Le due facce dell’invidia e l’ipocrisia

Posté par atempodiblog le 21 juillet 2012

Le due facce dell’invidia e l’ipocrisia

I farisei però, usciti, tennero consiglio contro di lui
per toglierlo di mezzo. [...]
Dal Vangelo secondo Matteo 12,14-21 di oggi (sabato)

Le due facce dell’invidia e l’ipocrisia dans Commenti al Vangelo rm19g9

Gesù operava il bene e i farisei cercavano di eliminarlo. Il Vangelo ci rivela che la causa di ciò era l’invidia.

L’invidia è ciò che ha provocato il più grande peccato che sia stato mai commesso nella storia umana: l’uccisione di Gesù Cristo.  L’uccisione di Gesù è avvenuta per invidia, ce lo dice il Vangelo. Pilato sapeva che glielo avevano consegnato per invidia. Gesù parla e la gente lo sta ad ascoltare, attira le folle, ha un grande seguito, fa  miracoli, è santo, è sapiente per questo scribi e farisei morivano dì invidia. L’invidia è omicida. Questo tipo d’invidia è l’invidia della grazia altrui.

L’invidia ha due facce: il dispiacersi per il bene degli altri; il godere per il male degli altri. “Ben gli sta! Dio è giusto!” , dicono, “sapevo io!”, “finalmente è caduto, era ora che cadesse!”.  E’ talmente turpe questo sentimento che, come notano anche psicologi, moralisti, ecc., che uno lo dissimula, lo copre, finge di essere amico ma in realtà ha invidia.

L’invidia è dunque collegata all’ipocrisia. Oltre ad essere parente all’ipocrisia, l’invidia è imparentata, diciamo così, al v comandamento (non uccidere): l’invidia è assassina. Quando uno può, facendola franca, cerca di eliminare la persona di cui ha invidia. In che modo si cerca di eliminare le persone la cui grandezza da fastidio? Prima di tutto con la lingua: diffamazione, calunnia, veleni… in modo tale da sminuire quello che la persona è. Si può arrivare anche al vero e proprio omicidio.

L’invidia colpisce alla radice la carità. Fintanto però che uno è invidioso perché ha la panda e un altro la maserati passi! Dove l’invidia uccide davvero l’anima è quando si è invidiosi della grazia altrui. “Quello è più santo di me!”. “Quello ha dei doni che io non ho!”. Allora scoppia l’invidia spirituale che uccide la carità. Essa diventa un peccato contro lo Spirito Santo perché Egli è colui che ha fatto quei doni alla persona.

Una volta parlando con un sacerdote delle apparizioni di Medjugorje si è arrabbiato, ha battuto forte un pugno sul tavolo ed ha esclamato “E perché non è apparsa a me?”. Non credevo a quello che sentivo… D’altra parte una malattia del genere ce l’aveva la maestra delle novizie di Bernadette Soubirous, la quale diceva “Non capisco per quale motivo la Madonna dovrebbe apparire a una contadinella ignorante quando ci sono tante religiose virtuose”, alludendo a se stessa naturalmente… poi divenne madre generale.

Riassunto di una catechesi di Padre Livio Fanzaga

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La correzione non sia un atto di accusa

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2012

La correzione non sia un atto di accusa dans Commenti al Vangelo Cantalamessa

Nel Vangelo [...] leggiamo: «In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato un fratello». Gesù parla di ogni colpa; non restringe il campo alla colpa commessa nei nostri confronti. In quest’ultimo caso infatti è praticamente impossibile distinguere se a muoverci è lo zelo per la verità, o se non è invece il nostro amor proprio ferito. In ogni caso, sarebbe più autodifesa che correzione fraterna. Quando la mancanza è nei nostri confronti, il primo dovere non è la correzione ma il perdono.

Perché Gesù dice: «ammoniscilo fra te e lui solo»? Anzitutto per rispetto al buon nome del fratello, alla sua dignità. La cosa peggiore sarebbe voler correggere un marito in presenza della moglie, o una moglie in presenza del marito, un padre davanti ai suoi figli, un maestro davanti agli scolari, o un superiore davanti ai sudditi. Cioè, alla presenza delle persone al cui rispetto e alla cui stima uno tiene di più. La cosa si trasforma immediatamente in un processo pubblico. Sarà ben difficile che la persona accetti di buon grado la correzione. Ne va della sua dignità.

Dice «fra te e lui solo» anche per dare la possibilità alla persona di potersi difendere e spiegare il proprio operato in tutta libertà. Molte volte infatti quello che a un osservatore esterno sembra una colpa, nelle intenzioni di chi l’ha commessa non lo è. Una franca spiegazione dissipa tanti malintesi. Ma questo non è più possibile quando la cosa è portata a conoscenza di molti.
Quando, per qualsiasi motivo, non è possibile correggere fraternamente, da solo a solo, la persona che ha sbagliato, c’è una cosa che bisogna assolutamente evitare di fare al suo posto, ed è di divulgare, senza necessità, la colpa del fratello, sparlare di lui o addirittura calunniarlo, dando per provato quello che non lo è, o esagerando la colpa. «on sparlate gli uni degli altri», dice la Scrittura (Gc 4,11). Il pettegolezzo non è cosa meno brutta e riprovevole solo perché adesso gli si è cambiato il nome e oggi lo si chiama «gossip».

Una volta una donna andò a confessarsi da san Filippo Neri, accusandosi di aver sparlato di alcune persone. Il santo l’assolse, ma le diede una strana penitenza. Le disse di andare a casa, di prendere una gallina e di tornare da lui, spiumandola ben bene lungo la strada. Quando fu di nuovo davanti a lui, le disse: «Adesso torna a casa e raccogli una ad una le piume che hai lasciato cadere venendo qui ». La donna gli fece osservare che era impossibile: il vento le aveva certamente disperse dappertutto nel frattempo. Ma qui l’aspettava san Filippo. «Vedi – le disse – come è impossibile raccogliere le piume, una volta sparse al vento, così è impossibile ritirare mormorazioni e calunnie una volta che sono uscite dalla bocca ».

Tornando al tema della correzione, dobbiamo dire che non sempre dipende da noi il buon esito nel fare una correzione (nonostante le nostre migliori disposizioni, l’altro può non accettarla, irrigidirsi); in compenso dipende sempre ed esclusivamente da noi il buon esito nel… ricevere una correzione. Infatti la persona che «ha commesso una colpa» potrei benissimo essere io e il «correttore» essere l’altro: il marito, la moglie, l’amico, il confratello o il padre superiore.

Insomma, non esiste solo la correzione attiva, ma anche quella passiva; non solo il dovere di correggere, ma anche il dovere di lasciarsi correggere. Ed è qui anzi che si vede se uno è maturo abbastanza per correggere gli altri. Chi vuole correggere qualcuno deve anche essere pronto a farsi, a sua volta, correggere. Quando vedete una persona ricevere un’osservazione e la sentite rispondere con semplicità: «Hai ragione, grazie per avermelo fatto notare!», levatevi tanto di cappello: siete davanti a un vero uomo o a una vera donna.

L’insegnamento di Cristo sulla correzione fraterna dovrebbe sempre essere letto unitamente a ciò che egli dice in un’altra occasione: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo?  (Lc 6, 41 s.).

Quello che Gesù ci ha insegnato circa la correzione può essere molto utile anche nell’educazione dei figli. La correzione è uno dei doveri fondamentali del genitore. «Qual è il figlio che non è corretto dal padre?», dice la Scrittura (Eb 12,7); e ancora: «Raddrizza la pianticella finché è tenera, se non vuoi che cresca irrimediabilmente storta». La rinuncia totale a ogni forma di correzione è uno dei peggiori servizi che si possano rendere ai figli e purtroppo oggi è frequentissima.

Solo bisogna evitare che la correzione stessa si trasformi in un atto di accusa o in una critica. Nel correggere bisogna piuttosto circoscrivere la riprovazione all’errore commesso, non generalizzarla, riprovando in blocco tutta la persona e la sua condotta. Anzi, approfittare della correzione per mettere prima in luce tutto il bene che si riconosce nel ragazzo e come ci si aspetta da lui molto. In modo che la correzione appaia più un incoraggiamento che una squalifica. Era questo il metodo usato da S. Giovanni Bosco con i ragazzi.

Non è facile, nei singoli casi, capire se è meglio correggere o lasciar correre, parlare o tacere. Per questo è importante tener conto della regola d’oro, valida per tutti i casi, che l’Apostolo dà nella seconda lettura: »Non abbiate nessun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole… L’amore non fa nessun male al prossimo». Agostino ha sintetizzato tutto ciò nella massima «Ama e fa’ ciò che vuoi ». Bisogna assicurarsi anzitutto che ci sia nel cuore una fondamentale disposizione di accoglienza verso la persona. Dopo, qualsiasi cosa si deciderà di fare, sia correggere che tacere, sarà bene, perché l’amore «non fa mai male a nessuno».

di Padre Raniero Cantalamessa

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Dio è il Padre che aspetta i suoi figli

Posté par atempodiblog le 10 juillet 2012

Dio è il Padre che aspetta i suoi figli
di Don Bruno Ferrero sdb
Tratto da: Don Bosco Torino

Dio è il Padre che aspetta i suoi figli dans Commenti al Vangelo

Una catechista aveva raccontato ai suoi ragazzi del catechismo la parabola del figliol prodigo, ma si era accorta che dopo un po’ molti si erano distratti. Allora aveva chiesto che gliene scrivessero il riassunto.

Uno di loro scrisse così: « Un uomo aveva due figli, quello più giovane però non ci stava volentieri a casa, e un giorno se ne andò via lontano, portandosi con sé tutti i soldi. Ma ad un certo punto questi soldi finirono e allora il ragazzo decise di tornare a casa perché non aveva neanche da mangiare. Quando stava per arrivare, suo padre lo vide e tutto contento prese un bel bastone e gli corse incontro. Per strada incontrò l’altro figlio, quello buono, che gli chiese dove stava andando così di corsa e con quell’arnese: « È tornato quel disgraziato di tuo fratello; dopo quel che ha fatto si merita un bel po’ di botte! ». « Vuoi che ti aiuti anch’io, papà? ». « Certo », rispose il padre.
E così, in due, lo riempirono di bastonate. Alla fine il padre chiamò un servo e gli disse di uccidere il vitello più grasso e di fare una grande festa, perché s’era finalmente tolto la voglia di suonargliele a quel figlio che gliel’aveva combinata proprio grossa! ».

Il bambino ha dimenticato la conclusione di Gesù e prosegue il racconto con la logica di quello che sente e vede ogni giorno. Perché capire la logica del cuore di Dio è difficile per tutti.
Quando le cose sono difficili da spiegare, Gesù racconta.
Per spiegare il cuore di Dio racconta la parabola che abbiamo ascoltato e che conosciamo così bene: la parabola del padre e dei due figli. Come di solito accade, il problema sono i figli!
Il figlio più giovane parte. Va a stare per conto suo. Se ne va di casa. Ma vuole la sua parte di eredità, che è come dire al padre: « Tu per me sei già morto! »

Il figlio più giovane è un gradasso fanfarone, ma in quanti modi più o meno sottili si preferisce starsene lontani da casa… Quanti « andar via di casa » spirituali!
Andarsene da casa significa ignorare la verità che Dio mi ha « formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra e tessuto nel seno di mia madre ».
Andarsene da casa è lasciare il centro del mio essere dove si può udire la voce che dice: « Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto ».
In qualche modo si diventa sordi alla voce che ci chiama « figlio prediletto ».

Qui la domanda in questione è la seguente: dovendo scegliere tra Dio e questo mondo, chi scelgo?
Quanti sono i figli di Dio che scelgono la via del mondo, lontano da quella casa in cui magari soo cresciuti?
Sotto tutto questo c’è la grande ribellione, il « no » radicale all’amore del Padre, la maledizione non detta: « Ti vorrei morto! » Caro Dio, vorrei tanto che tu non esistessi.

André Comte-Sponville scrive: « Non ho solo ricevuto un’educazione cristiana; ho creduto in Dio, di una fede ardente anche se attraversata dal dubbio, fino a più o meno diciott’anni. Poi l’ho perduta, ed è stato come una liberazione: tutto è divenuto più semplice, più leggero, più aperto, più forte! Come essere uscito dall’infanzia, dai suoi sogni e dalle sue paure, dai suoi sudori freddi e dai suoi languori, come se finalmente facessi il mio ingresso nel mondo reale, quello degli adulti, dell’azione, della verità senza perdono né Provvidenza. E che libertà! Che responsabilità! Che gioia! Sì, ho la sensazione di vivere meglio – più lucidamente, più liberamente, più intensamente – da quando sono ateo ».
Il « no » del figlio prodigo riflette la ribellione originale.

Il figlio maggiore, da buon primogenito, è migliore?
In realtà è più « partito » dell’altro…
Esteriormente fa tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si è allontanato da suo padre. Fa il proprio dovere, lavora sodo ogni giorno e adempie tutti i suoi obblighi, ma è diventato sempre più infelice e meno libero.
Perduto nel risentimento.
Lo stare con il Padre è come un peso che grava sulle spalle: « Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito ad un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici »
E’ diventato un estraneo in casa sua! Non c’è più autentica comunione.
In questo lamento, l’obbedienza e l’amore sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.
Molti figli e figlie maggiori si sono perduti rimanendo sempre a casa. Questo smarrimento è caratterizzato dalla facilità a giudicare e condannare, dalla rabbia e dal risentimento, dall’amarezza e
dalla gelosia: è dannoso e devastante per il cuore dell’uomo.
Il peccato del figlio minore è facile da capire
Lo smarrimento del figlio maggiore, invece, è molto più difficile da identificare. Dopo tutto fa le cose per bene.
C’è tanto risentimento tra i giusti e i retti. C’è tanta facilità a giudicare, condannare. Esistono tanti pregiudizi tra i « santi ». Senza gioia.
La domanda in questione è « Perché io non sono felice nella casa del Signore? »

Il figlio minore ritorna. Gli amici lo avevano tenuto in considerazione soltanto finché era stato utile ai loro interessi.
Una voce che piange dentro… A casa! Rivendicare la condizione di figlio.
Mentre cammina verso la meta, continua a nutrire dubbi: sarò veramente bene accolto una volta arrivato? La fede nel perdono totale e assoluto non arriva subito.
E’ come dire: « Beh, non ce l’ho fatta da solo devo riconoscere che Dio è l’unica risorsa che mi è rimasta. Andrò chiederò perdono nella speranza di ricevere una punizione minore »
Si accontenta di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribellarmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga.

Ma Gesù dice espressamente che la via verso Dio è identica a quella verso una nuova infanzia. « Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli » e a Nicodemo: « Bisogna rinascere! »
Diventare un bambino significa vivere una seconda innocenza: non l’innocenza del neonato, ma l’innocenza a cui si arriva attraverso scelte consapevoli.
Come possono essere descritti coloro che sono giunti a questa seconda infanzia, a questa seconda innocenza? Gesù lo dice molto chiaramente: sulla montagna, raduna i discepoli intorno a sé e dice: beati i poveri. beati i miti, beati gli afflitti, beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati i misericordiosi, beati i puri di cuore, beati gli operatori di pace, beati i perseguitati per causa della giustizia. Le Beatitudini sono la meta del cristiano.

E il figlio maggiore? Entrerà? E’ disposto ad ammettere di non essere migliore del fratello? E’ molto più difficile per il figlio maggiore tornare a casa, capire.
Anche se il Padre va incontro al figlio maggiore proprio come ha fatto con il figlio più giovane:

« Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo »

E’ una dichiarazione di amore incondizionato.
Proprio quello che Dio afferma in Isaia: « Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani ».
Sono le parole di Gesù che riflettono l’amore materno di Dio: « Gerusalemme, Gerusalemme . . . quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli sotto le ali, e voi non avete voluto! »

La domanda non è « come posso conoscere Dio? », ma « come posso farmi conoscere da Dio? ».
E, infine, la domanda non è « come posso amare Dio? » Ma « come posso lasciarmi amare da Dio? »
In tutte e tre le parabole che Gesù racconta per rispondere alla domanda del perché egli mangi con i peccatori pone l’accento sull’iniziativa di Dio.
Dio è il pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita.
Dio è la donna che accende la lucerna, spazza la casa cerca ovunque la dramma perduta finché non la ritrova.
Dio è il padre che veglia e aspetta i suoi figli,
Può suonare strano, ma Dio vuole trovare me, se non di più, perlomeno quanto io voglio trovare lui.
Si, Dio ha bisogno di me quanto io ho bisogno di lui.
Un invito alla gioia: vuole che tutti vi partecipino. E’ l’ultima cena. E’ il Paradiso.

Non perdiamo troppo tempo a identificarci con l’uno o con l’altro dei figli: andiamo, facciamo il viaggio!
Diciamo: « Sono qui! Sono tornato! »
Noi vogliamo toccare Dio. Ma Dio ci tocca a sua volta?
Dio fa di più: ci accoglie in un abbraccio eterno!
Tutti sappiamo che cosa significa essere abbracciati e abbracciare.

« Una bambina consegnò alla maestra un foglietto su cui aveva scritto la sua personale « ricetta della vita ». Diceva:
« Ci vogliono quattro abbracci al giorno per sopravvivere;
ci vogliono otto abbracci al giorno per tirare avanti;
ci vogliono dodici abbracci al giorno per crescere ».

Conosciamo tutti quell’abbraccio speciale che dice: « Non è niente! E’ tutto passato! Coraggio… »
Così è l’abbraccio di Dio che possiamo provare concretamente nel Sacramento della Riconciliazione.

Ancora un passo dobbiamo fare: prendere sul serio le parole di Gesù riportate in Luca 6, 36: « Siate anche voi (misericordiosi) pieni di bontà, così come Dio, vostro Padre, è (misericordioso) pieno di bontà ».
Dobbiamo diventare il Padre. Se Dio perdona i peccatori, anche coloro che hanno fede in Dio dovrebbero fare lo stesso.
Diventare come il Padre celeste non è solo un aspetto importante dell’insegnamento di Gesù, ma è il cuore stesso del suo messaggio. Possiamo essere come lui, amare come lui, essere buoni come lui, prenderci cura degli altri come lui. Gesù è categorico su questo punto quando dichiara: « Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso ».
Soltanto i cristiani possiedono la logica del perdono.

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L’incredulità di Tommaso

Posté par atempodiblog le 14 avril 2012

L’incredulo Tommaso che ha bisogno di vedere e toccare per poter credere, mette la sua mano nel fianco aperto del Signore e, nel toccare, conosce l’intoccabile e lo tocca realmente, guarda all’invisibile e lo vede veramente: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28) [...] Noi siamo tutti come Tommaso, l’incredulo, ma noi tutti, come lui, possiamo toccare lo scoperto cuore di Gesù; ed in esso toccare, guardare il Logos stesso, così, mano e cuore rivolti a questo cuore, giungere alla confessione: “Mio Signore e mio Dio”.

Joseph Ratzinger – Guardare al crocifisso

L'incredulità di Tommaso dans Commenti al Vangelo L-incredulit-di-Tommaso

“Tu hai creduto perché hai visto” – dice Gesù a Tommaso – “beati coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente] hanno creduto”. E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero “credere senza vedere”, ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare il riferimento indica proprio Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo dopo che le donne avevano raccontato l’incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù Cristo era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota, e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte, e pur nell’esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere. La frase di Gesù “beati quelli che pur senza aver visto [me] hanno creduto” rinvia proprio al “vidit et credidit” riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è la richiesta di una fede cieca, è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili. L’imprecisione introdotta dai traduttori riguardo al tempo dei verbi usati da Gesù è servita a cambiare il senso delle sue parole e a riferirle non più a Giovanni e agli altri discepoli, ma ai credenti futuri. E’ passata così inconsapevolmente l’interpretazione del teologo esegeta protestante Rudolf Bultmann,che traduceva i due verbi del passo al presente (“Beati coloro che non vedono e credono”) per presentarla “come una critica radicale dei segni e delle apparizioni pasquali e come un’apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore” (Donatien Mollat). Mentre è esattamente il contrario. “Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede”.
Per approfondire Freccia dans Viaggi & Vacanze Non è la richiesta di una fede cieca


“I discepoli sono pieni di gioia «alla vista del Signore». Diranno a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore». Lo avevano riconosciuto prima che aprisse bocca, perché avevano accettato la testimonianza della Maddalena. E’ molto importante saper accettare una cosa su testimonianza. Ciò che Tommaso non fa. Lui diffida della testimonianza dei suoi amici. Gesù voleva educare il loro sguardo così: la prima tappa è il vedere fisico, i segni, quindi il vedere su testimonianza, infine vedere e contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito che permette di cogliere il senso delle cose, tutta la profondità della realtà”.
Per approfondire Freccia dans Viaggi & Vacanze Guardare per credere

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Papa: La violenza, strumento dell’anticristo, disumanizza l’umanità. Gesù inaugura il nuovo culto dell’amore

Posté par atempodiblog le 11 mars 2012

Papa: La violenza, strumento dell’anticristo, disumanizza l’umanità. Gesù inaugura il nuovo culto dell’amore
All’Angelus Benedetto XVI spiega che Gesù non è un politico rivoluzionario. Il suo zelo non è simile a quello degli zeloti, ma è quello « dell’amore che paga di persona ». Con la Pasqua Gesù inaugura un nuovo culto, quello dell’amore, e un nuovo tempio che è Lui stesso. Appello per la popolazione del Madagascar, colpita da cicloni e tempeste tropicali, che hanno fatto centinaia di vittime e oltre 300mila senzatetto.
Fonte: AsiaNews

Papa: La violenza, strumento dell'anticristo, disumanizza l'umanità. Gesù inaugura il nuovo culto dell'amore dans Anticristo

« La violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza »; « è impossibile interpretare Gesù come un violento »: è quanto Benedetto XVI ha affermato oggi nel sua riflessione prima dell’Angelus con i pellegrini in piazza san Pietro, commentando il vangelo della terza domenica di Quaresima, che propone l’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio di Gerusalemme (Giov. 2, 13-25).

In passato, diversi teologi hanno dedotto da questo fatto l’urgenza per i cristiani di impegnarsi in azioni rivoluzionarie violente.

« La cacciata dei venditori dal tempio – ha spiegato il papa –  è stata anche interpretata in senso politico rivoluzionario, collocando Gesù nella linea del movimento degli zeloti. Questi erano, appunto, « zelanti » per la legge di Dio e pronti ad usare la violenza per farla rispettare. Ai tempi di Gesù attendevano un Messia che liberasse Israele dal dominio dei Romani. Ma Gesù deluse questa attesa, tanto che alcuni discepoli lo abbandonarono e Giuda Iscariota addirittura lo tradì. In realtà, è impossibile interpretare Gesù come un violento: la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza ».

« Ascoltiamo allora – ha aggiunto –  le parole che Gesù disse compiendo quel gesto: ‘Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!’. E i discepoli allora si ricordarono che sta scritto in un Salmo: ‘Mi divora lo zelo per la tua casa’ (69,10). Questo salmo è un’invocazione di aiuto in una situazione di estremo pericolo a causa dell’odio dei nemici: la situazione che Gesù vivrà nella sua passione. Lo zelo per il Padre e per la sua casa lo porterà fino alla croce: il suo è lo zelo dell’amore che paga di persona, non quello che vorrebbe servire Dio mediante la violenza. Infatti il ‘segno’ che Gesù darà come prova della sua autorità sarà proprio la sua morte e risurrezione. ‘Distruggete questo tempio – disse – e in tre giorni lo farò risorgere’. E san Giovanni annota: « ‘Egli parlava del tempio del suo corpo’ (Gv 2,20-21). Con la Pasqua di Gesù inizia un nuovo culto, il culto dell’amore, e un nuovo tempio che è Lui stesso, Cristo risorto, mediante il quale ogni credente può adorare Dio Padre ‘in spirito e verità’ (Gv 4,23). Cari amici, lo Spirito Santo ha iniziato a costruire questo nuovo tempio nel grembo della Vergine Maria. Per sua intercessione, preghiamo perché ogni cristiano diventi pietra viva di questo edificio spirituale ».

Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI ha lanciato un appello per la popolazione del Madagascar, colpita nelle ultime settimane dal ciclone Giovanna (13 febbraio)  e dalla tempesta tropicale Irina (26 febbraio – 2 marzo) che ha fatto centinaia di vittime e ha distrutto le case di oltre 30mila persone. « Il mio pensiero – ha detto il papa – va anzitutto alle care popolazioni del Madagascar, che recentemente sono state colpite da violente calamità naturali, con gravi danni alle persone, alle strutture e alle coltivazioni. Mentre assicuro la mia preghiera per le vittime e per le famiglie maggiormente provate, auspico e incoraggio il generoso soccorso della comunità internazionale ».

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I mercanti nel tempio

Posté par atempodiblog le 11 mars 2012

I mercanti nel tempio dans Commenti al Vangelo

Durante l’ingresso a Gerusalemme, la gente rende omaggio a Gesù come figlio di Davide con le parole del Salmo 118 [117] dei pellegrini: « Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli! » (Mt 21, 9). Poi Egli arriva al tempio. Ma là dove doveva esservi lo spazio dell’incontro tra Dio e l’uomo, Egli trova commercianti di bestiame e cambiavalute che occupano con i loro affari il luogo di preghiera. Certo, il bestiame lì in vendita era destinato ai sacrifici da immolare nel tempio. E poiché nel tempio non si potevano usare le monete su cui erano rappresentati gli imperatori romani che stavano in contrasto col Dio vero, bisognava cambiarle in monete che non portassero immagini idolatriche. Ma tutto ciò poteva essere svolto altrove: lo spazio dove ora ciò avveniva doveva essere, secondo la sua destinazione, l’atrio dei pagani. Il Dio d’Israele, infatti, era appunto l’unico Dio di tutti i popoli. E anche se i pagani non entravano, per così dire, nell’interno della Rivelazione, potevano tuttavia, nell’atrio della fede, associarsi alla preghiera all’unico Dio. Il Dio d’Israele, il Dio di tutti gli uomini, era in attesa sempre anche della loro preghiera, della loro ricerca, della loro invocazione. Ora, invece, vi dominavano gli affari – affari legalizzati dall’autorità competente che, a sua volta, era partecipe del guadagno dei mercanti. I mercanti agivano in modo corretto secondo l’ordinamento vigente, ma l’ordinamento stesso era corrotto. « L’avidità è idolatria », dice la Lettera ai Colossesi (cfr 3, 5). È questa l’idolatria che Gesù incontra e di fronte alla quale cita Isaia: « La mia casa sarà chiamata casa di preghiera » (Mt 21, 13; cfr Is 56, 7) e Geremia: « Ma voi ne fate una spelonca di ladri » (Mt 21, 13; cfr Ger 7, 11). Contro l’ordine interpretato male Gesù, con il suo gesto profetico, difende l’ordine vero che si trova nella Legge e nei Profeti.

Tutto ciò deve oggi far pensare anche noi come cristiani: è la nostra fede abbastanza pura ed aperta, così che a partire da essa anche i « pagani », le persone che oggi sono in ricerca e hanno le loro domande, possano intuire la luce dell’unico Dio, associarsi negli atri della fede alla nostra preghiera e con il loro domandare diventare forse adoratori pure loro? La consapevolezza che l’avidità è idolatria raggiunge anche il nostro cuore e la nostra prassi di vita? Non lasciamo forse in vari modi entrare gli idoli anche nel mondo della nostra fede? Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario?

Benedetto XVI

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Il pericolo che corrono le persone pie

Posté par atempodiblog le 10 mars 2012

La parabola dei due fratelli (il figlio prodigo e il figlio rimasto a casa) e del padre buono (Lc 15,11-31)

Il pericolo che corrono le persone pie dans Commenti al Vangelo

In Gesù il discorso sul fratello maggiore, appunto, non ha semplicemente di mira Israele (anche i peccatori che si recavano da Lui erano ebrei), ma il pericolo specifico dei pii, di coloro che con Dio sono in regola, “en règle”, come si esprime Grelot (p. 229) mettendo in risalto la breve frase: “Non ho mai trasgredito un tuo comando”. Per loro, Dio è soprattutto Legge; si vedono in rapporto giuridico con Dio e sotto questo aspetto sono alla pari con Lui. Ma Dio è più grande: devono convertirsi dal Dio Legge al Dio più grande, al Dio dell’amore. Allora non abbandoneranno la loro obbedienza, ma essa verrà da fonti più profonde e perciò sarà più grande, più sincera e pura, ma soprattutto anche più umile.
Aggiungiamo, come ulteriore punto di vista, una cosa già accennata prima: nell’amarezza interiore per l’obbedienza prestata, che denuncia i limiti di tale obbedienza: dentro di sé, in fondo, avrebbero gradito anch’essi di andarsene verso la grande libertà. C’è un’invidia nascosta per quello che l’altro ha potuto permettersi. Non hanno percorso il cammino che ha purificato il fratello più giovane e gli ha fatto conoscere che cosa significa la libertà. Che cosa significa essere figlio.
Gestiscono la loro libertà, in definitiva, come una schiavitù e non sono maturi fino al vero essere di figli.
Anche loro hanno ancora bisogno di un cammino; possono trovarlo se semplicemente danno ragione a Dio, accettando la sua festa come fosse anche la loro.
In questo modo, con la parabola il Padre attraverso Cristo parla a noi che siamo rimasti a casa, perché anche noi ci convertiamo per davvero e gioiamo della nostra fede.

Tratto da: Gesù di Nazaret, Ed. Rizzoli – Benedetto XVI

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Commento di Don Dolindo Ruotolo al Vangelo di oggi

Posté par atempodiblog le 9 février 2012

Commento di Don Dolindo Ruotolo al Vangelo di oggi dans Antonio Socci don-Dolindo

[…] C’è però un episodio del Vangelo – uno solo (Mt 15,21 – 28) – in cui Gesù sembra rispondere addirittura con durezza a una dolorosa implorazione dell’uomo. Una durezza che in Gesù è del tutto insolita. Come si spiega? Che cosa nasconde? E come finisce quell’episodio? E’ una pagina che in genere viene fraintesa. Invece è estremamente significativa. (Antonio Socci)

Cliccare per approfondire Freccia dans Commenti al Vangelo Non siamo degli abbandonati nel mondo

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Natività di Gesù. Il censimento contestato

Posté par atempodiblog le 30 décembre 2011

Secondo alcuni studiosi, l’evangelista Luca sarebbe caduto in errore a proposito del censimento di Quirinio. Ma un’analisi più attenta conferma la storicità del racconto: i censimenti furono due, e il primo è proprio quello che portò la Sacra Famiglia a Betlemme
di Marta Sordi - Il Timone

Contemplazione: la Natività dans Fede, morale e teologia Nativit

Uno dei problemi che ha fatto più discutere gli studiosi a proposito del racconto evangelico della nascita di Gesù è il censimento di Quirinio, per il quale Giuseppe e Maria dovettero recarsi a Betlemme (Lc 2,1). Publio Sulpicio Quirinio, originario di Lanuvio (uno dei castelli romani) era ben noto a Tacito (“Annales” III, 48) per il consolato nel 12 a.C. e per la campagna contro gli Omonadensi di Cilicia, per la quale ottenne il trionfo. Quirinio condusse nel 6 d.C. un censimento in Siria e in Giudea (Giuseppe Flavio, “Antichità Giudaiche”, XVII, 355; XVIII, 1). Di una legazione di Quirinio in Siria e di un censimento condotto sotto di lui parla un’iscrizione (“Corpus inscriptionum Latinarum” III, 6687) di un certo Q. Emilio. E a Quirinio si riferisce, con molta probabilità, un’iscrizione di Tivoli, acefala (“Corp. Inscr. Lat.” XIV, 3613), a proposito di un personaggio che, come ‘legatus’ di Augusto ottenne ‘iterum’ la Siria e la Fenicia; ottenne cioè una duplice legazione imperiale in quelle province.

Secondo alcuni studiosi, il censimento di cui parla Luca sarebbe quello del 6 d.C.; ma Luca (1,5) e Matteo (2,1) sono anche concordi nell’affermare che Gesù nacque prima della morte di Erode, che secondo Giuseppe Flavio morì nel 4 a.C. Luca sarebbe dunque caduto in una grave contraddizione, riferendosi al censimento del 6 d.C.

Si è tentato di spostare, anche di recente, la morte di Erode, ipotizzando un presunto errore di Giuseppe Flavio, così da far nascere Gesù nell’anno zero, secondo l’affermazione fatta nel VI secolo d.C. da Dionigi il Piccolo. Ma questa ipotesi non è stata accolta in generale dagli studiosi, e in ogni caso non risolve il problema del censimento. Bisogna piuttosto tener conto che Luca, aderente al metodo scientifico della storiografia classica, dà molto peso alla precisione cronologica e parla di un « primo censimento » (2,2 “apographé prote”) nell’epoca in cui Quirinio era governatore (legato della Siria: “eghemoneuontos”). Un censimento rivolto non alla sola Siria, ma a tutta l’ecumene, cioè all’impero e ai regni vassalli. E Luca sembra ben consapevole di una distinzione di questo censimento da quello del 6 d.C., del quale per altro appare informato (At 5,37). Tertulliano (“Adv. Marcionem” 4,19) parla di un censimento fatto in Giudea da Senzio Saturnino. Quest’ultimo fu governatore di Siria fin verso al 7 a.C. e fu poi impegnato, probabilmente, nella guerra per la successione del trono di Armenia.

Allora, ecco quale sembra l’ipotesi più probabile: che il censimento, iniziato da Senzio Saturnino, sia poi stato continuato da Quirinio quando questo – certamente prima del 6 a.C. – aveva finito la guerra contro gli Omonadensi e reggeva temporaneamente la legazione di Siria (l’iscrizione di Tivoli dice infatti ‘iterum’). La nascita di Gesù sembra pertanto spettare al 6/7 a.C., l’epoca a cui ci porta anche la triplice congiunzione fra Saturno e Giove, evento previsto dagli astrologi orientali e tale da spiegare la venuta dei Magi. A questa venuta, e all’attesa di un re messianico – presente in questi anni in tutto l’Oriente – è collegata in Matteo la strage degli Innocenti, compiuta da Erode nei confronti dei bambini di Betlemme, «nati dai due anni in giù» (Mt 2,16), in base al calcolo dei Magi. Anche di questo fatto – di cui non parlano altre fonti – si è dubitato in nome del solito concetto della inverosimiglianza. Ma noi siamo a conoscenza di stragi terribili compiute e progettate da Erode negli ultimi anni della sua vita, delitti che facevano dire ad Augusto che era meglio essere un porco di Erode piuttosto che un figlio, con palese allusione all’uccisione dei figli Alessandro e Aristobulo, e alla somiglianza, in greco, dei termini indicanti figlio e porco. Di più: c’è un’interessante notizia di Iulius Marathus, liberto di Augusto e autore di una sua biografia, che è citato due volte da Svetonio: circa la statura dell’imperatore (“Divi Aug.” 79,2); e (94,3) a proposito di un prodigio che sarebbe avvenuto pochi mesi prima della nascita di Augusto, prodigio che annunciava la nascita di un re. Marathus racconta che il Senato, spaventato di fronte a questa notizia, aveva stabilito che nessun maschio nato in quell’anno fosse allevato, ma aggiunge che i senatori che avevano le mogli incinte avevano impedito la pubblicazione del senatoconsulto. La notizia di Marathus è certamente falsa per ciò che concerne il senatoconsulto: a Roma certe cose non avvenivano. Ma è interessante osservare la singolare coincidenza dei due racconti. Per chi ritiene che i Vangeli siano elaborazioni tarde, il racconto di Marathus potrebbe essere il modello di Matteo, come in passato qualcuno aveva ritenuto assurdamente che la cena di Betania di Marco fosse stata imitata dalla cena di Trimalcione di Petronio. In questo caso, però, è stato dimostrato il contrario: e cioè, che era Petronio a conoscere il Vangelo di Marco, e non viceversa. Nel caso di Marathus, un orientale, probabilmente originario della Siria o della Palestina, il modello non è certo Matteo, ma potrebbe essere – a mio avviso – un fatto reale che egli sapeva avvenuto all’epoca di Augusto, dalle sue parti, sotto Erode.

L’attendibilità storica dei Vangeli di Luca e di Matteo sul problema del censimento e sulla strage degli innocenti induce a riproporre la storicità dei Vangeli dell’infanzia, messa spesso in discussione anche da coloro che credono alla sostanziale storicità dei Vangeli, ma preferiscono spiegare col ricorso a simboli o richiami all’Antico Testamento, o, addirittura, in chiave teologica i racconti che Luca e Matteo ci danno sulla nascita di Gesù, fondandosi soprattutto sul carattere miracoloso di questi racconti (nascita verginale, annunzio ai pastori e la stella che guida i Magi), che il razionalismo imperante vuole evitare. Ma per lo storico, l’attendibilità del racconto non si basa sul verosimile, che può essere falso, ma sul probabile, cioè su ciò di cui si possono presentare testimonianze valide. E i Vangeli dell’infanzia, così diversi nei particolari riportati, ma così concordi nell’impostazione di fondo, e tali da presupporre testimoni diversi ed esperienze diverse, ma non contrastanti (i parenti di Giuseppe, per Matteo; i ricordi personali di Maria, per Luca), costituiscono la verifica più convincente di ciò che sosteneva Tucidide (1,22) quando osservava che testimoni oculari diversi raccontavano in modo diverso le stesse cose. Il rifiuto del miracolo, del ‘paradoxon’, nasce da una precomprensione filosofica e ideologica, non dalla corretta applicazione del metodo storico.

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Figli di Dio non si nasce. Si diventa

Posté par atempodiblog le 9 décembre 2011

Figli di Dio non si nasce. Si diventa
L’articolo che qui ripubblichiamo può essere riassunto nelle due prime risposte del Catechismo maggiore di san Pio X: «Siete voi cristiano? Sì, io sono cristiano per grazia di Dio. Perché dite voi: per grazia di Dio? Io dico: per grazia di Dio, perché l’essere cristiano è un dono tutto gratuito di Dio, che noi non abbiamo potuto meritare
»
Tratto da: 30Giorni

Figli di Dio non si nasce. Si diventa dans Commenti al Vangelo Cappella-Brancacci-Battesimo-dei-neofiti
Masaccio Il battesimo dei neofiti, nella Cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze

La Chiesa ha da poco celebrato col santo Natale la nascita nel tempo dell’unigenito eterno Figlio di Dio. Secondo una teologia sempre più diffusa, con l’incarnazione del Figlio deriverebbe in maniera automatica l’attribuzione immediata a ogni uomo della figliolanza divina. Nel senso che ogni uomo, che lo sappia o no, che lo accetti o no, vive già radicalmente in Cristo. Secondo tale teologia, Cristo, prima ancora di essere il capo della Chiesa, è il capo di tutto il creato. Ogni uomo gli appartiene prima ancora di essere raggiunto e trasformato dal suo Spirito.

Questa concezione pretende trovare un avallo nell’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui «considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi» (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes dell’ultimo Concilio: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (22). Ma se si togliessero dalla frase della Summa theologica e dalla frase della Gaudium et spes gli incisi «secondo gradi diversi» e «in certo modo» non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica.
Se, con l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza: la missione della Chiesa nel mondo sarebbe solo quella di far prendere coscienza a tutti gli uomini di questa salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, “l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano anonimo”.
Già Erik Peterson, il famoso esegeta tedesco convertitosi alla Chiesa cattolica dal luteranesimo, nel suo saggio del 1933 Die Kirche aus Juden und Heiden (La Chiesa composta da Giudei e da Gentili), commentando i capitoli 9-11 della lettera di san Paolo ai Romani, spiegava che non può esserci un cristianesimo ridotto all’ordine meramente naturale, in cui gli effetti della redenzione operata da Gesù Cristo verrebbero trasmessi geneticamente, per via ereditaria, a ogni uomo, per il solo criterio di condividere con il Verbo incarnato la natura umana. La figliolanza divina non è l’esito automatico garantito dall’appartenenza al genere umano. La figliolanza divina è sempre un dono gratuito della grazia, non può prescindere dalla grazia donata gratuitamente nel battesimo e riconosciuta e accolta nella fede. Un brano di san Leone Magno, letto nella liturgia dell’Avvento, chiarisce con precisione il rapporto tra l’incarnazione e il battesimo: «Se colui, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura. A causa di questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi il sacramento della rigenerazione, perché, in virtù dello stesso Spirito per opera del quale fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale». E sant’Agostino nel De civitate Dei scrive: «La natura corrotta dal peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste. Perciò i primi sono chiamati vasi d’ira; gli altri sono chiamati vasi di misericordia. Se ne ha un simbolo anche nei due figli di Abramo. L’uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava Agar, l’altro, Isacco, nacque secondo la promessa da Sara, che era libera. Entrambi sono stirpe di Abramo, ma un rapporto puramente naturale ha fatto nascere il primo, invece la promessa che è segno della grazia ha donato il secondo. Nel primo caso si rivela un comportamento umano, nel secondo caso si rivela la grazia di Dio».
Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede («Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», Gv 15, 16).
Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1, 12) che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3, 1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1Gv 3, 6-9; 1Gv 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così “impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono significativi soprattutto i primi due passi sopra citati.
Nel Prologo (Gv 1, 12-14), Giovanni scrive: «A quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato. Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito venuto da presso il Padre pieno della grazia della verità».
È importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo divenire, sul quale i commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è «generati dall’alto», cioè quando si è «generati dall’acqua e dallo Spirito». E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo e la fede ci introducono in una nuova dinamica dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo nella nostra esistenza. Questo tesoro fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. È piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l’immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria.
L’altro termine chiave del brano del Prologo è la parola potere, che indica anch’essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di natura, ma per la fede. È la fede il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi «crede nel suo nome». Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel «credere nel nome del Figlio unigenito di Dio» (Gv 3, 18). Ne segue che la nostra figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si è manifestato tra noi come «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepoli. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua a operare nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli dà (cfr. Gv 17, 2).
Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l’insistenza sull’azione dello Spirito Santo nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: «Se uno non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Quindi la via d’accesso al diventare «figli nel Figlio» è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell’acqua).
Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione.
Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un’entità separata e indipendente, che opera nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione di Gesù Cristo Figlio di Dio.
Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: «Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito». E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla Samaritana: «“Bisogna adorare nello Spirito e nella verità” (Gv 4, 23) chiaramente definendo se stesso “la verità”».
Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo Spirito «insegnerà», facendo ricordare quello che ha detto Gesù (Gv 14, 26); «renderà testimonianza» a Gesù (Gv 15, 26); «non parlerà da sé stesso, ma dirà quello che ascolta» (Gv 16, 13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità («Lo Spirito ispira dove vuole», Gv 3, 8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l’insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è «lo Spirito della verità» (Gv 15, 26; Gv 16, 13), quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: «Io sono la verità» (Gv 14, 6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso la verità intera (Gv 16, 13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: «Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue» (48).
Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio «la fede che abbiamo ricevuto» è un «dono dall’Alto senza nostro merito».
L’esperienza della figliolanza è invece tutta piena solo di gratitudine, per il dono immeritato, e di speranza nei confronti di tutti. Per cui non si tratta di giudicare i miscredenti, i lontani, o addirittura quelli che possono sembrare avversari. Anche perché ognuno di loro può, quando meno se lo aspetta, incontrare il fatto cristiano. Come scriveva Charles Péguy, commentando un verso di Corneille, «Dio tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta. È la formula stessa del morso, è la formula dell’attacco, del colpo, della penetrazione della grazia. Ma essa implica anche che colui che vi pensa, che ha l’abitudine di pensarci, che è ricoperto dallo strato dell’abitudine è anche colui che si espone di meno e per così dire dà meno possibilità alla presa».
Questa gratitudine non giudica nessuno, ma è magnanima e misericordiosa anche davanti all’errore e al peccato. Come accadde a san Francesco Saverio, il discepolo prediletto che Ignazio di Loyola aveva mandato a evangelizzare il lontano Oriente. Davanti ai peccati anche turpi dei pagani, Francesco Saverio si stupiva che senza la fede, i sacramenti e la preghiera filiale non ne facessero di più gravi. Come scrive in una lettera inviata ai suoi compagni da Cochin, nel 1552: «Io non mi meraviglio per i peccati che esistono fra bonzi e bonze, quantunque ve ne siano in grande quantità. Anzi, mi meraviglio che non ne facciano più di quelli che fanno…».

di Padre Ignace de la Potterie

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Il paradosso dell’Incarnazione

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2011

Il paradosso dell'Incarnazione dans Commenti al Vangelo Annunciazione

[...] Come ha detto J. Guitton, se il Figlio li Dio si è incarnato «in un solo tempo, in un solo punto, Cristo ha dato a quel tempo, a quel luogo, a quel punto, un valore infinito» (L’absurde et le mystère, p. 43). Se l’incarnazione è la ierofania suprema, la vita di Gesù non è più appena un evento storico particolare, transitorio; acquista invece un significato universale e permanente per tutti gli uomini di tutti i tempi.
Così viene superata l’obiezione razionalistica di Lessing, al tempo dell’Illuminismo, e che alcuni ancor oggi condividono; Lessing diceva: «Delle verità storiche, a carattere contingente, non potranno mai diventare le prove di verità razionali, a carattere necessario». Non potranno mai, diceva Lessing.
Questo non è più vero, giacché in un momento della storia, nella vita contingente di Gesù si è manifestato l’Assoluto, la trascendenza di Dio.
E’ falsa dunque anche un’altra affermazione di Lessing secondo cui tra il momento storico di Gesù e noi, il tempo e lo spazio hanno spalancato un abisso invalicabile: non è così, perché il Gesù reale non è solo quello del passato, l’uomo di Nazareth; per comprendere il vero Gesù quello dei Vangeli, dobbiamo, come diceva san Gregorio Magno, «alzarci dalla storia al mistero» (In Ezech. 1,6-3), perché la sacra scrittura, «quando racconta una storia, manifesta un mistero» (Mor., XX,1,1); dobbiamo quindi alzarci dalla storia di Gesù al mistero di Cristo: egli sovrasta il tempo e lo spazio; il Gesù della storia, certo, è lontano da noi; non così il Cristo, nella pienezza del suo mistero: egli è al di sopra dei limiti della storia; egli è vicino a noi, rimane presente a ciascuno di noi; con Soren Kierkegaard il filosofo dell’esistenzialismo, possiamo e dobbiamo dire che noi, cristiani, siamo veramente contemporanei di Cristo; lo scriveva [...] anche Mons. Giussani: «Che Cristo sia veramente presente nella nostra esistenza, questo è proprio la sostanza, il contenuto impressionante, l’eccezionalità del Cristianesimo».
E perciò ci rivolgeva l’invito a fare «l’esperienza del Mistero presente. Mistero, cioè il cuore ultimo delle cose; Presente, diventato Uomo» [...].

di Padre Ignace  de la Potterie
Tratto da: Tracce

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Vangeli: al centro la storia

Posté par atempodiblog le 9 novembre 2011

I Vangeli sono testimonianze fondate storicamente. Luca si rifà apertamente alla storiografia scientifica greca. Ma tutto il Nuovo Testamento ha valenza storica. Lo prova l’utilizzo che fa del concetto di martirio.
di Marta Sordi

Vangeli: al centro la storia dans Articoli di Giornali e News Marta-Sordi

La storia deriva, come concetto e come metodo, dall’esperienza e dalla civiltà dei Greci: historia significa, in greco, l’indagine tesa all’accertamento del fatto e la storia è, per i Greci, storia di fatti (tà pragmata).
Erodoto distingue le notizie che conosce per esperienza diretta (autopsia) da quelle che conosce per il racconto di testimoni o per sentito dire; Tucidide va oltre ed insiste sulla critica (akribeia) a cui ogni testimonianza va sottoposta, perché « gli stessi fatti sono narrati in modo diverso da testimoni diversi » e lo storico deve prendere coscienza della deformazione che avviene per « eunoia » o per « mneme », per la tendenziosità del testimone o per la sua memoria.
Già la terminologia usata dai Greci rivela lo stretto collegamento che la ricerca storica ha con l’indagine processuale: « histor » è in Omero l’arbitro scelto fra due contendenti per ascoltare e valutare le versioni dell’uno e dell’altro e per accertare il fatto; « martys », « martyrion », « martyria » e i verbi corrispondenti indicano il testimone, la prova, la testimonianza e sono largamente usati dagli oratori attici e dagli storici: perché la storia è una narrazione fondata su testimonianze e prove, una narrazione che deve dare ragione di ciò che narra, a differenza della favola, dell’epica, del romanzo, che come la storia narrano, ma ciò che non è mai avvenuto o che può avvenire, non ciò che è avvenuto: la storia narra il probabile, ciò di cui si possono fornire le prove, e che può essere anche inverosimile, non il possibile o il verosimile.
Questa distinzione era già chiara ad Aristotele e a Polibio e spiega il ricorso frequente negli storici (da Erodoto a Tucidide, a Senofonte, a Polibio, a Diodoro, a Dione Cassio), al concetto di « martyrion » come prova: in II, 22, 2 Erodoto dichiara incredibile che il Nilo nasca dallo scioglimento delle nevi e ritiene « proton kai meghiston martyrion », prova fondamentale della sua affermazione, i venti caldi che soffiano dalle zone da cui il Nilo deriva; Tucidide (I, 8,1) afferma che la prova (« martyrion ») che gli isolani dell’Egeo erano pirati Cari e Fenici è fornita dalle armi trovate nelle sepolture di Delo al tempo della purificazione dell’isola; Senofonte (Hell. I, 7, 4) ricorda che Teramene, durante il processo delle Arginuse, citò una lettera degli strateghi a conferma (« martyrion ») della sua versione dei fatti. Caratteristiche sono le forme polibiane (« martyrion… pisteos charin » II, 38, 11; « martyrion pros pistin » XXI, 11, 4; « martyrion pros aletheian » I, 20, 1 3), in cui dall’accertamento di un fatto si passa alla credibilità (« pistis » in greco indica fede) di chi afferma e di ciò che è stato affermato e all’idea di verità (« aletheia »). Il significato fondamentale di testimone, testimonianza, prova di fatti storicamente accertati e della verità dei termini « martys, martyria, martyrion » e dei verbi corrispondenti, si ritrova nel largo uso che il Nuovo Testamento fa di essi e nella traduzione che la vulgata ne dà in latino: « testis, testimonium, testificor ».
Se in Luca (24, 28) e negli Atti degli Apostoli (5, 32) « martys » è usato chiaramente per ribadire i fondamenti storici del messaggio evangelico, nell’Apocalisse giovannea (1, 5 e 3, 14) Cristo stesso è detto « testimone fedele » (« ho martys ho pistos ») e viene confermato il significato del verbo « martyreo » in Giovanni (18, 27) in cui Gesù afferma davanti a Pilato di essere venuto « ut testimonium perhibeam veritati » (« hina martyreso te aletheia »), per rendere testimonianza alla verità. In ambedue i passi « martys » e « martyreo » hanno il significato noto nel greco classico, ma si fa strada l’idea di una testimonianza data anche con l’offerta della vita. E questo il significato che il termine « martys » ha nell’Apocalisse (2, 13), in cui Antipa, ucciso per la fede a Pergamo, è detto « ho martys mou pistos », il mio testimone fedele: qui il testimone, che paga la sua testimonianza con l’offerta della vita, non è più testimone soltanto dei fatti e della verità, ma di una Persona, Cristo.
L’evoluzione definitiva del concetto, per cui « martys » assume il significato ecclesiale di Martire, « martyr » in latino (con un prestito dal greco), avverrà più tardi, dopo la metà del II secolo, quando la Chiesa sarà costretta a chiarire, contro le deviazioni dell’eresia montanista, il concetto di « martire secondo il vangelo »: qui vale però la pena di riprendere il passo già citato di Luca 24, 48, in cui Gesù stesso, al momento di lasciare gli Apostoli dopo la resurrezione, li esorta ad essere testimoni di ciò che hanno visto: « hymeis martyres touton ». Nei passi corrispondenti, gli altri sinottici, Marco (16, 15) dice « annunciate il vangelo » (« keryxate tò euanghelion ») e Matteo (28,19) « insegnate a tutti i popoli » (« matheteusate panta tà ethne »): è evidente che non c’è nessun contrasto fra il kerygma e la testimonianza della storia e che il greco Luca ha tradotto spontaneamente e naturalmente l’impegno dell’annuncio con l’impegno alla testimonianza dei fatti storicamente accertati. Si capisce così il prologo del suo Vangelo, che comincia con una dichiarazione metodologica che, nelle parole e nei concetti, si rifà apertamente alla storiografia scientifica greca, di cui Tucidide era stato maestro: « Poiché molti hanno preso l’iniziativa di raccontare gli avvenimenti (« pragmata »), che si sono compiuti fra noi, come li hanno tramandati coloro che sono stati fin dall’inizio testimoni oculari (« hoi ap’arches autoptai ») e servi della Parola, ho deciso anch’io, egregio Teofilo, dopo aver vagliato tutto fin dall’inizio con senso critico (« akribes ») di scriverteli ordinatamente, affinché tu conosca la sicurezza (« asphaleia ») di ciò che ti è stato insegnato a viva voce ».
C’è la raccolta delle testimonianze di chi ebbe esperienza diretta dei fatti, il richiamo all’ « autopsia », caro agli storici greci; c’è l’analisi critica di questi racconti (l’ « akribeia » fondamentale per Tucidide); c’è la certezza, la sicurezza, che nasce dalla narrazione di ciò di cui si sono date le prove.
Il « kerygma », l’annuncio, diventa così una narrazione storica, che si rivolge alla razionalità degli ascoltatori, dando ragione di ciò che narra.

Fonte: Il Timone
Tratto da: Storia Libera

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La Madonna è sempre Vergine: ha concepito e generato verginalmente

Posté par atempodiblog le 8 novembre 2011

La verginità di Maria: un teologumeno?
Padre Ignace de la Potterie – 30 Giorni (tratto dal n. 09 – 2009)

01
L’Annunciazione, Beato Angelico, Museo del Prado, Madrid (sulla sinistra è rappresentata la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre)

Nel 392 a Capua si tenne un Concilio a cui assistette anche sant’Ambrogio. Era stato indetto per condannare solennemente un vescovo che negava la perpetua verginità di Maria. Oggi, milleseicento anni dopo, lo stesso dubbio si insinua subdolamente all’interno del corpo ecclesiastico. Senza che il popolo cattolico, e spesso nemmeno le sue guide teologiche, si rendano conto di quanto accade.

In realtà questa concezione eretica ha ripreso fiato già centocinquant’anni fa, come conseguenza della celebre contrapposizione tra il Gesù storico e il Cristo della fede. Ma finora era rimasta circoscritta agli ambienti protestanti. Protestanti erano infatti i teologi della famosa Scuola di Tubinga, che per primi la formularono. E nell’archivio di Tubinga esiste un documento che mostra quale fosse il loro obiettivo, del resto più volte dichiarato nei lavori ufficiali: se si riesce a stroncare ogni legame tra quanto hanno vissuto i primi discepoli di Gesù e il racconto posteriore che ne è giunto fino a noi – vi si legge – la strada è libera per ridurre il Vangelo a un “mitologumeno”.
Questa concezione del Vangelo come mito è stata ripresa in questo secolo, sempre in ambiente protestante, dalla scuola detta della Formgeschichte, i cui due fondatori sono Rudolf Bultmann e Martin Dibelius. Ed è stato proprio Dibelius che, in un testo del 1932, ha usato per la prima volta il termine “teologumeno”. Si trattava di un articolo sul concepimento verginale di Maria, nel quale Dibelius spiegava che “teologumeno” è una teoria teologica che non ha nulla a che fare con gli avvenimenti storici. I Vangeli, secondo la Formgeschichte non sono libri storici, ma raccontano avvenimenti che, sotto l’influsso della storia delle religioni, sono stati mitizzati.
Questa tesi, purtroppo, è ancora straordinariamente attuale. Solo una cosa è cambiata dai tempi della Scuola di Tubinga e della Formgeschichte: sorprendentemente, quelli che oggi parlano del concepimento verginale di Maria e della risurrezione come “teologumeno” sono spesso autori cattolici!
Il fenomeno è iniziato subito dopo la fine del Concilio Vaticano II col celebre Catechismo olandese del 1966. Lì non si usa, è vero, la parola “teologumeno”, però vi si legge che il racconto dei Vangeli sul concepimento verginale significa soltanto che Cristo è il dono di Dio all’umanità: egli è «interamente “concepito dallo Spirito Santo”». Ma allora, non è più “nato da Maria Vergine”? Questa tesi venne poi ripresa da Edward Schillebeeckx, da Raymond Brown e da molti altri autori fino a oggi. Parecchi sostengono che la nascita di Gesù, avvenuta all’interno di un matrimonio normale, è poi stata mitizzata. Gesù è teologicamente Figlio di Dio, ma fisicamente è figlio di Giuseppe. In casa cattolica non è solo il teologo alla moda Eugen Drewermann a sostenere che i racconti di Luca e Matteo sul concepimento di Maria risalgono a miti orientali, in particolare egiziani. Il teologo spagnolo Xabier Pikaza dice: «Il “teologumeno” è un dato primordiale esclusivamente teologico. Le leggi naturali seguirono il loro corso, Giuseppe mantenne relazioni maritali con Maria, ma attraverso questo contatto interumano [!] si attualizzava la mano potente di Dio in modo tale che l’apparizione del bimbo fu in fondo l’attuazione definitiva dello spirito divino, la genesi primordiale del figlio di Dio». Cosa significa un linguaggio così equivoco?
Molti teologi cattolici sono d’accordo con Drewermann e Pikaza. Non vogliono accettare la storicità del racconto dei Vangeli. Eppure nessuno di loro ha poi la reale capacità di spingere fino in fondo la riflessione critica, chiedendosi da dove provenga questo “mito” e cosa possa essere stato storicamente questo “teologumeno”. Perché val la pena notare che non c’è assolutamente nessun esempio tra i miti pagani di una donna che concepisca verginalmente. E come mai una povera ragazza ebrea, in un matrimonio normale, avrebbe potuto avere la pretesa, lei sola in tutta la storia dell’umanità, di aver concepito il Figlio di Dio? Questo può avere senso solo se era un evento reale.

02
La natività, Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze

Oggi, però, a cadere sotto la scure dei teologi che vogliono ridurre il Vangelo a “teologumeno” non c’è solo il concepimento verginale di Maria. Anche la risurrezione corporale di Gesù viene ridotta a un semplice mito. E forse non è un caso che vengano messi in discussione proprio l’inizio e la fine della vita di Cristo, cioè i due poli su cui si posa l’incarnazione. Si tratta di dogmi fondamentali della Chiesa cattolica, ma questi esegeti moderni non vogliono tener conto della Tradizione. Fanno una rottura netta, decisa, tra la storia e la fede. E quali sono le conseguenze? Le spiega il teologo tedesco Karl Hermann Schelkle: «Se la teologia cattolica dovesse interpretare il concepimento verginale come un “teologumeno”, dovremmo cambiare molte cose nella Chiesa. Si dovrebbe riformulare il tema dell’inerranza della Bibbia, dell’infallibilità della Chiesa, si dovrebbe cambiare la coscienza dei fedeli e la stessa dottrina mariologica»
1.
Si può dare solo un giudizio negativo a questa teoria del “teologumeno”. Ma certamente è innegabile che gli evangelisti stessi credevano che il concepimento verginale fosse un fatto storico (cfr. Lc 3, 23). E sarebbero rimasti sconvolti a vedere i tentativi che oggi fanno alcuni teologi “cattolici” di naturalizzare l’incarnazione.

1
K. H. Schelkle, Theologie des Neuen Testaments
, II, Patmos Verlag, Düsseldorf 1973, p. 182.

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Gesù chiede il cuore

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2011

Gesù chiede il cuore dans Antonio Socci antoniosocci

[...] Era abituale a quel tempo l’esecrazione moralistica dei pubblici peccatori da parte soprattutto di un’élite e di movimenti spirituali molto ossessionati dal tema della purità e che ritenevano se stessi giusti, retti, onesti, pii (e abilitati a giudicare i peccati altrui). Ma a chi sbandiera la propria rettitudine, le proprie pratiche di pietà e giudica con disprezzo il peccatore, Gesù racconta una parabola scomoda. La storia di un pio fariseo che «stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore». Gesù conclude così: «Io vi dico: questi (il pubblicano, nda) tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro (il fariseo, nda), perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc. 18,10-14).
Eppure l’«uomo onesto» era veramente una persona perbene, osservante della Legge, anche sinceramente impegnato. In alcuni episodi troviamo le scandalizzate invettive di alcuni (non tutti) scribi e farisei contro Gesù reo di parlare con pubblicani e prostitute. La purezza interiore di Gesù è assoluta («se il tuo occhio ti scandalizza, toglilo» Mt. 18,9), la santità della sua vita è sotto gli occhi di tutti, è inarrivabile (solo lui può proclamare: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore») tanto che sfida tutti a rimproverargli un solo peccato (mai nelle sue preghiere al Padre c’è una richiesta di perdono). Passa tante notti immerso in preghiera, eppure questo Gesù accetta con simpatia umana l’invito a pranzo di pubblici peccatori, ha affetto per ciascuno di loro, e – con somma indignazione dei benpensanti – lascia che una povera donna di pessima fama gli baci i piedi bagnandoli con le sue lacrime di dolore.
Erano in tanti a scandalizzarsi di questa totale libertà di Gesù dalle loro regole. Eppure a questi tali, a questa gente perbene, onesta e osservante della Legge, Gesù non risponde giustificandosi o arrampicandosi sui vetri, ma con un colpo da ko: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt. 21,31). Doveva essere per loro come un pugno nello stomaco. E quando, secondo la Legge, pretendono di lapidare l’adultera e di avere il suo consenso, dice loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra» (Gv. 8,7).
Silenzio generale, imbarazzo e poi, uno a uno, se ne vanno. Un giorno fissando negli occhi questa gente perbene (che giudicava gli altri e li disprezzava come peccatori) scandisce queste parole: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità. [...] Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna?» (Mt. 23,27-28 e 33).
Si resta sinceramente sconcertati davanti a queste parole di fuoco che Gesù pronuncia contro delle persone perbene, mentre è dolce con i peccatori che, in fin dei conti, sono davvero gente discutibile (anche noi, oggi, detestiamo i disonesti, i profittatori, gli opportunisti e certi sfrenati gaudenti e normalmente vediamo tutti questi vizi negli «altri»: ognuno di noi istintivamente si mette nel novero delle persone che fanno il proprio dovere, le persone perbene). Non è che Gesù invitasse a essere peccatori, ma a essere umili e a non giudicare gli altri, a non vantare la propria rettitudine. Perché questo rende superbi, fa presumere di se stessi e delle proprie capacità. Gesù invece è drastico: «Senza di me non potete far nulla». Nulla. Non dice «potete fare ben poco». Dice «non potete fare nulla». E’ un’espressione pesantissima, sconcertante. Chi è mai costui che avanza una simile «pretesa»?
In effetti dai Vangeli risulta che sono più pronti ad accoglierlo i «peccatori» (talvolta criminali) che i «giusti». Anche quando Gesù è in croce, viene dileggiato dai notabili, osservanti della Legge, e viene implorato dal «ladrone», che certo non era uno stinco di santo. Gesù arriva al suo cuore attraverso le ferite della sua vita, ed è il cuore di uno che sta morendo come criminale, non il cuore di uno corazzato con la sua superba moralità.
Gesù chiede di essere amato da tutti così come ciascuno è. Sembra dire a peccatori, incoerenti, poveracci: «Né i limiti e i peccati vostri, né quelli altrui possono comunque impedirvi di volermi bene e rimanere con me. Io farò il resto. Vi cambierò io».
Questo atteggiamento di Gesù è particolarmente evidente nel caso di Pietro, il più emblematico. Dopo tutto quello che aveva ricevuto e visto, nel momento dell’arresto di Gesù e dell’interrogatorio lo rinnegò ben tre volte per paura. Con le labbra, non con il cuore, dice sant’Ambrogio, cioè lo rinnegò per vergognosa viltà e ne pianse amaramente, ma continuava a volergli bene. Neanche lui sapeva spiegarsi questa cosa, ma gli voleva bene. Questo gli era chiaro. Di certo voleva sprofondare mentre lo diceva a se stesso, sentendosi ormai indegno dell’amicizia di Gesù, ma era innegabile quanto fosse attaccato al suo Maestro. Lo cercava sempre con gli occhi. E lo sguardo di Gesù, mentre cantò il gallo, fu il suo ultimo incontro con lui prima dell’esecuzione capitale sulla croce.
Poi accade l’inaudita, imprevedibile resurrezione di Gesù e una serie di eventi convulsi. Gesù appare più volte, vivo, fra i suoi. Una di queste volte, il Maestro, era sulla riva del lago di Tiberiade – con la tenerezza che lo caratterizzava – aveva preparato del pesce per i suoi amici stanchi che con la barca tornavano dalla pesca. A un certo punto di quello stupefacente pasto insieme, Gesù fissa Pietro, che si sarà sentito morire. Ma, diversamente da quanto temeva, Gesù non gli chiede affatto conto del tradimento, non si mette a rimproverarlo per la sua viltà, non gli dice «non peccare, non tradire, non essere incoerente». Ma gli dice: «Simone, tu mi ami?». E addirittura glielo ripete tre volte e per tre volte gli consegna il suo piccolo gregge di amici e lo chiama alla sua grande missione.
Così Gesù fa capire la sola cosa che chiede: il cuore, che si voglia bene a lui. Al resto penserà lui. Trasformerà lui quel focoso e rozzo pescatore, quel codardo nel momento del pericolo, nel pilastro della sua Chiesa, in un padre forte e buono, disposto un giorno a dare anche lui, con eccezionale eroismo, la sua vita su una croce. Gesù si compiace di gente così: l’amico che lo ha rinnegato, la Maddalena, Zaccheo, la Samaritana, il ladrone del Golgota. Li ama così come sono e li perdona. Così li trasforma. Li cambia lui stesso.

Antonio Socci – Indagine su Gesù

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La parabola degli operai nella vigna

Posté par atempodiblog le 17 septembre 2011

La parabola degli operai nella vigna dans Commenti al Vangelo mariavaltorta

La vita è quella che si ottiene credendo e seguendo la Via, la Verità, la Vita, e operando secondo la sua parola. Anche se fosse il credere e seguire per poco tempo, e operare per poco tempo, presto troncato dalla morte del corpo, anche fosse per un solo giorno, una sola ora, Io te lo dico in verità che quella creatura non conoscerà più morte. Perché il Padre mio e di tutti gli uomini non calcolerà il tempo trascorso nella mia Legge e Fede, ma la volontà dell’uomo di vivere sino alla morte in quella Legge e Fede. Io prometto la vita eterna a chi crede in Me e opera secondo ciò che dico, amando il Salvatore, propagando questo amore, praticando nel tempo che gli è concesso i miei insegnamenti. Gli operai della mia vigna sono tutti quelli che vengono e dicono: “Signore, accoglimi fra i tuoi operai”, e in quella volontà restano finché il Padre mio non giudica terminata la loro giornata. In verità, in verità vi dico che vi saranno operai che avranno lavorato un’ora sola, la loro ultima ora, e che avranno premio più pronto di quelli che avranno lavorato sin dalla prima ora, ma sempre con tiepidezza, spinti al lavoro unicamente dall’idea di non meritare l’inferno, ossia dalla paura del castigo. Non è questo il modo di lavorare che il Padre mio premia con una gloria immediata. Anzi, a questi calcolatori egoisti, che hanno premura di fare il bene e quel tanto di bene che è sufficiente per non darsi eterna pena, il Giudice eterno darà lunga espiazione. Dovranno imparare a loro spese, con una lunga espiazione, a darsi uno spirito alacre in amore, e in amore vero, tutto volto alla gloria di Dio. E ancora vi dico che in futuro molti saranno, specie fra i gentili, coloro che saranno gli operai di un’ora e anche di men di ora, che diverranno gloriosi nel mio Regno perché in quell’unica ora di rispondenza alla Grazia, che li avrà invitati ad entrare nella vigna di Dio, avranno raggiunto la perfezione eroica della carità. Sta’ dunque di buon animo, donna. Tuo marito non è morto, ma vive. Non è perduto per te, ma unicamente separato per qualche tempo da te. Ora tu, come una sposa non ancor entrata nella casa dello sposo, devi prepararti alle vere nozze immortali con colui che piangi. Oh! felici nozze di due spiriti che si sono santificati e che si ricongiungono in eterno là dove non è più separazione, né tema di disamore, né pena; là dove gli spiriti giubileranno nell’amore di Dio e reciproco! La morte per i giusti è vera vita, perché nulla può più minacciare la vitalità dello spirito, ossia la sua permanenza nella Giustizia.

Tratto da: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Opera di Maria Valtorta.

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