È un vinaio di Firenze il locale più recensito su Tripadvisor

Posté par atempodiblog le 1 septembre 2015

È un vinaio di Firenze il locale più recensito su Tripadvisor
“L’antico vinaio”, affollata bottega di via de’ Neri a Firenze ha superato per una quindicina di voti un plurigettonato ristorante francese di Las Vegas
de Il Tirreno (1 settembre 2015)

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Con 8.425 recensioni totalizzate è il locale più recensito da Tripadvisor: a festeggiare il primato non un ristorante “stellato”, ma una vineria storica fiorentina a due passi da Piazza Signoria e dagli Uffizi. “L’antico vinaio”, affollata bottega di via de’ Neri, specializzata in panini con prodotti tipici come prosciutto e finocchiona e mescita di vini del territorio, ha dunque superato per una quindicina di voti un plurigettonato ristorante francese di Las Vegas, ma c’è da scommettere che la gara proseguirà a colpi di clic.

A dare la notizia del record è stato lo stesso giovane titolare Tommaso Mazzanti sul profilo facebook del locale: “Con grande gioia mia, di mio babbo e di mia mamma e di tutto lo staff, vi annunciamo che siamo diventati in assoluto il locale più recensito al mondo su Tripadvisor!!! Un grazie di cuore a tutti voi, che con le vostre bellissime parole ci avete fatto raggiungere questo traguardo importantissimo. Per me e per tutta la mia famiglia, che da più di 25 anni siamo in via de’ Neri – conclude – è un onore pazzesco”.

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L’ARTE DI CUCINARE/ Un dolce speciale per la festa della Mamma: la torta delle rose.

Posté par atempodiblog le 10 mai 2015

L’ARTE DI CUCINARE/ Un dolce speciale per la festa della Mamma: la torta delle rose.
di Monica Zappa – Radio Maria Fb

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Storia: La torta delle rose è un dolce tipico della tradizione culinaria mantovana. Le sue origini storiche risalgono alla fine del XV secolo, la torta delle Rose fu infatti creata in occasione delle nozze tra Francesco II di Gonzaga e Isabella D’Este, fu talmente apprezzata da tutti i Signori dell’epoca che da quel momento entrò a far parte della cultura gastronomica mantovana e ancora oggi è riproposta secondo l’antica ricetta. Realizzata con una pasta lievitata ricca di burro e zucchero che viene arrotolata, assume la forma di un cesto di boccioli di rose. Un dono gustoso da offrire alla mamma in occasione della sua festa!

Ricetta
Ingredienti:

500 g di farina;
200 g di zucchero;
125 g di latte;
180 g di burro;
2 uova
1/2 limone grattugiato
25 g lievito di birra
1 bustina di vanillina

Sbattete le uova in una terrina insieme a 120 grammi di zucchero, finché non diventeranno spumose; poi aggiungete 80 g di burro liquefatto, il lievito stemperato nel latte tiepido e la bustina di vanillina (senza dimenticare il limone!). Versate la farina sulla spianatoia, fate la fontana e versate il composto realizzato in precedenza, amalgamando bene il tutto e lasciando poi riposare l’impasto per almeno 30 minuti. Intanto preparate la farcitura sbattendo in un’altra terrina lo zucchero rimasto (80 grammi) con il burro morbido.

Ora arriva il momento della preparazione delle rose:
dividete l’impasto in 7 parti e spianatele con il mattarello per ottenere 7 dischetti; spalmate la farcitura sui dischetti e arrotolateli come fossero cannelloni; poi arrotolate ogni cannellone come se voleste fare una girella. Sistemate le girelle in una teglia rotonda mettendone una al centro e le altre intorno. Infornate per 40 minuti a 180 °C.

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L’Italia a tavola

Posté par atempodiblog le 5 mai 2015

Meno carne, poco pane e più verdure: come cambia il nostro modo di cucinare
L’Italia a tavola
Le tendenze alimentari ieri e oggi. La crisi ha tagliato il budget per il cibo, ma non si rinuncia alla qualità. Giovani sempre più spesso tra i fornelli. Cresce la voglia di bio. E si fa in casa anche lo yogurt
di Alessandra Dal Monte, Isabella Fantigrossi – Corriere della Sera

L’Italia a tavola dans Articoli di Giornali e News 2w50i1d

Maccheroni ai quattro formaggi o un abbondante piatto di lasagne al ragù. Con nonni, genitori e figli riuniti attorno alla tavola. Così cominciava il tipico pranzo di casa degli anni Sessanta. Adesso invece, dopo una veloce colazione e uno spuntino al bar, se si riesce ci si vede a cena. Dove un piatto unico può bastare. Dalla dieta sostanziosa degli anni del boom a quella più equilibrata e varia di oggi. Con porzioni più piccole, poca carne, più cereali e più verdure, magari bio. Perché la salute — ormai lo sappiamo — si cura anche mangiando. E di questi tempi un occhio al portafoglio è d’obbligo per tutti. Ecco come si nutrono gli italiani nel 2015.

Spendiamo di meno per comprare il cibo, soprattutto da quando c’è la crisi. Tra il 2006 e il 2014 i consumi delle famiglie per alimentari e bevande sono calati del 12,1 per cento (Rapporto Coop 2014 «Consumi e distribuzione»). Se nel 2011 sborsavamo 477 euro in media al mese, nel 2013 la cifra è scesa a 461. Una strategia di risparmio, certo. Ma non solo. Abbiamo anche imparato a evitare gli eccessi. «Subito dopo la guerra — spiega Alberto Capatti, storico della cucina e membro del comitato scientifico di Casa Artusi — gli italiani hanno compensato le privazioni cucinando, appena possibile, piatti grassi. La pasta era sempre accompagnata da salse e condimenti. La carne si mangiava quasi tutti i giorni». Poi sono arrivati gli anni Ottanta e la nouvelle cuisine. Abbiamo cominciato a imitare gli chef preparando in casa il filetto al pepe verde o il salmone «unilaterale» (cotto su un lato solo). Abbiamo imparato a prestare attenzione alla qualità dei prodotti e a diminuire le dosi. Due tendenze oggi all’apice: «Al centro della cucina attuale c’è la materia prima», dice Capatti. Insomma, invitiamo gli amici per provare insieme l’ultimo acquisto gourmet. «Trent’anni fa le nostre ricette prevedevano almeno un etto di pasta a testa — ricorda Paola Ricas, direttore de La Cucina italiana dal 1981 al 2006 —. Oggi invece al massimo 80 grammi». Anche Gualtiero Marchesi conferma: «Nel mio ristorante non si mangiano più di due piatti, al massimo si aggiunge il dolce. Mentre all’estero funziona ancora il menu degustazione da sette portate». Il pasto principale, poi, si è spostato alla fine della giornata: «Una volta si tornava a casa a mezzogiorno e le mamme cucinavano per tutti — spiega Ricas —. Adesso, come nel mondo anglosassone, ci ritroviamo attorno al tavolo la sera per il rito della cena». Ai fornelli ci stanno sempre di più anche gli uomini (il 38,8 per cento cucina spesso, solo l’8,5 mai) e pure la quasi totalità dei giovani.

Inoltre quasi 42 milioni di italiani preparano in casa pizza, dolci, conserve, pane e yogurt. Intanto i dati Istat fotografano un carrello ben diverso da quello di quarant’anni fa. Cala il consumo di carne, soprattutto bovina (dai 25 chili pro capite all’anno nel 2000 ai 19,3 del 2014) e aumenta quello di cereali (pasta, biscotti, riso). Crolla invece l’acquisto di pane: ne mangiamo sempre meno. Dal chilo abbondante a persona al giorno del 1861 — del resto c’era solo quello — ai 100 grammi scarsi degli ultimi mesi. Apprezziamo di più il pesce: nel 1973 rappresentava il 3,4 per cento del nostro carrello, oggi l’8,9. Cresce anche la passione per frutta e verdura: nel 2014, 22 milioni di italiani dichiarano di consumare più ortaggi rispetto a dieci anni fa (rapporto Saclà/Doxa). Insomma, mangiamo in modo più vario e sano. «Dopo anni passati a cibarsi solo di pastasciutta — sintetizza Ricas — il palato dell’italiano medio ha imparato ad assaggiare di tutto». Anche alimenti prima sconosciuti, come la quinoa, l’amaranto, il bulgur. O varietà nostrane riscoperte, dal cavolo nero toscano alle lenticchie umbre, dal bue grasso piemontese ai latticini campani. «Il cibo sta tornando indietro, sta recuperando la sua memoria storica — dice Oscar Farinetti, fondatore di Eataly —. Abbiamo finalmente capito che l’Italia ha una biodiversità pazzesca e stiamo puntando sulle materie prime eccellenti. Cuciniamo in modo meno elaborato ma andiamo al mercato per i prodotti freschi. Insomma, mangeremo anche poco pane e poca carne, ma più buoni». In effetti, dati alla mano, il 45,4 per cento degli italiani fa la spesa seguendo il criterio della qualità. E tra le tendenze alimentari c’è la dieta vegetariana (il 6,5 per cento della popolazione) e la voglia crescente di prodotti bio.

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Dolci francesi: la storia dei macarons

Posté par atempodiblog le 25 avril 2015

Dolci francesi: la storia dei macarons
di Luca Cattaneo – Italiani Francia

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I Macarons sono tra i dolci più famosi della cucina francese. Si tratta di piccoli pasticcini composti da due soffici meringhe che racchiudono un ripieno morbido… somigliano ad un piccolo panino imbottito!
La ricetta ha innumerevoli varianti, ma la base per la preparazione dei Macarons è composta da albume d’uovo, farina di mandorle e zucchero a velo. Al tutto va aggiunto un colorante alimentare che serve a dare ai dolcetti la tipica colorazione accesa e diversa per ogni gusto. Verdi, viola, gialli, rosa o marroni, ogni Macaron ha un ripieno diverso (marmellate di ogni genere, burro, crema al cioccolato…) e un sapore unico.
Caratteristica esclusiva dei Macarons è la loro estrema morbidezza, una consistenza vellutata che letteralmente… si scioglie in bocca!
Questi dolcetti apparentemente teneri e delicati sono in realtà una vera e propria sfida anche per gli chef più esperti… un risultato soddisfacente si ottiene solo con dedizione, studio e tecniche di produzione che richiedono un’attrezzatura adeguata e molta attenzione ai dettagli: non è un lavoro per fornai dilettanti!

Benché la loro origine francese sia la più comunemente riconosciuta, una teoria sostiene che la preziosa ricetta fu importata nell’Esagono da Caterina de’ Medici e dai suoi pasticceri italiani, quando nel lontano 1533 sposò Enrico II di Francia. Probabilmente è proprio per questa discendenza italiana che portano questo nome, tanto simile al nostro “maccarone”!
I riferimenti più recenti a pasticcini simili risalgono agli anni ’30 del 1800, quando venivano venduti al paio con un ripieno di marmellata, liquore e spezie. Ma la versione moderna dei Macarons nacque agli inizi del secolo scorso per mano del pasticciere Pierre Desfontaines, che lavorava per la Pâtisserie Laudrée di Parigi.

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Il Cappello di Napoleone

Posté par atempodiblog le 12 juin 2014

Timballo di pasta o Cappello di Napoleone
È un piatto napoletano, è una crostata di fettuccine avvolta da una crosta di prosciutto cotto.

di SempliceVeloce

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Ingredienti per 4 persone

250 g di fettuccine (preferibilmente non all’uovo)
150 g di piselli
funghi (vanno bene anche quelli essiccati)
200 g di fior di latte
250 g di prosciutto cotto
2 fettine di speck
1 confezione di besciamella
sale, pepe, olio e burro qb

Come fare il Timballo di pasta o Cappello di Napoleone

Mettete un filo d’olio e la cipolla in una padella, aggiungete i piselli e i funghi nella padella, lasciate cuocere per 10 minuti

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Fate bollire l’acqua per le fettuccine e scolate la pasta un minuto prima dei tempi di cottura indicati sulla confezione, riversarli nuovamente nella pentola dopo averle scolate, aggiungere la besciamella lo speck…. (conservate un po’ di accqua di cottura)

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Aggiungete la besciamella, i funghi e i piselli, aggiustare di sale, aggiungere il pepe se piace (se risulta troppo asciutta la pasta aggiungere un po’ di acqua di cottura della pasta)

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Ricoprire la teglia da ciambella col prosciutto crudo (la crosta della crostata di fettuccine)

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Versate la pasta all’interno della tortiera richiudete le fettine di prosciutto creando così l’involucro per la crostata di fettuccine, aggiungete un po’ di pane grattuggiato e qualche fiocco di burro, infornate a 200° per 10-15 minuti

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Sfornate, lasciate intiepidire rigirate il timballo utilizzando un piatto da portata. Servite il vostro Cappello di Napoleone (o Timballo di pasta al forno) e buon appetito!

VINO DA ABBINARE: Pagadebit di Romagna

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Ogni mese una pausa di 4 giorni. Così il digiuno ci allungherà la vita

Posté par atempodiblog le 10 juin 2014

Ogni mese una pausa di 4 giorni. Così il digiuno ci allungherà la vita
Cicli regolati rinnovano le staminali. «Ma no alle improvvisazioni». Lo studio condotto in California da un gruppo di ricercatori guidati da un italiano
di Giovanni Caprara – Corriere della Sera

Ogni mese una pausa di 4 giorni. Così il digiuno ci allungherà la vita dans Articoli di Giornali e News 5l1d10

Il digiuno migliora la salute, combatte l’invecchiamento e, in prospettiva, allunga la vita. L’affermazione non è più soltanto una battuta dei nostri nonni o di qualche saggio dalla vita ascetica ma il frutto di una ricerca pubblicata ieri sulla rivista scientifica americana Cell Stem Cell. «Periodi prolungati di digiuno, correttamente gestiti dagli specialisti, innescano cambiamenti nel sistema immunitario e una sua rigenerazione stimolando il rinnovamento delle cellule staminali», spiega Valter Longo, professore di biogerontologia e direttore dell’Istituto sulla longevità all’University of Southern California a Los Angeles, alla guida del gruppo di scienziati autore della scoperta.

La scuola californiana è la culla degli studi sull’invecchiamento avendo avviato già negli anni 60 il primo centro di ricerca dedicato alla frontiera più affascinante della medicina. «Per sei mesi — precisa Longo, un leader del suo campo — abbiamo sottoposto i volontari a periodi di digiuno di quattro giorni rendendoci conto che il sistema immunitario si libera delle cellule inutili, non necessarie, mentre è spinto a rimettere in azione in modo naturale, come accadeva nei momenti della nascita e della crescita, le cellule staminali capaci di assicurare la rigenerazione». Il risultato ha una storia partita da indagini sui lieviti, poi continuate sui topi e ora approdate sull’uomo. E alla base c’erano altre scoperte ottenute dallo stesso Longo riguardanti i fattori di crescita legati, tra le altre cose, agli zuccheri. Le conclusioni pubblicate vanno, però, oltre con un valore aggiunto importante. Si è visto, infatti, che il digiuno aiuta i pazienti sottoposti a cicli di chemioterapia svolgendo un’azione protettiva dagli effetti collaterali e dai danni provocati al sistema immunitario. «Potenzialmente — aggiunge Longo — riteniamo che questa pratica sul cibo favorisca l’eliminazione di cellule anomale, precursori di cellule cancerogene».

Nei prossimi mesi le ricerche saranno ampliate da un altro studio con 64 volontari dai 20 ai 70 anni che si sottoporranno a due cicli di 4-5 giorni di digiuno a intervalli di un mese. Valter Longo (46 anni) è uno scienziato italiano di origini calabresi formatosi all’Università del Texas e poi approdato all’università californiana. Ma ora, pur mantenendo la cattedra americana, tornerà in Italia («sono un cervello senza frontiere in cerca di problemi da risolvere », dice) per dirigere all’Istituto Firc di oncologia molecolare (Ifom) di Milano un laboratorio con una dozzina di ricercatori impegnati nella sfida della senilità. «La biogerontologia — nota Marco Foiani, direttore dell’Ifom — è uno degli ambiti più promettenti. L’invecchiamento cellulare causa problemi metabolici e la predisposizione all’insorgenza tumorale. Comprendendo i meccanismi dell’invecchiamento capiremo molto anche sulla formazione dei tumori».

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Ricetta Zeppole di San Giuseppe – Cucina Napoletana

Posté par atempodiblog le 18 mars 2014

Ricetta Zeppole di San Giuseppe – Cucina Napoletana
di Fabiana Carelli – Napoli da vivere

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Le zeppole di San Giuseppe sono un dolce la cui tradizione è molto sentita dai napoletani, pur non essendo una ricetta esclusivamente partenopea.

La leggenda, risalente addirittura ad epoca romana, vuole che siano attribuiti a San Giuseppe, il quale avrebbe inventato questo dolce durante la famosa fuga in Egitto.

Per questo motivo le gustose frittelle sono tipicamente associate alla festa del papà, e vengono preparate in genere nel periodo primaverile.

Ingredienti

  • 1/2 Kg. di farina
  • 500 ml di acqua
  • 1/4 di sugna (o di burro)
  • 1 pizzico di sale
  • 12 uova
  • 500 ml di latte intero
  • 200 gr. zucchero
  • 4 tuorli d’uovo
  • 70 gr. farina
  • 1 bustina di vanillina (o una stecca di vaniglia)

Preparazione

Prima di tutto preparate la crema pasticcera. Fate bollire il latte con la stecca di vaniglia (o bustina di vanillina), lasciate raffreddare e passate il tutto con il colino. A parte, sbattete le uova con lo zucchero, quindi aggiungete la farina. Unite il latte al composto e mescolate bene. Mettete il tutto in un tegame e cuocete a fuoco lento, girando continuamente e facendo attenzione ad evitare la comparsa di grumi. Quando la crema si sarà addensata, togliete dal fuoco e fate raffreddare.

Per l’impasto, fate bollire l’acqua e la sugna (o burro) in un tegame, poi togliete dal fuoco ed aggiungete la farina a pioggia, mescolando sempre. Una volta terminato, rimettete il tutto sul fuoco e fate cuocere a fuoco lento finché la pasta non si stacca dalle pareti del tegame.

Lasciate raffreddare la pasta, poi aggiungete le uova una alla volta, lavorando il composto energicamente con le mani, fino a quando non assume una consistenza densa. Preparate dei quadrati di carta da forno ed ungeteli leggermente con un po’ d’olio; mettete la pasta in una siringa per pasticceri, con beccuccio largo ed a stella, e versatene un po’ su ogni singolo quadrato formando una sorta di ciambella (la forma tipica delle Zeppole di S.Giuseppe).

Friggete le ciambelle (con la base di carta da forno) in una pentola con abbondante olio caldo. Quando l’olio sarà bollente e le ciambelle quasi cotte, si staccheranno dalla carta da forno; a quel punto fatele dorare e poi asciugare su della carta assorbente.

Una volta asciutte, guarnite con la crema pasticcera, amarene e zucchero a velo.

N.B.:
Di questo dolce si sta diffondendo sempre di più la variante certamente meno calorica delle zeppole al forno, che differisce soltanto per il tipo di cottura dell’impasto. Gli amanti di questo dolce spesso si dividono letteralmente in due fazioni per stabilire quale sia la migliore, tuttavia ormai sono entrambe entrate di diritto nella nostra tradizione culinaria.

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Le frittelle di Carnevale (castagnole)

Posté par atempodiblog le 4 mars 2014

Le frittelle di Carnevale (castagnole)
Ricetta tratta da: L’arte di cucinare di Monica  Zappa – Radio Maria

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Ingredienti:
500 g. di farina
150 g. di zucchero
4 uova
200 ml. di latte
1 bustina di lievito per dolci
1 limone
1 bicchierino di liquore all’anice
zucchero a velo q.b.
olio di semi di arachide q.b.


Preparazione:

In una terrina sbattete le uova energicamente aiutandovi con la frusta, incorporatevi lo zucchero e continuate a montare fino ad ottenere un composto chiaro e spumoso. Aggiungete quindi la scorza di un limone, il latte, un pizzico di sale e il liquore all’anice. Continuate a mescolare l’impasto e, quando sarà omogeneo, incorporatevi a poco a poco tutta la farina setacciata e alla fine la bustina di lievito.

Quando il composto sarà vellutato, lasciatelo riposare qualche minuto nella terrina e intanto mettete a scaldare l’olio in un tegame con i bordi alti. Non appena l’olio sarà ben caldo (dovrà raggiungere almeno i 180°C) con un cucchiaio prendete un po’ di impasto e immergetelo nell’olio bollente. Fate friggere le palline di pasta rigirandole di tanto in tanto, fin quando non saranno dorate su tutta la superficie.
Scolate le frittelle su della carta assorbente e disponetele su un piatto da portata. Spolverizzatele con lo zucchero a velo e servite.

Accorgimenti:
Prestate molta attenzione, nella preparazione dell’impasto, ad evitare la formazione di grumi. Oltre alla farina, setacciate anche il lievito prima di aggiungerlo agli altri ingredienti.

Varianti:
Per ottenere delle frittelle ancora più golose, a fine cottura potete riempirle di crema pasticcera aiutandovi con una siringa per dolci.

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Buona cucina: segno di speranza?

Posté par atempodiblog le 22 février 2014

Buona cucina: segno di speranza?
di Susanna Manzin – Comunità Ambrosiana

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Oggi è esplosa la moda della buona cucina: non c’è canale televisivo che non abbia la sua trasmissione di ricette e consigli per la tavola, gli chef sono delle star e le gare di cucina incollano davanti allo schermo milioni di spettatori. Penso che si tratti di una buona cosa: dopo un lungo periodo di approccio trasandato al mondo del cibo, è bello vedere un ritrovato interesse per la buona tavola. Oggi la società coriandolare (per usare la felice espressione del sociologo Giuseppe De Rita) produce i suoi effetti anche sulle abitudini alimentari: diminuisce la regolarità dei pasti, sempre più disordinati e ad orari imprevedibili. E’ sempre più raro che la famiglia si riunisca a tavola, a condividere un pasto preparato con attenzione e amore dalla madre, raccontandosi l’un l’altro quanto è successo durante la giornata. Oggi molti consumano pasti pronti, scaldati velocemente al microonde, tra un impegno e l’altro; le famiglie mangiano guardando la TV, senza rivolgersi la parola; trionfa il fast food, il mondo delle merendine e dei cibi precotti. Non parliamo poi dell’ossessione della linea e delle diete. Ma questo ritrovato interesse per il mondo delle ricette dimostra che qualcosa sta cambiando, in meglio. E’ un segnale che “le radici profonde non gelano”, come diceva Tolkien, e noi italiani abbiamo tutti gli strumenti per riscoprire queste radici di buona cucina.

Tra l’altro, l’Unesco ha proclamato la dieta mediterranea patrimonio dell’Umanità, riconoscendone non solo le qualità nutrizionali (si può mangiare bene tutelando anche la salute) ma anche il valore sociale: leggiamo nelle motivazioni: «Promuove l’interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità, e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende». Esiste una via della bellezza anche a tavola. Il cibo e le bevande fanno parte a pieno titolo della cultura e il loro significato simbolico è del resto spesso citato nella stessa Sacra Scrittura. Cosa c’è di più bello che cucinare per i familiari, per gli amici, trascorrere con loro una serata intorno ad una bella tavola apparecchiata con amore e armonia? Ricordiamo il significato profondo del film Il pranzo di Babette, del regista danese Gabriel Axel, recentemente scomparso, che vinse l’oscar nel 1987 per il miglior film straniero. Il film è tornato in auge recentemente, poiché Papa Francesco ne parla come del suo film preferito. Babette, una cuoca che fugge da Parigi sconvolta dalla Comune, si rifugia  in un villaggio danese nella casa di due austere zitelle. Come dice Papa Francesco, «appartengono a un mondo calvinista e puritano talmente austero che anche la redenzione di Cristo viene vista come una negazione delle cose di questo mondo. Era una comunità che non sapeva che cosa fosse la felicità. Viveva schiacciata dal dolore. Stava attaccata a una parvenza di vita. Aveva paura dell’amore». Babette vince la Lotteria Nazionale e per sdebitarsi dell’ospitalità ricevuta decide di spendere il denaro della vincita per organizzare una memorabile cena, con i cibi più raffinati e i vini migliori. E la bellezza della cena trasforma tutti coloro che vi partecipano: i cuori induriti si sciolgono, torna il sorriso e la gioia di vivere, l’amore e la fratellanza . Da sempre il nutrimento non ha solo un aspetto biologico ma anche culturale, sociale e simbolico. E’ una pratica di socializzazione: ogni civiltà ha i suoi riti, le sue tradizioni. Anche nelle case più umili la tavola era simbolo di generosa condivisione. La frantumazione della società e la crisi delle relazioni interpersonali hanno fatto sentire i loro effetti anche sulle abitudini alimentari. Ma la passione per la cucina è, a mio parere, un segnale di speranza: per risollevarci dalla catastrofe antropologica proviamo a ripartire dal gusto ritrovato per le ricette e la gastronomia. Impariamo da Babette, che scioglie i cuori con il suo pranzo sontuoso. San Giovanni nel suo Vangelo riporta un ricordo commuovente: quello di Gesù risorto che con semplicità e delicatezza cucina pesce arrostito e pane sulla spiaggia, facendo trovare tutto pronto ai suoi discepoli, che invita a mangiare con lui, ricreando quel clima familiare che tante volte hanno condiviso con Lui (Gv 21,9). Quanti episodi ci presentano Gesù a tavola: non è un caso.

Vogliamo fare  la Nuova Evangelizzazione? Ecco gli ingredienti per una ricetta: prendete una tavola, apparecchiatela con cura e bellezza, cucinate qualche manicaretto, invitate gli amici, cominciate con una breve preghiera di ringraziamento (ce ne sono di bellissime) e gustatevi la buona compagnia. Insaporite con qualche discorso importante, ma senza trascurare la gioia e la spensieratezza. Condite tutto col sorriso e innaffiate con una buona bottiglia di vino rosso. Perché come diceva Hilaire Belloc (27 luglio 1870 – 16 luglio 1953): «Laddove splende il sole cattolico, ci sono sempre risa e buon vino rosso».

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Per san Martino, oca, castagne e vino

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2013

Per san Martino, oca, castagne e vino
di Marina Cepeda Fuentes – Il Timone

Per san Martino, oca, castagne e vino dans Cucina e dintorni San_Martino_Oche_Castagne_e_Vino

“Oca, castagne e vino, tieni tutto per San Martino”, afferma un proverbio padano.

Una volta, infatti, la festa del Santo, che cade l’11 novembre e alla quale sono connessi in gran parte dell’Europa detti, proverbi, riti e tradizioni gastronomiche, si celebrava con ricche libagioni e grandi banchetti in cui si mangiava soprattutto l’oca fatta ingrassare con cura. Ma nei primi giorni di novembre il mosto già fermentato diventa vino novello e si spilla quello vecchio dalle botti: “per San Martino si lascia l’acqua e si beve il vino”, assicura un proverbio, mentre un altro ci svela che “per San Martino s’ubriaca il grande e il piccinino”. Ed è anche tempo di castagne: dalla fine di ottobre il profumo delle caldarroste imperversa in alcune città e molte sagre paesane sono dedicate ai frutti appena raccolti e perciò si dice “Per San Martino caldarroste e vino”. Fino al secolo scorso in Italia la festa di San Martino era una sorta di capodanno: cominciavano le attività dei tribunali, delle scuole e dei parlamenti; si tenevano elezioni e in alcune zone scadevano i contratti agricoli e di affitto. Tuttora si dice infatti “far San Martino” all’atto di traslocare o sgomberare. Il giorno dedicato al celebre vescovo di Tours trascorreva nell’ingorda letizia delle tavole colme di ogni ben di Dio, sicché tuttora la figura del Santo è sinonimo di abbondanza: “Ce sta lu sante Martino”, dicono in Abruzzo quando in una casa non mancano le provviste. Ippolito di Cavalcanti, duca di Buonvicino, scriveva nel 1847: “Cheste è chella bella Jornata di San Martino c’a Napole, e me credo pe tutto lo Munno, se fa na grosa festa; e grazia de chesta sollennità, a dove echiù, a dove meno, se fa lo grande pranzo…”.

Quanto alla scelta del grasso volatile come cibo tipico della festa rammenterebbe quella raffigurata di solito ai piedi del santo. Un attributo che risale alla sua leggendaria nomina a vescovo di Tours: con le loro strida le oche svelarono il nascondiglio di Martino che non voleva accettare l’incarico! Ma dietro la popolare tradizione gastronomica si celano vestigia di antiche credenze religiose, sicché “l’oca di san Martino” sarebbe in realtà una discendente di quelle sacre ai Celti, simboli del Messaggero divino, che accompagnavano le anime dei defunti nell’aldilà. In tutti i Paesi dove la religione celtica era più radicata vi è infatti la consuetudine di mangiare l’oca.

Probabilmente dai festeggiamenti del capodanno celtico o samuin, che avveniva nei primi dieci giorni di novembre, deriverebbe la tradizione, viva tuttora in tanti luoghi dell’Europa, di cucinarla a partire dal giorno di Ognissanti: “E il giorno di Ognissanti al di nascente/ ognun parti de la campagna rasai e tornò lieto a mangiar l’oca a casa”, dicono alcuni versi del Tassoni. In Boemia, non solo la si mangia, ma se ne trae l’oroscopo per l’inverno: se le ossa sono bianche, l’inverno sarà breve e mite, se scure è segno di pioggia, neve e freddo. Gli svizzeri, l’11 novembre, la mangiano ripiena di fette finissime di mele e in Germania la si riempie invece di artemisia profumata, mele, marroni glassati col miele, uva passita e le stesse interiora dell’animale. Dicono i tedeschi che l’oca perché sia veramente buona deve provenire dalla Polonia o dall’Ungheria, fra l’altro la patria di san Martino che era nato nell’antica Pannonia. In Italia è la Padania la terra dove l’oca, insieme con il maiale, costituisce uno dei cibi più fantasiosamente cucinati. La ricetta più diffusa per San Martino è il “bottaggio”, simile alla “cassoeuola” lombarda: nell’oca così preparata la freschezza e la fragranza della verza attenua l’intensità del suo sapore un po’ dolciastro.

Una curiosità: nella cucina tradizionale romana non vi sono ricette per cucinare l’oca, forse per ancestrale riconoscenza dei Romani verso questi volatili, simbolo di fedeltà e vigilanza. D’altronde le oche che sorvegliavano il tempio della dea Giunone al Campidoglio riuscirono a salvare il colle dall’invasione dei Galli nel 390 a.C. dando l’allarme con le loro strida!

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Pizza alla Merry e Pipino

Posté par atempodiblog le 29 octobre 2013

Pizza alla Merry e Pipino
Tratta da: A tavola con gli Hobbit. Ricette e menu della Terra di Mezzo di Cinzia Gregorutti e Luisa Vassallo, prefazione di Paolo Gulisano. Ed. Ancora

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Per 4 persone

Per la pasta:
300g di farina di grano duro
olio, sale, pepe

1 cucchiaino di zucchero
20g di lievito di birra

Per la copertura:
funghi misti freschi
4 patate medie
100 gdi pancetta (o speck)
formaggio (tipo mozzarella)
1 spicchio d’aglio
1/2 mestolo di brodo di verdura
1 pizzico di maggiorana
50 gdi noci tritate grossolanamente
olio, sale, pepe

Procedete con l’impasto e la lievitazione come nella ricetta classica. Preparate intanto gli ingredienti per la copertura. In un tegame scaldate l’olio, insaporitevi lo spicchio d’aglio e toglietelo quando è dorato. Aggiungete i funghi puliti, lavati e tagliati a fettine sottili. Aggiungete il brodo, coprite e cuocete a fuoco moderato, fino a quando i funghi saranno diventati morbidi. Regolate con sale e pepe.
Lavate le patate. Mettetele in un tegame con la buccia in abbondante acqua e lessatele a fuoco medio. Quando vedrete che potete bucarle facilmente con una forchetta, levatele dall’acqua, sbucciatele e schiacciatele fino ad ottenere una soffice purea.
Quando la pasta della pizza è circa a metà cottura, toglietela dal forno. Cospargetevi sopra la purea di patate, aggiungete la mozzarella, i funghi, la maggiorana, la pancetta e le noci. Condite il tutto con un pizzico di sale e di pepe. Rimettete in forno fino a cottura ultimata.
Prima di servire aggiungete un filo di olio crudo.

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Dopo otto anni il pizzaiolo più bravo al mondo torna ad essere napoletano

Posté par atempodiblog le 5 septembre 2013

Dopo otto anni il pizzaiolo più bravo al mondo torna ad essere napoletano
«Da piccolo giocavo con la farina»
Tratto da: Il Mattino  

Dopo otto anni il pizzaiolo più bravo al mondo torna ad essere napoletano dans Cucina e dintorni 0ybe

È tornato a Napoli il titolo di campione mondiale dei pizzaioli: da otto anni un napoletano non si aggiudicava infatti il primo posto. A conquistare il trofeo Caputo (nell’ambito del Pizza Village) è stato il ventinovenne partenopeo Davide Civitiello.

Ha sbaragliato i 500 partecipanti provenienti da 47 Paesi del mondo. Il secondo posto è andato invece ad una giovane pizzaiola giapponese, Chia Umezawa, arrivata a Napoli con 50 suoi colleghi dal Sol Levante. Terzo classificato, il bresciano Giuseppe Toriello. Quest’anno il campionato si è svolto a contatto diretto del pubblico che ha potuto seguire la selezione, durata due giorni, a due passi dai concorrenti.

Si è svegliato con il titolo di campione mondiale dei “pizzaiuol”, conquistato ieri notte Davide Civitiello, 29 anni, non sta nella pelle. «Mi sento un altro – racconta – sono così felice che non mi sembra vero».

Felice per sé e per la città che non vedeva il titolo da 8 anni. «Speriamo che porti bene anche alla nostra squadra di calcio», aggiunge. La sua storia è davvero singolare. «Quando uscivo dalla scuola, a 9 anni, correvo nella pizzeria del papà di un mio amico a via Capuana, l’antica pizzeria di Gennaro di Enzo Costa. Sono stati loro i miei primi maestri. Giocavo con la farina, lievito e acqua e impastavo, come forse altri bambini della mia età facevano con la plastilina. Poi all’età di 14 anni, dopo le scuole medie, decisi quale sarebbe stato il mio lavoro: il pizzaiolo».

Di maestri Davide ne ha avuti tanti, dopo Enzo Costa, Salvatore De Masi e altri grandi “’rtigiani” della pizza. Ma Napoli gli stava stretta, così ha lavorato due anni a New York, poi a Tokyo, ancora a Copenaghen. Sempre in giro ad insegnare agli altri come fare una vera pizza napoletana. Da autentico “pizzaiuolo”, Davide assieme allo chef che fu il cuoco personale di Gianni Versace, Donato De Santis, ha girato per una televisione americana, la Fox Latina, un programma di cucina che andrà in onda per l’Argentina in autunno.

Soddisfatti gli organizzatori del Trofeo Caputo che hanno visto aumentare i partecipanti: 500 provenienti da 47 Paesi del mondo. Evento che si è dispuntato nell’ambito del “Caputo Napoli Pizza Village”, ricco di momenti musicali, di laboratori e di approfondimenti e che durerà fino a domenica 8 settembre. Con la possibilità, tutte le sere, di degustare la pizza in uno dei 45 stand dove operano i più importanti pizzaiuoli partenopei, con un prezzo piccolo, piccolo. E Davide confida «ho un sogno, vorrei aprire una pizzeria tutta mia, A Napoli, New York, Madrid, ovunque mi si dia la possibilità».

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Pesci e patate alla Sam Gamgee. Una ricetta hobbit

Posté par atempodiblog le 27 novembre 2012

Pesci e patate alla Sam Gamgee
Una ricetta hobbit
di Andrea Monda – RaiLibro

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Nella schietta concretezza degli Hobbit è racchiuso molto del segreto di Tolkien, e del suo successo, in quegli ometti ad un tempo timidi e spavaldi, a loro modo poetici ma sempre con i piedoni (possibilmente nudi e pelosi) ben piantati per terra. Non a caso la prima battuta del Signore degli anelli è quella di Hamfast Gamgee, padre del più famoso giardiniere della Terra di Mezzo, una battuta destinata a gettare una luce per nulla sinistra sull’intera storia; sentite qua e poi, leggetene pure la ricetta! Buon appetito, pardon, buona lettura!

«Mio figlio Sam ne saprà più di me, va e viene da Casa Baggins. E’ pazzo per le storie dei vecchi tempi e sta ore ed ore ad ascoltare il signor Bilbo che le racconta. Il padrone gli ha anche Insegnato a leggere e scrivere, senza cattive intenzioni, beninteso, e spero che non ne verrà niente di male.. “Elfi e Draghi!” Gli dico. Cavoli e patate soli fatti per gente come noi. Non t’impicciare degli affari dei tuoi superiori, o ti capiteranno guai a non finire, gli dico. E lo dico anche a voi…».

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Pesci e patate alla Sam Gamgee
per 4 persone

500 g di merluzzo
500 g di patate
200 ml di latte
farina di grano duro
olio per friggere
sale
aceto per condire

Sbucciate, tagliate e asciugate le patate. Preparate i pesci,  lavateli sotto l’acqua corrente, asciugateli perfettamente, tuffateli nel latte freddo e passateli nella farina. Sistemate quindi i pesci in un setaccio e scuoteteli in modo da far cadere la farina in eccesso. Mettete abbondante olio
in una padella a bordi alti e portatelo a temperatura molto alta. Friggete subito le patate e poi passate alla frittura pochi pesci alla volta in modo che la temperatura non si abbassi mai troppo. È consigliabile friggere i pesci per circa 5 minuti, fino a quando avranno preso una doratura chiara e saranno diventati leggermente croccanti. Condite con abbondante aceto.

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Panettone, tra storia e leggenda

Posté par atempodiblog le 6 décembre 2011

Riti familiari e simbologie del Natale
Il dolce di origine milanese, con la sua tipica forma a cupola, regna sovrano durante le feste natalizie sulle tavole italiane. Ha origini antichissime e molte sono le leggende che cercano di ricostruirne la storia.
di Sara Deodati – Radici Cristiane

Panettone, tra storia e leggenda dans Cucina e dintorni Panettone

Lo scrittore Pietro Verri nella sua Storia di Milano (1783) narra dell’usanza culinaria che nel IX secolo animava le feste natalizie legate al territorio milanese: la preparazione di tre grandi pani, diversi da quelli che si mangiavano durante l’anno, che ogni pater familias tagliava distribuendoli nel corso di una celebrazione rievocativa dell’Ultima Cena, detta “rito del ciocco”.
Il capofamiglia versava un po’ di vino dal proprio bicchiere su un grosso ceppo acceso, solitamente di quercia, insieme a un piccolo fascio di rami e bacche di ginepro, quindi spezzava il “pane grande”, dopo averne inciso la superficie con una croce, distribuendone a tutti i componenti della famiglia. Il ceppo simboleggiava l’albero del Bene e del Male, il fuoco l’opera di Redenzione di Gesù Cristo, i pani il mistero della Divina Trinità. Il pane, preparato per l’occasione con cura particolare, diventava dunque metafora dei legami familiari.

Il “pan de toni”, o “panettone”
Con l’andar del tempo si diffuse la consuetudine di utilizzare solo la farina bianca per fare il pane natalizio, quella cioè di frumento, più pregiata del comune pane di miglio, sottolineando così l’eccezionalità dell’evento. Per aiutarne la lievitazione e come devozione le donne, dopo aver lavorato l’impasto, vi tracciavano sopra, con la fede nuziale, un solco a forma di croce. Il pane di Natale venne dunque chiamato “pan del ton” (pane di lusso), da cui “panettone”.
Su questi antichi riti si innestano molte leggende. Una del 1500 racconta che alla vigilia di Natale alla corte del Duca Ludovico Sforza detto il Moro, Signore di Milano, si tenne un grande pranzo ma il cuoco bruciò il dolce dimenticandolo nel forno; vista la sua disperazione, lo sguattero Toni propose una soluzione alternativa. Aveva preparato per sé un dolce usando degli ingredienti d’avanzo. Era un pane zuccherato, profumato di frutta candita e burro. Tutti furono entusiasti e al Duca che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò: “L’è ‘l pan de Toni”, diventato poi “pan di Toni” ed infine panettone.
Uno dei racconti più “romantici”, ambientato sempre nella Corte di Ludovico il Moro, vede Ughetto degli Antellari (o Antellani), cavaliere milanese, innamorarsi di Adalgisa, figlia di Mastro Toni, panettiere del borgo delle Grazie; per entrare nel laboratorio del padre dell’amata e avvicinarla, si finse fornaio e per incrementare le magre vendite provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, zucchero e uva sultanina. Creò così il panettone (da “pan di Toni”, il fornaio) la cui bontà conquistò sia Adalgisa che la sua famiglia.
Tra le leggende fiorite intorno all’origine del panettone vi è anche quella che attribuisce l’invenzione del dolce a suor Ughetta, monaca cuciniera in un convento molto povero: non riuscendo a darsi pace all’idea di non poter servire nemmeno un dolce e per allietare il Natale delle giovani novizie, pensò di aggiungere all’impasto del pane, alcuni ingredienti fra cui pezzi di cedro e uvetta (in milanese “ughetta”), tracciando infine col coltello una croce sulla sommità del dolce in segno di benedizione, dando origine così al panettone.
È difficile stabilire chi fu realmente l’inventore di tanta bontà. Vi consiglio comunque di dare un bel morso a questo dolce e di decidere poi quale delle storie vi piace di più.
Il panettone poté diventare uno dei dolci natalizi più diffusi solo quando la grande industria alimentare lombarda degli anni ‘50 riuscì a produrlo in notevoli quantità. Angelo Motta (1890-1957) creò l’odierno panettone alto, fasciando l’impasto con carta sottile in modo da farlo crescere verticalmente.
Si trattava allora del classico dolce meneghino ben diverso dal consumistico prodotto di massa farcito e ricoperto di cioccolato, crema o panna, oggi tanto pubblicizzato e spesso preferito dagli italiani.

La curiosità
Il 3 febbraio ricorre la festa di San Biagio. Nella devozione popolare il santo è invocato contro il mal di gola perché, secondo la tradizione, avrebbe salvato miracolosamente un bambino che aveva una lisca di pesce conficcata in gola. L’episodio avvenne durante il percorso che lo conduceva alla prigione, dopo essere stato catturato dai romani.
Nel giorno della sua festa i sacerdoti benedicono la gola dei fedeli usando due candele benedette, incrociate e legate da un nastro rosso; ad esse il fedele accosta la propria gola fino a toccarle e poi le bacia.
Nel Milanese è tradizione conservare fino al 3 febbraio un panettone, detto appunto il “panettone di San Biagio” e di consumarlo la mattina a digiuno, “per benedire la gola”, come popolarmente si dice, proteggendola dai malanni stagionali.
È un altro chiarissimo esempio di come devozione, senso religioso, e usanze popolari si intreccino dando luogo ad un costume diffuso.

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Una L ‘tricolore’ per il Pocho

Posté par atempodiblog le 16 octobre 2008

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Ripieno a forma di ‘L’ con all’ interno ricotta, mozzarella di bufala, salame e peperoncino. Sono alcuni degli ingredienti che caratterizzano la pizza ‘Ezequiel Lavezzi’, ultimo lavoro del maestro pizzaiolo Salvatore Urzitelli, titolare della pizzeria ‘Addò Guaglione’ di via Consalvo a Napoli. La pizza, dedicata al ‘Pocho’, è ricoperta per una parte da crema ai quattro formaggi con zucchine, prosciutto cotto e mozzarella, per un’altra da pomodori e mozzarella e sull’ultima da salsicce e friarielli: si tratta di una sorta di tricolore con l’augurio che l’asso argentino, così come fatto dal suo connazionale Diego Armando Maradona, regali ai napoletani il tricolore. «Ho deciso di dedicare una pizza a Lavezzi – ha sottolineato Urzitelli – perché da tifoso spero che ci regali al più presto lo scudetto. Come ingredienti ho utilizzato i prodotti tipici della nostra terra. In più ho aggiunto il peperoncino poichè il ‘Pocho’ è piccante nelle sue giocate».

L’IDEA - «Dopo la pizza al Pallone d’Oro di Cannavaro e a quella dei campioni del Mondo -ha detto al corrieredellosport.it- ho deciso di crearne una per il nostro mito Lavezzi. L’ho fatta al forma di L e i clienti possono sceglierla con tre gusti diversi». Una pizza appena sfornata dunque ma chissà se il profumino è giunto già dalle parti del campione argentino: «Non so se lo ha saputo. Qualcuno glielo dirà ma io lo invito ufficialmente ad assaggiarla visto che è l’unico che non l’ha ancora fatto».

Fonte: corrieredellosport.it

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