Il valore apologetico del presepe napoletano

Posté par atempodiblog le 23 décembre 2024

Il valore apologetico del presepe napoletano
di Corrado Gnerre

Il valore apologetico del presepe napoletano dans Avvento Presepe-napoletano-del-700

Il presepe è una devozione autenticamente cattolica. Escludendo i cosiddetti presepi viventi che hanno avuto san Francesco come iniziatore, tra quelli classici il presepe napoletano è sicuramente il più famoso e, diciamolo anche francamente, il più bello.

Ci sono almeno sei fondamentali caratteristiche che rendono questo tipo di presepe non solo unico, ma anche fortemente apologetico, nel senso che esso più chiaramente esprime la verità cattolica.
Tutti i presepi sono autenticamente cattolici, ma quello napoletano lo è ancora di più.

La prima caratteristica cattolica del presepe napoletano è la collocazione della Natività sotto un rudere dell’antica civiltà romana. Il significato è chiaro: il Cristianesimo ha superato il paganesimo.
Chiediamoci: perché i presepisti napoletani del XVIII sec. – secolo di maggiore splendore di quest’arte – ci tennero ad esprimere questo messaggio? Perché proprio in quel tempo si voleva diffondere, ancor più che nel periodo umanistico-rinascimentale, l’idea della superiorità del mondo classico rispetto a quello cristiano; è il neoclassicismo. Era questa un’idea di cui si facevano maggiormente sostenitori gli intellettuali. Nel presepe napoletano, invece, il popolo basso ribadì attraverso l’arte presepiale che anche se intellettualisticamente si può dire quello che si vuole, resta che il Cristianesimo ha vinto e superato il paganesimo.

Il tempio rotto e incompleto sta proprio a significare il crollo di un mondo. Un semplice Bambino ha vinto la presunzione di secoli e secoli di cultura… che pur non raramente arrivava ad esprimere la sapienza naturale, figura, comunque, come qualcosa di incompleto rispetto alla Sapienza di tutte le sapienze, che è, appunto, il Verbo incarnato. A tal proposito si racconta che un Vanvitelli, o il padre Luigi o il figlio Carlo, entrambi neoclassicisti, soleva disprezzare i presepisti napoletani ritenendoli ignoranti.

Un particolare non secondario: sarà sempre il popolo basso, i cosiddetti lazzaroni e non gli intellettuali, a ribellarsi contro la laicizzazione imposta dalla giacobina repubblica partenopea del 1799 e sarà sempre il popolo basso, i cosiddetti briganti e non gli intellettuali, a ribellarsi ad un’altra laicizzazione, questa volta imposta dalla conquista piemontese.
La riaffermazione della Civiltà cristiana rispetto a quella pagana è autenticamente cattolica.

La seconda caratteristica del presepe napoletano è un’apparente contraddizione: da una parte il superamento del paganesimo, dato storico, e dall’altra l’utilizzazione della contemporaneità, dato metastorico. Chiarisco: abbiamo visto che in tale presepe si vuole sottolineare, in polemica con il neoclassicismo illuminista, che il Cristianesimo ha vinto il paganesimo e lo si fa ponendo la Natività sotto un rudere di un tempio romano. Ora ci si attenderebbe che per far questo il presepe napoletano riproduca fedelmente il dato storico, ovvero l’ambiente della Betlemme della nascita di Gesù, invece non è così.
Per quanto riguarda l’ambientazione il presepe napoletano è volutamente antistorico, anzi dovremmo essere più precisi: volutamente metastorico. L’ambiente, infatti, è quello della Napoli del ‘700.

Ci sono almeno due elementi che ne spiegano il motivo:
1) il mistero è nella contemporaneità: i presepisti napoletani sanno bene, e lo vogliono esprimere, che l’Incarnazione ha una dimensione di contemporaneità perché segna la possibilità della salvezza per tutti i giusti, tanto per quelli che erano già vissuti, tanto per quelli che stavano vivendo allora, quanto per quelli che sarebbero vissuti anche dopo;
2) il mistero è nella quotidianità: i presepisti napoletani sanno anche che l’Incarnazione riguarda tutti, non solo nella dimensione temporale – ieri, oggi e domani –, ma anche in quella spaziale: ricchi e poveri, colti e ignoranti. Tocca dunque tutto il reale con le sue innumerevoli sfaccettature. Tutto questo è ovviamente cattolico e autenticamente cattolico.

La terza caratteristica cattolica del presepe napoletano è il riferimento ad alcuni dati apocrifi. Teniamo presente che ci sono due tipi di vangeli apocrifi, quelli innocui che non stravolgono la figura di Gesù, ma la mitizzano solamente, e quelli più specificamente eretici perché deformano la figura di Gesù. I primi, quelli innocui, tendono al miracolismo e sono pieni di particolari anche per quanto riguarda la nascita e l’infanzia di Gesù. Ed è in questi apocrifi che si parla del bue e dell’asinello ed è in questi che si parla anche di due lavandaie, Salomé e Zelomi, che avrebbero aiutato la Madonna dopo la nascita del Bambino.
Ebbene, il presepe napoletano oltre al bue e all’asinello, che sono presenti i tutti i tipi di presepe, pone sempre due lavandaie vicino alla Natività: sono appunto Salomé e Zelomi.
Ora, questo voler riprodurre particolari che vanno oltre i dati scritturistici canonici, muove dalla convinzione che non tutto è contenuto nella Scrittura e questo è tipicamente cattolico e, quindi, alternativo al ‘sola Scriptura’ del luteranesimo, ovvero a quella convinzione protestante secondo cui l’unica fonte della rivelazione sia la Bibbia.

La quarta caratteristica cattolica del presepe napoletano è la presenza della dimensione mondana. In esso c’è sempre una locanda con dei tipici personaggi, fra cui il celebre Ciccibacco seduto su delle botti o con in mano dei fiaschi di vino, dal volto chiaramente brillo. E’ un personaggio che rappresenta l’uso del vino per perdere il controllo di sé e darsi ai vizi. Non a caso il nome popolare è il richiamo al dio Bacco presente nei rituali dionisiaci. In questo caso i presepisti napoletani vollero esprimere che la vita è una scelta tra la virtù e il vizio, e che non basta solo la fede. Ricordo che Lutero, che aveva appunto affermato la necessità della sola fede, era arrivato a legittimare la pratica di qualsiasi vizio: “pecca fortemente, l’importante è che tu creda ancor più fortemente”, aveva detto.
Il presepe napoletano, invece, ci dice che la fede deve essere sempre accompagnata dalle opere e dall’esercizio delle virtù. Quindi anche dalla temperanza.

Inoltre, a detta di alcuni studiosi, questa centralità del vino nel presepe napoletano, rappresentato dalle tante locande ed osterie, starebbe anche ad evidenziare come questa bevanda sarebbe stata poi trasformata e sublimata proprio da Cristo con l’istituzione dell’Eucarestia. Insomma il vino da bevanda di perdizione a bevanda di santificazione.

La quinta caratteristica cattolica del presepe napoletano è l’immancabile figura di Benino. Si tratta del famoso personaggio che dorme non lontano dalla Natività. Solitamente si dice che la sua presenza stia nel fatto che il presepe costituisca il suo sogno. Si tratta però di un’interpretazione che contraddice le palesi convinzioni da cui nasce il presepe napoletano. In realtà la spiegazione sembrerebbe essere un’altra: Benino è colui che rimane indifferente dinanzi alla Salvezza. Anche questo è tipicamente cattolico. Dinanzi a Dio ci possono essere l’accettazione, il rifiuto, ma anche l’indifferenza. Dipende da quella volontà libera dell’uomo che invece nel protestantesimo non è riconosciuta o, se lo è, lo è molto parzialmente.

Un’ultima caratteristica cattolica del presepe napoletano è l’attenzione al particolare. Un’attenzione che arriva fino all’esasperazione. Le rocce, gli intonaci screpolati delle case, le botteghe con le loro mercanzie, il volto dei pastori, tutto è di un realismo portato all’estremo. Si tratta di quella spiritualità tipicamente cattolica secondo cui non può sfuggire nessuna sfaccettatura. In alternativa alla convinzione già luterana, ma poi soprattutto calvinista, secondo cui vi sarebbe una sola discriminante fra eletti e non eletti: o si è scelti da Dio o no. Se questo fosse vero la realtà non sarebbe affatto complessa, ma estremamente semplice e lineare.
La visione cattolica, invece, è ben diversa. Tutti sono chiamati alla salvezza e le risposte a questa chiamata possono essere anche molto complesse e sfumate, ciò rende il reale esuberante e tutt’altro che riducibile a pura equazione matematica.

Un’ultima considerazione: questa attenzione al particolare del presepe napoletano rende evidente quanto la teologia cattolica sia tutta adagiata sulla prospettiva mariana. E’ proprio la psicologia femminile ad essere più attenta ai particolari. Nulla sfugge all’attenzione tipicamente materna.

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Una fede fatta di prove

Posté par atempodiblog le 24 avril 2022

L’apostolo Tommaso dubita della parola degli amici
Una fede fatta di prove: altro che fede che debba fare a meno del vedere e del toccare!
Tratto da: Qual è la vera fede cattolica? – Di Corrado Gnerre. – Edizioni: Fede & Cultura

Una fede fatta di prove dans Commenti al Vangelo L-incredulit-di-Tommaso

«Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”» (Gv 20,26-29).

L’apostolo Tommaso dubita della parola degli amici. Questo episodio viene solitamente utilizzato, nella catechesi moderna, per affermare che la vera fede sia quella che prescinda totalmente dai segni, cioè dal vedere e constatare. In realtà questa traduzione non è fondata.

Il noto biblista Ignace de la Potterie (1914-2003) afferma che nell’originale greco il verbo è all’aoristo (pisteusantes) e che anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt).

Per cui la frase deve essere così tradotta: “Beati coloro che senza aver visto (senza aver visto me direttamente), hanno creduto”.

Dunque, Gesù rimprovera Tommaso non perché vuol vedere, ma perché non si è fidato di coloro che già avevano visto. Altro che fede che debba fare a meno del vedere e del toccare!

Divisore dans San Francesco di Sales

Cliccare per approfondire:

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La meravigliosa storia della “Medaglia Miracolosa”

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2015

La meravigliosa storia della “Medaglia Miracolosa”
La storia di Parigi è strettamente connessa con quella della fede cattolica, nel bene come nel male. Proprio nei decenni successivi alla Rivoluzione anticristiana di cui la capitale francese fu protagonista assoluta, la Vergine Ss.ma venne a visitarla, lasciando a tutti gli uomini un segno concreto del suo amore per noi.
di Corrado Gnerre – Radici Cristiane

La meravigliosa storia della “Medaglia Miracolosa” dans Angeli Rue-du-Bac

Nel Cristianesimo si dà grande importanza alla vita interiore, anzi possiamo dire che esso è l’unica religione della vita interiore. Si afferma, giustamente, che la conversione è adesione del cuore e che la dimensione della preghiera deve essere vissuta in “spirito e verità”. Eppure nel Cristianesimo si esprime con chiarezza anche l’importanza del “segno”. San Bernardo di Chiaravalle nell’epistola 11 così scrive:«[...] poiché siamo carnali, Dio fa che il nostro desiderio e il nostro amore comincino dalla carne».

Nel Cristianesimo tutto diviene avvenimento, tutto diviene fatto, tutto diviene fisicamente visibile, tutto deve divenire segno. L’Incarnazione è il segno per eccellenza. È l’amore che si fa fatto, che diviene avvenimento. È l’amore che non si contenta di rimanere sul piano verbale e intellettuale, ma che pretende farsi carne, passione, condivisione. È l’amore che diviene visibile. Il grande avvenimento della Medaglia miracolosa s’inserisce pienamente in questa prospettiva.

La prima apparizione
La storia della Medaglia Miracolosa risale al 1830, a Parigi, a Rue du Bac, nella Casa Madre delle Suore di san Vincenzo de’ Paoli e di santa Luisa de Marillac. Vi furono delle apparizioni della Madonna a suor Caterina Labouré, poi diventata santa. Ella tenne nascosto il segreto per ben 46 anni, cioè fino alla morte, rivelandolo soltanto al suo confessore.

Nel luglio e nel novembre del 1830 avvennero le due principali apparizioni della Vergine Santissima nella Cappella del Noviziato. La prima delle due accadde di notte. Avvertita dall’Angelo Custode, santa Caterina si recò nella Cappella e andò ad inginocchiarsi ai piedi della Madonna che stava seduta al lato destro dell’altare. La Santa poté addirittura poggiare le sue mani sulle ginocchia della Madonna e contemplare il suo volto. Ella raccontò: «In quel momento provai la gioia più dolce della mia vita». Il colloquio durò più di due ore.

La Medaglia Miracolosa
Nella seconda apparizione santa Caterina ricevette dalla Vergine la missione di far coniare la celebre Medaglia che sarà poi definita “miracolosa”. La Madonna stessa le indicò il modello facendoglielo vedere. Leggiamo il racconto di santa Caterina.
Il 27 novembre 1830, che capitava il sabato antecedente alla prima domenica di Avvento, alle cinque e trenta di sera, facendo la meditazione in profondo silenzio, mi parve di sentire dal lato destro della cappella un rumore come il fruscio di una veste di seta. Avendo volto lo sguardo a quel lato, vidi la Santissima Vergine all’altezza del quadro di San Giuseppe. La sua statura era media, e la sua bellezza tale che mi è impossibile descriverla. Stava in piedi, la sua veste era di seta e di color bianco-aurora, fatta, come si dice, “alla vergine”, cioè accollata e con maniche lisce. Dal capo le scendeva un velo bianco sino ai piedi. Aveva i capelli spartiti e una specie di cuffia con un merletto di circa tre centimetri di larghezza, leggermente appoggiato ai capelli. Il viso era abbastanza scoperto; i piedi poggiavano sopra un globo; o meglio, sopra un mezzo globo, o almeno io non ne vidi che una metà[più tardi la Santa confesserà di aver visto sotto i piedi della Vergine anche un serpente color verdastro chiazzato di giallo]. Le sue mani, elevate all’altezza della cintura, mantenevano in modo naturale un altro globo più piccolo che rappresentava l’universo. Ella aveva gli occhi rivolti al cielo, e il suo volto diventò risplendente, mentre presentava il globo a Nostro Signore.

Tutto ad un tratto le sue dita si ricoprirono di anelli, ornati di pietre preziose, le une più belle delle altre, le une più grosse e le altre più piccole, le quali gettavano dei raggi gli uni più belli degli altri: questi raggi partivano dalle pietre preziose; le più grosse gettavano raggi più grandi, e le più piccole raggi meno grandi, sicché tutta se ne riempiva la parte inferiore, e io non vedevo più i suoi piedi [...]. Mentre io ero intenta a contemplarla, la Santissima Vergine abbassò gli occhi verso di me e intesi una voce che mi disse queste parole: “Questo globo che vedete rappresenta tutto il mondo, in particolare la Francia ed ogni singola persona [...]”. E la Vergine Santissima aggiunse: “Sono il simbolo delle grazie che io spargo sulle persone che me lo domandano”, facendomi comprendere quanto è dolce pregare la Santissima Vergine e quanto Ella è generosa con le persone che La pregano; quante grazie Ella accorda alle persone che gliele cercano e quale gioia Ella prova nel concederle. In quel momento, io ero e non ero… Non so… io godevo.

Ed ecco formarsi intorno alla SS.ma Vergine un quadro alquanto ovale, sul quale in alto, a modo di semicerchio dalla mano destra alla sinistra di Maria si leggevano queste parole scritte a lettere d’oro: “O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi”. Allora si fece sentire una voce che mi disse: “Fate, fate coniare una medaglia su questo modello; tutte le persone che la porteranno, riceveranno grandi grazie specialmente portandola al collo; le grazie saranno abbondanti per le persone che la porteranno con fiducia”. All’istante mi parve che il quadro si voltasse e io vidi il rovescio della Medaglia. Vi era la lettera M (iniziale del nome Maria) sormontata da una croce senza crocifisso che aveva come base la lettera I (iniziale del nome Iesus, Gesù). Più sotto poi vi erano due cuori, uno circondato di spine (quello di Gesù), l’altro trapassato da una spada (quello di Maria). Dodici stelle infine circondavano il tutto. Poi tutto disparve, come qualcosa che si spegne, ed io sono rimasta ripiena non so di che, di buoni sentimenti, di gioia, di consolazione»…

Per santa Caterina le difficoltà furono tante. Ma due anni dopo, il 30 giugno 1832, venivano coniati i primi 1500 esemplari. La Santa diffuse la Medaglia tra gli operai, gli ammalati, i soldati, i poveri… per oltre 40 anni, fino alla sua morte che avvenne il 31 dicembre 1876. Fra i miracoli operati dalla Medaglia Miracolosa, vi fu la conversione dell’ebreo Alfonso Ratisbonne, cui la Madonna apparve a Roma, nella Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, il 20 gennaio del 1842. Il corpo di santa Caterina riposa sotto l’altare, nella Cappella delle apparizioni, ai piedi della sua Regina Immacolata. Nella ricognizione, le sue mani che avevano toccato la Madonna e i suoi occhi che l’avevano contemplata apparvero conservati straordinariamente bene.

I significati
Concludendo, possiamo dire che per questo avvenimento sono da evidenziare due significati importanti. Il primo è specificamente mariologico e riguarda la Vergine come colei a cui il Signore della storia ha affidato la storia stessa e la salvezza di ognuno. Nel cosiddetto Protovangelo Dio chiaramente dice che dopo il peccato originale gli uomini si sarebbero divisi in due stirpi: quella del demonio e quella della Donna che avrebbe schiacciato la testa del serpente. Nel messaggio visivo della Medaglia miracolosa è chiaro questo invito a porsi sotto il manto dell’Immacolata.

Il secondo significato è più di carattere simbolico ma ugualmente importante. In un tempo in cui si diffondeva sempre più l’individualismo e un concetto di libertà intesa in senso assoluto, la Vergine viene a richiamare l’uomo alla dipendenza, addirittura offrendo un umile oggettino come vincolo; per giunta da portare preferibilmente al collo a mo’ di giogo per significare visibilmente la dipendenza.

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Santa Gemma Galgani: una sfida al positivismo

Posté par atempodiblog le 11 avril 2014

Santa Gemma Galgani: una sfida al positivismo
«Vedevo bene che Gesù mi aveva tolto i genitori, e alle volte mi sgomentavo, perché credevo di essere abbandonata. Quella mattina me ne lamentavo con Gesù, e Gesù sempre più buono, sempre più tenero, mi ripeteva: “Io, figlia, sarò sempre con te. Sono Io tuo Padre, la Mamma tua sarà quella…” e m’indicò Maria Addolorata. “Vieni, avvicinati… non sei felice di essere figlia di Gesù e di Maria?”». Queste parole di Santa Gemma Galgani sintetizzano bene la sua vita di sofferenza e tutto il suo abbandono a Gesù e a Maria.

di Corrado Gnerre – Radici Cristiane

Santa Gemma Galgani: una sfida al positivismo dans Angeli 2ckmr4

Gemma Galgani nacque nel 1878 a Camigliano, un piccolo paese in provincia di Lucca. La famiglia era di modeste condizioni: il padre farmacista e la madre casalinga. Gemma ebbe un’infanzia normale. Frequentò la scuola a Lucca (dove la famiglia si era trasferita) ed ebbe anche molte amiche.

Dolore, stimmate, santità
La normalità fu infranta da prove ravvicinatissime. Nel 1886 morì la mamma, nel 1894 il fratello Gino e nel 1897 il papà. A questi lutti seguì un crollo finanziario della famiglia e, per lei, una serie di malattie, alcune anche gravi. Da una di queste, nell’inverno del 1898, fu miracolosamente guarita per intercessione di Santa Margherita Maria Alacoque. Queste prove permisero a Gemma di fare passi da gigante nella vita spirituale. Era sempre stata attratta ad avere una forte confidenza con  Gesù. Già dai tempi della scuola riempiva i suoi quaderni di pensieri spirituali e di preghiere. Fu così che, crescendo nella vita spirituale, fu beneficiata di doni mistici straordinari: avvertiva chiaramente accanto a sé la presenza dell’angelo custode e parlava con Gesù e Maria.  Fin quando non ebbe il dono delle stimmate. Ella narra così l’avvenimento: «Eravamo alla sera dell’8 giugno 1899, quando tutto ad un tratto mi sento un interno dolore dei miei peccati… Comparve Gesù, che aveva tutte le ferite aperte; ma da quelle ferite non usciva più sangue, uscivano come fiamme di fuoco, che vennero a toccare le mie mani, i miei piedi, il mio cuore. Mi sentii morire…». Quanto simile questa descrizione a quella che san Pio da Pietrelcina farà della sua stimmatizzazione avvenuta il 20 settembre del 1918. Le profonde ferite alle mani, ai piedi e al costato si riaprivano dalle ore 20 di ogni giovedì alle ore 15 del venerdì, e lo straordinario fenomeno era accompagnato da estasi. I bravi coniugi Giannini vollero prendere Gemma nella loro casa, per sottrarla ad una vita di miseria e la trattarono come una figlia. Qui Gemma condusse una vita ritirata tra casa e chiesa, obbediente alle direttive del direttore spirituale, padre Germano, e delle suore passioniste, che la seguivano da vicino. Intanto la malattia che l’aveva colpita nell’età adolescenziale riprese vigore facendola soffrire tantissimo. L’11 aprile del 1903, vigilia della Pasqua, dopo aver partecipato al racconto della Passione di Gesù, si concluse il suo calvario. Fu beatificata nel maggio del 1933 e canonizzata da Pio XII nel maggio del 1940.

Una “derisione” della mentalità corrente
I tempi in cui visse santa Gemma erano tempi di trionfante positivismo. Ebbene, la sua vita fu una grande confutazione di questa convinzione filosofica. Tanti scienziati andavano a studiarla e non ci capivano nulla. Nessuna teoria umana poteva spiegare i fenomeni straordinari che accompagnavano la sua persona. Santa Gemma parlava con il suo angelo custode e gli dava anche incarichi delicati, come quello di recapitare a Roma la corrispondenza ad alcuni suoi direttori spirituali. Scrisse: «La lettera, appena terminata, la dò all’Angelo. È qui accanto a me che aspetta». E le lettere, misteriosamente, giungevano a destinazione senza passare attraverso le Poste del Regno. Santa Gemma prediceva avvenimenti futuri, cadeva in estasi, sudava sangue. Molti che andavano da lei per curiosare, ne uscivano convinti e convertiti.

L’incredibile lotta contro il diavolo
Un aspetto interessante della vita di santa Gemma fu la lotta contro il demonio. Questi fu ferocisissimo con lei, perché non solo la Santa si offriva vittima per la conversione dei peccatori, ma anche perché con i suoi doni straordinari riusciva a convertire molti. Il demonio le si accaniva infierendo atrocemente: tentava di farla cacciare da casa Giannini. Cercava di ingannare i suoi confessori: frugava il suo diario, lasciando le impronte sulle pagine. La tentava contro la castità, la percuoteva, la sollevava da terra, la trascinava sotto l’armadio della sua stanza. Le appariva sotto l’aspetto dell’angelo custode per ingannarla, le riempiva il cibo di vermi per impedirle di mangiare. Il Signore permise addirittura che il demonio si impossesasse di lei. Il diavolo la scagliava contro gli oggetti sacri, la spingeva a sputare sul crocifisso, la faceva urlare contorcendola. È Gemma stessa che ne dà una descrizione nelle lettere inviate al padre Germano suo confessore: «Il demonio mi fa la guerra, me ne fa di ogni specie. Il demonio non dorme. Chissà che tentazioni ancora avrò da passare… chissà che avverrà quando morirò e dovrò essere giudicata…». I testimoni oculari che l’assistevano, hanno sempre assicurato che Gemma non esagerava. Il padre Pietro Paolo la trovò a terra mentre gemeva. Cecilia Giannini disse di averla vista scuotersi come colpita da percosse, la vide cadere dal letto, la scoprì come morta con la bava alla bocca. Una ragazzina di 12 anni, rimasta a dormire una notte con lei per farle compagnia, si spaventò talmente dei colpi uditi, da rifiutarsi di ritornare. Le persone che l’assistevano, quando il mattino ritornavano, trovavano Gemma sfinita e l’aria satura di odore di zolfo. Una di esse, l’amica Eufemia, raccontò che la Santa chiedeva sempre preghiere e acqua benedetta. Raccontò che Gemma spesso vedeva delle cose brutte intorno a sé. Vedeva il letto pieno di pesci che la rodevano. Si vedeva coperta di vermi e di roba sudicia che chiamava “roba dell’inferno”. È sempre l’amica Eufemia a raccontare: «Non si fa altro che spargere il letto con acqua benedetta. Sta male, pochi minuti fa ha buttato un urlo perché le pareva di avere alla gola uno scorpione che la strozzasse, ma che poi per mezzo dell’acqua benedetta, è uscito dal letto in forma di gatto. Dice che si sente sempre pungere in ogni parte del corpo» E padre Pietro Paolo dichiarò: «Il demonio l’assaliva, ed imperando sopra i sensi di quella creatura, le faceva fare atti da ossessa. Si gettava in terra, si avventava alle persone, se queste le avessero presentato qualche oggetto di devozione, sputava addosso al crocifisso è all’immagine della Madonna, e ricordo che un giorno mi prese in mano la corona della cintola e me la troncò in vari pezzi». Un vero calvario, permesso dal suo Gesù affinché potesse meglio conformarsi a Lui. Pochi istanti prima di morire, santa Gemma pronunciò queste parole: «Non chiedo più nulla. Ho fatto a Dio il sacrificio di tutto e di tutti» …e due lacrime le scesero dagli occhi.

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Maria, debellatrice di tutte le eresie

Posté par atempodiblog le 10 mai 2013

Maria, debellatrice di tutte le eresie
La devozione alla Madonna strumento imprescindibile per salvare il proprio pensiero e l’integrità della Dottrina.
di Corrado Gnerre – Radici Cristiane

Maria, debellatrice di tutte le eresie dans Corrado Gnerre mariadebellaeresie

San Luigi Grignion de Montfort, ne La vera devozione a Maria, scrive che la mancanza di amore alla Madonna è «il segno più infallibile e più indubitabile per distinguere (…) un uomo di cattiva dottrina».
Da sempre, infatti, la Vergine Maria è considerata la debellatrice di tutte le eresie. Padre Tinti nel suo celebre Maria, debellatrice delle eresie, così scrive: «La Chiesa ha sempre invocato Maria SS.ma come debellatrice di tutte le eresie, ed ha introdotto nella sacra liturgia quel versetto che racchiude il più magnifico elogio che si possa fare della Beatissima Vergine: “Gaude, Maria Virgo, cunctas haereses sola interemisti in universo mundo” [Gioisci o Maria perché sola hai debellato le eresie in tutto l’universo] (Dal Breviario Romano). (…)
Ora se la Chiesa ha inserito nella sua liturgia [questo elogio] bisogna ammettere che sino dal tempo apostolico questa fosse una convinzione universale, e cioè che la Beatissima Vergine Maria, Madre di Dio, per i misteri operati in Lei, aveva dato modo di confermare i dogmi della Divina Incarnazione, della reale persona di Cristo e della universale redenzione. Da questi dogmi ne vennero poi gli argomenti che sconfissero le varie eresie. Di qui l’elogio attribuito a Maria SS.ma debellatrice delle eresie».
Ma adesso vediamo di individuare alcuni punti importanti per i quali la devozione alla Madonna davvero diventa la salvaguardia più importante per l’integrità della dottrina. Individuiamo quattro punti.

Maria ci ha donato la Verità
Infatti, se Maria non avesse detto di “sì” all’Angelo, sarebbe stato pregiudicato il progetto di Dio. Ci sarebbe stata una seconda possibilità? Non lo sappiamo. Può darsi di sì, ma può anche darsi di no. Ragioniamo su questo.
L’assenso di Maria Vergine è l’obbedienza. Ella, “nuova Eva”, si contrappone alla “prima Eva” per la quale entrò il peccato nel mondo. Ciò che rende diversa Maria da Eva è l’umiltà. Eva peccò perché attratta dalla possibilità di “diventare come Dio”; Maria ci ha ridonato la Grazia convinta che l’unica posizione umanamente ragionevole fosse quella di farsi “ancella di Dio”.
Ebbene, dietro ogni eresia c’è sempre l’orgoglio. C’è l’intenzione di non voler ascoltare, bensì rielaborare secondo i propri criteri e le proprie ambizioni. Dunque, da questo punto di vista, si capisce bene quanto la devozione mariana serva per ottenere la virtù dell’umiltà.

Maria ha generato la Verità
Maria non si è limitata a donarci la Verità, l’ha anche generata. Ella ha dato il suo contributo. Il Verbo incarnato è l’unione del divino con l’umano. Ebbene, mentre il divino è stato apportato dallo Spirito Santo, l’umano è stato apportato da Maria Vergine.
Maria ha dato il suo sangue e il suo nutrimento alla Verità incarnata. Se a Gesù avessero fatto l’analisi del nucleo mitocondriale, avrebbero trovato lo stesso nucleo mitocondriale di Maria. Ragioniamo su questo. Mettersi alla scuola di Maria, vuol dire mettersi alla scuola di Colei che ha generato la Verità e non si può conservare questa stessa Verità senza chiedere l’aiuto a Colei che l’ha generata.

Maria ha portato la Verità nel suo grembo
Maria è veramente Madre della Chiesa. La Chiesa è l’unione del divino con l’umano e già Cristo (il Capo) è tutta la Chiesa, per cui si può ben dire che la Vergine ha generato e portato la Chiesa dentro di sé. Ha alimentato la Chiesa con il suo sangue.
Questo fatto che la Vergine abbia portato dentro di sé la Chiesa fa capire tutta la connotazione antignostica del Cristianesimo. La Verità è portata dal grembo di una donna, per cui si è chiamati, relativamente alla Verità, a una dimensione di convivenza e non solo di conoscenza.
Le eresie nascono sempre da un approccio alla Verità in senso primariamente intellettualistico. Paradossalmente (ma non troppo) anche in quelle eresie che negano il valore e la propedeuticità della ragione per l’atto di Fede.
Il “Caso Lutero” lo dimostra ampiamente: per lui la ragione non aveva valore, eppure cercò nello studio della Scrittura il fondamento delle sue teorie. Così possiamo dire che tutta la deriva in senso intellettualistico della teologia contemporanea ha come causa proprio la voluta dimenticanza della devozione mariana; e nello stesso tempo la voluta dimenticanza di questa devozione è a sua volta causa della deriva intellettualistica della teologia contemporanea.

Maria è l’immacolatezza della Verità
Maria è la purezza in quanto tale. Ella, a Lourdes, dice di sé: “Io sono l’Immacolata Concezione”. Maria, dunque, ricorda come la purezza sia alla base dell’acquisizione della Verità. Ella fu preservata proprio perché doveva generare il Verbo incarnato.
Di per sé la perdita della purezza può non essere il peccato più grave, ma è senz’altro il peccato che più compromette la sfera intellettuale. Il rifiuto della purezza è la bestializzazione; e con la bestializzazione c’è la morte del retto intendere e della logica. Non si vive come si pensa, si finisce sempre col pensare come si vive.
A tal riguardo, se si approfondisce lo studio della vita privata di molti eretici, si scopre quanto le formulazioni degli errori siano state precedute da cedimenti sul piano della disciplina e della vita morale.

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L’isostenibile peso dello Yoga

Posté par atempodiblog le 4 février 2013

L’isostenibile peso dello Yoga
Corrado Gnerre risponde ad una domanda di una lettrice di Radici Cristiane

yoga

Domanda: Molti cattolici si appassionano allo Yoga. Non mancano corsi di preghiera che inseriscono seminari sullo Yoga. Secondo voi è giusto tutto questo?  (Maria Enrica, Senigallia)

Risponde Corrado Gnerre
Gentile Maria Enrica, è vero, ogni tanto si sente parlare di qualche monastero cattolico che organizza corsi di spiritualità arricchiti di seminari sullo Yoga. D’altronde non sono pochi i libri che presentano una possibile – e secondo i loro autori opportuna – coniugazione tra spiritualità cristiana e Yoga. Per non parlare di tanti cattolici praticanti che, per sconfiggere ansia o quant’altro, frequentano palestre che organizzano corsi di Yoga.

Che dire di tutto questo? Prima di tutto che qualsiasi sincretismo religioso si pone come negazione della religione in quanto tale. Anche (e questo può sembrar contraddittorio) di quelle religioni che ammettono o addirittura consigliano più appartenenze religiose.

È inevitabile che ogni esperienza religiosa si ponga in una dimensione di esclusività; e se vi rinuncia, finisce col smarrire la sua ragion d’essere. Se è vero che l’Induismo ammette la doppia appartenenza (per esempio: si può essere induisti e cristiani contemporaneamente) è pur vero che ritiene necessaria la credenza nella reincarnazione, credenza questa che è del tutto rifiutata dal Cristianesimo. Il che vuol dire, secondo l’Induismo, che si può essere induisti e cristiani contemporaneamente, ma, sempre secondo l’Induismo, il Cristianesimo vero non sarebbe quello che esclude la reincarnazione, bensì un altro, ideale e soggettivo, che l’ammetta.

Ecco un esempio che dimostra come anche quelle religioni che figurano come tolleranti e disposte ad accettare più appartenenze, si pongono comunque in una prospettiva esclusivista. Né può essere diversamente, se si considera lo statuto specifico dell’essere “religione”.

Ma torniamo al punto iniziale. Dunque, un bel corso di Yoga rivolto a chi vuol fare un corso di spiritualità cristiana! Ma – chiediamoci – lo Yoga è cristianizzabile? O meglio: lo Yoga è coniugabile con il Cristianesimo? Assolutamente no.

Lo Yoga è un sistema a cui si ispira un ben precisa scuola indù. Fu elaborato nei 194 Yoga sutra scritti da Patanjali nel V secolo d.C. È un metodo (perciò è bene parlare di “sistema”) con il quale si cerca di ottenere il dominio su tutte le forze spirituali, guidandole nella direzione desiderata. Ma qui sta il problema. Qual è questa direzione? È il raggiungimento della pace interiore, è il raggiungimento della conoscenza suprema, è la liberazione dai legami del mondo e dalla materia.

Riflettiamo: il raggiungimento della pace interiore deve avvenire non con l’aiuto di Dio, ma con le proprie forze. Insomma, il raggiungimento della conoscenza suprema è incompatibile con la nozione cristiana di una dimensione creaturale dell’uomo. La liberazione dai legami del mondo e della materia è altrettanto incompatibile con la convinzione cristiana della positività tanto del creato quanto della dimensione terrena.

Né ha senso, come fanno in molti, distinguere lo Yoga come pura tecnica di rilassamento dallo Yoga come filosofia di vita. Non ha senso perchè le due fasi classiche (Hatha Yoga e Raja Yoga) sono in una successione di propedeuticità e di complementarietà. Il primo, lo Hatha Yoga, si propone il controllo totale del corpo e delle energie attraverso una rigorosa pratica di esercizi fisici; il secondo, il Raja Yoga, è la forma successiva dove si raggiungerebbe l’intuizione suprema dell’unità del tutto, che è puro monismo panteista, cioè identificazione del divino con la natura, anche quella umana. La prima fase non ha senso senza la seconda. Quando si è ancora al livello più basso deve esserci il desiderio di proseguire, tra l’Hatha e il Raja c’è successione e non alternatività.

Cara Maria Enrica, l’insalata russa, gastronomicamente, sarà anche una leccornia; ma, religiosamente, è una poltiglia insapore e indigesta.

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Bartolo Longo, apostolo del Rosario e fondatore della nuova Pompei

Posté par atempodiblog le 6 octobre 2012

Bartolo Longo, apostolo del Rosario e fondatore della nuova Pompei
di Corrado Gnerre – Radici Crisitiane

Bartolo Longo, apostolo del Rosario e fondatore della nuova Pompei dans Apparizioni mariane e santuari Beato-Bartolo-Longo

Il beato Bartolo Longo è stato il grande apostolo del Rosario. Ma prima di diventarlo passò attraverso prove molto dure che gli permisero di capire ancor meglio quanto sia indispensabile l’affidamento alla Madonna e la recita della preghiera mariana per eccellenza: il Rosario.
Bartolo Longo nacque a Latiano, in Puglia, nel febbraio del 1841. Nacque in una famiglia agiata e rinomata e in gioventù ricevette una solida formazione cristiana. Studiò presso le Scuole Pie, nel Collegio di Francavilla Fontana. Terminò gli studi scolastici nel 1858 con il massimo dei voti; e fu proprio nel periodo scolastico che, grazie soprattutto ad un suo maestro, iniziò a praticare una forte devozione mariana.

Gli anni del peccato
Ma dopo la scuola lo attendeva un periodo assai triste. Andò a studiare giurisprudenza prima a Lecce e poi a Napoli; e fu proprio nella città campana che iniziò a frequentare cattive compagnie, soprattutto coetanei di idee massoniche ed anticlericali. Si appassionò poi agli insegnamenti di intellettuali di formazione idealistica come Bertrando Spaventa e Luigi Settembrini e finì per scagliarsi contro la Chiesa, in particolar modo contro i domenicani.
L’anticlericalismo lo fece scivolare – come solitamente avviene – non nell’ateismo ma nell’irrazionalismo. Erano gli anni in cui aveva successo lo spiritismo e, sentendosi insoddisfatto ed infelice, iniziò a frequentarne alcuni circoli. Lui stesso raccontò di essere rimasto così invischiato in queste pratiche da essere divenuto un vero e proprio “sacerdote di satana”.
Fu così che Bartolo Longo si trovò distrutto fisicamente, ma soprattutto psichicamente: cadde in una depressione fortissima, patologia molto frequente in chi frequenta ambienti del genere e fu più volte sull’orlo del suicidio.

La rinascita in Maria
Ma la Vergine che lui aveva tanto amato, soprattutto nel periodo scolastico, lo salvò. Una confessione con il padre domenicano Alberto Radente lo trasformò. Un padre domenicano! Lui che tanto aveva attaccato i domenicani…
Bartolo Longo aveva dunque capito la necessità di cambiare vita, ma ancora la disperazione attanagliava la sua mente, fin quando non fece un’esperienza che lo segnò. Un giorno si sentiva particolarmente disperato e stava vagando per la Valle di Pompei, possedimento della contessa De Fusco, dei cui beni era divenuto amministratore, quando… Lui stesso racconta quei momenti: «L’anima mia cercava violentemente Iddio (…). Un giorno la procella dell’animo mi bruciava il cuore più che ogni altra volta, e mi infondeva una tristezza cupa e poco men che disperata.
Uscii dalla casa De Fusco, e mi posi con passo frettoloso a camminare per la Valle senza saper dove. Sentivami scoppiare il cuore. In cotanta tenebra, una voce amica pareva mi sussurrasse all’orecchio quelle parole che io stesso avevo letto, e che di frequente mi ripeteva il santo amico dell’anima mia (il padre Radente): “Se cerchi salvezza, propaga il Rosario. È promessa di Maria”. Chi propaga il Rosario è salvo!
Questo pensiero fu come un baleno che rompe il buio di una notte tempestosa. Coll’audacia della disperazione sollevai le braccia e le mani al cielo, e volto alla Vergine celeste: “Se è vero” gridai “che Tu hai promesso a san Domenico che chi propaga il Rosario si salva, io mi salverò perché non uscirò da questa terra di Pompei senza aver qui propagato il tuo Rosario!”.
Nessuno rispose: silenzio di tomba mi avvolgeva intorno. Ma, da una calma che repentinamente successe alla tempesta nell’animo mio, compresi che quel grido sarebbe stato un giorno esaudito. La risposta del cielo non fu tarda».

La “nuova Pompei”
In accordo con la contessa De Fusco, che divenne sua grande collaboratrice nonché sua moglie (anche se i due coniugi vollero vivere un matrimonio in completa castità), Bartolo Longo decise di trasformare quella Valle, povera e dimenticata da tutti, nella Valle da cui lanciare in tutto il mondo la grande devozione al Santo Rosario.
Dunque, il Rosario segnò la salvezza personale di Bartolo Longo; ma segnò anche la salvezza di poveri bimbi, figli di carcerati e orfani, strappati così alla vita di strada, per cui il Longo fece costruire dei grandi collegi, proprio ai piedi del Santuario.
Ma Longo volle indicare il Rosario anche come salvezza della civiltà cattolica. Nel 1883 cadeva il centenario di Lutero (1483), colui che aveva spaccato la cristianità; e ricorreva anche il centenario della vittoria cristiana sui Turchi a Vienna (1683). Fu proprio in questo anno che decise di scrivere la celebre “Supplica”, diffusa in tutto il mondo a difesa del Papato e della civiltà cattolica.
La “Supplica” fu letta per la prima volta il 14 ottobre del 1883 e da allora viene letta due volte l’anno: l’8 maggio e la prima domenica di ottobre.
Bartolo Longo fu sempre devotamente sottomesso al Papa e dai papi fu sempre incoraggiato. Lo sostennero prima Leone XIII e poi san Pio X.
Morì il 5 ottobre del 1927, mese del Rosario.

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Il Sangue di Cristo unica ragione della vita dell’uomo

Posté par atempodiblog le 1 juillet 2012

Come giugno è il mese del Sacro Cuore, luglio è il mese che la Chiesa consacra al culto del Preziosissimo Sangue del Redentore. Qualche breve parola di meditazione per aiutarci a compenetrare meglio il mistero più adorabile di tutta la religione cristiana: il ruolo salvifico di quel Sangue sparso per la nostra salvezza.
di Corrado Gnerre – Radici Cristiane

Il Sangue di Cristo unica ragione della vita dell'uomo dans Articoli di Giornali e News

Né efficientismo né intellettualismo
Oggi la vita cristiana corre due grossi pericoli: l’efficientismo e l’intellettualismo.

L’efficientismo è la riduzione del Cristianesimo a “fare”: fare apostolato, fare volontariato, beneficenze, convegni, incontri, ecc.
L’intellettualismo cristiano è invece aderire a Cristo solo intellettualmente. Per esempio: la convinzione di meritarsi la salvezza solo credendo in Dio; quasi come se Dio avesse bisogno che si creda in Lui. Lucifero, quando si ribellò, non dubitava affatto dell’esistenza di Dio e successivamente non ne ha mai dubitato, eppure è lì, nell’inferno.

Senza la vita di Grazia, il Cristianesimo non c’è
C’è un’immagine che Gesù utilizza per significare quello che deve essere la vita del cristiano. È quella della vite e dei tralci: «Io sono la vite e voi i tralci, se i tralci non sono innestati nella vite, si seccano, non portano frutto e devono essere buttati nel fuoco» (Gv.15,5).

In questa espressione non compare la parola “linfa”, ma, se si riflette bene, è proprio la linfa la vera protagonista. I tralci portano frutto se, innestati nella vite, scorre in loro la linfa vitale; altrimenti si seccano. Ebbene, secondo metafora, la linfa è la Grazia, cioè la vita divina donata al cristiano attraverso la redenzione operata da Cristo.
Senza la Grazia, si possono fare le cose più grandi e belle, non varranno mai per la vita eterna. Il cristiano “può portare frutto” solo quando in lui scorre la “linfa”. L’uomo, solo vivendo nella Grazia, può conquistare la felicità eterna.
Facciamo un esempio: siamo in un grande magazzino, c’è un prodotto che vogliamo acquistare, ma costa 200 euro. Contiamo i soldi che abbiamo nel portamonete e ci rendiamo conto che neppur lontanamente possiamo arrivare a quella cifra. Malgrado il desiderio, non potremmo mai arrivare con le nostre forze (in questo caso con i denari) ad acquistare quel prodotto tanto desiderato. A maggior ragione questo deve dirsi per la felicità eterna: l’uomo non può dare a se stesso ciò che non possiede in natura. Può l’uomo darsi l’assoluto, lui che assoluto non è? Può darsi l’Infinito, lui che infinito non è?
Oggi molti si chiedono: ma è proprio importante essere praticanti, convivere con Dio? L’uomo non può salvarsi solo facendo il bene? Se così fosse, diventerebbe salvatore di se stesso; e se così fosse, dovremmo piuttosto chiederci: perché Dio si è incarnato ed è morto per noi, perché ha effuso il suo Sangue? Tutto il mistero di Cristo si nullificherebbe.  
La salvezza dell’uomo si riconduce inevitabilmente al Sangue di Cristo… ed è il Sangue di Cristo che ci fa capire che il Cristianesimo non è né efficientismo (fare, fare, fare…) né una pura astrazione intellettuale (credere in Dio e basta).
Noi non saremo giudicati né sull’efficientismo né sul semplice credere in Dio, ma sull’amore a Dio. Amare Dio significa convivere con il Signore, sostituire il proprio criterio di giudizio con il criterio di giudizio di Gesù: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Galati, 2,20).

Le due ricerche possibili: il Graal magico e il Graal religioso.
Il Sangue di Cristo è così importante per la vita dell’uomo che ad esso si ricollegano anche i due fondamentali atteggiamenti che l’uomo può avere per la sua vita e per la sua possibile salvezza: l’atteggiamento magico (innaturale e illegittimo) e l’atteggiamento religioso (naturale e legittimo).

Al Sangue di Cristo è legato l’oggetto del Graal, ovvero il calice che Gesù utilizzò nell’ultima cena, cioè quando istituì l’Eucaristia e trasformò il vino nel suo Sangue.
Due tipi di atteggiamento dunque… e infatti due sono i motivi per cui il Graal è stato oggetto di numerose leggende. Primo: perché è stato visto come l’oggetto “magico” per eccellenza. Secondo: per il contrario, perché è stato visto anche come l’oggetto “religioso” per eccellenza. 
La magia è un atteggiamento di “potere” con il quale l’uomo pretende mettersi al di sopra del divino; anzi, pretende di divinizzare se stesso. La religione è invece il contrario; è un atteggiamento non di potere ma di “servizio” con cui l’uomo, riconoscendosi creatura, si sottomette al divino.
Nella tradizione tanto esoterica (la verità sarebbe nascosta e solo per pochi) quanto occultistica (la verità sarebbe il frutto del potere della mente che può mutare a proprio piacimento la realtà) il Graal è stato visto come l’oggetto per eccellenza affinché l’uomo potesse impadronirsi dell’onniscienza e dell’immortalità; insomma, lo strumento per realizzare il desiderio dei desideri: la propria divinizzazione.
In queste tradizioni (esoterica ed occultistica) la figura di Gesù è stata spesso vista in chiave gnostica. Gesù sarebbe il modello da imitare, sì, ma non nel senso del Dio-fatto-uomo quanto dell’uomo-che-diventa-Dio. Il Verbo sarebbe il divino buono che è presente a mò di scintilla in ogni uomo.
Incarnandosi, questo Verbo avrebbe insegnato all’uomo come liberarsi dalla prigionia del corpo e quindi come spogliarsi del peso dell’individualità (l’apparente creaturalità) per riunirsi al divino originario. In tale prospettiva il Graal è una sorta di materializzazione di questa convinzione e di questa aspirazione.
Ma abbiamo detto che il Graal può essere considerato anche in maniera totalmente diversa, come il segno che riconduce al vero senso della vita, cioè all’appartenenza al divino.
Nel Graal il vino fu trasformato nel Sangue di Cristo, cioè in quel Sangue che è segno dell’Amore per eccellenza, dell’offerta di Dio all’uomo per la salvezza dell’uomo. Il Graal, quindi, è il segno del bisogno di Dio, di quanto l’uomo abbia avuto e abbia ancora necessità di Dio.
In questa prospettiva il Graal è la vita; e, la sua ricerca, il vero senso della vita. Secondo le celebri saghe bretoni per poter occupare l’ambito “seggio del pericolo” occorreva una condizione indispensabile: essere puri di cuore. Cioè per realizzare pienamente la vocazione fondamentale (la ricerca del Graal, cioè la ricerca non semplicemente di Dio, ma della salvezza operata da Dio) non era necessario possedere tanto le capacità intellettuali quanto aprire il proprio cuore e praticare l’esercizio della virtù.
La vocazione fondamentale è il compito su cui l’uomo si gioca veramente tutto, non a caso nelle saghe bretoni si parla di seggio del pericolo, ovvero di seggio dove l’uomo mette in gioco tutta la sua vita.
La teologia cattolica afferma che nel Sacrificio eucaristico il sacerdote agisce in persona Christi, il che vuol dire che ogni qualvolta il sacerdote consacra, le sue mani non sono più le sue mani ma le mani stesse di Cristo. Ciò vale anche per gli oggetti che sono utilizzati in questo Sacrificio: il calice non è più quel calice che fu acquistato in un determinato negozio, ma diventa, in quel preciso momento, veramente il Graal.

Il modello di Parsifal: il Sangue di Cristo come vera risposta.
Ogni uomo dovrebbe porsi dinanzi alla propria esistenza secondo il modello della figura di Parsifal. Interessa poco sapere della sua esistenza storica; interessa piuttosto tener presente che la sua vita è vera, in quanto vita offerta alla ricerca di ciò che rappresenta veramente il Tutto dell’esistenza umana: il Sangue di Cristo.

Parsifal è senz’altro un eroe antimoderno. Lo è perché sa che la vita va spesa non solo nella dimensione orizzontale (aiutare gli altri), che è pure importante, ma soprattutto in quella verticale. Parsifal sa bene che l’uomo, più che del cibo materiale, ha bisogno di ciò che davvero può riempire la sua esistenza, la risposta totale per tutte le proprie ansie: il Sangue di Cristo. 
Nell’ottimo film di Mel Gibson, The Passion, c’è una scena piena di significato. Dopo la flagellazione e l’allontanamento di Gesù dalla Colonna, la Vergine e Maria Maddalena si calano e, quasi strisciando, asciugano il sangue di Gesù con dei panni dati loro dalla moglie di Pilato.
Il regista giustamente indugia su questo gesto: asciugare e raccogliere il Preziosissimo Sangue di Gesù affinché non vada perso. Gli sguardi delle donne esprimono chiaramente l’importanza di quel Sangue divino. Si può senz’altro dire che una tale scena ha il pregio di sintetizzare tutto il Cristianesimo: è proprio in quell’attenzione e in quell’adorazione l’unica ragione della vita dell’uomo.

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San Domenico Savio, un capolavoro di don Bosco

Posté par atempodiblog le 24 janvier 2010

 San Domenico Savio, un capolavoro di don Bosco dans Corrado Gnerre San-Domenico-Savio-e-don-Bosco

Il primo frutto di santità di don Bosco fu un bambino, gracile nel fisico, ma fortissimo nella spiritualità e nella generosità.

San Domenico Savio è stato certamente il grande capolavoro pedagogico di san Giovanni Bosco. Nacque a Riva di Chieri da una famiglia povera nel 1842. Ad appena sette anni, in maniera del tutto eccezionale, fu ammesso alla Prima Comunione: a quei tempi l’Eucarestia si riceveva per la prima volta oltre i dodici anni.
Sin da subito il piccolo Domenico s’impegnò a vivere una vita autenticamente cristiana, da qui la sua famosa frase: « La morte, ma non il peccato ».

di Corrado Gnerre

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La verità sul « caso Galilei »

Posté par atempodiblog le 18 octobre 2008

Il triste episodio de “la Sapienza” ha fatto tornare alla ribalta il Caso Galilei…e si sentono rievocare i soliti luoghi comuni. Ma come davvero andarono le cose?
di Corrado Gnerre

 

Le proteste per la visita di Benedetto XVI all’università de “la Sapienza” hanno fatto tornare alla ribalta il “caso Galilei”. I 67 docenti firmatari del documento contro l’invito al Papa hanno fatto riferimento ad un discorso pronunciato nel 1990 dall’allora cardinale Ratzinger, in cui, parlando del caso Galilei, il futuro papa citò alcune parole del filosofo della scienza Paul Feyerabend (1924-1994) – anarchico e ateo, quindi al di sopra di ogni sospetto – in cui si affermava che nel processo allo scienziato pisano la ragione era dalla parte della Chiesa.

Scienza o scientismo?

In realtà ciò che capitò a Galilei non fu causato dalla sua negazione della concezione geocentrica (il Sole che gira intorno alla Terra) quanto dal fatto che la sua posizione si faceva sostenitrice di un nuovo modo di concepire la scienza, un modo in cui la scienza stessa sarebbe potuta divenire l’unica ed esclusiva lettura della realtà.

Titus Burckhardt (1908-1984) nel suo Scienza moderna e saggezza tradizionale (1968) scrive a pagina 134: «La Chiesa, esigendo da Galileo di presentare le proprie tesi sul moto della terra e del sole non come verità assoluta ma come ipotesi, aveva le sue buone ragioni (…). L’esaltazione letteraria di Galileo ha fatto nascere in svariati dignitari ecclesiastici una sorta di coscienza di colpa che li rende stranamente impotenti dinanzi alle teorie scientifiche moderne, quand’anche queste siano in palese contraddizione con le verità della fede e della ragione. La Chiesa, si suol dire, non avrebbe dovuto immischiarsi nei problemi scientifici. Eppure lo stesso caso di Galileo dimostra che, accampando la pretesa di possedere la verità assoluta, la nuova scienza razionalista del Rinascimento si presentava alla guisa di una seconda religione».

Sfatiamo i luoghi comuni

Dunque, la scienza come una sorta di “nuova religione”, ovvero il passaggio dalla scienza allo scientismo. Ma su questo ritorneremo tra pochissimo. Iniziamo a sfatare alcuni luoghi comuni sul “caso Galilei”. Ci sono sette punti importanti da ribadire. 

1) L’eliocentrismo non c’entra

A differenza di quanto si dice, Galilei non ebbe i suoi problemi per la teoria eliocentrica (la Terra ruota intorno al Sole), per il semplice fatto che questa teoria non faceva paura alla Chiesa. Già quattro secoli prima di Galilei, san Tommaso d’Aquino disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva.
Copernico, astronomo polacco e perfino sacerdote cattolico, morto ventuno anni prima di Galilei, aveva sostenuto la concezione eliocentrica; e molti contemporanei, perfino esponenti della gerarchia ecclesiastica (tra questi anche pontefici come Leone X e Clemente VII) si mostrarono aperti alle sue tesi.

Nella celebre Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana. Lo stesso Galilei era a conoscenza del fatto che la Chiesa non aveva nulla da ridire sull’ipotesi di Copernico. Così scrisse a Cristina di Lorena: «[Il trattato di Copernico] è stato ricevuto dalla santa Chiesa, letto e studiato per tutto il mondo, senza che mai si sia presa ombra di scrupolo nella sua dottrina (…)».

Piuttosto era nel mondo protestante che l’eliocentrismo faceva paura. Riferendosi a Copernico, Martin Lutero scrisse: «Cadde un giorno il discorso sopra un astrologo moderno il quale voleva dimostrare che la Terra si muove e non già il cielo o il firmamento col Sole e con la Luna (…). Ma le cose adesso vanno così: chi vuole apparire savio e dotto non deve approvare quello che fanno gli altri, ma deve fare alcunché di singolare e tale che a suo credere nessun altro sia capace di fare. Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica».

2) Atteggiamento scientista e non scientifico

Dunque, il motivo per cui Galilei ebbe problemi non fu legato alla teoria eliocentrica ma a ragioni di filosofia della scienza. Galilei, pretendendo presentare l’eliocentrismo non come ipotesi ma come una tesi comprovata, rappresentava un atteggiamento scientista e non scientifico.

Mentre l’atteggiamento autenticamente scientifico si serve delle prove, parte sì da un’intuizione, ma sottopone questa intuizione a verifica; l’atteggiamento cosiddetto scientista è il contrario, cioè fa dell’intuizione scientifica, indipendentemente dalla verifica, l’intuizione per eccellenza da preferirsi a qualsiasi altra intuizione, tanto a quella della tradizione quanto a quella del senso comune.

Galilei, avendo solo delle intuizioni e non delle prove, pretendeva che la mentalità scientifica, solo perché “scientifica”, potesse essere “giudice” della Rivelazione. Ma la Fede, se può e deve dialogare con la scienza, non può certo dialogare con lo scientismo, che è un’ideologia e che fa della scienza una “seconda religione”, secondo la definizione del citato Burckhardt.

3) La ragionevolezza del Bellarmino

San Roberto Bellarmino (1542-1621), che svolse un ruolo importante nel processo a Galilei, non pretendeva che lo scienziato pisano rinunciasse alla convinzione eliocentrica bensì che ne parlasse per quello che effettivamente era, cioè un’ipotesi.

Così scrive  in una lettera del 12 aprile del 1615 al padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini che appoggiava Galilei: «Dico che il Venerabile Padre e il signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare “ex supposizione” e non “assolutamente”, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. (…) Dico che quando ci fusse “vera dimostrazione” che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il Sole non circonda la Terra, ma la Terra circonda il Sole, all’hora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, ed è meglio dire che non le intendiamo, piuttosto che dire che sia falso quello che si dimostra».

Che poi il Bellarmino dica queste cose non improvvisando né formulando “novità”, è dimostrato dal fatto che egli nel 1571 (cinquant’anni prima) scriveva nelle sue Praelectiones Lovanienses: «Non spetta ai teologi investigare diligentemente queste cose (…). Possiamo scegliere la spiegazione che ci sembra più conforme alle SS. Scritture (…). Se però in futuro sarà provato con evidenza che le stelle si muovono con moto del cielo e non per loro conto, allora dovrà vedersi come debbano intendersi le Scritture affinchè non contrastino con una verità acquisita. È certo, infatti, che il vero senso della Scrittura non può contrastare con nessun’altra verità sia filosofica come astronomica (…)».

4) Mancanza di prove scientifiche

Galilei non portava prove convincenti per suffragare la sua ipotesi. Una prova in realtà la portava, ma era sbagliata. Inviò una lettera al cardinale Orsini dove affermava che la rotazione della Terra intorno al Sole sarebbe provata dalle maree, cioè, secondo lui, il movimento della Terra provocherebbe scuotimento e quindi le alte e basse maree.

I giudici però contestarono questa “prova” e dissero giustamente che le cause delle maree dovevano ricercarsi in altro. Ecco perché il già citato Paul Feyerabend, pur essendo ateo ed anarchico, ha affermato che nel processo a Galilei il rigore scientifico fu più dalla parte della Chiesa che non da quella dello Scienziato pisano.

5) Mitissima pena…

Galilei non subì nulla di eclatante a differenza di quanto molti pensano. Alcuni sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli studenti italiani credono che Galilei subì torture e che fu addirittura arso vivo.

I nostri docenti di scuola e di università invece che fare tanta cagnara dovrebbero  riflettere sulla scientificità dei loro insegnamenti. Ecco cosa davvero subì Galilei. Nel febbraio del 1632 lo Scienziato pisano pubblicò a Firenze il famoso Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo…, e nell’agosto dello stesso anno, a Roma, se ne proibì la diffusione. Il 16 giugno del 1633 il Sant’Uffizio condannò l’autore. Il 22 giugno dello stesso anno Galilei abiurò e fu condannato a recitare una volta alla settimana i sette salmi penitenziali e al carcere, ma questo fu subito commutato in domicilio coatto. Prima nel Giardino di Trinità dei Monti (alloggio con cinque camere, vista sui giardini vaticani e cameriere personale); poi nella splendida Villa dei Medici al Pincio; quindi a Siena presso l’amico e arcivescovo Ascanio Piccolomini, in seguito a Firenze nella sua casa di Costa San Giorgio e, infine, nella Villa di Arcetri, presso il Monastero delle Clarisse di San Matteo dove vivevano le sue due figlie suore. Di tortura neanche a parlarne. 

Lo stesso Galilei fu consapevole della mitezza della pena, tanto che ringraziò i giudici e confessò di aver fatto di tutto per indisporli. La stessa scelta dell’affezionatissima figlia Virginia di farsi suora (suor Celeste) dimostra la mitezza della pena. Lei che era così attaccata al padre, qualora Galilei fosse stato maltrattato dalla Chiesa, avrebbe avuto il desiderio di consacrarsi?
Galilei, malgrado la condanna, poté continuare a pubblicare e a curare l’amicizia di vescovi e scienziati; e proprio dopo la condanna pubblicò l’opera più importante, Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze. Morì ad Arcetri l’8 gennaio del 1642, assistito da discepoli come Vincenzo Viviani ed Evangelista Torricelli; morì con i conforti religiosi e finanche con l’indulgenza plenaria e la benedizione del Papa.

6) Un contesto sfavorevole

Il processo a Galilei si può capire solo collocandolo all’interno del XVII secolo; secolo tutt’altro che facile. Verrebbe da dire che se lo Scienziato pisano fosse vissuto in pieno XIII secolo non avrebbe avuto i problemi che ebbe.

Iniziamo col considerare che nel XVII secolo il riferimento ad Aristotele non era un riferimento critico, capace cioè di selezionare e discernere (come invece riuscì a fare il vertice della Scolastica e in particolar modo san Tommaso), bensì pedissequo: Aristotele doveva essere accettato integralmente, anche per quanto riguardava la sua visione cosmica.

Inoltre, c’era stato da poco (meno di un secolo) lo scoppio della Riforma, imperversavano le guerre di religione… e il mondo protestante accusava quello cattolico di non amare la Bibbia, di leggerla poco, di non rispettarla.

Tutto questo portò, per reazione, anche alcuni ambienti cattolici ad un atteggiamento di protezione letteralistica della Bibbia stessa. Per finire, durante la Guerra dei Trenta Anni si erano diffusi i manifesti dei Rosa-Croce, che (come ha ampiamente dimostrato la storica inglese Frances Yates) furono scritti per riproporre una visione ermetica e magica del reale collegata alla prisca philosophia, da contrapporre alla visione cattolica identificabile nel fronte asburgico.

Ora, la visione ermetica e magica si fonda sul monismo e sulla identificazione del creato con il creatore (panteismo) per cui il concepire la Terra non più al centro poteva, secondo alcuni, avvalorare una concezione infinita e divina dell’universo stesso. 

7) L’ultimo dei miti da sfatare

E per finire… la famosa frase che campeggia su buona parte dei libri scolastici, e cioè che Galilei avrebbe detto “eppur si muove”, in realtà non fu mai pronunciata. Fu inventata da un giornalista italiano, Giuseppe Baretti, a Londra nel 1757.

Tratto da Radici Cristiane

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Quando la scienza riconosce la fede

Posté par atempodiblog le 15 octobre 2008

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Alexis Carrel e Lourdes
Quando la scienza riconosce la fede

«Vergine dolce che soccorri gli infelici, proteggimi. Io credo in Te. (…) Il Tuo nome è più dolce del sole del mattino. Prendi Tu il peccatore inquieto dal cuore in tempesta che si consuma nella ricerca delle chimere. Sotto i consigli profondi e duri del mio orgoglio intellettuale giace, ancora soffocato, il più affascinante di tutti i sogni, quello di credere in Te, di amarti come i frati dall’anima candida». Questa bella preghiera è stata composta da un grande scienziato, il medico francese Alexis Carrel, premio Nobel nel 1912 grazie alla scoperta di un particolare punto di sutura che poi ha permesso la pratica della trasfusione di sangue, pratica che ha salvato e che salva tante vite umane. Il dottor Carrell era agnostico, ma fu convertito grazie a un viaggio a Lourdes dove poté constatare ciò che egli riteneva inconstatabile.

di Corrado Gnerre


Alexis Carrel nacque a Lione nel 1873. La sua famiglia era di commercianti benestanti. Rimasto orfano di padre, a cinque anni lasciò Lione per andare a vivere in campagna con la mamma. Tornò poi a Lione per gli studi liceali e per frequentare la Facoltà di Medicina.
Furono propri gli studi universitari a spingerlo ad abbandonare le convinzioni religiose ricevute dall’educazione familiare per abbracciare la filosofia positivista e materialista. Conservò però sempre una forte nostalgia verso le certezze della sua fanciullezza, soprattutto avvertiva l’inquietudine che gli procuravano quelle nuove convinzioni positiviste, incapaci di dare una persuasiva risposta al senso della vita e della morte.
Lui stesso, dopo la conversione, scrisse di quel periodo parlando di sé in terza persona: «Assorbito dagli studi scientifici, affascinato dallo spirito della critica tedesca, [Carrel] s’era convinto a poco a poco che al di fuori del metodo positivo, non esisteva certezza alcuna. E le sue idee religiose, distrutte dall’analisi sistematica, l’avevano abbandonato, lasciandogli il ricordo dolcissimo di un sogno delicato e bello. S’era allora rifugiato in un indulgente scetticismo (…) La ricerca delle essenze e delle cause gli sembrava vana, solo lo studio dei fenomeni, interessante. Il razionalismo soddisfaceva interamente il suo spirito; ma nel fondo del suo cuore si celava una segreta sofferenza, la sensazione di soffocare in un cerchio troppo ristretto, il bisogno insaziabile di una certezza».

 La decisione di andare a Lourdes 
In quegli anni, negli ambienti medici, si discuteva molto di Lourdes e dei miracoli che vi avvenivano. C’era chi ci credeva e c’era chi era profondamente scettico. Nel 1894, il famoso scrittore Emile Zola, dopo esser stato a Lourdes e pur essendo stato testimone di fatti inspiegabili, aveva scritto un libro in cui negava decisamente la veridicità delle apparizioni.
Anche Carrel, nel suo positivismo, era convinto che quelli di Lourdes fossero solo sedicenti “miracoli”, in realtà guarigioni frutto di autosuggestione. Volle però andare a constatare di persona e, nel 1902, partecipò come medico a un pellegrinaggio, occasione che gli fu offerta da un collega che aveva dovuto rinunciare all’ultimo momento. Da questo viaggio venne fuori un libro che ebbe il titolo di Viaggio a Lourdes. 

L’incontro con Marie Ferrand
Alexis Carrel era in incognito. Solo pochi conoscevano la sua identità. Voleva solo constatare e aiutare qualche malato. Nel suo scompartimento giaceva una giovane donna, Marie Ferrand (chiamata così nel libro, ma in realtà si chiamava Marie Bailly). Era gravissima: ventre gonfio, pelle lucida, costole sporgenti, addome teso da materia solide, sacca di liquido che occupava la regione ombelicale, febbre alta, gambe gonfie, cuore veloce. Si trattava di peritonite tubercolare.
Dolori tremendi! Il dottor Carrel le praticò un’iniezione di morfina. «Avete ancora i genitori?», le domandò gentile il medico. «No, sono morti di tubercolosi da alcuni anni», rispose la donna.
Dall’età di quindici anni, ella era tubercolotica. I medici che la tenevano in cura dicevano che ormai era all’ultimo stadio. Ella però, pur sentendosi alla fine, era convinta che la Vergine, a Lourdes, le avrebbe concesso qualcosa d’importante: se non la guarigione, almeno la forza per morire in pace.

Il dialogo con un amico credente
Arrivato a Lourdes, incontrò un suo vecchio compagno di collegio, nel suo libro-diario ne riporta solo le iniziali: A.B. Gli chiese: «“Sai se qualche malato è guarito, stamane, nelle piscine?” “No, nessuno. Però vidi un miracolo davanti alla grotta. Una suora che camminava con le stampelle arrivò, si fece una gran segno di croce, bevve l’acqua della fonte miracolosa… Subito il suo viso s’illuminò, buttò via le stampelle, corse agile alla Grotta, gettandosi in ginocchio davanti alla Vergine… Era guarita”. “La sua guarigione – fece Carrel – è un caso interessante di autosuggestione!”. “Quali sono – ribatté l’amico – le guarigioni che, se le constatassi, ti farebbero riconoscere l’esistenza del miracolo?”. “La guarigione improvvisa di una malattia organica – rispose Carrel – Una gamba tagliata che rinasce. Un cancro scomparso, una lussazione congenita che improvvisamente guarisce. Allora sì che crederei! Se mi fosse concesso di vedere un fenomeno tanto interessante, tanto nuovo, sacrificherei tutte le teorie e le ipotesi del mondo. Ma non il minimo timore di arrivare a questo…
C’è una ragazza, Marie Ferrand, presso la quale mi hanno chiamato dieci volte ed è in pericolo di vita. È tisica, ha una peritonite tubercolare all’ultimo stadio. È in uno stato pietoso. Temo che mi muoia tra le mani. Se questa ammalata guarisce, sarebbe veramente un miracolo. Io crederei a tutto e mi farei frate”».

Avviene l’inspiegabile
Nella Sala dell’Immacolata (riservata ai malati più gravi) tutto era pronto per la funzione presso le piscine. Il dottor Carrel si avvicinò al lettino della “sua” ammalata, Marie Ferrand. La visitò rapidamente: il cuore stava per cedere, era alla fine. Il medico le praticò un’iniezione di caffeina, poi disse ai presenti senza farsi sentire dall’ammalata: «È una peritonite polmonare all’ultimo stadio. Figlia di genitori morti di tubercolosi in giovane età, è tisica dall’età di 15 anni. Può darsi che viva ancora per qualche giorno, ma è finita». Anche un altro medico confermò la diagnosi nefasta di Carrel.
Alla piscina non fu possibile immergere Marie Ferrand. Le fecero alcuni lavaggi al ventre. La portarono davanti alla Grotta. L’aspetto della donna era sempre cadaverico. Erano circa le 14.30.
Carrel osservava il volto dell’ammalata: gli parve più normale, meno livido. Gli sembrava avere un’allucinazione, continuò ad osservarla. Le contò le pulsazioni e i respiri al polso. La respirazione sembrava rallentata. Il volto di Marie Ferrand continuava a cambiare. I suoi occhi sembravano catalizzati verso la Grotta.
C’era in lei un sensibile miglioramento, non lo si poteva negare. Lo stupefacente, però, avveniva adesso: Carrel vide a poco a poco la coperta abbassarsi al livello del ventre. Il gonfiore spariva. Si sentì impallidire. Alle 15 la tumefazione era ormai scomparsa. Carrel credeva d’impazzire.
Si avvicinò alla donna, ne osservò la respirazione, guardò il collo. Il cuore batteva regolarmente. Le domandò: «Come vi sentite?». Marie rispose sottovoce: «Benissimo. Non sono molto in forze, ma sento che sono guarita».
Carrel così ha scritto, sempre parlando di se stesso in terza persona: «Il medico non parlava più; non pensava più. Il fatto inatteso era totalmente contrario a tutte le previsioni, che egli credeva di sognare… Si alzò, traversò le file serrate dei pellegrini, i quali gridavano invocazioni che egli a stento sentiva, e se ne andò. Erano circa le 16. Quel ch’era accaduto era la cosa impossibile, la cosa inattesa, il miracolo».

L’inizio di una nuova vita
Marie Ferrand, guarita, fu portata all’ospedale diretto dal dottor Boissaire, lo scienziato che difendeva la veridicità di Lourdes. Carrel tornò a visitarla e dovette constatarne la inspiegabile guarigione. Lo stesso fecero altri medici.
Marie era felice e diceva: «Andrò dalle suore di San Vincenzo, loro mi accoglieranno e io assisterò i malati». Carrel era commosso. Uscì dall’ospedale. Era ormai notte. Si recò alla Basilica e vi entrò. Scorse il suo amico A.B. e cominciarono a parlare. Mentre il medico fissava la statua dell’Immacolata, l’amico gli chiese: «Sei convinto, ora, filosofo incredulo?». Carrel si limitò a rispondere: «Una giovane moribonda è stata guarita sotto i miei occhi in pochi istanti. È una cosa meravigliosa, è un miracolo». A.B. concluse a mo’ di battuta: «Ma non è meno vero che ora sei obbligato a vestire il saio! Addio».
Carrel rimase solo e fu allora che pronunziò quelle parole che abbiamo posto all’inizio: «Vergine dolce che soccorri gli infelici, proteggimi. Io credo in Te…».
Il medico positivista, diventato credente, dedicò poi l’intera sua vita alla scienza (come abbiamo già detto, fu insignito del Nobel nel 1912) e a propagare la devozione alla Vergine di Lourdes. In tarda età fu ingiustamente accusato di collaborazionismo con il governo filonazista di Vichy. Fu un’accusa che lo prostrò molto e lo condusse, il 5 novembre 1944, ad un infarto che gli fu fatale.
A lui si deve una famosa frase che esprime bene il realismo cristiano e l’umiltà che dovrebbe contrassegnare ogni ricerca scientifica: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».

Tratto da: Radici Cristiane n. 37 – Ago/Set 2008

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