi (con un margine di errore di 50.000) sono state abusate da preti e religiosi cattolici. Se si includono le aggressioni commesse da laici (soprattutto nelle scuole), questa stima sale a 330.000 persone.

Jean-Marc Sauvé ha spiegato che nell’insieme della società francese, cinque milioni e mezzo di persone (il 14,5% delle donne e il 6,4% degli uomini) hanno subito una violenza sessuale prima dei 18 anni. Le famiglie e gli amici sono ancora i principali contesti, ma la prevalenza di aggressioni nella Chiesa cattolica rimane alta, anche in tempi recenti, e l’80% di questi abusi riguarda i ragazzi.

L’appello per “un’azione vigorosa”
Denunciando la mentalità corporativista della Chiesa cattolica, che ha cercato a lungo di coprire questi casi (in particolare facendo del silenzio delle vittime una condizione per il risarcimento), Jean-Marc Sauvé ha chiesto dunque “un’azione vigorosa”, compreso il riconoscimento degli atti passati, e misure preventive nella formazione e nel discernimento vocazionale. Nel rapporto anche 45 raccomandazioni specifiche, tra cui un rafforzamento dei meccanismi di controllo interno, una migliore definizione del ruolo del vescovo per evitare che sia giudice e parte in causa, e un migliore coinvolgimento dei laici nel governo della Chiesa.

Invocando un “lavoro di verità, perdono e riconciliazione”, il presidente Sauvé ha sottolineato anche che la Chiesa cattolica è “una componente essenziale della società” e che deve lavorare per “ristabilire un’alleanza che è stata danneggiata”. “La nostra speranza non può essere e non sarà distrutta. La Chiesa può e deve fare tutto per ripristinare ciò che è stato danneggiato e ricostruire ciò che è stato rotto”, ha concluso, mettendo in evidenza il coraggio delle vittime.

La reazione della Chiesa
Dolore e vegogna nella reazione della Chiesa: in conferenza stampa erano presenti i vescovi e i religiosi che hanno commissionato il Rapporto. Nel suo discorso, monsignor Éric de Moulins-Beaufort, arcivescovo di Reims e Presidente della Conferenza Episcopale( CEF), ha riconosciuto la portata “spaventosa” della violenza nella Chiesa. La voce delle vittime “ci sconvolge, ci travolge”, ha riconosciuto, lodando in particolare la franchezza e le “parole vere” di François Devaux. Il presidente della CEF ha promesso che i vescovi si prenderanno il tempo necessario per studiare il rapporto e trarne le conseguenze, in particolare durante la loro assemblea plenaria di novembre.

Da parte sua, la presidente della Conferenza delle religiose di Francia( CORREF), suor Véronique Margron, ha espresso il suo “infinito dolore” e la sua “vergogna assoluta” di fronte ai “crimini contro l’umanità del soggetto intimo, credente e amoroso”. Le 45 raccomandazioni sono un “segno di esigente fiducia nella Chiesa”, che dovrà lavorare con le altre istituzioni.

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L’invito del Cardinale De Donatis a pregare per le vocazioni e per i sacerdoti

Posté par atempodiblog le 13 février 2020

L’invito del Cardinale De Donatis a pregare per le vocazioni e per i sacerdoti
Una lettera del Cardinale De Donatis ai parroci di Roma: l’invito alla preghiera per le vocazioni
della Redazione di ACI Stampa

L'invito del Cardinale De Donatis a pregare per le vocazioni e per i sacerdoti dans Discernimento vocazionale Il-Cardinale-Angelo-De-Donatis-Vicario-Generale-di-Sua-Santit

Il Cardinale Vicario della diocesi di Roma, Angelo De Donatis, scrive una lettera ai parroci della diocesi di Roma invitandoli a pregare per le vocazioni e per i sacerdoti. E istituisce una giornata speciale, il giovedì, per presentare al Signore queste particolari intenzioni.  Lo comunica il sito del Vicariato di Roma.

“Se per ciascun cristiano – si legge nella lettera – la preghiera è il respiro dell’anima, per una diocesi essa rappresenta il respiro di una città intera che, anche inconsapevolmente, ha necessità del Soffio di Dio per vivere”.
Ed ecco l’invito: “Siamo tutti consapevoli che andiamo incontro a tempi in cui i sacerdoti saranno sempre meno. Rimaniamo tutti amareggiati quando sappiamo che un sacerdote è in crisi o abbandona il ministero. Spesso ci lamentiamo che in seminario sono in pochi, che mancano i preti, o che non hanno tempo per tutti. Ma quanto preghiamo per loro? Ti chiedo allora di pregare con me, con tutto il presbiterio diocesano e con tutta la tua comunità affinché il Signore ci renda sacerdoti innamorati del Vangelo e perché mandi nuovi operai per la sua messe”.

Ai parroci viene inviato anche uno schema preciso di preghiera. “Il primo giovedì del mese è il giorno in cui da tanto tempo, a partire da una tradizione del Seminario Romano Maggiore, si prega per le vocazioni – ricorda il cardinale De Donatis – dedicando anche il tempo della notte tra il giovedì e il venerdì con l’adorazione eucaristica (o altre forme di preghiera) per questa intenzione. Il secondo giovedì del mese vi invito a pregare per i sacerdoti anziani e per quelli malati, rendendo grazie al Signore per la testimonianza che ci hanno donato e che ci continuano a dare, anche con l’offerta delle loro sofferenze. Il terzo giovedì del mese vi invito a pregare per la santificazione dei sacerdoti. Il quarto giovedì del mese pregheremo per i sacerdoti che vivono un momento di prova e di difficoltà”.

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Sinodo, cardinale Stella: il celibato sacerdotale dono da coltivare e diffondere

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2019

Sinodo, cardinale Stella: il celibato sacerdotale dono da coltivare e diffondere
Non bisogna aver timore nel proporre anche ai popoli indigeni la bellezza della consacrazione totale al Signore. Lo dice ai nostri microfoni il prefetto della Congregazione per il Clero. Sul rito amazzonico, afferma ancora, è necessario procedere con prudenza e discernimento
di Federico Piana – Vatican News

Sinodo, cardinale Stella: il celibato sacerdotale dono da coltivare e diffondere dans Articoli di Giornali e News Card-Stella

“Il celibato sacerdotale va custodito, va coltivato e soprattutto va protetto con una grande spiritualità, con una vita di preghiera e di unione con il Signore”. Il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il Clero, padre sinodale e conoscitore della realtà amazzonica per aver prestato servizio nella nunziatura della Colombia e successivamente per aver partecipato alla V Conferenza episcopale latinoamericana di Aparecida nel 2007, si sofferma a riflettere su come il celibato sacerdotale sia la “grande bellezza del sacerdote da tutelare con amore perché conservato in vasi d’argilla”. Ai microfoni di Radio Vaticana spiega perchè l’uso di questa espressione « vasi d’argilla’:

R. - Perchè oggi viviamo in una cultura che non ispira in questa direzione. E poi c’è la nostra umana fragilità, con tante problematiche. Qualche volta ci sono esperienze particolari d’infanzia, di adolescenza, di famiglia, per cui il giovane che si affaccia al sacerdozio porta sulle sue spalle tutta la storia personale, talvolta pesante. D’altra parte la vocazione nella Chiesa latina propone l’impegno celibatario. Dunque, io penso che ci debba essere una valutazione serena delle caratteristiche personali, della storia personale di ognuno in modo che questo dono, che il Signore accompagna con la chiamata al sacerdozio, sia esaminato con obiettività per capire se ci sono i presupposti di equilibrio, di disciplina, di maturità. In particolare maturità affettiva che significa la capacità interiore di saper fare le scelte giuste anche nei momenti dove sopraggiunge la tentazione.

I sacerdoti, i seminaristi, come possono difendersi di fronte alla tentazione?
R. - Devono essere robusti, solidi, equilibrati, prudenti. Ma soprattutto motivati da una grande passione per il Vangelo e per il Signore. Perché nel periodo delle difficoltà possiamo guardare la storia dei martiri che di fronte alla prospettiva della vita hanno scelto Gesù. I sacerdoti in situazioni di prova devono poter dire: ho scelto il Signore e a Lui devo essere fedele, come spesso leggiamo nelle passioni dei martiri. Questo è il senso del celibato.

Eppure le sirene del mondo invogliano sempre più spesso ad ignorare la dimensione del ‘per sempre’…
R. - Il ‘per sempre’ è il grande appello della Chiesa ai suoi sacerdoti latini, ai consacrati con i voti ma anche agli sposi cristiani, perché anche loro sono chiamati ad un impegno definitivo nel matrimonio: è una vera vocazione di fedeltà al Vangelo e a Gesù.

Lei partecipa come padre sinodale al Sinodo sull’Amazzonia. Le chiedo: in che modo proporre il celibato alle persone indigene che magari potrebbero diventare sacerdoti?
R. - Occorre innanzitutto crederci. In Africa, i primi missionari pensarono che gli africani non sarebbero stati capaci di vivere la scelta celibataria, dono di Dio. Invece, fecero una grande scommessa sulla natura umana e sulla grazia di Dio: oggi abbiamo un clero africano che vive il celibato, abbiamo una bella famiglia episcopale. Ovviamente, non voglio essere idealista. Talvolta ci sono delle zone d’ombra, debolezze, tradimenti. Però, non capisco perché in Amazzonia questa proposta celibataria non possa essere fatta. Io penso che siamo stati un po’ timidi, non abbiamo abbastanza assunto, come sacerdoti e come pastori, la posizione della Chiesa che dice: Dio ti chiama e ti chiede una consacrazione permanente, totale. La scelta del Vangelo nel celibato è una proposta che dobbiamo proporre, consapevoli che le chiese missionarie stanno compiendo un percorso difficile, alcune volte forse traumatico. Ma la Chiesa in Amazzonia deve parlare ai giovani di queste scelte profondamente radicali ed evangeliche, deve credere nella formazione, deve dare gli strumenti affinché la proposta del celibato sia vissuta, sia protetta, sia custodita, sia celebrata. Dobbiamo sempre fare un atto di fede nella forza dello Spirito Santo che sostiene i cuori, che cambia la vita. La scelta martiriale, che nella Chiesa è una scelta di tutti i giorni, è anche la scelta del consacrato che si dona al Signore e per Lui vive questa scelta del celibato in tutte le sue espressioni con grande radicalità interiore. Bisogna parlarne, proporla, motivarla e credere che Dio può sostenere i cuori e sanare anche l’umana debolezza.

Il Sinodo ha discusso su inculturazione della teologia e della liturgia. Molti padri sinodali hanno proposto anche un rito amazzonico. Pensa che sia una possibilità?
R. - I popoli indigeni hanno le loro lingue, le loro storie, la loro cultura, la loro cosmovisione. Io credo che tutto questo possa essere accolto da una espressione liturgica. Ma occorre tenere conto che un rito rappresenta una storia di secoli, una spiritualità, una cultura, una tradizione. C’è molto cammino ancora da fare. In questo ambito, personalmente, sarei attento, prudente, anche perché c’è una grande diversità in Amazzonia. Esistono decine di lingue, centinaia di etnie: alla fine che cosa diventerebbe il ‘rito amazzonico’?

Allora i vescovi devono usare il discernimento…
R. - I vescovi devono ponderare le caratteristiche delle comunità, capire come assecondare certe espressioni peculiari di una etnia. Ci sono aspetti che con il discernimento prudente del vescovo possono essere introdotti nella celebrazione. Però c’è una sostanza che è patrimonio della Chiesa universale, in particolare del Rito Romano, che non possiamo trascurare o sottovalutare.

Perché questo è importante?
R. - Perché il tema del disordine, se può essere chiamato così, liturgico del post-concilio ci insegna molte cose. I frutti di quelle tante libertà, che sono state prese spesso ad iniziativa di singoli sacerdoti e di piccole comunità, hanno dato frutti amari. Comunque, i pastori dell’Amazzonia si sono scambiati le loro proposte: vedremo cosa proporrà il documento finale. E, grazie a Dio, c’è sempre l’occhio attento del Papa che ci guida. E’ una mano, quella di Papa Francesco, ferma e solida che ci permetterà di entrare in qualche esperienza nuova, però sicuramente con molta ponderazione.

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“Il confessore uomo dell’ascolto, non padrone delle coscienze”

Posté par atempodiblog le 9 mars 2018

“Il confessore uomo dell’ascolto, non padrone delle coscienze”
Il Papa riceve i partecipanti al Corso sul Foro Interno concluso oggi a Roma al Palazzo della Cancelleria: «Il sacerdote non è la fonte della Misericordia, ma uno strumento»
di Salvatore Cernuzio – Vatican Insider

“Il confessore uomo dell’ascolto, non padrone delle coscienze” dans Discernimento vocazionale Confessionale

«Medico e giudice», «pastore e padre», «maestro ed educatore». E anche «martire», nel senso di testimone. Il profilo del confessore è chiaro. Eppure è abbastanza ricorrente per chi amministra questo importante sacramento il rischio di diventare «padroni delle coscienze» dei penitenti. Specialmente delle coscienze dei giovani «la cui personalità è ancora in formazione e, perciò, molto più facilmente influenzabile». Per questo Papa Francesco, nel suo discorso ai partecipanti al XXIX Corso sul Foro Interno - aperto il 5 marzo con una lectio del Penitenziere maggiore, il cardinale Mauro Piacenza , e che si conclude oggi pomeriggio presso il Palazzo della Cancelleria – chiarisce subito quale sia il ruolo del sacerdote nelle quattro mura del confessionale: «Strumenti». Niente più.

«Il sacerdote confessore non è la fonte della Misericordia: ne è certo l’indispensabile strumento, ma sempre solo strumento!», afferma Bergoglio che proprio oggi pomeriggio presiederà una celebrazione penitenziale nella Basilica di San Pietro. «Ricordare di essere, e dover essere, solo strumenti della Riconciliazione è il primo requisito per assumere un atteggiamento di umile ascolto dello Spirito Santo, che garantisce un autentico sforzo di discernimento», sottolinea. «Essere strumenti non è una diminuzione del ministero, ma, al contrario, ne è la piena realizzazione, poiché nella misura in cui scompare il sacerdote ed appare più chiaramente Cristo sommo ed eterno Sacerdote, si realizza la nostra vocazione di “servi inutili”».

La consapevolezza di questa «dimensione strumentale» – come la definiva San Tommaso – della riconciliazione favorisce «un’attenta vigilanza sul rischio di diventare i “padroni delle coscienze”, soprattutto nel rapporto con i giovani, la cui personalità è ancora in formazione e, perciò, molto più facilmente influenzabile», annota il Pontefice. Da una parte i confessori hanno «il vantaggio di essere giovani» e dunque «di poter vivere il sacramento della Riconciliazione come “giovani tra i giovani”». «Non di rado, la vicinanza nell’età favorisce il dialogo anche sacramentale, per una naturale affinità di linguaggi», osserva il Papa.

D’altro canto la “condizione giovanile” non è «priva di limiti e perfino di rischi, perché – spiega Francesco ai giovani preti – siete all’inizio del vostro ministero e dunque dovete ancora acquisire tutto quel bagaglio di esperienza che un “confessore consumato” ha, dopo decenni di ascolto dei penitenti».

A maggior ragione non bisogna abbassare la guardia né perdere l’umiltà. Il primo passo, sollecita il Papa, è «saper ascoltare le domande, prima di offrire le risposte. Dare risposte, senza essersi preoccupati di ascoltare le domande dei giovani e, laddove necessario, senza aver cercato di suscitare domande autentiche, sarebbe un atteggiamento sbagliato».

Il confessore è infatti un «uomo dell’ascolto»: ascolto «umano» del penitente e ascolto «divino» dello Spirito Santo. «Ascoltando davvero il fratello nel colloquio sacramentale, noi ascoltiamo Gesù stesso, povero ed umile – afferma il Papa -; ascoltando lo Spirito Santo ci poniamo in attenta obbedienza, diventiamo uditori della Parola e dunque offriamo il più grande servizio ai nostri giovani penitenti: li mettiamo in contatto con Gesù stesso».

E «ogni giovane dovrebbe poter udire la voce di Dio sia nella propria coscienza, sia attraverso l’ascolto della Parola». Solo così, aggiunge Papa Bergoglio, essi possono avviarsi verso «quel cammino prudente e orante che è il discernimento vocazionale», il quale deve essere necessariamente «sostenuto dall’accompagnamento sapiente del confessore, che talvolta può anche diventare – su richiesta dei giovani stessi e mai autoproponendosi – padre spirituale».

Il colloquio della confessione può diventare, quindi, «occasione privilegiata di incontro, per porsi entrambi, penitente e confessore, in ascolto della volontà di Dio, scoprendo quale possa essere il suo progetto, indipendentemente dalla forma della vocazione». Infatti, precisa il Papa, «la vocazione non coincide, né può mai coincidere, con una forma! Questo porterebbe al formalismo! La vocazione è il rapporto stesso con Gesù: rapporto vitale e imprescindibile».

In tal senso il confessore è chiamato ad essere soprattutto «un testimone», cioè a «com-patire per i peccati dei fratelli» e rendere «più efficace l’esperienza della misericordia, spalancando ai fedeli un orizzonte nuovo e grande». Quell’orizzonte «che solo Dio può dare all’uomo».

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Il Papa: le vocazioni sacerdotali non si creano, ma si può testimoniare la chiamata di Dio

Posté par atempodiblog le 9 mars 2018

Il Papa: le vocazioni sacerdotali non si creano, ma si può testimoniare la chiamata di Dio
Francesco riceve i partecipanti alla Conferenza dei rettori di Seminari di lingua tedesca: «Usciamo dal nostro “io” e rivolgiamoci a chi è nel bisogno»
della Redazione di Vatican Insider

Il Papa: le vocazioni sacerdotali non si creano, ma si può testimoniare la chiamata di Dio dans Discernimento vocazionale Papa-Francesco
Immagine tratta da: Familia Cristiana

«Le vocazioni noi non le possiamo creare. Possiamo, invece, essere testimoni della chiamata di Dio misericordioso rivolta a noi». Così Francesco nel suo discorso ai partecipanti alla Conferenza dei rettori di Seminari di lingua tedesca, ricevuti in mattinata in Vaticano.

Parlando di vocazioni, il Papa ha sottolineato che Dio «ci chiama, affinché usciamo dal nostro “io” e ci rivolgiamo al “tu”. Questo “tu” è la persona concreta del bisognoso, di chi ha necessità della vicinanza degli uomini e della vicinanza di Dio».

«Su questo vogliamo sensibilizzare anche i giovani che si preparano al sacerdozio», ha affermato il Pontefice. Specialmente alla luce di queste «nuove e diverse forme culturali» che «stanno nascendo» e che «non rientrano nei modelli» già noti.

Bergoglio incoraggia a spogliarsi «di alcune abitudini a cui siamo attaccati» ed impegnarsi «con ciò che è ancora sconosciuto», sempre rivolgendo «lo sguardo verso Gesù che ha sofferto, è morto ed è risorto». Nelle sue ferite, «come anche in quelle del mondo, possiamo riconoscere i segni della Risurrezione», ha detto il Papa. Per questo, ha concluso, dobbiamo metterci «sempre in cammino come testimoni della speranza».

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Mons. Nykiel: educare i sacerdoti novelli alla confessione

Posté par atempodiblog le 6 mars 2018

Mons. Nykiel: educare i sacerdoti novelli alla confessione
Educare i novelli sacerdoti, i diaconi e i seminaristi prossimi all’Ordinazione alla bellezza della Riconciliazione e alla dedizione a questo Sacramento. E’ questo lo scopo con cui la Penitenzieria Apostolica promuove annualmente, nel tempo di Quaresima, il Corso sul Foro interno
Fabio Colagrande – Vatican News

Mons. Nykiel: educare i sacerdoti novelli alla confessione dans Articoli di Giornali e News Sacramento_della_Riconciliazione

Sulle finalità di questo appuntamento, in programma dal 5 al 9 marzo a Roma presso il Palazzo della Cancelleria e giunto quest’anno alla 29ma edizione, abbiamo sentito mons. Krzysztof Nykiel, reggente della Penitenzieria Apostolica

R.  Desideriamo aiutare i sacerdoti a prendere coscienza della grandezza e sublimità del Sacramento della Riconciliazione che oggi più che mai dovrebbe ritrovare il suo posto centrale nella vita cristiana e quindi nell’agire pastorale della Chiesa. La sua celebrazione richiede un’adeguata preparazione teologica, giuridica e pastorale perché, come ha più volte ribadito Papa Francesco, “non ci si improvvisa confessori”.

Quali caratteristiche, dunque, deve avere un buon confessore?
R.  Incessanti sono i richiami del Papa sugli atteggiamenti di accoglienza, prossimità e tenerezza che dovrebbero guidare i ministri consacrati nel loro agire pastorale, sul modello del Padre misericordioso. Ricordo in particolare le indicazioni rivolte ai partecipanti al Corso dell’anno passato, nelle quali egli ha sottolineato tre aspetti.

Il buon confessore come vero amico di Gesù Buon Pastore deve coltivare un ministero della Riconciliazione “fasciato di preghiera”, preghiera con il Signore per il dono della carità pastorale e preghiera per i fedeli che gli si pongono alla ricerca della misericordia di Dio; consapevole di essere lui stesso il primo peccatore perdonato e capace di comprendere quindi le ferite altrui.

Il buon confessore è in secondo luogo uomo dello Spirito, uomo di discernimento e di compassione. Il Santo Padre ha ricordato che il sacerdote è così chiamato all’ascolto umile della volontà di Dio perché, nella celebrazione del sacramento della Penitenza, non è padrone, ma ministro, cioè servo. Quindi nel confessionale occorre avere l’atteggiamento di Gesù di fronte ai nostri peccati, l’atteggiamento di chi non minaccia, ma chiama con dolcezza, dando fiducia.

Infine, il buon confessore è anche un evangelizzatore, perché non c’è evangelizzazione più autentica che l’incontro con la misericordia, vero volto di Dio.

Che importanza ha il Sacramento della Riconciliazione nella vita spirituale e nel discernimento vocazionale dei giovani?
R.  Da quando Papa Francesco ha annunciato che la XV Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, in programma il prossimo ottobre, avrebbe avuto come tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, la Penitenzieria Apostolica si è impegnata a fornire il proprio contributo alla riflessione ecclesiale richiamando il ruolo centrale della Riconciliazione nello sviluppo della fede e nel discernimento dei giovani cristiani. Non dimentichiamo che lo stesso Jorge Mario Bergoglio ha raccontato come, all’età di 17 anni, avvertì così intensamente la presenza amorosa di Dio durante una confessione che proprio in quell’occasione capì che il Signore lo chiamava alla vita religiosa nella Compagnia di Gesù. Proprio perché consapevole dell’importanza del Sacramento della Confessione per il discernimento vocazionale dei giovani, vi anticipo che la Penitenzieria Apostolica intende promuovere nei giorni 26 e 27 aprile prossimi un convegno pastorale che sarà dedicato proprio a questo tema.

Il prossimo 13 marzo ricorre il quinto anniversario dall’elezione di Papa Francesco. Perché il tema della misericordia è costantemente presente fin dall’inizio nei suoi interventi?
R.  Certamente il perdono è la dimostrazione più evidente dell’onnipotenza e dell’amore di Dio Padre, che Gesù ha rivelato nell’intera sua vicenda terrena. Ponendosi in continuità con il magistero della Chiesa, Papa Francesco ama ripetere insistentemente, fin dai primi giorni del suo pontificato, come la misericordia divina sia il cuore pulsante del Vangelo, anzi, l’essenza stessa di Dio, di un Dio che non si stanca mai di perdonarci.

Proviamo a pensare a quante migliaia di persone in questi ultimi anni, mossi dallo Spirito e grazie anche all’appello del Santo Padre, hanno potuto riconciliarsi con Dio e con la Chiesa, specialmente in occasione del grande Giubileo Straordinario della Misericordia!

D’altra parte, guardando a questi cinque anni di pontificato, sono convinto che i fedeli si lascino guidare dalle parole di Papa Francesco soprattutto perché lo riconoscono credibile e convincente. Egli vive anzitutto su di sé, in prima persona, l’azione dell’amore di Dio, per poi trasmettere alla gente con abbracci, carezze e azioni concrete di solidarietà e prossimità la misericordia ricevuta.

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Adorazione del Santissimo per bambini? Esperienze sorprendenti

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2017

Adorazione del Santissimo per bambini? Esperienze sorprendenti
Se Dio è un “mistero”, lo è anche l’incontro che un bimbo di 7 anni può avere con Lui in cappella
Tratto da:  Aleteia
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

Adorazione del Santissimo per bambini? Esperienze sorprendenti dans Articoli di Giornali e News Adorazione-eucaristica

L’adorazione eucaristica sta tornando ad essere un aspetto centrale della vita cristiana. Dopo decenni in cui era stata messa da parte in molti luoghi, sono moltissime le parrocchie che hanno recuperato l’esposizione pubblica del Santissimo.

Questa diffusione dell’adorazione, che secondo molte testimonianze dà tanti frutti, raggiunge anche i bambini, e viene introdotta sempre più nelle celebrazioni con i piccoli, anche se in modo adattato alla loro età.

Bambini adoratori?
Molti si possono chiedere se serva a qualcosa che bambini di sei o sette anni siano “adoratori” e preghino o restino davanti a Cristo Eucaristia quando non hanno ancora una coscienza formata su cosa sia. La risposta la dà Famille Chretienne in un reportage centrato proprio sull’adorazione e i bambini.

In Francia, in alcuni luoghi l’esperienza con i bambini si svolge da più di 15 anni, e i frutti sono favolosi, sostengono gli organizzatori, al punto che si sta estendendo in altre zone. Se Dio è un “mistero”, lo è anche l’incontro che un piccolo di 7 anni può avere con Lui in cappella.

Per chi ha l’messo in pratica e ne sta vedendo ora i frutti, il culto porta i bambini molto piccoli in modo naturale all’intimità con Cristo, e li fa familiarizzare direttamente con il cuore di Dio.

Connessione diretta tra i bambini e il Signore: “Hanno il wi-fi”
Uno dei gruppi di bambini adoratori è quello della città francese di Rouen, dove una delle madri parla ai piccoli dai sei agli otto anni di Gesù prima di entrare in cappella per stare con Lui. Lì tutti si inginocchiano in silenzio, e in modo naturale posano gli occhi su “Gesù nascosto”.

“Venti minuti sono troppi?”, hanno chiesto a Jules, di otto anni, che ha risposto con un grande sorriso: “Oh, no!”.

Una delle domande che pongono più spesso i sacerdoti e i laici che accompagnano questi bambini è come siano capaci di stare in preghiera quando molti adulti non riescono a stare in silenzio davanti al Santissimo per più di due minuti. “C’è una connessione diretta tra il cuore dei bambini e il Signore. Hanno un wi-fi”, afferma Cécile, madre di un bambino adoratore a Parigi.

In base alla sua esperienza, i bambini di questa età hanno il cuore molto più aperto e vi accolgono Gesù.

Un tempo adatto all’età dei bambini
Evidentemente, per arrivare a questo punto serve pazienza perché non smettono di essere bambini ed è poco realista immaginare trenta bambini che pregano in silenzio per un’ora. Il tempo si adatta all’età, e i più piccoli possono rimanerci quindici o venti minuti, anche se a volte non c’è un silenzio totale. Ad ogni modo, questo atteggiamento di adorazione entra in loro.

Florence Schlienger, responsabile di uno di questi gruppi a Versailles, riconosce che sia lui che ogni adulto che si imbarca in questa avventura particolare seminano senza sapere cosa raccoglieranno, e ricorda il caso di un bambino che dava le spalle all’altare per tutto il tempo e che tuttavia il mese dopo parlava continuamente a sua madre dell’amore di Dio.

“È un’educazione alla vita interiore in cui non vediamo immediatamente i frutti, si vedono dopo”, dicono anche le mamme. “Prima si impara a pregare, più rapidamente diventa una cosa naturale”. Anche padre Thibaud Labesse, cappellano di uno di questi gruppi di bambini, insiste su quest’ultimo aspetto. Le mamme colgono questo fatto soprattutto nel comportamenti che i bambini hanno poi a Messa, perché captano il “mistero” della presenza di Cristo nel tabernacolo.

La sorella Beata aiuta le Missionarie dell’Eucaristia in questo apostolato e riferisce in cosa consistono queste sessioni. Leggono con loro il Vangelo, lo spiegano e poi realizzano disegni da colorare su questi insegnamenti. Poi arriva il momento in cui in gruppi per età si organizzano turni di adorazione in cui si cantano anche delle canzoni e si offrono intenzioni di preghiera.

I piccoli di 4 anni adorano il Santissimo dieci minuti e quelli di otto arrivano già a 25, con intervalli più lunghi di silenzio.

Fucina di vocazioni
Gli organizzatori sottolineano anche che la presenza del sacerdote è importante, e che questi prega con loro. “Nell’adorazione, il bambino entra in intimità con Cristo, in un riflesso dell’amore con il Signore che è un brodo di coltura per le vocazioni”, dice Florence Schlienger, che segue questa missione da 15 anni e ha già visto molti bambini diventare adulti adoratori.

“L’introduzione della presenza di Dio nella vita personale è quello che li porterà alla Chiesa, più che un corso di Teologia”, ha osservato.

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Papa Francesco: Pastorale vocazionale non un programma, ma incontro con Gesù

Posté par atempodiblog le 21 octobre 2016

Papa Francesco: Pastorale vocazionale non un programma, ma incontro con Gesù
La pastorale vocazionale non è un progetto, ma consiste nell’imparare lo stile di Gesù. Così, in sintesi, il Papa nel discorso ai partecipanti al Convegno Internazionale di Pastorale vocazionale, in corso da mercoledì scorso in Vaticano, promosso dalla Congregazione per il Clero. Ai circa 255 partecipanti, ricevuti stamani in Sala Clementina, Francesco ha chiesto di “essere pastori in mezzo al popolo”, capaci di ascolto e misericordia.
di Debora Donnini – Radio Vaticana

Papa Francesco: Pastorale vocazionale non un programma, ma incontro con Gesù dans Commenti al Vangelo Pastorale_vocazionale

La chiamata di Matteo. E’ l’episodio del Vangelo con cui il Papa spiega la pastorale vocazionale: Gesù esce a predicare, poi vede Levi, il pubblicano, seduto al banco delle imposte, quindi lo chiama. “Uscire, vedere, chiamare” sono i tre verbi che incarnano questo dinamismo. Il motto del suo Pontificato,  Miserando atque eligendo, si riferisce proprio alla chiamata di Matteo e costituisce il tema dello stesso Convegno vocazionale. Un motto che fa memoria degli anni giovanili del Papa, quando sentì la chiamata del Signore: non “a seguito di una conferenza”, ricorda, ma “per aver sperimentato l’amore misericordioso di Gesù »:

“Dunque, è bello che siate venuti qui, da molte parti del mondo, a riflettere su questo tema, ma, per favore, che non finisca tutto con un bel convegno! La pastorale vocazionale è imparare lo stile di Gesù, che passa nei luoghi della vita quotidiana, si ferma senza fretta e, guardando i fratelli con misericordia, li conduce all’incontro con Dio Padre”.

Bisogna uscire e ascoltare i giovani. Non è un compito da ufficio burocratico
Prima di tutto dunque bisogna “uscire”. Serve una Chiesa in movimento, ricorda Francesco, che non resti chiusa “nel comodo criterio pastorale del ‘si è fatto sempre così’”. Bisogna invece essere “audaci e creativi”, uscire dalle rigidità e “dalle formule standardizzate che spesso risultano anacronistiche”:

“Lo chiedo soprattutto ai pastori della Chiesa, ai vescovi e ai sacerdoti: voi siete i principali responsabili delle vocazioni cristiane e sacerdotali, e questo compito non si può relegare a un ufficio burocratico. Anche voi avete vissuto un incontro che ha cambiato la vostra vita, quando un altro prete – il parroco, il confessore, il direttore spirituale – vi ha fatto sperimentare la bellezza dell’amore di Dio”.

Il Papa esorta quindi i pastori a fare lo stesso: uscire, ascoltare i giovani, aiutarli a discernere. “E’ triste – nota – quando un prete vive solo per se stesso, chiudendosi nella fortezza sicura della canonica”:

“Al contrario, siamo chiamati a essere pastori in mezzo al popolo, capaci di animare una pastorale dell’incontro e di spendere tempo per accogliere e ascoltare tutti, specialmente i giovani”.

Il pastore deve avere lo stesso sguardo misericordioso di Gesù, senza fretta e con discernimento
Il secondo asse portante per Francesco è “vedere”: senza farsi prendere dalla fretta o dall’”attivismo organizzato”, bisogna invece trovare il tempo per incontrare le persone.

Il termine miserando infatti esprime proprio un abbracciare con gli occhi e col cuore. Così Gesù ha guardato Matteo: e questo pubblicano finalmente non ha percepito uno sguardo di disprezzo, ma d’amore:

“Gesù ha sfidato i pregiudizi e le etichette della gente; ha creato uno spazio aperto, nel quale Matteo ha potuto rivedere la propria vita e iniziare un nuovo cammino”.

Un pastore deve quindi essere “attento, non frettoloso, capace di fermarsi e leggere in profondità”, senza far sentire l’altro giudicato.

Deve avere uno sguardo “capace di suscitare stupore per il Vangelo”, “uno sguardo di discernimento, che accompagna le persone, senza né impossessarsi della loro coscienza, né pretendere di controllare la grazia di Dio”. Soprattutto Francesco vuole che ci sia discernimento “senza leggerezze o superficialità”:

“Lo dico in particolare ai fratelli vescovi: vigilanza e prudenza. La Chiesa e il mondo hanno bisogno di sacerdoti maturi ed equilibrati, di pastori intrepidi e generosi, capaci di vicinanza, ascolto e misericordia”.

Gesù non presenta un programma ma suscita il fascino di seguirLo
Il terzo punto è “chiamare”, il verbo tipico della vocazione cristiana:

“Gesù non fa lunghi discorsi, non consegna un programma a cui aderire, non fa proselitismo, né offre risposte preconfezionate. Rivolgendosi a Matteo, si limita a dire: ‘Seguimi!’. In questo modo, suscita in lui il fascino di scoprire una nuova mèta, aprendo la sua vita verso un ‘luogo’ che va oltre il piccolo banco dove sta seduto”.

Il Papa esorta quindi a non ridurre la fede “a un libro di ricette o a un insieme di norme”, ma ad aiutare i giovani a “mettersi in cammino e a scoprire la gioia del Vangelo”. Francesco sa che non è un compito facile e che i risultati possono essere scarsi e produrre scoraggiamento, ma il Signore dona il coraggio di “gettare le reti anche quando siamo stanchi e delusi per non aver pescato nulla”, sottolinea.

Ai vescovi e ai sacerdoti Francesco chiede dunque di farsi prossimi, uscire a seminare la Parola con sguardi di misericordia. Chiede di esercitare il discernimento dando impulso alle vocazioni, attraverso l’evangelizzazione. E soprattutto a mostrare, dice, “la vostra testimonianza gioiosa” che è bello donare al Signore la vita per sempre.

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Papa Francesco: trasmettere misericordia, mondo stanco di preti e vescovi alla moda

Posté par atempodiblog le 16 septembre 2016

Papa Francesco: trasmettere misericordia, mondo stanco di preti e vescovi alla moda
Il mondo è stanco di preti e vescovi “alla moda”: la Chiesa si lasci “destabilizzare” dal Signore e sia vicina alla gente per trasmettere la misericordia di Dio. Così il Papa nel discorso ai partecipanti al Corso di formazione per nuovi vescovi, organizzato per questa settimana a Roma dalla Congregazione per i vescovi in collaborazione con quella per le Chiese Orientali. Presenti in Sala Clementina i cardinali Marc Ouellet e Leonardo Sandri, prefetti dei due dicasteri.
di Giada Aquilino – Radio Vaticana

Papa Francesco: trasmettere misericordia, mondo stanco di preti e vescovi alla moda dans Discernimento vocazionale Papa_Francesco_e_Sacerdoti

Rendere pastorale la misericordia di Dio. Questa la missione dei vescovi, e in particolare dei nuovi presuli, indicata da Papa Francesco. Il compito, “non facile” ha detto il Pontefice nel suo ampio discorso, è dunque renderla “accessibile, tangibile, incontrabile” nelle Chiese loro affidate in modo che siano “case dove albergano santità, verità e amore”. Una misericordia da offrire a questo “mondo mendicante”, ha osservato, senza tuttavia “attrarre a sé stessi”:

“Il mondo è stanco di incantatori bugiardi. E mi permetto di dire: di preti ‘alla moda’ o di vescovi ‘alla moda’.

La gente ‘fiuta’ – il popolo di Dio ha il fiuto di Dio – la gente ‘fiuta’ e si allontana quando riconosce i narcisisti, i manipolatori, i difensori delle cause proprie, i banditori di vane crociate.

Piuttosto, cercate di assecondare Dio, che già si introduce prima ancora del vostro arrivo”.

D’altra parte gli uomini “hanno bisogno della misericordia”: coscienti di essere “feriti e ‘mezzi morti’”, ha osservato, tendono la mano per mendicarla, rimanendo “affascinati” dalla sua capacità di “chinarsi”, anche quando “un certo reumatismo dell’anima” impedisce di piegarsi.

Servono dunque persone che sappiano far emergere dagli “sgrammaticati cuori odierni” la volontà ad ascoltare il Signore, favorendo “il silenzio” che rende ciò possibile.

“Dio non si arrende mai! Siamo noi che, abituati alla resa, spesso ci accomodiamo preferendo lasciarci convincere che veramente hanno potuto eliminarlo e inventiamo discorsi amari per giustificare la pigrizia che ci blocca nel suono immobile delle vane lamentele. Le lamentele di un vescovo sono cose brutte”.

L’esortazione è a lasciarsi “destabilizzare” da Dio: la sua misericordia – ha proseguito Francesco – è la “sola realtà” che consente all’uomo di non perdersi “definitivamente”.

Ciò si traduce allora in “non avere altra prospettiva” da cui guardare i fedeli che quella della loro “unicità”, non lasciando “nulla di intentato” pur di raggiungerli, non risparmiando “alcuno sforzo” per ricuperarli.

La via è “iniziare” ciascuna Chiesa ad un cammino d’amore, quando oggi – ha constatato il Papa – “si è perso il senso dell’iniziazione”:

“Pensate all’emergenza educativa, alla trasmissione sia dei contenuti sia dei valori, pensate all’analfabetismo affettivo, ai percorsi vocazionali, al discernimento nelle famiglie, alla ricerca della pace: tutto ciò richiede iniziazione e percorsi guidati, con perseveranza, pazienza e costanza, che sono i segni che distinguono il buon pastore dal mercenario”.

Le “strutture di iniziazione” delle Chiese locali, ha spiegato, sono i seminari:

“Non lasciatevi tentare dai numeri e dalla quantità delle vocazioni, ma cercate piuttosto la qualità del discepolato.

Né numeri né quantità: soltanto qualità. Non private i seminaristi della vostra ferma e tenera paternità”.

Far dunque crescere i seminaristi “fino al punto di acquisire la libertà di stare in Dio tranquilli e sereni”, non preda “dei propri capricci e succubi delle proprie fragilità”, ma liberi di abbracciare quanto Dio chiede loro.

Poi stare “attenti” a che non si rifugino “nelle rigidità”: sotto – ha affermato – c’è sempre “qualcosa di brutto”. Quindi accompagnare “con paziente sollecitudine” il clero.

“Vi prego pure di agire con grande prudenza e responsabilità nell’accogliere candidati o incardinare sacerdoti nelle vostre Chiese locali. Per favore, prudenza e responsabilità in questo.

Ricordate che sin dagli inizi si è voluto inscindibile il rapporto tra una Chiesa locale e i suoi sacerdoti e non si è mai accettato un clero vagante o in transito da un posto all’altro. E questa è una malattia dei nostri tempi”.

Al contempo, ha raccomandato di accompagnare le famiglie “incoraggiando l’immenso bene che elargiscono” nella società, seguendo “soprattutto quelle più ferite” nel “discernimento” e con “empatia”.

“Non ‘passate oltre’ davanti alle loro fragilità.

Fermatevi per lasciare che il vostro cuore di pastori sia trafitto dalla visione della loro ferita; avvicinatevi con delicatezza e senza paura. Mettete davanti ai loro occhi la gioia dell’amore autentico e della grazia con la quale Dio lo eleva alla partecipazione del proprio Amore”.

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L’amore giovanile di Ratzinger e quelli degli altri Papi

Posté par atempodiblog le 10 septembre 2016

L’amore giovanile di Ratzinger e quelli degli altri Papi
Il giornalista Peter Seewald rivela a «Die Zeit» che Benedetto XVI visse un «grande amore» che rese difficile la sua scelta per il celibato
di Andrea Tornielli – La Stampa

L'amore giovanile di Ratzinger e quelli degli altri Papi dans Andrea Tornielli Un_giovane_Ratzinger

Non è stato discreto Peter Seewald, giornalista e autore di libri intervista prima con il cardinale Joseph Ratzinger e poi con Benedetto XVI. In un’intervista pubblicata sul settimanale tedesco «Die Zeit» ha raccontato che il Papa emerito ha vissuto negli anni della giovinezza un «grande amore» che avrebbe reso più complicata la scelta per il celibato. Ma questo episodio non è mai comparso nei libri-intervista di Seewald, quelli pubblicati e quelli non ancora pubblicati. Dopo la pubblicazione della breve autobiografia a sua firma edita da San Paolo, fu chiesto all’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Ratzinger se c’erano stati e, se sì, perché non avesse citato eventuali amori giovanili. Il porporato aveva risposto con un sorriso, dicendo che aveva già superato il numero di cartelle concordate con l’editore.

Questo amore, ha spiegato Seewald, «gli causò molti tormenti interiori. Dopo la guerra, per la prima volta, c’erano delle studentesse. Era davvero un bel giovane, elegante, un esteta che scriveva poesie e leggeva Hermann Hesse». «Uno dei suoi compagni di studio mi ha raccontato – aggiunge il giornalista – che Joseph Ratzinger faceva effetto sulle donne e anche il contrario. Decidersi per il celibato non fu facile per lui».

Anche di altri Pontefici della storia recente sono noti episodi simili. Che Karol Wojtyla, giovane e aitante attore, esercitasse fascino sulle donne è risaputo. Come pure è risaputo che almeno una delle sue compagne di palcoscenico si era innamorata di lui, anche se alla fine non era stata ricambiata.

Un invaghimento giovanile, anzi in questo caso adolescenziale, è attestato anche per Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, il quale, tredicenne, scrisse un componimento intitolato «Santa Marinella 1889», dal quale si evince una simpatia per una ragazza, «verginella, grata, dolce, pietosa, docile, pura», invitata con quei versi a diventare «più vaga d’olezzante fiore», per risplendere «qual fulgente stella, per virtute e per beltà». È piuttosto evidente l’ispirazione dantesca di queste parole. Di quale fanciulla si trattava? Fra le ragazze che frequentavano le sorelle e la cugina Adele, ad Onano, ce n’era una di nome Lucia, per la quale Eugenio doveva essersi invaghito. Molti anni più tardi, la sera della sua elezione al pontificato, avvenuta il 2 marzo 1939, l’allora parroco di Onano, don Matteo Alfonsi, racconterà a un cronista in piazza San Pietro che «se Lucia avesse detto sì, oggi non ci sarebbe un papa Pacelli», lasciando dunque intendere che la ragazza avrebbe rifiutato la dichiarazione di Eugenio. La stessa notizia è confermata nei diari dello scrittore Giovanni Papini che riporta i racconti dei vecchi di Onano. Evidentemente quella simpatia di Eugenio per Lucia era risaputa in paese.

Infine Papa Francesco. Da cardinale, dialogando con l’amico rabbino Abraham Skorka, Bergoglio aveva parlato di essere stato molto colpito da una ragazza. Rispetto agli altri casi qui citati, questo è l’unico raccontato di persona dall’interessato in un libro («Il cielo e la terra»).

«Quando ero seminarista – ha raccontato Bergoglio – mi colpì una ragazza che avevo conosciuto al matrimonio di uno zio. Rimasi sorpreso dalla sua bellezza, dalla sua luce intellettuale… e restai confuso un bel po’, mi girava la testa. Quando tornai in seminario dopo il matrimonio non riuscii a pregare per un’intera settimana perché quando mi disponevo a farlo nella mia testa appariva l’immagine della ragazza. Dovetti ripensare a cosa facevo. Ero ancora libero perché ero seminarista, potevo tornarmene a casa e addio a tutto. Dovetti ripensare alla mia scelta. Scelsi di nuovo – o mi lasciai scegliere di nuovo – il cammino religioso. Sarebbe anormale se non accadessero cose del genere. Quando accadono, bisogna ricollocarsi. Bisogna vedere se si torna a fare la stessa scelta o si dice: “No, questa cosa che sto provando è molto bella, ho paura di non essere in seguito fedele al mio impegno, lascio il seminario”.

Quando succede una cosa del genere a un seminarista, lo aiuto ad andarsene in pace, ad essere un buon cristiano e non un cattivo sacerdote».

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Papa a monache di clausura: “No a tentazione dei numeri. Sì a social network, ma non diventino occasione di evasione”

Posté par atempodiblog le 23 juillet 2016

Papa a monache di clausura: “No a tentazione dei numeri. Sì a social network, ma non diventino occasione di evasione”
Pubblicata oggi la Costituzione apostolica «Vultum Dei quaerere» sulla vita contemplativa femminile
di Salvatore Cernuzio – Zenit

Papa a monache di clausura: “No a tentazione dei numeri. Sì a social network, ma non diventino occasione di evasione” dans Articoli di Giornali e News Attento_discernimento_vocazionale_e_spirituale

“Un valido aiuto per rinnovare la vita e la missione” dei monasteri delle suore contemplative nella Chiesa e nel mondo, affinché possano essere “fari” che “illuminano il cammino degli uomini e delle donne del nostro tempo” e rendano il mondo “più umano ed evangelico”. Si potrebbe sintetizzare così la Costituzione apostolica «Vultum Dei quaerere» (La ricerca del volto di Dio) di Papa Francesco, pubblicata oggi ma firmata lo scorso 29 giugno.

Un documento che – in 38 punti e 14 articoli – abroga norme in materia risalenti ai tempi di Pio XII e mira a configurare meglio il carisma delle consacrate, offrendo indicazioni pratiche su ambiti anche giuridici e amministrativi, nonché spirituali. Il tutto tenendo conto “dell’intenso e fecondo cammino percorso dalla Chiesa stessa negli ultimi decenni” e “alla luce degli insegnamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, sia delle mutate condizioni socio-culturali”.

Il testo del Pontefice abbraccia, quindi, temi come la scelta e la cura delle vocazioni, in un momento in cui nell’attuale contesto socio-culturale e religioso ne rileva la forte “crisi”. Per questo Francesco invita ad un attento “discernimento vocazionale e spirituale” e mette in guardia dalla “tentazione del numero e della efficienza” che porta spesso al “reclutamento di candidate da altri Paesi con l’unico fine di salvaguardare la sopravvivenza del monastero”.

Anzi, il Papa propone “la chiusura” di un istituto “qualora non sussistano i requisiti per una reale autonomia di un monastero”. In alternativa c’è una “rivitalizzazione” dello stesso attraverso un “processo di accompagnamento” posto in essere da una commissione formata ad hoc dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. “All’autonomia giuridica deve corrispondere una reale autonomia di vita” precisa infatti il Pontefice; ciò “significa: un numero anche minimo di sorelle, purché la maggior parte non sia di età avanzata; la necessaria vitalità nel vivere e trasmettere il carisma; la reale capacità formativa e di governo; la dignità e la qualità della vita liturgica, fraterna e spirituale; la significatività e l’inserimento nella Chiesa locale; la possibilità di sussistenza; un’adeguata struttura dell’edificio monastico”.

Tra le vie da percorrere, Papa Bergoglio indica anche il rafforzamento delle Federazioni. “Inizialmente tutti i monasteri dovranno far parte di una federazione”, stabilisce il documento. “Se per ragioni speciali un monastero non potrà essere federato, con il voto del capitolo, si chieda il permesso alla Santa Sede, alla quale compete fare l’adeguato discernimento, per consentire al monastero di non appartenere ad una federazione”. Lo scopo principale “è promuovere la vita contemplativa nei monasteri che ne fanno parte, secondo le esigenze del proprio carisma, e garantire l’aiuto nella formazione permanente e iniziale, nonché nelle necessità concrete, attraverso lo scambio di monache e la condivisione dei beni materiali”. Tale processo – si legge nel testo – “potrebbe prevedere anche l’affiliazione ad un altro monastero o l’affidamento alla Presidente della federazione, se il monastero è federato, con il suo Consiglio”.

Nella Costituzione apostolica vengono poi messi a fuoco “i dodici temi della vita consacrata in generale e, in particolare, della tradizione monastica”. Quindi: “Formazione, preghiera, Parola di Dio, Eucaristia e Riconciliazione, vita fraterna in comunità, autonomia, federazioni, clausura, lavoro, silenzio, mezzi di comunicazione e ascesi”.

Prima però il Papa fa una premessa che riguarda i nuovi mezzi di comunicazione e i social network che – osserva – “possono essere strumenti utili per la formazione e la comunicazione”, ma rendono necessario “un prudente discernimento affinché siano al servizio della formazione alla vita contemplativa e delle comunicazioni necessarie”. Guai quindi a rendere le nuove tecnologie “occasione di dissipazione o di evasione dalla vita fraterna in comunità” o ancora peggio “danno per la vostra vocazione” o “ostacolo per la vostra vita interamente dedita alla contemplazione”.

Per questo il Santo Padre chiede alle monache di vivere una dimensione ascetica, che, tradotto, significa “liberarsi da tutto quello che è proprio della ‘mondanità’ per vivere la logica del Vangelo che è logica di dono”. Ciò implica “sobrietà, distacco dalle cose, consegna di sé stessi nell’obbedienza, trasparenza nelle relazioni”. “Tutto per voi – scrive Francesco – è reso più radicale ed esigente dalla scelta di rinuncia anche allo spazio, ai contatti, a tanti beni del creato, come modo particolare di donare il ‘corpo’. L’aver scelto una vita di stabilità – prosegue – diventa segno eloquente di fedeltà per il nostro mondo globalizzato e abituato a spostamenti sempre più rapidi e facili, con il rischio di non mettere mai radici”.

In tal senso, la vita claustrale rende “più esigente” anche il campo delle “relazioni fraterne”, imponendo nelle comunità “relazioni continue e ravvicinate”. “Voi potete essere di esempio e aiuto al popolo di Dio e all’umanità di oggi, segnata e a volte lacerata da tante divisioni, a restare accanto al fratello e alla sorella anche là dove vi sono diversità da comporre, tensioni e conflitti da gestire, fragilità da accogliere”, assicura Bergoglio.

“Non è facile – scrive in un altro punto – che questo mondo, per lo meno quella larga parte di esso che obbedisce a logiche di potere, economiche e consumistiche, comprenda la vostra speciale vocazione e la vostra missione nascosta, eppure ne ha immensamente bisogno”. Ne ha bisogno “come il marinaio in alto mare ha bisogno del faro che indichi la rotta per giungere al porto”.

“Siate fari, per i vicini e soprattutto per i lontani” è l’esortazione del Papa argentino, “siate fiaccole che accompagnano il cammino degli uomini e delle donne nella notte oscura del tempo” e “sentinelle del mattino” che non hanno “timore di vivere la gioia della vita evangelica” secondo il proprio carisma.

Su questa scia, il Papa richiama ad un maggior impegno verso poveri e sofferenti e rammenta il valore del lavoro che – dice alle monache – “vi mette in stretta relazione con quanti lavorano con responsabilità per vivere del frutto delle proprie mani; vi fa essere solidali con i poveri che non possono vivere senza lavorare e che spesso, pur lavorando, hanno bisogno del provvidenziale aiuto dei fratelli”.

“Il frutto del lavoro non abbia soltanto lo scopo di assicurare un sostentamento dignitoso ma anche, quando possibile, di sovvenire alle necessità dei poveri e dei monasteri bisognosi”, afferma infatti Papa Francesco. Perciò “anche se alcune comunità monastiche possono avere delle rendite, in accordo con il diritto proprio, non si esimano comunque dal dovere di lavorare”. Il lavoro, tuttavia, non deve estinguere lo spirito di contemplazione, ma va compiuto “con devozione e fedeltà, senza lasciarsi condizionare dalla mentalità efficientistica e dall’attivismo della cultura contemporanea”. Il motto è dunque quello della tradizione benedettina: “Ora et labora”.

Oltre che dal lavoro, il ritmo giornaliero di ogni monastero deve prevedere “opportuni momenti di silenzio, così che venga favorito il clima di preghiera e di contemplazione”, si legge nella Costituzione apostolica. Il silenzio è infatti “spazio necessario di ascolto eruminatio della Parola”; “la vostra vita integralmente contemplativa richiede tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare Dio e il grido dell’umanità”, afferma il Papa. “Taccia dunque la lingua della carne e parli quella dello Spirito, mossa dall’amore che ognuna di voi ha per il suo Signore”.

Su un piano più specificamente spirituale, il Papa mette in guardia le contemplative da alcune tentazioni, tra le quali individua come “una delle più insidiose” quella che i Padri del deserto chiamavano “demonio meridiano”. Ovvero “la tentazione che sfocia nell’apatia, nella routine, nella demotivazione, nell’accidia paralizzante”. Questo – dice il Santo Padre cita la Evangelii gaudium – “porta lentamente alla ‘psicologia della tomba’, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come ‘il più prezioso degli elisir del demonio’”.

Invece la missione delle monache è tutt’altra, e cioè essere “scala” come Maria “attraverso la quale Dio scende per incontrare l’uomo e l’uomo sale per incontrare Dio”. Al documento seguirà una Istruzione che la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata emanerà prossimamente sugli stessi temi.

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Vocazione: Rischio ‘inseminazione artificiale’ nelle Congregazioni religiose. Evitare chiacchiere

Posté par atempodiblog le 1 février 2016

Vocazione: Rischio ‘inseminazione artificiale’ nelle Congregazioni religiose. Evitare chiacchiere

Papa e vocazioni come inseminazione artificiale

L’obbedienza forte non è quella “militare”, non è “disciplina”, ma è “donazione del cuore”, come quella del Figlio di Dio “che si è annientato, si è fatto uomo per obbedienza fino alla morte di Croce”. Papa Francesco ancora una volta ha scelto di consegnare il discorso preparato, affidandolo al cardinale Joao Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per la Vita Consacrata, e incontrando 5 mila consacrati – in chiusura dell’Anno ad essi dedicato, iniziato il 30 novembre 2014 – ha parlato a braccio di ciò che gli è venuto “dal cuore”.

Siate uomini e donne profeti
Ha riflettuto sui concetti di profezia, prossimità e speranza che costituiscono per loro il mandato del Pontefice. Ha ricordato che Cristo “non è stato anarchico, non ha chiamato i suoi a fare una forza di resistenza contro i suoi nemici”, ha scelto “l’obbedienza” al Padre. Questa è la “profezia” di fronte all’anarchia che, ha spiegato, è “figlia del diavolo”:

“La profezia è dire alla gente che c’è una strada di felicità, di grandezza, una strada che ti riempie di gioia, che è proprio la strada di Gesù. È la strada di essere vicino a Gesù. È un dono, è un carisma la profezia e lo si deve chiedere allo Spirito Santo: che io sappia dire quella parola, in quel momento giusto; che io faccia quella cosa in quel momento giusto; che la mia vita, tutta, sia una profezia. Uomini e donne profeti”.

Avvicinarsi alla gente, cristiani e non cristiani
Soffermandosi poi sulla parola “prossimità”, il Papa ha invitato a essere uomini e donne consacrate non per allontanarsi “dalla gente e avere tutte le comodità”:

“No, per avvicinarmi e capire la vita dei cristiani e dei non cristiani, le sofferenze, i problemi, le tante cose che si capiscono soltanto se un uomo e una donna consacrati diventano prossimo: nella prossimità”.

Essere consacrati non è uno status
Ha invitato a guardare a Santa Teresa del Bambin Gesù, Patrona delle missioni, che “con il suo cuore ardente” e le lettere che riceveva dai missionari era “più prossima alla gente”. Diventare consacrati, ha sottolineato, “non significa salire uno, due, tre scalini nella società”:

“Per i consacrati non è uno status di vita che mi fa guardare gli altri così, con distacco. La vita consacrata mi deve portare alla vicinanza con la gente: vicinanza fisica, spirituale, conoscere la gente”.

Evitare terrorismo delle chiacchiere, sono una ‘bomba’
E l’altro, il “vero prossimo”, può essere colui che si incontra nei “quartieri poveri”, ma anche “il fratello o la sorella della comunità”, anelando alla virtù “forse più difficile” – come diceva l’Apostolo Giacomo – “del dominare la lingua”:

“Un modo di allontanarsi dai fratelli e dalle sorelle della comunità è proprio questo: il terrorismo delle chiacchiere. Sentite bene: non le chiacchiere, il terrorismo delle chiacchiere. Perché chi chiacchiera è un terrorista. È un terrorista dentro la propria comunità, perché butta come una bomba la parola contro questo, contro quello, e poi se va tranquillo. Distrugge! Chi fa questo distrugge, come una bomba”.

Impegno per l’Anno della Misericordia
Perché “la bomba di una chiacchiera” nella comunità non è prossimità, “è fare la guerra”, allontanarsi, “provocare distanze” e anarchia:

“E se, in questo Anno della Misericordia, ognuno di voi riuscisse a non fare mai il terrorista chiacchierone o chiacchierona, sarebbe un successo per la Chiesa, un successo di santità grande! Fatevi coraggio! ».

Il calo delle vocazioni
Passando al concetto di speranza e riallacciandosi alle parole di saluto del cardinale Joao Braz de Aviz, che aveva presentato al Santo Padre i partecipanti all’incontro internazionale dedicato in questi giorni a Roma al tema “Vita Consacrata in comunione”, il Papa si è soffermato sul calo delle vocazioni, sulle comunità che invecchiano, sui monasteri “portati avanti da 4-5 suore vecchiette”…

No all’esperimento della ‘inseminazione artificiale’
“Alcune Congregazioni fanno l’esperimento della ‘inseminazione artificiale’. Che cosa fanno? Accolgono… ‘Ma sì, vieni, vieni, vieni…’. E poi, i problemi che ci sono lì dentro… No. Si deve accogliere con serietà! Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione e aiutarla a crescere. E credo che contro la tentazione di perdere la speranza, che ci dà questa sterilità, dobbiamo pregare di più. E pregare senza stancarci”.

Vera speranza solo nel Signore non nei soldi
Il Signore “non mancherà la sua promessa”, ma – ha esortato ancora Francesco – l’invito è a pregare con l’“intensità” con cui lo faceva Anna, madre di Samuele, invocando il dono di un figlio. “Perché c’è un pericolo”:

“Quando una Congregazione religiosa vede che non ha figli e nipoti e incomincia a essere sempre più piccola, si attacca ai soldi. E voi sapete che i soldi sono lo sterco del diavolo. Quando non possono avere la grazia di avere vocazioni e figli, pensano che i soldi salveranno la vita e pensano alla vecchiaia: che non manchi questo, che non manchi quest’altro… E così non c’è speranza! La speranza è solo nel Signore! I soldi non te la daranno mai. Al contrario: ti butteranno giù”.

Il ruolo delle consacrate nella Chiesa
Quindi, un pensiero speciale alle consacrate, a “cosa sarebbe la Chiesa se non ci fossero le suore”, che si trovano negli ospedali, nei collegi, nelle parrocchie, nei quartieri, nelle missioni, ma anche nei cimiteri. Si tratta di donne che assieme a tanti uomini hanno dato la loro vita per il Signore, magari lontani dalle loro terre d’origine:

“Hanno preso le malattie, queste febbri di quei Paesi, hanno bruciato la vita… Tu dici: questi sono santi! Questi sono semi! Dobbiamo dire al Signore che scenda un po’ su questi cimiteri e veda cosa hanno fatto i nostri antenati e ci dia più vocazioni, perché ne abbiamo bisogno”.

di Giada Aquilino – Radio Vaticana

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La Farisea

Posté par atempodiblog le 1 décembre 2015

“François Mauriac. Comment ne pas se réjouir de voir l’audience du grand romancier catholique se maintenir vivante et conserver sa force d’attraction?”.

Paolo VI Udienza Generale. Mercoledì, 30 novembre 1977 – Spiritualità dell’Avvento

scandalizzata

La Farisea
del Card. Gianfranco Ravasi – Avvenire

Alla sera della sua vita, Brigida Pian aveva finalmente scoperto che non bisogna assomigliare a un servitore orgoglioso, preoccupato di abbagliare il padrone pagando il suo debito fino all’ultimo obolo, e che il Padre nostro non s’aspetta che si sia i contabili minuziosi dei nostri meriti. Ella sapeva adesso che non importa meritare, bensì amare.

Lo pubblicò nel 1941 e, come accadde per altri suoi romanzi, lo scrittore cattolico francese François Mauriac fu accusato di pessimismo nei confronti della religiosità di allora. In realtà con quest’opera intitolata “La farisea” egli colpiva una malattia costante della spiritualità, quella dell’ipocrisia che fiorisce dalla superbia. La parabola lucana del fariseo e del pubblicano (18, 9-14) ne è la rappresentazione emblematica.

Efficace è, comunque, anche il ritratto che Mauriac delinea di questa donna la quale conosce solo una religione fredda e disumana che si nutre di opere e di giudizi esteriori, che ignora la comprensione e la misericordia e che presume di conoscere i segreti dei cuori.

Piena di sé, Brigida Pian passa in mezzo alle debolezze ma anche alle ricchezze interiori degli altri con altero disprezzo, convinta di essere la perfetta cartina di tornasole della vera fede, e così non s’accorge di precipitare in un baratro oscuro ove Dio è assente ed è invece pieno solo dell’io umano.

Alla fine, però, c’è anche per lei la redenzione sulla via della conversione, la realtà che riteneva del tutto inutile per la sua vita “perfetta”. E la scoperta finale è lapidariamente espressa da Mauriac in quella frase: «Non importa meritare, bensì amare».

Una lezione da meditare sempre, soprattutto quando si è troppo convinti di essere a posto con la religione.

libri

Passi scelti da La Farisea di F. Mauriac:

“Donna stupefacente: un miracolo di deformazione. Ai suoi occhi, le apparenze del male valgono quanto il male, quando vi trova il suo interesse. Una natura profonda, ma come quei vivai, dove l’occhio segue tutti i guizzi dei pesci: così nella signora Brigida appaiono ad occhio nudo i più segreti motivi dei suoi atti.
Come soffrirebbe, se la potenza di giudizio e di condanna che ella rivolge verso gli altri, dovesse un giorno rigirarsi contro lei stessa!
Si scandalizza che io mi faccia difensore di questi due ragazzi e che m’aspetti un grande benefizio per Gianni, da questo primo amore. Ella stringe le labbra, mi dà del vicario savoiardo”.
Ho avuto l’audacia di metterla in guardia contro quella temeraria interpretazione del volere divino di cui abusano troppe persone pie. […]”.

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L’abate Calou gli prese la testa fra le mani e la scosse dolcemente, come per svegliarlo.
“Non bisogna voler entrare nella vita degli altri, loro malgrado: ricordati questo insegnamento, piccolo.
Non bisogna aprire la porta di quella seconda né di quella terza vita, che Dio solo conosce.
Non bisogna mai volgere il capo verso la città segreta, la città maledetta degli altri, se non si vuol essere mutati in una statua di sale.”

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“Ma via, se fosse stata in convento ne avrebbe avuto la direzione e avrebbe fatto tremare la comunità, dove a lungo si sarebbe scelta le sue vittime. Al contrario, bisogna esser contenti che nessuno le sia stato consegnato anima e corpo in un chiostro! E’ là che una Brigida Pian avrebbe dato tutta la misura di sé.
A noi due almeno resta la libertà di morire di fame senza rivederla più…”.

“Ti concedo che avrebbe concorso alla santificazione delle suore”, disse Ottavia, ancora in lacrime, ma con un pallido sorriso.
“Hai notato che nella vita delle grandi religiose c’è qualche volta una superiora della razza della signora Brigida che le aiuta a guadagnare il Cielo per la strada più penosa, ma nello stesso tempo più corta, perché non invecchiano troppo”, ella aggiunse: “non è bello quel che ho detto… La nostra benefattrice… Oh! Questo è male!”.

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Ma davanti al Santo Sacramento esposto, poi vicino alla Vergine dietro al coro… […], ella (Brigida Pian, ndr) rimase sotto l’interiore minaccia di una disapprovazione: “E’ una prova”, ella pensava, “io l’accetto…”. E nel suo pensiero questo voleva dire: “Nota bene, Signore, che l’accetto e non tralascio di riportare questa accettazione sulla colonna dei miei profitti”.

Poiché la pace le sfuggiva sempre, entrò in un confessionale e si accusò di essere stata violenta, non certo ingiustamente (ché la sua collera era giustificata), ma di non aver saputo contenere la sua legittima indignazione nei limiti di una carità ben guidata.

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Quella mattina l’abate Calou credette d’aver ricevuto un segno divino. Egli era incline per natura (come Pascal) ad aspettare da Dio un cenno sensibile, una testimonianza materiale.

[…] Preparò la predica della domenica seguente con cura attenta pur lasciandole una portata generale, ne pesò ogni parola, perché la sconosciuta vi potesse scorgere una risposta destinata a lei sola. […] Egli era sempre stato attento agli imprevedibili contraccolpi, ai prolungamenti sconosciuti dei nostri atti, quando, sia pure con le migliori intenzioni, interveniamo nel destino di un altro. 

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E’ in noi che Iddio parla

Posté par atempodiblog le 1 décembre 2015

E' in noi che Iddio parla dans Citazioni, frasi e pensieri wwmcm1

“Immagino che la mia matrigna in quel momento dovesse godere in senso assoluto: Ella assaporava quel piacere che non appartiene che a Dio, di conoscere tutto del destino di una persona che crede di svelarcelo, e di sentirsi padrona di poterle far prendere una direzione piuttosto che un’altra. Poiché ella non dubitava del suo potere sulla coscienza ansiosa di Puybaraud e ne ricevette conferma da Ottavia stessa…”.

[...] Durante la prima settimana di soggiorno del signor Puybaraud, Brigida Pian non si annoiò per niente a Larjuzon: le sue giornate erano troppo corte per dar fondo alla sua felicità d’aiutare un uomo a sbrogliare la matassa della sua vita interiore; ella non aveva più la sensazione di buttare via il tempo, né di andar contro la sua vocazione, che era quella di rivelare agli altri i disegni che Dio aveva fatto su di loro, dal fondo dell’eternità.

[…] Ben presto, Brigida Pian dovette riconoscere che aveva a che fare con un agnello più renitente di quanto non apparisse a tutta prima.

“E’ un’anima sfuggente…”, ella si diceva alla seconda settimana. Finì di accusarlo di sottrarsi alla grazia, vale a dire alle sue imposizioni.

[…] Ma Brigida Pian non ignorava che spesso è necessario strappare alle anime la maschera di falsa umiltà di cui essere si rivestono.

Ella affermava, come se ne avesse ricevuto comunicazione da Dio stesso, che il signor Puybaraud si era staccato dal collegio, inquantoché da tutta l’eternità si trovava destinato al chiostro. Assicurava che per lui, il vero dilemma riguardava l’unica questione: a quale porta battere, a che regola assoggettarsi?

[…] Benché Ottavia tenesse in grande considerazione la signora Brigida, a distanza ella trovava il coraggio di resisterle e metteva in guardia il suo amico da un’eccessiva sfiducia nelle proprie facoltà.

Gli assicurava che “anche una persona molto superiore a noi per la virtù, l’esperienza e le ispirazioni, non può supplire a quella personale conoscenza del volere divino che è frutto della virtù dell’abbandono…

Secondo la mia opinione è bene ascoltare i consigli venuti da fuori, purché non ci distolgono dall’obbedienza attenta e sorvegliata di ciò che avviene in noi.

D’altronde è in noi che Iddio parla, non credete, amico mio? […]”.

François Mauriac – La Farisea

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