Lo stupore di Goethe per il festeggiamento del Natale a Napoli

Posté par atempodiblog le 28 décembre 2023

Lo stupore di Goethe per il festeggiamento del Natale a Napoli
Fonte: Pane e focolare

Lo stupore di Goethe per il festeggiamento del Natale a Napoli dans Charles Dickens Preghiera-di-Natale

Wolfgang Goethe nel 1787 compie un lungo viaggio in Italia, quel Grand tour che era quasi d’obbligo per tutti coloro che desideravano conoscere il mondo, la cultura, l’arte, la bellezza. Ne resterà segnato, emozionato, diverrà un entusiasta ammiratore della nostra penisola. Sarà anche stupito per tante espressioni della nostra cultura, evidentemente lontane da quelle della sua Germania austera e un po’ fredda non solo nel clima meteorologico, come quando arriva a Napoli proprio in occasione del Natale. Scrive nel suo diario: «Per Natale la città diventa una specie di Paese di Cuccagna. Lungo le strade sono sospese ghirlande di cibi e si ammirano corone di salsicce legati con nastri rossi. I tacchini portano tutti sul sedere una banderuola rossa: mi dicono che se ne sono venduti 30.000, senza contare quelli ingrassati privatamente nelle case. Ogni anno un ufficiale della polizia percorre a cavallo la città, accompagnato da un trombettiere, e annuncia nelle piazze e agli incroci quante migliaia di buoi, di vitelli, di capretti, di agnelli di maiali i napoletani hanno consumato. Il popolo si rallegra a sentire quei grossi numeri, e ognuno ricorda con soddisfazione la parte che ha avuto in tale godimento».

Il suo stupore mi ricorda quello delle austere sorelle calviniste del Pranzo di Babette, che guardano sconvolte la cuoca francese che prepara il ricco banchetto. Peraltro, sappiamo che saranno trasformate positivamente da quella tavola generosa, così come Goethe tornerà a casa pieno di entusiasmo e ammirazione per la nostra Italia.

L’Artusi, nei suoi consigli per il pranzo di Natale, suggerisce ben tre portate di carne: il cappone, «animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini», un pasticcio di lepre e la faraona. Nel racconto di Charles Dickens “Il Canto di Natale” lo Spirito del Natale Presente è seduto su una specie di trono fatto da tacchini, oche, cacciagione, salame, porcellini. La signora Cratchit cucina per la sua famiglia, povera ma dignitosa, l’oca con patate e salsa di mele, e quando Scrooge si risveglia cambiato, con un’esplosione di amore nel cuore e voglia di fare del bene, la prima cosa che fa è comprare un gigantesco tacchino per la famiglia Cratchit.

La carne è quindi al centro del pranzo di Natale, da secoli. Oggi ci sono altre sensibilità, alcuni chef propongono addirittura menu natalizi vegetariani per venire incontro a tutte le esigenze, ma ricordiamo che un tempo la carne era un lusso che pochi si potevano permettere, ed era quindi al centro del desiderio alimentare dei ceti meno abbienti. Le famiglie, costrette per necessità a essere morigerate ogni giorno dell’anno, risparmiavano tutto il possibile in vista del pranzo di Natale, perché quel giorno la tavola doveva essere ricca e generosa. E la carne, che raramente veniva consumata, soprattutto quella pregiata, diventava il cibo principe del pranzo della festa.

E voi cosa avete mangiato a Natale? Mio figlio e mia nuora hanno cucinato un gigantesco tacchino ripieno al forno, davvero eccezionale. Abbiamo fatto onore alla tavola, come si deve. E come dice il Piccolo Tim: “Dio ci benedica, quanti siamo”!

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La leggenda degli struffoli

Posté par atempodiblog le 25 décembre 2023

La leggenda degli struffoli

La leggenda degli struffoli dans Cucina e dintorni Struffoli-napoletani

La leggenda della nascita degli struffoli narra che in un convento di suore, la sera di un 25 dicembre di tanto tempo fa, la Madre superiora portò in tavola un nuovo dolce: tante palline di pasta fritte aromatizzate all’anice ricoperte di miele e confettini.

Le suore, dopo averlo assaggiato, ne rimasero entusiaste e chiesero alla Madre come le fosse venuta l’idea di prepararlo. Furono molto sorprese nel sentire che questo dolce le era stato ispirato proprio da loro!

Negli ultimi tempi, infatti, nel convento tra le consorelle c’erano stati sospetti, chiacchiere e malumori… l’unico modo per far sì che regnasse l’unità era usare il miele della dolcezza.

“Soltanto la dolcezza e la tolleranza – disse loro la Madre superiora – possono far sì che non siate divise… Le palline sono tenute insieme dal miele, così voi allo stesso modo, come dice San Paolo, rivestite di umiltà, dolcezza e magnanimità conserverete l’unità nel vincolo della pace e sarete un corpo solo pur essendo tante”.

Le suore da quella sera misero da parte ogni risentimento, non ci furono più fazioni, ma ognuna si rivolgeva alle consorelle con gentilezza, rispetto, umiltà e dolcezza. E, così, il Santo Natale regnò nei loro cuori tutti i giorni dell’anno.

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La tavola e quella giusta distanza tra di noi

Posté par atempodiblog le 4 septembre 2021

La tavola e quella giusta distanza tra di noi
Tratto da: Pane e focolare

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Per ben tre volte, nella stessa giornata, leggo in tre contesti diversi il concetto della giusta distanza. Non può essere un caso, è chiaramente un segnale che mi viene lanciato e non posso ignorarlo. In effetti di fronte alle cose che guardiamo possiamo essere troppo lontani, così da non vedere praticamente nulla, oppure troppo vicini, con la conseguenza di concentrarci su qualche dettaglio ma con il rischio di perdere la visione d’insieme. Questo accade non solo di fronte ad un quadro o ad un avvenimento, ma anche tra le persone. C’è chi soffre per la nostra lontananza, non solo fisica ma anche affettiva, per la mancanza di empatia e di vero interesse per la sua vita. E ci sono persone che al contrario sono infastidite se stiamo loro troppo addosso, se entriamo a piedi uniti nelle loro giornate con un’invadenza poco rispettosa.

Una meditazione dell’episodio del Vangelo che ha come protagonista Zaccheo mi ha sollecitato riflessioni anche sul fatto che davanti alle cose o alle persone siamo non solo troppo lontani o troppo vicini, ma potremmo essere anche troppo in basso o troppo in alto. Conosciamo la storia di Zaccheo: sa che Gesù passerà per la sua città, Gerico, ma essendo piccolo di statura teme di non vederlo, tra la folla che si accalca; allora si arrampica su un sicomoro. Esiste una distanza sbagliata quando siamo troppo piccoli davanti alle cose e queste ci passano davanti senza che ce ne accorgiamo; quella piccolezza può essere magari il simbolo di una frustrazione, di un’insicurezza, di quella spiacevole sensazione di essere sempre inadeguati e con uno spiacevole complesso di inferiorità che ci blocca nel rapporto con gli altri, che vediamo sempre sopra di noi. Zaccheo non si arrende e reagisce salendo sulla pianta, una strategia creativa ed apprezzabile per vedere il Messia ma la visione è sempre ad una distanza sbagliata: dall’alto lo vede ma non entra in nessuna vera relazione con lui. Pensiamo a quello che accade quando siamo superbi, quando guardiamo tutti dall’alto in basso, quando pensiamo di conoscere la realtà solo perché siamo persone importanti e occupiamo poltrone di prestigio. Il mondo passa sotto di noi, crediamo di sapere tutto ma non cogliamo in profondità il significato di ciò che sta accadendo.

La soluzione viene da quel genio della comunicazione che è Gesù: «Zaccheo, scendi dalla pianta, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Un autoinvito in piena regola, di quelli che a volte mettono in crisi una padrona di casa che deve in quattro e quattr’otto mettere qualcosa sul fornello, inventandosi un menu con un po’ di creatività e improvvisazione. Ma la soluzione proposta da Gesù è proprio azzeccata: seduti a tavola la distanza è perfetta, ci si guarda negli occhi, nessuno è in posizione di superiorità o di inferiorità rispetto all’altro. Si può finalmente parlare su un piano di parità, ci si può conoscere intimamente senza filtri sbagliati. Ci può essere un capotavola per l’ospite di riguardo, ma i piatti sono gli stessi, il cibo è lo stesso, la comunità intorno a quel desco può sentirsi davvero unita. E’ un genio re Artù che vuole una tavola rotonda per sé e i suoi cavalieri, per indicare la pari dignità e la fratellanza tra quei commensali.

La tavola è davvero un luogo dove realizzare quella giusta distanza che ci permette di guardare le cose come sono, di essere davvero noi stessi senza imbarazzi. Rispetto agli amici o ai familiari seduti con noi non siamo né troppo lontani né troppo invadenti, nessuno è inferiore né superiore agli altri. Come ricorda il mantra del mio blog: “Se mangi con qualcuno, passi subito ad un livello più alto di amicizia”. (E magari se l’ospite è Gesù ci scappa anche una straordinaria conversione di un peccatore incallito come Zaccheo!).

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Perché le cose più buone ce le hanno i monaci?

Posté par atempodiblog le 4 avril 2021

Una riflessione di don Luigi Maria Epicoco
Perché le cose più buone ce le hanno i monaci?
“La miglior cioccolata, la miglior birra, i migliori liquori, i migliori infusi, i migliori manufatti? Perché chi è allenato alla presenza del Signore, a servirlo perché lo riconosce in qualcosa di sacro, comprende che il profano è ugualmente sacro e per questo fa tutto con amore”. (don Luigi Maria Epicoco)
Fonte: Pane e focolare

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Cari amici del blog, prima che scoppiasse la pandemia avevo dei bellissimi progetti che stavano prendendo il volo, nei quali mettevo tutto il mio entusiasmo. Poi è andata come sappiamo e ho dovuto mettere tutto momentaneamente nel cassetto. Ma quando questa emergenza finirà, tutto ripartirà e quegli eventi saranno realizzati con la soddisfazione di poterci rivedere e riabbracciare.

Nel frattempo non sto con le mani in mano, ho scritto un saggio per un libro di prossima uscita (spero al più presto di darvi notizie in proposito), posso trovare gioia e soddisfazione nell’aggiornare il mio blog e approfondire i temi che mi stanno a cuore. Sono molto compiaciuta quando, leggendo qua e là, trovo in libri autorevoli la conferma di tutto quanto vi sto raccontando ormai da molti anni. Sono volumi che magari parlano di tutt’altro ma poi dedicano un passo al tema del cibo e al suo simbolismo, alla cultura della tavola, al valore dei prodotti monastici, all’importanza della bellezza nelle piccole cose quotidiane. Proprio a questo proposito, vi presento un brano tratto dal libro di don Luigi Maria Epicoco: Sale, non miele. Per una fede che brucia (Ed. San Paolo). Ve lo suggerisco come piccola meditazione in vista della Settimana Santa, mentre stiamo pensando alla tavola di Pasqua.

«Perché le cose più buone ce le hanno i monaci? La miglior cioccolata, la miglior birra, i migliori liquori, i migliori infusi, i migliori manufatti? Perché chi è allenato alla presenza del Signore, a servirlo perché lo riconosce in qualcosa di sacro, comprende che il profano è ugualmente sacro e per questo fa tutto con amore, con cura, con dedizione, con passione, con totalità, con gusto, perché riesce ad avere cura di una cosa che normalmente consideriamo banale, rallentando, gustando, mettendoci tutto sé stesso. Ecco, quando si riesce a fare questo, si tira fuori la sacralità del resto della creazione, di una pietra, di una pianta, di un posto, di un libro. Realtà che normalmente sono profane, ma che quando sono amate, lavorate e vissute da chi è allenato a riconoscere la presenza del Signore, vengono tutte trasfigurate da questa Presenza.

S’intende che noi non crediamo che un tavolo contenga Dio, non siamo panteisti. Ma crediamo che questo tavolo è un pretesto per amare Dio. Qui non c’è Dio, ma uso questo tavolo come pretesto per dire a Dio: «Ti amo». Ecco perché lo vivo bene, lo faccio bene, lo curo bene, lo pulisco bene, ne ho cura. Non riconosco nessuna divinità nelle cose ma capisco che ogni cosa è pretesto per amarLo

N.B. Don Luigi Maria Epicoco, nato a Mesagne, in Puglia, nel 1980, è stato ordinato sacerdote a L’Aquila nel 2005. Insegna filosofia alla Pontificia Università Lateranense e all’ISSR “Fides et Ratio” a L’Aquila. Si dedica alla predicazione per la formazione di laici e religiosi e ha al suo attivo diversi volumi di carattere filosofico, teologico e spirituale.

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A Venezia il ristorante dei migranti: dai barconi ai fornelli

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2016

A Venezia il ristorante dei migranti: dai barconi ai fornelli
Apre il primo locale africano gestito da richiedenti asilo. Sono etiopi, sudanesi, nigeriani. I piatti scelti dopo un concorso in città
di Vera Mantegnoli – la Repubblica

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Una barca piena zeppa di uccelli cavalca le onde puntando verso l’Italia, l’unico orizzonte dove i viaggiatori sperano di sbarcare per spiccare di nuovo il volo. È questo il disegno dipinto sui muri del primo ristorante africano di Venezia che aprirà il 4 novembre in Calle Lunga San Barnaba.

La metafora del volo non è casuale. Lo staff che ha creduto nel progetto è composto in gran parte da migranti africani, arrivati qui nei modi più disparati l’ultimo anno con la speranza di poter chiudere la porta con il passato e ricominciare. I soci fondatori, Hamed Mohamad Karim, Hadi Noori, Mandana Goki Nadimi e Samah Hassan El Feky, anche loro migranti provenienti dall’Afghanistan, dall’Iran e dall’Egitto, lo hanno provato sulla loro pelle anni prima, quando alcuni di loro sono giunti nei camion frigoriferi ancora minori.

Ed è proprio qualche anno fa nel centro minori di Venezia, a Forte Rossariol, che a uno di loro, l’Hazara Hamed Mohamad Karim, è venuta l’intuizione che il cibo può unire e aiutare a superare i pregiudizi.

“Ho iniziato a organizzare delle feste nel centro minori, chiedendo a tutti i ragazzi di preparare un piatto tipico del loro Paese – spiega – e ho visto che funzionava sia per i ragazzi che erano nei centri, sia per chi veniva a trovarci”. Hamed, regista che non è più potuto tornare in Afghanistan perché minacciato dai talebani, fa un primo esperimento fondando nel 2002 l’Orient Experience nel sestiere di Cannaregio. Il ristorante propone i piatti che i migranti hanno imparato a cucinare nel viaggio della speranza fino a Venezia e ha un grande successo.

Oggi la sfida è ancora più grande perché a lavorare all’Africa Experience saranno richiedenti asilo che rappresentano le migliaia di persone che fuggono disperate dal continente nero.

“Io sono etiope – racconta Alganesh Tadese Gebrehiwot, 30 anni, fuggita dall’Etiopia, chef del locale – Ho imparato a cucinare con mia mamma. In Etiopia c’è ancora molta divisione di ruoli, le donne cucinano e stanno in casa. Così io sono cresciuta aiutando lei e ho imparato alcuni dei piatti che preparerò, come un certo tipo di pane, Ejra o il Mesir wot, una zuppa di lenticchie. Non avrei mai pensato di diventare cuoca, ma sono finalmente molto felice. Io vengo dal Sudan, lavoravo come donna delle pulizie, ma non avrei mai potuto realizzare i mie sogni”.

Anche Muhammed Sow della Guinea ed Efe Agbontaen della Nigeria sono scappati da terre di guerre e violenza sui barconi che vediamo ogni giorno, quei barconi così pieni di persone che finiscono per diventare un’unica massa. In quella massa ci sono invece esseri umani singoli, individui con le storie che si potranno conoscere qui, parlando davanti a un buon piatto proveniente da un Paese di cui alla fine si sa molto poco.

I piatti sono stati scelti tramite un concorso che ha coinvolto studenti e professori dell’Istituto alberghiero Barbarigo di Venezia, chiamati a giudicare quali erano i piatti all’altezza di un vero menu. I primi classificati in cucina saranno loro, accompagnati in sala da alcuni soci fondatori, come Hadi Noori, tra i primi ragazzini arrivati dall’Afghanistan in quei camion frigo che per alcuni sono stati mortali: “Avevo 15 anni – racconta Noori, oggi 25 anni – e lavoravo in fabbrica a Kabul. Volevo studiare e non potevo. Alla fine non avevo altra scelta, dovevo partire”.

A 15 anni parte dall’Afghanistan per raggiunge l’Iran per poi proseguire a piedi verso la Turchia: “Durante questi viaggi sei solo – spiega – ma poi incontri altre persone che magari non rivedi più. Dalla Turchia sono andato in Grecia con un gommone, poi mi sono fermato là e ho cercato di lavorare ma c’era tanto sfruttamento. Un giorno mi sono infilato con altri ragazzi in un camion pieno di arance, la temperatura oscillava tra gli zero e i due gradi, ma siamo riusciti. Lo stesso capita ai mie colleghi che sono qui oggi, quando s’imbarcano e non sanno se arriveranno mai. Ci spinge solo la voglia di ripartire, di volare ancora”.

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Caffè padovano

Posté par atempodiblog le 1 septembre 2016

Dolci e dessert
Caffè padovano
di GialloZafferano

Caffè padovano dans Cucina e dintorni tiramis_e_caff_padovano
Tiramisù e caffè padovano

caff_padovano dans Cucina e dintorni

  • NOTA: più il tempo di riposo della ganache in frigorifero (24 ore)

Presentazione

Il caffè padovano è un delizioso dolce al cucchiaio realizzato con ingredienti semplici ma di qualità, primo fra tutti il caffè, che viene preparato espresso utilizzando una caffettiera tradizionale.
Nella nostra ricetta, una rivisitazione di quella originale, il caffè viene insaporito da una cucchiaiata di ganache al cioccolato bianco e menta e guarnito con una spolverizzata di cacao in polvere.

Ingredienti 

Cioccolato bianco, 75 g
Cacao amaro in polvere amaro q.b.
Caffè preparato con moka, 160 ml
Menta sciroppo di menta bianca, 50 ml
Panna fresca liquida, 50 ml

Preparazione

Caffè padovano

Per preparare il caffè padovano iniziate dalla realizzazione della ganache al cioccolato bianco e menta (consigliamo di prepararla la sera prima): in un pentolino scaldate la panna, a fuoco basso, senza raggiungere il bollore (1), quindi fatevi sciogliere il cioccolato bianco ridotto in pezzi, mescolando spesso (2). Quando tutto il cioccolato si sarà sciolto, aggiungete lo sciroppo di menta bianca e mescolate bene (3).

Caffè padovano

Trasferite il composto ottenuto in una ciotola e ponetelo in frigorifero a raffreddare per 24 ore (4); trascorso il tempo indicato, estraetelo dal frigorifero e montatelo utilizzando le fruste elettriche (5). Prelevate ora una cucchiaiata di ganache e spatolatela sul fianco di un bicchiere medio in vetro (6).

Caffè padovano

Preparate ora il caffè utilizzando una caffettiera. Per ottenere un ottimo caffè riempite la caldaia della vostra caffettiera con acqua fredda e possibilmente povera di calcare, facendo ben attenzione a non superare la valvola di sicurezza (7) (altrimenti otterrete un caffè più lungo). Riempite il filtro con il caffè macinato formando una “montagnetta” (8), che livellerete battendo il filtro sul tavolo con movimenti decisi (9). Non pressate con il cucchiaino, né operate fori sulla superficie.

Caffè padovano

Avvitate bene la caffettiera (10) (per evitare che il caffè fuoriesca dai lati mentre sale), quindi ponetela su una fiamma bassa e costante, per ottenere un caffè corposo. Man mano che il caffè sale si formerà una schiumetta densa (11); vi consigliamo di non lasciar gorgogliare troppo a lungo il caffè, per mantenerne intatti aroma e dolcezza. Il vostro caffè è pronto: prima di versarlo mescolatelo direttamente nella moka con un cucchiaino, per renderlo più omogeneo (12).

Caffè padovano

Versate ora nel bicchiere il caffè, circa 40 ml (quantitativo corrispondente ad una tazzina) (13) e decorate con una leggera spolverizzata di cacao amaro (14-15).

Conservazione

Consigliamo di consumare il caffè padovano al momento.
Una volta montata, è possibile conservare la ganache in frigorifero, coperta da pellicola, per tre giorni al massimo.

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La festa di Bilbo, la tavola di Tom Bombadil e la birra del Puledro Impennato

Posté par atempodiblog le 3 juillet 2016

La festa di Bilbo, la tavola di Tom Bombadil e la birra del Puledro Impennato
di Pane e focolare

La festa di Bilbo, la tavola di Tom Bombadil e la birra del Puledro Impennato dans Cucina e dintorni

Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione”.

Non so a voi, ma a me viene un leggero brivido lungo la schiena quando leggo l’incipit de Il Signore degli Anelli. E’ un tuffo nella Terra di Mezzo, nelle sue atmosfere, nelle avventure della Compagnia dell’Anello, nel mondo di fantasia, ma così simile al nostro, creato dalla mente geniale di Tolkien. Sono molti i temi che rendono il romanzo così apprezzato: il viaggio, tema ricorrente della letteratura, visto come itinerario di crescita e conversione; la risposta alla chiamata, l’assunzione delle proprie responsabilità di fronte all’urgenza del tempo presente; la mano di una Provvidenza che regge gli eventi; la scelta tra il bene e il male; il desiderio di proteggere il proprio mondo dagli attacchi del nemico, scoprendo lungo la strada di avere amici vecchi e nuovi che combattono insieme a noi; l’umiltà come chiave del successo.

Una festa a lungo attesa – Illustrazione di Inger Edelfeld
Una festa a lungo attesa – Illustrazione di Inger Edelfeld

Ma c’è anche un tema che corre lungo tutto il romanzo: quello dell’ospitalità e della cura della buona tavola. Già ve l’ho raccontato in un altro post: caratteristica comune dei personaggi positivi di Tolkien è quella di apprezzare il buon cibo e di considerare come un sacro dovere quello dell’ospitalità.

Il Signore degli Anelli comincia con un grande banchetto, così come Lo Hobbit comincia con la cena di Bilbo, tredici nani e Gandalf. La festa di compleanno di Bilbo è grandiosa, giorni e giorni di preparativi, si innalzano tende e padiglioni, uno in particolare di grandi dimensioni che copre l’albero della festa, quello più grande che cresceva in mezzo al campo. Ci sono lampioni appesi ai rami ma soprattutto, per la gioia di tutti gli hobbit, “fu installata un’enorme cucina all’aria aperta, nell’angolo nord del piazzale. Da tutte le osterie e i ristoranti del paese arrivarono  una marea di cuochi”. Ci sono decine di carri carichi di provviste, musica, giochi e amici che mangiano e bevono per ore: “Il banchetto fu estremamente piacevole, e li impegnò a fondo, per l’abbondanza, varietà, sontuosità e durata”. Naturalmente alla fine di una festa così non può mancare un discorso del padrone di casa e chi ha letto il romanzo sa che a partire da quel discorso gli avvenimenti prenderanno una ben precisa direzione. Non dico altro, perché magari qualcuno non ha letto il romanzo (ma davvero? Non lo avete letto? Cosa aspettate!).

Dama Baccador – Illustrazione dei fratelli Hildebrandt
Dama Baccador – Illustrazione dei fratelli Hildebrandt

Lungo il cammino, tra mille avventure, i nostri quattro hobbit vengono ad un certo punto aiutati da Tom Bombadil, un curioso personaggio, uno dei più bizzarri de Il Signore degli Anelli, che li invita a casa sua: “Ebbene, miei piccoli amici! Dovete venire a casa mia! La tavola è apparecchiata con crema gialla, miele dorato, pane bianco e burro. Baccador ci aspetta. Avremo tempo per le domande più tardi attorno alla tavola”. Dopo la paura dei Cavalieri Neri, e non solo, è un sollievo essere ospitati in una casa calda, accogliente e sicura: hanno opportunità di lavarsi e rinfrescarsi e soprattutto di mangiare “come soltanto un hobbit affamato sa divorare”. Ma non sono solo il cibo e le bevande a portare conforto: l’atmosfera familiare, la pace di una casa pulita e ordinata, la cortesia dei padroni di casa rasserenano gli hobbit, suscitando in loro la voglia spontanea di mettersi a cantare.

Infine Tom e Baccador si alzarono e sparecchiarono veloci; impedirono agli ospiti di dare una mano e li fecero anzi accomodare su comode sedie, provviste di soffici sgabelli per appoggiarvi gli stanchi piedi; nel grande camino ardevano rami di melo diffondendo un dolcissimo profumo”.

Rassicurante il saluto della bella Baccador: “Riposate in pace fino al mattino. Non temete i rumori notturni! Sappiate che nulla può attraversare porte e finestre e nulla penetra in questa casa, salvo il chiarore della luna e delle stelle e il vento della cima del colle”.

La casa di Tom e Baccador è davvero un bell’esempio di accoglienza, ospitalità raffinata e attenzione all’ospite. Dopo la condivisione di quella tavola la conversazione tra gli hobbit e Tom Bombadil diventa più spontanea e naturale e Frodo prende coraggio per porre al misterioso personaggio le domande che ha nel cuore. Cosa c’è di meglio di una bella cena per diventare amici, entrare in confidenza, stimolare la conversazione ed entrare in profonda empatia.

All’insegna del Puledro Impennato – Illustrazione di Timoty Ide
All’insegna del Puledro Impennato – Illustrazione di Timoty Ide

I nostri piccoli eroi proseguono il cammino e giungono a Brea alla locanda del Puledro Impennato di Omorzo Cactaceo. E’ un luogo molto frequentato, la qualità del cibo è ottima, così come quella della birra, la compagnia è però eterogenea: uomini, nani, viaggiatori da ogni parte della regione, in genere amichevoli ma anche curiosi e invadenti. La scena è molto vivace e Tolkien mette in evidenza uno dei pericoli della frequentazione di taverne di questo tipo: Pipino è inebriato dalla troppa birra, si sente a suo agio grazie all’entusiasmo che suscita con i suoi racconti ma chiacchiera troppo e rischia di tradirsi e dire cose che dovrebbero rimanere celate. Frodo per distogliere gli astanti da Pipino canta una canzone, ma a sua volta resta trascinato dalla sua esibizione, e dalla birra che forse lo ha reso poco lucido (il racconto insiste su questo aspetto: “Ordinarono dell’altra birra, fecero bere a Frodo un bel sorso”), e l’Anello prende il sopravvento.

Anche nella Terra di Mezzo, così vicina alla nostra, la tavola può essere occasione di una splendida accoglienza che favorisce l’amicizia e la relazione tra i commensali, come nell’episodio di Tom Bombadil, oppure occasione di frequentazione di compagnie delle quali bisognerebbe diffidare, come al Puledro Impennato; in questo secondo caso, soprattutto se si alza troppo il gomito, le conseguenze possono essere pericolose.

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Tiramisù alla birra: ecco il Birramisù!

Posté par atempodiblog le 23 juin 2016

Tiramisù alla birra: ecco il Birramisù!
Una ricetta davvero originale che vi sorprenderà! Il segreto? Una birra scura tipo scout o guinness extra stout al posto del caffè
di 

Tiramisù alla birra: ecco il Birramisù! dans Cucina e dintorni Birramisu

Avete mai pensato di assaggiare un tiramisù fatto con la birra? È la nuova frontiera del dessert della tradizione italiana che tutto il mondo ama e che è noto con il nome di birramisù. Il segreto per realizzarlo è quello di utilizzare una birra particolare, dal colore e dal sapore in grado di ricordare il caffè sfruttato per la ricetta classica. Stiamo parlando della birra stout, una bevanda scura, ad alta fermentazione, prodotta con malti d’orzo molto tostati che garantiscano l’aroma tipico di questo prodotto che ricorda il cioccolato, la liquirizia e il caffè. Per questa particolarità è consigliata soprattutto dopo cena, in abbinamento a dolci o alla gorgonzola come ci hanno fatto provare i monaci produttori della birra cascinazza. E poi può essere utile per cucinare, per esempio degli originali dessert come, appunto, il birramisù.
Di stout ne esistono in commercio vari tipi. Particolarmente indicate per il nostro “progetto culinario” sono l’Irish Stout (come la Guinness Extra Stout o la Murphy’s Irish Stout) oppure la Coffee Stout (arricchita da vero caffè).

Se avete in casa una birra chiara e non volete uscire per comprarne un’altra nessun problema: miscelatela con del caffè prima di bagnare i biscotti.

Non ve la sentite di comprare “questo pacchetto a scatola chiusa”? Provate ad andare in un birrificio artigianale che faccia anche servizio di pub-cucina: spesso si può assaggiare questo dolce anche lì e capire se fa per noi.

Se vi piacciono le rivisitazioni del tiramisù provate anche la variante alla nutellaal limone,alle fragole oppure alla ricotta.

Con il bimby
Versate nel boccale gli albumi, lo zucchero e un pizzico di sale e montate per 1 minuto a velocità 4. Aggiungete il mascarpone e i tuorli e amalgamate a velocità 1 per 20 secondi. A questo punto componete il dolce seguendo la nostra ricetta.

Senza uova
Non digerite le uova, soprattutto crude? Preparate il birramisù senza uova! Basta sostituirle con 200 millilitri di panna: montate la panna con lo zucchero, poi aggiungete il mascarpone e procedete seguendo questa ricetta.

  • Resa: 4 PERSONE SERVITE
  • Preparazione: 20 minuti

Ingredienti

  • 150 millilitri birra meglio scura, tipo stout
  • 3 uova fresche
  • 250 grammi mascarpone
  • 10 cucchiai zucchero
  • 150 grammi Savoiardi o biscotti tipo pavesini
  • cacao
  • sale

Preparazione

  1. Sbattete i tuorli (tenete da parte gli albumi) con lo zucchero con una frusta. Dovete ottenere un composto spumoso.
    Unite il mascarpone.
  2. Montate gli albumi con un pizzico di sale e aggiungeteli al mascarpone. Lavorate delicatamente con una spatola.
  3. Bagnate i savoiardi nella birra e componete il vostro tiramisù: fate uno strato di biscotti sul fondo delle coppette monoporzioni o in una teglia.
  4. Coprite con la crema al mascarpone e fate un nuovo strato di biscotti bagnati nella birra.
    Procedete in questo mondo alternando gli strati.
  5. Completate con il mascarpone e infine coprite con la polvere di cacao.

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Girare una frittata per amore di Dio: l’esempio di Fra Lorenzo della Resurrezione

Posté par atempodiblog le 6 juin 2016

Un mistico ai fornelli
Girare una frittata per amore di Dio: l’esempio di Fra Lorenzo della Resurrezione
di Pane e focolare

Girare una frittata per amore di Dio: l’esempio di Fra Lorenzo della Resurrezione dans Cucina e dintorni

Ho scoperto un personaggio straordinario, un religioso carmelitano del 1600 che non è ancora salito agli onori degli altari ma è venerabile, cioè è stato emanato il decreto sull’eroicità delle sue virtù. Credo che lo metterò nella mia personale “top 10” dei modelli di vita cristiana da imitare. E’ Fra Lorenzo della Risurrezione. Vi racconto brevemente la sua vita, e scoprirete perché ne parlo in questo blog.

Nicolas Herman (questo era il suo nome) nasce nel 1614 in un piccolo villaggio della Lorena, si arruola giovanissimo e combatte nella Guerra dei Trent’Anni, ma rimane ferito e lascia l’esercito.  Si reca allora a Parigi e trova un impiego come cameriere in una casa nobiliare, ma è un servitore così maldestro che rompe piatti e bicchieri e viene spesso punito. Triste e solo, cerca conforto nella cattedrale di Notre-Dame: pregando, medita di farsi religioso ed entra nell’Ordine dei Carmelitani, con il nome di Fra Lorenzo della Risurrezione.

Il convento dei Carmelitani a Parigi
Il convento dei Carmelitani a Parigi

I suoi superiori lo mettono al lavoro in cucina. Il convento è molto grande, deve preparare il cibo per più di cento religiosi; l’edificio è anche in espansione e deve dare da mangiare anche ai muratori che lavorano in convento; in più ci sono sempre lunghe file di poveri che bussano alla porta dei frati, all’ora di pranzo.

L’impegno è notevole: appena terminata la preparazione del pranzo deve già cominciare quella  della cena, spesso da solo o con un numero insufficiente di aiutanti. Quanti si sarebbero lamentati di questo! Ma Fra Lorenzo accoglie con pazienza l’incarico e decide che anche nella cucina del convento può esercitare l’esercizio paziente e santificante della “presenza di Dio”.

 dans Santa Teresa d'Avila

Racconta a un amico: «Nel trambusto della mia cucina, dove a volte più persone mi parlano assieme di cose diverse, possiedo Dio, così tranquillamente come se fossi in ginocchio davanti al SS. Sacramento. Non è necessario avere grandi cose da fare. Io rigiro la mia frittata nella padella per amore di Dio e quando l’ho fatta, se non mi rimane nient’altro, mi chino per terra e adoro il mio Dio che mi ha concesso la grazia di farla, dopo di che mi rialzo più felice di un re. Non c’è bisogno di nessuna raffinatezza, non c’è che da cominciare con bontà e semplicità».  E quando qualche distrazione lo distoglie da quella concentrazione, gli basta ogni tanto uno sguardo alla statuetta della Madonna che tiene in cucina.

 dans Stile di vita

Fra Lorenzo realizza in quella cucina – giorno dopo giorno – il miracolo della santità e mette in pratica in modo molto personale la dottrina dei grandi mistici carmelitani. C’è infatti una frase di Santa Teresa d’Avila, rivolta alle sue monache, che gli piaceva tanto: «Coraggio, figliole mie! Non affliggetevi se l’obbedienza vi impiegherà in opere esteriori. Vi mettesse pure in cucina, il Signore verrebbe anche tra le pentole, ad aiutarvi, interiormente ed esteriormente». Ed infatti Fra Lorenzo incontra Dio ogni giorno, nella sua cucina, tra le sue pentole.

Andrà avanti per trent’anni a fare sempre le stesse cose, ma è così felice che a volte afferma d’essere stato ingannato da Dio: era entrato in convento per far penitenza, persuaso oltretutto che sarebbe stato punito per la sua goffaggine, come era accaduto in quella casa di nobili dove aveva lavorato. Al contrario, vi aveva trovato un Padrone che lo colmava di dolcezze interiori.

Un testimone ha dichiarato: «Aveva una cura particolare nel servire i suoi confratelli in tutto ciò che faceva, provvedendoli di tutto il necessario… considerava un piacere accontentarli, come se fossero stati degli angeli!». Così si applicava tenacemente ai suoi fornelli, per fare felici i suoi commensali. Di sé stesso, diceva di sentirsi «come un grandissimo delinquente invitato a mangiare alla tavola del Re dei cieli, e servito perfino dalle Sue mani».

Un mistico ai fornelli: impariamo da lui, noi che magari sbuffiamo un po’ quando tutti i giorni ci mettiamo a cucinare per i nostri famigliari!

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Birra e dieta: quando l’eccezione diventa possibile

Posté par atempodiblog le 18 avril 2016

Birra e dieta: quando l’eccezione diventa possibile
di Adriana Costanzo – ReteNews24

Birra e dieta: quando l’eccezione diventa possibile dans Cucina e dintorni Birra

Chiara, rossa o scura, industriale o artigianale, a bassa o alta gradazione alcolica: sono tantissime le tipologie di birra presenti sul mercato ed in grado di accontentare tutti i palati.

La birra è una bevanda antichissima. Nata infatti dalla fermentazione dei cereali, nell’Antico Egitto questa veniva somministrata fin dall’infanzia, poiché considerata una vera e propria medicina.

Ancora oggi sono tanti gli studi condotti per valutare i suoi effetti benefici sulla salute.
Sembrerebbe infatti che un consumo moderato di birra abbia effetti benefici sul nostro organismo riducendo il rischio di problemi cardiovascolari, renali, di ipertensione, e favorendo i processi digestivi.

Inoltre grazie alla presenza dei flavonoidi contenuti nel luppolo, composti polifenolici ad attività antiossidante, la birra aiuta a contrastare i radicali liberi prevenendo i danni provocati dall’invecchiamento cellulare.
In particolare negli ultimi anni l’interesse si è concentrato sulloxantumolo, uno dei flavonoidi contenuti nel luppolo, che possiede molteplici proprietà positive per la salute.
Lo xantumolo infatti sembrerebbe svolgere non solo un’azione antiossidante, ma ancheantinfiammatoria, antitumorale e di prevenzione nei confronti delle malattie cardiache e neurodegenerative.

Valori nutrizionali e proprietà
La birra è una bevanda costituita da circa l’85% di acqua, dal 3% al 9% di alcool, e dall’estratto secco, pari a circa il 3-8%.

Nell’estratto secco ritroviamo diversi nutrienti quali tannini, zuccheri, alcune preziose vitamine del gruppo B, sostanze antiossidanti, un modesto contenuto in potassio, destrine, ed alcuni acidi tipici del luppolo e del malto.
Proprio per la sua notevole quantità in acqua e grazie alla presenza di potassio, la birra possiede una nota capacità diuretica, che sebbene contribuisca a mantenere nella norma i livelli della pressione arteriosa, d’altra parte può favorire l’insorgenza di uno stato di disidratazione corporea proprio per l’escrezione, attraverso l’urina, di diversi sali minerali.
Inoltre bisogna ricordare che l’acido etilico determina una vasodilatazione che potrebbe comunque determinare un aumento della pressione sanguigna in alcuni soggetti, soprattutto laddove già presente uno stato di ipertensione.

Per quanto riguarda le calorie, sebbene sia una bevanda alcolica, la birra presenta un contenuto calorico inferiore rispetto ad altre bevande, come ad esempio il vino.
Se infatti prendiamo in considerazione una birra chiara piccola, 33 cl, con una modesta gradazione alcolica, circa 3,5% vol, questa apporterà circa 100 kcal, mentre le calorie saliranno fino a 198 se si sceglie una birra con un alta gradazione alcolica.

Ma attenzione: le calorie non sono tutto!
Infatti sebbene l’apporto calorico sia contenuto, un suo consumo eccessivo può favorire l’accumulo di tessuto adiposo.
Infatti l’alcool etilico presente favorirà la sintesi degli acidi grassi, la sintesi del glicogeno, la sintesi proteica e il deposito di adipe principalmente a livello viscerale ed addominale, comportando importanti danni fisiologici quali sindrome metabolica, obesità addominale e viscerale, danni epatici (steatosi), ipertrigliceridemia cronica.

Birra sì, ma con moderazione, per poterne apprezzare a pieno le benefiche e preziose proprietà.
In un soggetto fisiologicamente sano e che non presenti specifiche condizioni cliniche, l’assunzione moderata di due birre dal basso tenore alcolico è compatibile, mentre livelli di assunzione superiori possono arrecare più danni che benefici.

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Pasqua: la gioia della Resurrezione anche sulle nostre tavole

Posté par atempodiblog le 28 mars 2016

Pasqua: la gioia della Resurrezione anche sulle nostre tavole
di Pane e focolare

Pasqua: la gioia della Resurrezione anche sulle nostre tavole dans Cucina e dintorni

Eccoci arrivati alla Pasqua: la solennità più importante di tutto l’Anno Liturgico. In occasione di questa festa si regalano ai bambini le uova di cioccolato e si compra la colomba; chi vive all’ombra del Vesuvio cucina la pastiera con la ricetta di famiglia (conservata gelosamente), chi invece vive sotto la Lanterna mette in tavola la torta Pasqualina.

Anche chi non è credente deve arrendersi all’evidenza: il Cristianesimo ha profondamente influenzato la cultura della nostra nazione e non avremmo la gioia della festa e i relativi piaceri della tavola se quella lontana Domenica di 2000 anni fa alcune donne non si fossero trovate davanti ad un Sepolcro vuoto. Da quell’avvenimento senza precedenti è uscita una civiltà cristiana che ha lasciato il segno, anche a tavola.

I cattolici si lasciano alle spalle la Quaresima, i digiuni, le astinenze, e adesso non solo possono ma anzi devono fare festa anche a tavola. Digiunare di domenica è una colpa grave, come dice Cesario di Arles (VI sec.): “Se qualcuno digiuna di domenica, pecca”. Il principio vale a maggior ragione per quella che è la Domenica per antonomasia, il giorno della gioia perché la promessa di salvezza si è realizzata.

Se il colore del Natale è il rosso, quello della Pasqua è il giallo: ma qualunque colore scegliate, in ogni apparecchiatura della tavola di Pasqua deve esserci allegria, luce e tanti fiori colorati. Fortunati coloro che possono finalmente pranzare all’aria aperta, godendo della primavera.

Ci sono tanti cibi tipici della Pasqua, tutti con bellissime simbologie.

 dans Santa Pasqua

Cominciamo dalle uova: di cioccolato, di zucchero, oppure uova sode con il guscio dipinto con artistica fantasia. Simbolo della vita già in epoche pagane, è ripreso dal cristianesimo. La festività pasquale cade in primavera e prende il posto di feste antiche che segnavano il passaggio dall’inverno alla stagione del risveglio della natura: l’uovo è simbolo di fertilità, di vita. Diventa quindi anche simbolo della Resurrezione di Cristo: il guscio è il sepolcro dal quale uscirà la vita.

In molte località c’è la bella tradizione di portare le uova in chiesa e alla fine della Santa Messa il sacerdote le benedice.

E veniamo all’agnello: ci ricorda le parole di San Giovanni Battista, che nell’indicare Gesù ai discepoli lo chiama: “Ecco l’Agnello di Dio” (Giovanni 1, 29). Ci ricorda il Suo sacrificio in Croce, la Sua Passione, perché fu immolato “come un agnello condotto al macello” (Isaia 53,7). Era un cibo già presente nella cena della Pasqua ebraica (Gesù ha mangiato l’agnello nell’Ultima Cena) ed è diventato il cibo tipico anche della mensa pasquale cristiana.

La pastiera, dolce tipico di Napoli, è un’istituzione sulla tavola di questa festa. Le leggende legate alla sua nascita sono tante. Alcune parlano della sirena Partenope, ma la ricetta attuale viene attribuita alle suore dell’antico monastero di san Gregorio Armeno, che vollero creare un dolce che fosse pieno di simboli di Cristo e della Resurrezione. Infatti usano le uova, l’acqua di fiori d’arancio che ricorda l’arrivo della primavera e il grano, ricchissimo di simboli: dal grano si ricava la farina, con la quale si fa il pane (che richiama l’Eucarestia). Ma il grano è simbolo di Cristo anche perché viene macinato nella mola, e questo ricorda la sofferenza di Gesù durante la Passione (a questo proposito, potete dare un’occhiata anche al testo che ho pubblicato il Giovedì Santo sul Cristo del Torchio). La tradizione vuole che la pastiera si prepari il Giovedì Santo, perché è un dolce che col passare dei giorni migliora. I miei amici napoletani che sono followers di questo blog sapranno sicuramente dirmi di più: se poi mi spediscono una fetta della loro pastiera, li ringrazio.

A Milano e non solo, ma soprattutto nel Nord Italia, ecco la colomba: simbolo di pace e salvezza, immagine dell’offerta di Cristo e icona dello Spirito Santo. Ci sono, come capita spesso, tante leggende su questo dolce: una di esse parla di san Colombano e della Regina Teodolinda. Siamo intorno all’anno 612, il santo abate irlandese Colombano, dopo il suo lungo peregrinare per l’Europa, arriva in Italia e si reca a Pavia, dove viene invitato a pranzo dalla regina longobarda, insieme con i suoi monaci. E’ Quaresima e Colombano rifiuta una ricca portata di selvaggina, per rispettare il precetto di astinenza dalle carni. La regina Teodolinda non capisce e si offende: allora l’abate le dice che avrebbe consumato le carni solo dopo averle benedette. Mentre San Colombano alza la mano destra in segno di croce, avviene il miracolo: le pietanze di carne si trasformano in candide colombe di pane bianco.

Se ci spostiamo a Genova, troviamo la torta pasqualina, con il ripieno di bietole, che a primavera germogliano, e uova, che come vedete ricorrono sempre nelle preparazioni pasquali. Secondo la tradizione i fogli di pasta sfoglia devono essere 33, come gli anni di Gesù.

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La ricetta dei crespillos

Posté par atempodiblog le 18 mars 2016

Ogni anno il venerdì prima della Domenica delle Palme, onomastico della signora Dolores, madre di san Josemaría, tutta la famiglia era in attesa del dolce tipico di questo giorno: i crespillos.

La ricetta dei crespillos dans Cucina e dintorni Crespillos

INGREDIENTI
(da 6 a 8 persone sono): 

1, 5 dl Latte (150 g)
200 g Farina 
2 Uova (100 g)
1 Cucchiaino di lievito in polvere
10 g Zucchero (un cucchiaio) 
½ Kg Foglie di spinaci freschi
Zucchero da spargere sopra

MODO DI FARLI:

Lavare molto bene gli spinaci e lasciare le foglie con 2 o 3 cm di lunghezza.
Fare una massa mescolando gli ingredienti in quest’ordine: in un recipiente si mette la farina con lo zucchero e il lievito, si aggiungono il latte e le uova e si unisce bene il tutto.
Asciugare l’acqua delle foglie degli spinaci, passarli per questa massa e friggerle in abbondante olio caldo a 170° C. Scolare bene.
Una volta fritti passarli nello zucchero.
Servire al momento, in un piatto da dolce avvolti in un tovagliolo bianco. 

Tratto da: Cocina Inteligente, di Alicia Bustos
Fonte: josemariaescriva.info

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Biscotti quaresimali: storia e ricetta della variante napoletana

Posté par atempodiblog le 11 mars 2016

Biscotti quaresimali: storia e ricetta della variante napoletana
di Alessia Andreozzi – Voce di Napoli

Biscotti quaresimali: storia e ricetta della variante napoletana dans Cucina e dintorni biscotti-quaresimali

I biscotti quaresimali sono “una santa invenzione”! E non è un modo di dire: non solo questi dolci hanno una storia alle spalle legata alla religione ma sono anche ottimi da mangiare durante il periodo di quaresima quando, teoricamente, non ci si può nutrire di grassi animali per rispettare il digiuno di Gesù nel deserto per 40 giorni. Sembrano i classici cantuccini della tradizione Toscana, quelli che vanno abbinati al delizioso Vin Santo, ma hanno una variante napoletana con ingredienti che rendono ancora più speciale una ricetta già di per sé buona da gustare. Vediamo, allora, come sono fatti questi biscotti quaresimali secondo la tradizione napoletana.

Prima di tutto, è bene ricordare come nascono questi biscotti quaresimali: la paternità che vi si attribuisce è toscana e si dice furono ideati da monache di un convento proprio in onore della quaresima. Perché si possono mangiare? Perché sono privi di grassi animali, quindi senza burro o latte, e rispettano il tradizionale digiuno da rispettare in questi giorni, proprio come fece Gesù durante i 40 giorni nel deserto. Che questo sia stato tutto un escamotage delle monache per rispettare i precetti religiosi non rinunciando ai piaceri del dolce? Stiamo parlando di dolci davvero saporiti che, però, sono fatti di ingredienti poveri e genuini. Sono talmente leggeri che sono ottimi anche per uno sgarro alla linea, qualora foste a dieta. In altri luoghi, questi biscotti hanno la forma di lettere dell’alfabeto, per onorare le parole del Vangelo, ma la variante napoletana somiglia al cantuccino toscano, eccetto per alcuni ingredienti.

LA RICETTA DI BISCOTTI QUARESIMALI NAPOLETANI

Il tempo per cui questi biscotti quaresimali sono in vendita è limitato: sono reperibili da subito dopo il martedì di carnevale sino al giovedì Santo ma, niente paura, qui vi è la ricetta per preparare questi fantastici dolcetti ogni volta che lo si desidera.

Ecco gli ingredienti:

  • 250 g farina
  • 250 g zucchero
  • 250 g mandorle tostate
  • 2 uova (1 grande per l’impasto e 1 piccolo per spennellare)
  • 1 pizzico di sale
  • 1 cucchiaino pieno di lievito secco
  • 1 cucchiaio di cubetti di cedro candito
  • 1/2 cucchiaino scarso di vaniglia
  • 1/2 cucchiaino scarso di cannella
  • 1/2 cucchiaino scarso di garofano
  • 1/2 cucchiaino scarso di noce moscata

La preparazione è semplicissima e ci vogliono pochi minuti: in primo luogo vanno tostate le mandorle in forno mentre si può procedere con l’impasto. Per quest’ultimo, si versa in una ciotola farina, lievito secco, le spezie precedentemente mescolate, l’uovo, un po’ d’acqua se serve e le mandorle che, intanto, sono belle e pronte. Una volta ottenuto un impasto sodo, vi si unisce il cedro candito e si modella tutto fino ad ottenere dei filoncini che vengono poi schiacciati con le mani, spennellati con un tuorlo e tagliati. Una volta messi in forno caldo a 200° li si lascia cuocere per 15-20 minuti in modalità ventilata. Et voilà! I biscotti quaresimali sono pronti. Buon appetito!

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Digiuno, scelta per il corpo e lo spirito

Posté par atempodiblog le 11 mars 2016

Digiuno, scelta per il corpo e lo spirito
Una scelta culinaria ed etica che protegge la salute e tonifica lo spirito
di Vittorio A. Sironi – Avvenire

Digiuno, scelta per il corpo e lo spirito dans Cucina e dintorni Digiuno-Avvenire

Il digiuno leva il medico di torno, si potrebbe dire parafrasando un noto proverbio. È quanto emerge dagli ultimi studi in proposito. Insieme a una dieta corretta ed equilibrata astenersi completamente dall’assunzione di cibo un giorno alla settimana o una volta ogni 10-15 giorni può avere effetti notevolmente positivi sulla salute del corpo e della mente. Se i dati della ricerca scientifica confermano sempre di più gli stretti legami esistenti fra cibo e salute, esistono oggi anche evidenze mediche che mostrano come un regolare saltuario digiuno aiuta il corpo a ‘depurarsi’, proteggendolo dalle malattie, e tonifica lo spirito, agendo come un fattore importante di igiene mentale. Un digiuno salutare dunque, anche se tutto deve passare attraverso uno stile di vita globalmente equilibrato, evitando gli eccessi: fare attività fisica, evitare di fumare, mangiare bene. 

Nella nostra società opulenta il problema della sovralimentazione è spesso sottovalutato o affrontato solo da un punto di vista estetico – perché ‘bello è magro’ –, dimenticando che l’eccesso di cibo e le troppe calorie introdotte nell’organismo sono i principali responsabili del diabete, delle malattie cardiovascolari, dei tumori e possono anche essere causa di una mortalità precoce. Mangiare poco e in modo equilibrato favorisce la salute: un regime alimentare variato, moderando i grassi e i dolci, non trascurando l’assunzione giornaliera di frutta e verdura, optando per l’eliminazione o la restrizione del consumo di carne in favore del pesce, ma anche riducendo progressivamente le porzioni e le calorie quotidiane – sino appunto al digiuno abituale –, rappresenta un elemento importante della nostra esistenza, che non solo ci aiuta a eliminare i chili di troppo e a mantenere un giusto peso-forma, ma determina anche un rapporto intelligente fra benessere corporeo e gratificazione psicologica. 

Oltre che una scelta alimentare in favore della salute, il digiuno può essere anche una scelta etica di rispetto per chi soffre e spesso muore fame. Senza dimenticare che la rinuncia consapevole al cibo come pratica ascetica, per temprare e migliorare l’anima, per facilitare, insieme alla preghiera, il processo di avvicinamento al Dio in cui si crede, è una pratica consigliata (talvolta addirittura resa obbligatoria) da diverse religioni in determinati giorni della settimana o in certi periodi dell’anno.

Non come imposizione vessatoria, ma come esercizio materiale e spirituale di un percorso individuale per aiutare il credente nella propria crescita mistica. Tali sono il digiuno quaresimale (mortificazione del corpo come segno della conversione dello spirito) del Cristianesimo, il digiuno dello Yom Kippur (Giorno dell’Espiazione) e gli altri digiuni obbligatori – oltre a quelli tradizionali facoltativi – della religione ebraica, il digiuno del mese di Ramadan (per purificare il corpo e lo spirito) per i fedeli islamici. 

Oggi però si è persa l’abitudine del digiuno come astensione volontaria dal cibo, sia come prassi rituale in ambito religioso, sia come pratica sociale in ambito laico. Nella nostra ricca ‘società dei consumi’ sembra un controsenso rinunciare al cibo e alle bevande che abbiamo abbondantemente a disposizione. Anzi il digiuno è percepito come una situazione dannosa per l’organismo, retaggio di una condizione obbligata dei secoli scorsi, quando la penuria alimentare era alla base del triste binomio carestia-malattia. La medicina ci dice però esattamente il contrario.

La presa di coscienza del parallelismo nutrizionesalute ha portato a comprendere meglio il concetto dieta-prevenzione attualmente abituale, ma pure con questa nuova consapevolezza alimentare tendiamo a mangiare troppo e male. Sovente attribuiamo al cibo significati che non dovrebbe avere: fonte di piacere assoluto e indiscriminato, sfogo alle nostre frustrazioni, compensazione per la nostra tristezza, la nostra ansia o la nostra rabbia, surrogato del desiderio sessuale. Questo porta a nutrirci in eccesso rispetto alle nostre reali esigenze caloriche, senza controllo, senza freni inibitori, facendo di fatto del cibo una specie di ‘droga’. Senza accorgercene, quasi senza volerlo. Creando così gravi danni alla salute. 

Come la carenza cronica di cibo, la denutrizione, anche l’esagerazione abituale, la sovralimentazione, è fonte di seri guai sanitari. Sul piano epidemiologico dalle malattie della povertà (malaria, tubercolosi, pellagra, scorbuto) dell’antica società tradizionale si è passati in pochi decenni alle malattie del benessere (diabete, obesità, dislipidemie, ipertensione arteriosa, cardiopatie, cerebropatie, neoplasie) della moderna società dei consumi, dovute in gran parte, come s’è detto, alle nuove modalità alimentari. Ecco perché il ritorno alla pratica del digiuno può svolgere un importante ruolo compensatorio. Il corpo non risente negativamente dell’astensione limitata di cibo.

Anzi trae beneficio perché mette in moto tutta una serie di meccanismi di ‘autotrofismo’ (termine difficile per dire che è in grado di generare al suo interno le sostanze chimiche di cui ha bisogno) mobilizzando riserve che si sono accumulate in eccesso, accelerando la generazione di nuove cellule in sostituzione di quelle invecchiate che vengono eliminate, metabolizzando molecole diverse dalle proteine per produrre l’energia necessaria. Si determina in tal modo un salutare riequilibrio di molte funzioni biologiche dell’organismo che porta a un perfetto adattamento fisiologico del corpo. 

Il digiuno è anche benefico sul piano psicologico perché mette la mente in condizione di poter tenere sotto controllo le proprie pulsioni, fortificando la volontà dell’individuo e allenandolo a superare le difficoltà esistenziali della propria vita. Umberto Veronesi, medico di fama internazionale, non ha esitato a dichiarare in proposito come ‘dedicare un giorno ogni settimana alla totale astensione dal cibo non solo non faccia male, ma aiuti a formare il carattere, a manifestare una scelta etica e a proteggere la propria salute’, perché ‘un’alimentazione corretta secondo i dettami della scienza e almeno un giorno di digiuno ogni settimana possono rappresentare un nuovo e stimolante stile di vita’. Affermazioni pienamente condivisibili. Accanto al piacere di una abituale sana e gustosa alimentazione è importante allora imparare ad apprezzare anche il gusto di un altrettanto sano e positivo digiuno. Una scelta culinaria ed etica che protegge la salute e tonifica lo spirito.

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Capodanno: brindiamo a Dom Pierre Pérignon!

Posté par atempodiblog le 31 décembre 2015

Capodanno: brindiamo a Dom Pierre Pérignon!
di Pane e focolare
Tratto da: Una casa sulla Roccia

Capodanno: brindiamo a Dom Pierre Pérignon! dans Cucina e dintorni

Eccoci arrivati a Capodanno: cosa berrete al brindisi di mezzanotte? Champagne o spumante italiano? Con un po’ di orgoglio, posso riportare la notizia che nel 2014 il nostro spumante ha sorpassato per la prima volta lo champagne nelle esportazioni: negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, ma anche in Cina, tutti vanno pazzi per il nostro Prosecco, per le bollicine di Asti e della Franciacorta.

Ma dobbiamo ammettere che lo champagne nell’immaginario comune ha un fascino particolare: da quattro secoli si è imposto come bevanda della festa, nei calici dei Re, delle Regine e dei Presidenti della Repubblica, nella business class degli aerei, nelle suite dei Grand Hotel. Bisogna varare una nave, inaugurare una linea ferroviaria, celebrare una vittoria sportiva, per esempio una corsa di Formula 1? Si stappa lo champagne.

Dobbiamo però ricordare che anche per lo champagne siamo debitori ai monaci, e ad uno in particolare: Dom Pierre Perignon.

 dans Stile di vita

Torniamo indietro nel tempo, nel XVII secolo, nella bella abbazia benedettina di Hautvillers, nel cuore della regione di Reims. Il villaggio è graziosissimo, come tanti villaggi delle regioni vinicole della Francia, e in quei luoghi il nostro monaco è giustamente ricordato e venerato.

Entra in quell’abbazia nel 1668 come tesoriere ed economo. Le finanze dell’abbazia sono messe molto male, soprattutto perché i terreni che la circondano sono stati trascurati. Dom Pierre decide di curare meglio le vigne e di impegnarsi nella vinificazione, per risanare le magre finanze. E ci riesce, eccome! Bisogna dire, a onor del vero, che non ha inventato lui la spumantizzazione, fenomeno già noto, ma da fine enologo ha studiato quel fenomeno e lo ha perfezionato.

Monaci - Dom Perignon

A poco a poco ha maturato una grande esperienza nella coltivazione della vite, nella conoscenza delle differenze tra i vari vitigni, nella capacità di assemblare le uve. Ha perfezionato la tecnica di vinificazione, aprendo la strada ad un vino entrato nella leggenda. Ha annotato tutto nelle sue memorie, lasciandoci una preziosa eredità. Secondo la tradizione, è stato lui a privilegiare i tappi di sughero, rispetto a quelli di legno; a legare il tappo, che l’effervescenza avrebbe potuto far saltare, con cordicelle di canapa (che più avanti saranno sostituite dalla tipica gabbietta di metallo).

Ma perché lo champagne è entrato nella leggenda? Non certo solo per la qualità, che troviamo in tanti altri prodotti enologici. Forse perché le bollicine fanno allegria, eccitano i sensi, rendono frizzante l’ambiente. C’è sicuramente anche una notevole capacità di fare marketing, da parte di coloro che lo producono, aiutati in questo da tante citazioni in opere letterarie e liriche. Quale sia la risposta, nell’immaginario comune lo champagne è sinonimo di festa, evoca allegria e charme, nobiltà e raffinatezza. E’ uno dei simboli della Francia, insieme alla Tour Eiffel, alla baguette e al foie gras. Per questo noi italiani, in eterna competizione eno-gastronomica con i cugini d’oltralpe, esultiamo quando scopriamo che, arrivati ben più tardi nella produzione di bollicine (nel XIX secolo ad opera del Conte Gancia), nelle vendite ormai abbiamo raggiunto e a tratti superato i francesi.

Oggi molti pensano che Dom Perignon sia una marca, ma ricordiamoci che innanzitutto è un monaco benedettino. Alziamo i calici a Capodanno, brindiamo con lo spumante italiano o con lo champagne francese, ma in ogni caso ricordiamoci che per la gioia delle bollicine di qualità dobbiamo essere riconoscenti, ancora una volta, al monachesimo.

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