E Marco scrisse subito

Posté par atempodiblog le 20 août 2013

Da un autore pagano del primo secolo la conferma che il vangelo di Marco fu scritto pochi anni dopo la morte di Gesù. Come attesta la tradizione cristiana primitiva.
Un punto a favore della credibilità storica del Vangelo.
di Marta Sordi – Il Timone

E Marco scrisse subito dans Commenti al Vangelo E-Marco-scrisse-subito

L’ identificazione, da parte di J. O’Callaghan nel 1972, ribadita poi da C. P. Thiede agli inizi degli anni ’90, di un frammento papiraceo in lingua greca (7Q5), trovato nella grotta 7 di Qumran, con Marco 6,52-53, ha riaperto, come è noto, nonostante le molte contestazioni, il problema della datazione dei Vangeli e di quello di Marco in particolare.
La scrittura del frammento, studiata prima dell’identificazione con il Vangelo, aveva imposto una datazione non posteriore al 50 d.C.; la grotta, inoltre,risultava chiusa dopo il 68; l’identificazione del frammento con un passo di Marco scompaginava così, se convalidata, tutte le ipotesi, date per certe dagli esegeti, della composizione tarda del Vangelo e confermava invece pienamente i dati conservati dalla tradizione cristiana primitiva: Papia di Gerapoli, vissuto tra la fine del I secolo e la prima metà del II (apud Euseb. H. E. II, 15 e III, 39,15) e Clemente di Alessandria (apud Euseb. H. E. II, 15 e VI, 14,6) affermavano infatti che Marco aveva scritto il suo Vangelo, su richiesta dei Romani, che avevano ascoltato la predicazione di Pietro, all’inizio del regno di Claudio (nel 42, secondo la traduzione di Gerolamo del Chronicon di Eusebio).
Una citazione dello stesso passo di Clemente (p. 9 Staehlin) spiegava che i Romani, da cui era partita la richiesta erano Cesariani e cavalieri, ut possent quae dicebantur memoriae commendare. Si trattava di persone della classe dirigente romana, abituate alla comunicazione scritta e la richiesta da loro rivolta a Marco è perfettamente comprensibile; specialmente se si tiene conto del fatto che, nel 42/43, mentre Claudio era assente per la spedizione in Britannia, il governo di Roma era tenuto da L. Vitellio, che nel 36/37, come legato di Siria, aveva avuto occasione di occuparsi dei cristiani a Gerusalemme. Il desiderio di avere ulteriori informazioni sulla nuova “setta” giudaica poteva rientrare nelle normali preoccupazioni per l’ordine pubblico del governo di Roma. Ciò che fu allora appurato dovette tranquillizzare i Romani che, da quel momento e fino al 62, in Giudea come nelle province, cercarono di impedire azioni persecutorie derivate da accuse giudaiche contro i Cristiani. La data del 42/43 è  innanzitutto, secondo Papia e Clemente, la data dell’arrivo di Pietro a Roma: una conferma dell’importanza di questa data per la Chiesa di Roma è che al 42/43 risale, secondo Tacito (Ann. XIII, ro 32), la conversione di Pomponia Grecina, la moglie di Aula Plauzio, il legato le che precedette in Britannia Claudio, ad re una superstizio externa che è certamente il cristianesimo. Ma ciò che ci interessa ora è la stesura del Vangelo di le Marco: si è detto che 7Q5 non fa che a, confermare, con l’autorità di un documento contemporaneo, ciò che sapevamo già da autorevoli fonti del II secolo, che solo l’ipercritica, da tempo el superata negli studi di storia antica, ma ancora presente negli studi delle origini cristiane, ha troppo a lungo e ingiustamente sottovalutato. Paradossalmente, anche se 7Q5 non fosse un frammento di Marco, le testimonianze di Papia e di Clemente dovrebbero indurci ad ammettere come probabile la venuta di Pietro a Roma nel 42 e la stesura in quell’occasione del Vangelo di Marco.
Ma un’ulteriore e importante conferma ci viene ora da un autore pagano, quel Petronio autore del Satyricon, che scrive nel 64/65 e mostra di conoscere il testo marciano, come ha dimostrato, con ottimi argomenti, I. Ramelli in un articolo pubblicato su Aevum nel 1996. Contatti fra i Vangeli e passi del Satyricon erano stati già notati in passato, per la crocifissione, la risurrezione, l’eucaristia, ma erano stati spiegati come pure coincidenze o con interpretazioni antropologiche. Il passo studiato dalla Ramelli (Sat. 77,7-78,4) riguarda l’unzione durante la cena di Betania (Me 14,3-9), un episodio, cioè, la cui importanza non è così grande da poterne spiegare la conoscenza da parte dei pagani in base a semplici voci, come quelle che circolavano in quell’epoca a Roma sui flagitia attribuiti dal volgo ai Cristiani nel 64, come dice Tacito (Ann. XV, 44x) parlando dell’incendio. Qui i contatti sono tali che già il Preuschen, agli inizi del XX secolo, aveva pensato a una dipendenza reciproca, attribuendo però a Marco l’imitazione di Petronio: l’evidente assurdità dell’ipotesi (dato il carattere di sprezzante parodia del passo di Petronio) ne aveva determinato il rifiuto.
Il giudizio è necessariamente diverso se il Vangelo di Marco era già noto nel 64/65 e se ammettiamo che è petronio a parodiare Marco e non Marco a imitare Petronio: c’è l’ampolla di nardo, che solo Marco conosce fra gli evangelisti (i sinottici parlano di un vaso di unguento non specificato, Giovanni parla di una libbra di nardo); c’è la prefigurazione da parte di Trimalcione di un’ unzione funebre, in un contesto che parla continuamente – ma senza giustificazione apparente, visto che Trimalcione dichiara che vivrà ancora 30 anni di morte; c’è, poco prima (ib. 74, 1/3),dalla consuetudine pagana) come profeta di sventura e come index, accusatore. Se Petronio conosce il testo di Marco e intende parodiarlo (e la cosa non ci sorprende alla corte di Nerone, dove, come risulta da Paolo [FiI4,22] il cristianesimo era ben noto), anche gli altri accenni di Petronio che sembrano implicare la conoscenza del cristianesimo diventano importanti: penso in particolare al cap. 141, in cui Eumolpo chiede nel suo testamento che i suoi eredi mangino il suo corpo, e alla novella della matrona di Efeso (cap. III), con il trafugamento del corpo di un crocifisso e la sua « rianimazione » al terzo giorno: un motivo anticristiano reso attuale dal cosiddetto editto di Nazareth, se, come sembra probabile, l’editto è di Nerone e rivela l’ accettazione, da parte del governo romano, delle accuse giudaiche ai discepoli di Cristo di aver trafugato il corpo del loro Signore, come attesta Matteo (28,15).
La parodia di Petronio è dunque la miglior conferma delle notizie della tradizione cristiana del II secolo sull’antichità del Vangelo di Marco.

Ricorda
La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima che i quattro vangeli, di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza ».
(Concilio Vaticano Il, Costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, 19).

Divisore dans San Francesco di Sales

Inoltre Freccia dans Viaggi & Vacanze Vangeli: al centro la storia

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La storicità dei Vangeli

Posté par atempodiblog le 20 août 2013

La storicità dei Vangeli dans Antonio Socci hsk2

Voglio prendere spunto da un paio di notizie arrivate da Israele. Le ha riportate il Jerusalem Post il 21 e il 23 dicembre (2004) e si possono trovare sintetizzate in questa pagina web: http://www.israele.net/sections.php?section_cat=13
La prima riguarda la scoperta a Gerusalemme di una parte della celebre piscina di Siloe, quella menzionata nel Vangelo di Giovanni nella quale Gesù guarì un uomo cieco dalla nascita. Ed ecco la seconda notizia: la Israel Antiquities Authority ha recentemente scoperto i resti del villaggio di Cana dove Gesù compì il suo primo miracolo cambiando l’acqua in vino durante una festa di matrimonio. In alcuni edifici sono stati trovati utensili e i resti di un mikve, un bagno rituale ebraico.

Non è qui il caso di approfondire i particolari che pure sono affascinanti. Tuttavia queste due piccole notizie – che documentano tangibilmente come siano fedeli ai fatti i resoconti del Vangelo – ci mettono ancora una volta, appassionatamente, sulle tracce di quell’Uomo di Nazaret che giganteggia nelle pagine del Vangelo. Riportano alla luce le pietre su cui lui ha camminato, i luoghi che hanno sentito risuonare la sua voce, la terra con cui ha guarito un povero cieco. Tutto esattamente come riferiscono i resoconti evangelici. E’ bene ricordare la colossale importanza che le scoperte archeologiche moderne hanno assunto dopo due secoli di tentata demolizione della credibilità storica dei fatti riportati nei Vangeli. Scoperte clamorose. A cominciare dal più antico frammento del Vangelo, il famoso 7Q5, che riporta un versetto di Marco che fu composto prima del 50 d.C. Ma anche tutti gli altri ritrovamenti archeologici.
Il padre Ignace De La Potterie sj, uno dei grandi esperti di Giovanni, faceva un lucido esempio a questo proposito:
“Fin dalla metà del secolo scorso, la Scuola di Tubinga (David Fr., Strass, Walter Bauer, Ferdinand Ch. Baur) aveva imposto l’idea che nessuno dei redattori dei Vangeli fosse un testimone oculare, tanto meno un apostolo. Quello di Giovanni veniva attribuito a un qualche filosofo ellenizzante dell’Asia Minore o dell’Egitto. Nel 1930 il modernista italiano Adolfo Omodeo, in La mistica giovannea, l’unica opera italiana citata da Rudolf Bultmann, sosteneva ancora che Giovanni era stato scritto da uno gnostico in Egitto, intorno al 120. In questa temperie mentale la precisione delle descrizioni topografiche palestinesi risultava difficile da spiegare, se non addirittura scomoda. E allora si tendeva a interpretarla in modo mitico, fittizio. Esempio: nel capitolo quinto, la guarigione del paralitico avviene nei pressi di una piscina miracolosa che Giovanni chiama Betesda, ‘che ha cinque portici’ (quinque porticus habens). Ricordo di aver studiato, da giovane, su un libro di cento anni fa in cui questo passo veniva interpretato come una simbologia pitagorica…. Dall’inizio del Novecento i numerosi scavi compiuti in Palestina hanno dato conferme archeologiche ai luoghi descritti da Giovanni. La fontana con cinque portici, che doveva essere un simbolo pitagorico, è stata trovata presso il Tempio di Gerusalemme” (Storia e mistero, Sei 1997, pp. 10-11).

Evidentemente è facile intuire che delle descrizioni così precise di Gerusalemme potevano essere fatte solo da un ebreo che viveva in quella città prima della sua distruzione da parte dei Romani, nel 70 d.C. Dunque anche le pietre confermano (gridano!) ciò che Giovanni scrive a chiare lettere, cioè di essere un testimone oculare dei fatti: “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita… lo annunziamo anche a voi” (1Giov 1,1). E Pietro conferma che essi, gli apostoli, non sono “andati dietro a favole artificiosamente inventate”, ma “siamo stati testimoni oculari della sua grandezza” (2Pt 1,16). Quando – alcuni anni fa – riportai alla luce la clamorosa scoperta di padre José O’Callaghan sul 7Q5 – la reazione di molti esegeti fu velenosa (soprattutto di quelli ecclesiastici, perché i papirologi laici accettarono tranquillamente e laicamente la scoperta). Uno di questi biblisti (rimasto famoso per un incredibile svarione scientifico) sibilò su un giornale: “Continua, in modo spesso scomposto e frenetico, l’interesse per il Gesù della storia”. Gli rispose per le rime il grande De La Potterie (vedi AAVV, Vangelo e storicità, p. 165). Io da parte mia devo confessare e lo dichiaro qui apertamente che quell’interesse “scomposto e frenetico per il Gesù della storia” è tutt’altro che sparito. Non si è mai attenuato, ma casomai si è ingigantito con gli anni. Quell’Uomo di nome Gesù, vero uomo e vero Dio, nostro Salvatore, nostro buon Pastore (che porta sulle sue spalle ognuno di noi), è la nostra passione. La sua storia, i suoi gesti, la sua presenza, il suo volto sono l’unica perla preziosa che vale la pena cercare nella vita. Null’altro. Come diceva Charles Moeller, che don Giussani ci ha fatto conoscere: “io credo che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare”.

di Antonio Socci

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Il buon Samaritano

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2013

PAPA FRANCESCO

ANGELUS
Castel Gandolfo
Domenica
, 14 luglio 2013

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Il buon Samaritano dans Commenti al Vangelo 5zilft

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno!

Oggi il nostro appuntamento domenicale dell’Angelus lo viviamo qui a Castel Gandolfo. Saluto gli abitanti di questa bella cittadina! Voglio ringraziarvi soprattutto per le vostre preghiere, e lo stesso faccio con tutti voi pellegrini che siete venuti qui numerosi.

Il Vangelo di oggi – siamo al capitolo 10 di Luca – è la famosa parabola del buon samaritano. Chi era quest’uomo? Era uno qualunque, che scendeva da Gerusalemme verso Gerico sulla strada che attraversa il deserto della Giudea. Da poco, su quella strada, un uomo era stato assalito dai briganti, derubato, percosso e abbandonato mezzo morto. Prima del samaritano passano un sacerdote e un levita, cioè due persone addette al culto nel Tempio del Signore. Vedono quel poveretto, ma passano oltre senza fermarsi. Invece il samaritano, quando vide quell’uomo, «ne ebbe compassione» (Lc 10,33) dice il Vangelo. Si avvicinò, gli fasciò le ferite, versandovi sopra un po’ di olio e di vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e pagò l’alloggio per lui… Insomma, si prese cura di lui: è l’esempio dell’amore per il prossimo. Ma perché Gesù sceglie un samaritano come protagonista della parabola? Perché i samaritani erano disprezzati dai Giudei, a causa di diverse tradizioni religiose; eppure Gesù fa vedere che il cuore di quel samaritano è buono e generoso e che – a differenza del sacerdote e del levita – lui mette in pratica la volontà di Dio, che vuole la misericordia più che i sacrifici (cfr Mc 12,33). Dio sempre vuole la misericordia e non la condanna verso tutti. Vuole la misericordia del cuore, perché Lui è misericordioso e sa capire bene le nostre miserie, le nostre difficoltà e anche i nostri peccati. Dà a tutti noi questo cuore misericordioso! Il Samaritano fa proprio questo: imita proprio la misericordia di Dio, la misericordia verso chi ha bisogno.

Un uomo che ha vissuto pienamente questo Vangelo del buon samaritano è il Santo che ricordiamo oggi: san Camillo de Lellis, fondatore dei Ministri degli Infermi, patrono dei malati e degli operatori sanitari. San Camillo morì il 14 luglio 1614: proprio oggi si apre il suo quarto centenario, che culminerà tra un anno. Saluto con grande affetto tutti i figli e le figlie spirituali di san Camillo, che vivono il suo carisma di carità a contatto quotidiano con i malati. Siate come lui buoni samaritani! E anche ai medici, agli infermieri e a coloro che lavorano negli ospedali e nelle case di cura, auguro di essere animati dallo stesso spirito. Affidiamo questa intenzione all’intercessione di Maria Santissima.

E un’altra intenzione vorrei affidare alla Madonna, insieme a tutti voi. E’ ormai vicina la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro. Si vede che ci sono tanti giovani di età, ma tutti siete giovani nel cuore! Io partirò tra otto giorni, ma molti giovani partiranno per il Brasile anche prima. Preghiamo allora per questo grande pellegrinaggio che comincia, perché Nostra Signora de Aparecida, patrona del Brasile, guidi i passi dei partecipanti, e apra i loro cuori ad accogliere la missione che Cristo darà loro.

Tratto da: Vatican.va

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A chi posso farmi prossimo, ora e qui?

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2013

A chi posso farmi prossimo, ora e qui?
Il Buon Samaritano
di Padre Raniero Cantalamessa

padre raniero cantalamessa

Ci siamo proposti, dicevo, di commentare alcuni vangeli domenicali ispirandoci al libro di papa Benedetto XVI su Gesù di Nazaret. Alla parabola del buon Samaritano sono dedicate diverse pagine del libro. La parabola non si comprende se non si tiene conto della domanda alla quale con essa Gesù intendeva rispondere: “Chi è il mio prossimo?”.

A questa domanda di un dottore della legge, Gesù risponde raccontando una parabola. Nella musica e nella letteratura mondiale, ci sono degli “attacchi” divenuti celebri. Quattro note, disposte in una certa sequenza, e ogni intenditore esclama subito, per esempio: “Quinta sinfonia di Beethoven: il destino che bussa alla porta!”. Molte parabole di Gesù condividono questa caratteristica. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…”, e tutti capiscono immediatamente: parabola del buon Samaritano!

Nell’ambiente giudaico del tempo si discuteva su chi doveva essere considerato, per un israelita, il proprio prossimo. Si arrivava in genere a comprendere, nella categoria di prossimo, tutti i connazionali e i proseliti, cioè i gentili che avevano aderito al giudaismo. Con la scelta dei personaggi (un Samaritano che soccorre un giudeo!) Gesù viene a dire che la categoria di prossimo è universale, non particolare. Ha per orizzonte l’uomo, non la cerchia familiare, etnica, o religiosa. Prossimo è anche il nemico! Si sa infatti che i giudei infatti “non mantenevano buone relazioni con i samaritani!” (cfr. Gv 4, 9).

La parabola insegna che l’amore del prossimo deve essere non solo universale, ma anche concreto e fattivo. Come si comporta il samaritano della parabola? Se il Samaritano si fosse accontentato di accostarsi e di dire a quel disgraziato che giaceva nel suo sangue: “Poveretto, quanto mi dispiace! Come è successo? Fatti coraggio!”, o parole simili, e poi se ne fosse andato, non sarebbe stato tutto ciò un’ironia e un insulto? Lui fece dell’altro: “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.

La cosa però veramente nuova, nella parabola del buon samaritano, non è che in essa Gesù esige un amore universale e concreto. La vera novità, fa notare il papa nel suo libro, è altrove. Terminato di narrare la parabola Gesù domanda al dottore della legge che lo aveva interrogato: “Chi di questi tre [il levita, il sacerdote, il samaritano] ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”.

Gesù opera un capovolgimento inatteso rispetto al concetto tradizionale di prossimo. Prossimo è il Samaritano, non il ferito, come ci saremmo aspettati. Questo significa che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla propria strada, magari con tanto di segnalazione luminosa e a sirene spiegate. Tocca a noi essere pronti ad accorgerci che c’è, a scoprirlo. Prossimo è quello che ognuno di noi è chiamato a diventare! Il problema del dottore della Legge appare rovesciato; da problema astratto e accademico, si fa problema concreto e operativo. La domanda da porsi non è: “Chi è il mio prossimo?”, ma: “A chi posso farmi prossimo, ora e qui?”

Nel suo libro, il papa fa un’applicazione attuale della parabola del buon samaritano. Vede l’intero continente africano simboleggiato dallo sventurato che è stato spogliato, ferito e lasciato mezzo morto ai margini della strada e vede in noi, membri dei paesi ricchi dell’emisfero nord, i due personaggi che passano e tirano diritto, se non addirittura i briganti che lo hanno ridotto così.

Io vorrei accennare a un’altra possibile attualizzazione della parabola. Sono convinto che se Gesù vivesse oggi in Israele e un dottore della Legge gli chiedesse di nuovo: “Chi è il mio prossimo?” cambierebbe leggermente la parabola e al posto di un samaritano metterebbe un palestinese! Se poi a interrogarlo fosse un palestinese, al posto del samaritano troveremmo un ebreo!

Ma è troppo comodo limitare il discorso all’Africa o al Medio Oriente. Se fosse uno di noi a porre a Gesù la domanda: “Chi è il mio prossimo?”, cosa risponderebbe? Ci ricorderebbe certamente che il nostro prossimo non è solo il connazionale, ma anche l’extracomunitario, non solo il cristiano, ma anche il musulmano, non solo il cattolico, ma anche il protestante. Ma aggiungerebbe subito che non è questa la cosa più importante; la cosa più importante non è sapere chi è il mio prossimo, ma vedere a chi posso io farmi prossimo, ora e qui; per chi posso essere io il buon samaritano.

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Ferma decisione di fare la volontà di Dio

Posté par atempodiblog le 30 juin 2013

Il Papa: Gesù ci vuole liberi, ascoltiamo la coscienza in unione con il Padre come ha fatto Benedetto XVI
Tratto da: Radio Vaticana 

Ferma decisione di fare la volontà di Dio dans Commenti al Vangelo stq3Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il Vangelo di questa domenica (Lc 9,51-62) mostra un passaggio molto importante nella vita di Cristo: il momento in cui – come scrive san Luca – «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (9,51). Gerusalemme è la meta finale, dove Gesù, nella sua ultima Pasqua, deve morire e risorgere, e così portare a compimento la sua missione di salvezza. Da quel momento, dopo quella “ferma decisione”, Gesù punta dritto al traguardo, e anche alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani, non cedere alla nostalgia del passato. Ma Gesù dice anche ai suoi discepoli, incaricati di precederlo sulla via verso Gerusalemme per annunciare il suo passaggio, di non imporre nulla: se non troveranno disponibilità ad accoglierlo, si proceda oltre, si vada avanti. Ma Gesù non impone mai: Gesù è umile. Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. E l’umiltà di Gesù è così: Lui ci invita sempre, non impone.

Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. Gesù, nella sua esistenza terrena, non era, per così dire, “telecomandato”: era il Verbo incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, e a un certo punto ha preso la ferma decisione di salire a Gerusalemme per l’ultima volta; una decisione presa nella sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con Lui! Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. E Gesù era libero: in quella decisione era libero! Gesù, a noi cristiani, ci vuole liberi, come Lui. Con quella libertà che viene dal dialogo con il Padre, da questo dialogo con Dio. Non vuole, Gesù, né cristiani egoisti che seguono il proprio Io e non parlano con Dio, né cristiani deboli, cristiani che non hanno volontà, cristiani telecomandati, incapaci di creatività, che cercano sempre di collegarsi alla volontà di un altro, e non sono liberi. Gesù ci vuole liberi e questa libertà, dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero: non è libero.

Per questo, dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza. Ma attenzione! Questo non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, o che mi piace… Non è questo! La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele.

Noi abbiamo avuto un esempio meraviglioso di come è questo rapporto con Dio nella propria coscienza, un recente esempio, meraviglioso: il Papa Benedetto XVI ci ha dato questo grande esempio, quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore. E questo esempio del nostro padre ci fa tanto bene a tutti noi, come un esempio da seguire.

La Madonna, con grande semplicità, ascoltava e meditava nell’intimo di se stessa la Parola di Dio e ciò che accadeva a Gesù. Seguì il suo Figlio con intima convinzione, con ferma speranza. Ci aiuti Maria a diventare sempre più uomini e donne di coscienza, liberi nella coscienza, perché nella coscienza si da il dialogo con Dio; uomini e donne capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione.

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Gesù: “Non temete. Venite. Con fiducia”

Posté par atempodiblog le 15 juin 2013

Gesù: “Non temete. Venite. Con fiducia” dans Commenti al Vangelo q1mz 

Gesù a Maria Valtorta: «Dillo a te stessa, o Maria, mia piccola “voce” , dillo alle anime. Va’, dillo alle anime che non osano venire a Me perché si sentono colpevoli. Molto, molto, molto è perdonato a chi molto ama. A chi molto mi ama. Voi non sapete, povere anime, come vi ama il Salvatore! Non temete di Me. Venite. Con fiducia. Con coraggio. Io vi apro il Cuore e le braccia. Ricordatelo sempre: “Io non faccio differenza fra colui che mi ama con la sua purezza integra e colui che mi ama nella sincera contrizione d’un cuore rinato alla Grazia”. Sono il Salvatore. Ricordatevelo sempre. Va’ in pace. Ti benedico». 

[22 gennaio 1944]
[...]  Parlavo a molti quel giorno, ma in verità parlavo per lei sola. Non vedevo che lei, che s’era accostata portata da un empito d’anima che si rivoltava alla carne che la teneva soggetta. Non vedevo che lei col suo povero volto in tempesta, col suo sforzato sorriso che nascondeva, sotto una veste di sicurezza e gioia mendace che era un sfida al mondo e a se stessa, tanto interno pianto. Non vedevo che lei, ben più avvolta nei rovi della pecorella smarrita della parabola, lei che affogava nel disgusto della sua vita, venuto a galla come quelle ondate profonde che portano seco l’acqua del fondo. 

Non ho detto grandi parole, né ho toccato un argomento indicato per lei, peccatrice ben nota, per non mortificarla e per non costringerla a fuggire, a vergognarsi o a venire. L’ho lasciata in pace. Ho lasciato che la mia parola e il mio sguardo scendessero in lei e vi fermentassero per fare di quell’impulso di un momento il suo glorioso futuro di santa. Ho parlato con una delle più dolci parabole: un raggio di luce e di bontà effuso proprio per lei. 

E quella sera, mentre ponevo piede nella casa del ricco superbo, nel quale la mia parola non poteva fermentare in futura gloria perché uccisa dalla superbia farisaica, già sapevo che ella sarebbe venuta, dopo aver tanto pianto nella sua stanza di vizio e, alla luce di quel pianto, già deciso il suo futuro. Gli uomini, arsi di lussuria, nel vederla entrare hanno trasalito nella carne e insinuato col pensiero. Tutti l’hanno desiderata, meno i due « puri » del convito: Io e Giovanni. Tutti hanno creduto che ella venisse per uno di quei facili capricci che, vera possessione demoniaca, la gettavano in improvvise avventure. Ma Satana era ormai vinto. E tutti hanno, con invidia, pensato, vedendo che ad essi non si volgeva, che venisse per Me. 

L’uomo sporca sempre anche le cose più pure, quando è solo uomo di carne e sangue. Solo i puri vedono giusto, perché il peccato non è in loro a fare turbamento al pensiero. Ma che l’uomo non comprenda, non deve sgomentare, Maria. Dio comprende. E basta per il Cielo. La gloria che viene dagli uomini non aumenta di un grammo la gloria che è sorte degli eletti in Paradiso. Ricordalo sempre. 

La povera Maria di Magdala è sempre stata mal giudicata nei suoi atti buoni. Non lo era stata nelle sue azioni malvagie perché esse erano bocconi di lussuria offerti all’insaziabile fame dei libidinosi. Criticata e mal giudicata a Cafarnao, in casa del fariseo, criticata e rimproverata a Betania, in casa sua. Ma Giovanni, che dice una grande parola, dà la chiave di quest’ultima critica: « Giuda… perché era ladro ». Io dico: « Il fariseo e i suoi amici perché erano lussuriosi ». Ecco, vedi? L’avidità del senso, l’avidità del denaro alzano la voce a critica dell’atto buono. I buoni non criticano. Mai. Comprendono. Ma, ripeto, non importa della critica del mondo. Importa del giudizio di Dio. 

Tratto da: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Opera di Maria Valtorta.

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La storia dei lavoratori a giornata

Posté par atempodiblog le 18 mai 2013

La storia dei lavoratori a giornata dans Commenti al Vangelo bbdqvSi, questo è il brano classico della paga uguale per i diversi tempi di lavoro. Ovverosia la storia di una serie di operai che vengono presi la mattina, a metà giornata, quando la giornata è inoltrata, a fine giornata e tutti vengono pagati nella stessa maniera. E questa è sembra ingiustizia sociale e c’è la lamentela dei primi lavoratori.

Questo testo non lo possiamo capire compiutamente finché non lo contestualizziamo, ovverosia mentre il testo liturgico comincia con il dire “in quel tempo” Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola, è l’inizio, classico, liturgico di una parabola, di una proclamazione… c’è, invece, nel racconto evangelico l’apertura del testo “il Regno dei Cieli è simile a un padrone di casa che uscii all’alba per prendere a giornata i lavoratori”… allora, in realtà noi dobbiamo leggere il versetto precedente e capire questo capitolo 20 a partire dal capitolo 19. Il capitolo 19 ha delle parole fondamentali sul discepolato, è il capitolo del giovane ricco, è il capitolo di colui che è chiamato a seguire Gesù e il momento in cui i discepoli dicono: “ma noi abbiamo lasciato tutto, cosa ne otterremo” e si parla dell’eredità del discepolo e del lasciare tante cose per seguire il Signore, e si termina con questa frase, che è il versetto 30° del capitolo 19, “molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi” e quindi comincia questa parabola. Dove veramente gli ultimi diventeranno i primi e i primi, curiosamente, ultimi secondo una forma un po’ peculiare.

La storia in sé è la storia di un padrone di casa che esce all’alba per prendere a giornata i lavoratori per la sua vigna e si accorda per la paga normale, ordinaria che era un denaro al giorno. Poi esce verso le nove del mattino ne vede altri e li prende e dice: “il giusto ve lo darò”. E’ curioso perché il giusto sarebbe già meno di quanto gli altri che hanno iniziato, ormai da ore, prenderanno. Esce ancora  verso mezzogiorno e fece altrettanto che vuol dire che dice: “quello che è giusto ve lo darò”. Esce verso le cinque e dice: “perché siete qui senza far niente?”. La parola greca che c’è sotto ‘senza far niente’ è proprio un altro abbreviativo rispetto a ‘non lavorare’, a ‘operare’… “senza lavoro”, “perché siete qui senza lavoro?”. La vecchia traduzione della Cei metteva addirittura ‘oziosi’, ma era una caratura morale inesistente nel testo. La nuova traduzione dice “senza far niente” come è più esatto. Rispondono: “perché nessuno ci ha presi a giornata”… il padrone dice: “andate anche voi nella vigna”, non ha aggiunto altro.

Quando viene la sera dovremmo scoprire quanto darà a questi operai di un’ora di lavoro, quanto darà agli altri a cui ha detto “ti darò il giusto” e quindi quanto darà a quanti hanno pattuito con lui un denaro.
Che succede? Che il padrone appositamente, intenzionalmente, chiama i lavoratori a prendere la paga incominciando dagli ultimi. Perché? Perché i primi vedano gli ultimi lavoratori. Infondo, c’è un po’ una provocazione, vuole apposta creare questa realtà, cioè se gli dava il denaro prima non si rendevano conto del ‘problema’. Allora che cosa dicono i lavoratori di tutta la giornata, quelli che pensano di ricevere di più e mormorano contro il padrone perché dicono: “ha trattato come noi questi che hanno lavorato un’ora sola e noi abbiamo invece sopportato il peso della giornata e il caldo”. Il problema è che è stata introdotta questa parola: “ciò che è giusto te lo darò” e qui la giustizia ai nostri occhi non viene rispettata. “Ciò che è giusto” sarebbe stato dagli di meno rispetto agli altri lavoratori e via dicendo… e dare un contentino a quelli che erano arrivati all’ultimo.

Questo padrone ha un’altra giustizia. Qui è lo scontro di due giustizie, di due visioni… Chiamati ad essere discepoli di Cristo e chiamati a vivere secondo un’altra logica, perché la frase “gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi” è paradossale. Questa è la logica rovesciata: nel mondo i primi sono i primi e gli ultimi sono gli ultimi, punto. Infatti, in questa parabola si rovescerà la prospettiva perché secondo quella che è la vita normale noi possiamo ragionare secondo utilità, secondo rendimento, secondo efficacia. Proviamo ad applicare questa logica.

Secondo questa logica chi è utile, efficace, lavora… fa le cose… ha diritto a essere ricompensato; chi ha queste caratteristiche deve essere scartato.
Se noi applichiamo fino in fondo questa logica di giustizia ci potremmo trovare a che fare con cose piuttosto imbarazzanti. ‘Che ce ne facciamo noi di un vecchio? Di una persona che non ha più la capacità di aiutarci?’, non è che ci troviamo ad affrontare una mentalità che è lontana da noi… no, no. E’ una mentalità che ci è molto vicina. ‘Che ce ne facciamo noi di una persona malata? Che ce ne facciamo noi di uno che non può lavorare?’, mi sembra che sia consequenziale fare la amniocentesi e scartare chi non ci fornirà quello che noi ci possiamo aspettare da lui e da lei.
Va da sé che entriamo in un mondo cinico di vantaggio, di guadagno, un mondo terrificante, è un mondo spaventoso.

La giustizia… c’è qualcuno di noi che può vivere veramente misurandosi con la giustizia, senza paura? Io che parlo non posso, non me lo posso certamente permettere. Vivere di fronte al parametro della semplice esattezza… chi di noi può mettersi davanti a Dio, davanti al padrone e dire: “mi devi dare ciò che mi spetta senza sperare in una misericordia, in una pazienza, in una benevolenza, senza una magnanimità da parte di Dio?”.
Se la vita, se i rapporti, se la nostra esistenza si misura con ciò che è dovuto e quanto ci è dovuto e conti veramente, noi ci possiamo permettere di metterli così in chiaro completamente con Dio, io non me lo posso permettere, non so gli ascoltatori. Noi siamo tutte persone che abbiamo bisogno di un’altra logica. Abbiamo bisogno che l’ultimo non sia scartato, che l’ultimo sia accolto… perché c’è un ultimo in tutti noi.

Se noi andiamo a vedere la storia sotto un’altra prospettiva, noi possiamo vedere molta cattiveria nella frase dei primi lavoratori… ‘questi signori che hanno lavorato un’ora soltanto e noi siamo stati tutto il giorno sotto il peso del caldo e con la fatica del lavoro’. Ma se questi sono lavoratori a giornata… oggi come oggi capiamo sempre di più con la drammatica realtà della disoccupazione che cos’è lavorare e che cos’è non lavorare. Da quando in qua si considera più leggero il non lavorare del lavorare?
E’ molto più pesante non lavorare. Il poter lavorare, il poter essere ‘presi a giornata’ dal padrone, vuol dire aver risolto quella  giornata, avere del pane per i propri figli. Aver trovato qualcuno che ti da qualcosa da fare, una delle cose più terribili della nostra vita è sentirsi inutili.
Una delle sofferenze che possiamo vivere nel nostro percorso esistenziale è sentire che nessuno ci prende nella sua vigna, nessuno ci chiede niente, sentirsi senza un esito, sentirsi senza un frutto, sentirsi sterili nell’esistenza. Ecco ma chi è lo sfortunato? Colui che ha lavorato tanto o chi non ha trovato lavoro tutto il giorno? “Perché state qui senza lavoro?”, “perché nessuno ci ha preso a giornata”. Ecco, l’uomo può vivere questa realtà, vivere senza avere un lavoro vero da fare, senza avere qualche cosa di buono da fare, d’importante. Senza essere stato preso nella vigna del padrone buono. Aver sprecato la propria esistenza. Quante volte le persone incontrano il Vangelo e dicono: “ma che cosa ho fatto fino ad oggi?”, “come ho sprecato la mia esistenza fino ad oggi?”, “ma che cosa ho fatto d’importante?”. Ecco: lavorare è un dono e non lavorare è una sofferenza. Le fasi di ozio, le fasi di esser nel vuoto, nell’adolescenza o in un’adolescenza prolungata (che oggi è un fenomeno non piccolo di giovani, di persone che ormai già adulte 30-45 anni a vuoto, che non hanno finito l’università e che non riescono a quagliare nella vita qualcosa di serio, è una vita fallita, è una vita morta, è una vita dove il fortunato è colui che è riuscito a trovare la strada della propria esistenza, è riuscito a trovare la vigna buona e non ha sprecato la sua esistenza.

Ed ecco che c’è l’altra logica: “io sono buono. Tu sei invidioso di me perché sono buono”, dice il padrone. Iddio non è giusto della nostra giustizia, ma della sua. Secondo Dio è giusto essere buoni con noi, come per ogni padre, come per ogni persona che ami un figlio… la giustizia è la cura, è la salvezza, è dare la possibilità, è guadagnare il figliuolo, è prenderlo e trovargli la via perché lui sia felice. Questa è la giustizia di Dio. Che cos’è più importante ricevere di più perché ho fatto di più degli altri o essere felice di aver trovato il mio denaro? Avere la gioia di essere nella vigna buona e di avere oggi la moneta di Dio.
Questo appunto non ha un ambito di tipo sociale, ma ha un ambito di tipo esistenziale, di fede; è un problema di rapporto con Dio. Speriamo di avere tanti fratelli che anche all’ultimo trovino il Padre, trovino il denaro di Dio.
Non so, ma penso che tutti sperino di trovare tante persone in Paradiso, di trovare quel denaro, quella ricompensa di Dio, la ricompensa eterna che troveremo alla fine della nostra giornata. Abbiamo lavorato poco o abbiamo lavorato molto, ma sempre speriamo di andarci tutti in Paradiso, speriamo di trovarci tutti i nostri cari, anche quelli che ci sembrano che proprio stanno sprecando la vita, che all’ultimo minuto si convertano e Dio gli dia la stessa moneta.

Don Fabio Rosini (catechesi audio)

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L’Ascensione di Gesù

Posté par atempodiblog le 11 mai 2013

L’Ascensione di Gesù
Storia o fantasia? Episodio leggendario, dice qualche teologo “moderno”. Fatto storico, vero, realmente accaduto, insegna la Chiesa.
di Stefano Bivaschi – Il Timone
Tratto da: Il profeta del vento

L'Ascensione di Gesù dans Commenti al Vangelo ascensionesignoreges

Qualche teologo vuole demolire, dopo quella della Risurrezione, anche la storicità dell’Ascensione.
Cito, a campione di questa demolizione cui alludo, il libro Come leggere e capire la Bibbia (ed. Città Nuova) di Josef Imbach, uno dei portavoce di quella corrente di teologi che inquadra il racconto dell’Ascensione (e non solo quello) nell’ambito di un genere letterario leggendario.
Ma quali modelli o prototipi letterari – si chiede l’autore – può avere usato Luca per le sue descrizioni?” e risponde a se stesso affermando che l’evangelista ha usato un linguaggio attinto dalla letteratura antica, ed esattamente dalle storie di rapimenti estatici” di cui si parla per Alessandro Magno e per Augusto.
Scrive: Dalla storia del rapimento estatico di Romolo, fondatore di Roma, si può cogliere lo schema seguito in queste narrazioni”. E così, se Luca non avesse conosciuto queste leggende (ma le ha davvero conosciute?), non avrebbe raccontato l’Ascensione di Gesù come l’ha raccontata. L’evangelista, incalza lmbach, con le sue descrizioni abbastanza contraddittorie, non voleva tanto raccontare un avvenimento storico quanto comunicare un messaggio teologico”.
Premesso che quel messaggio è teologico nella misura in cui è anche storico, vediamo quali sarebbero queste contraddizioni” di cui parla Imbach.
Luca riporta il racconto dell’Ascensione nel suo Vangelo (24, 50-53) e all’inizio degli Atti degli Apostoli (1, 9-11 ).
Ma questo, per Imbach, non è ancora sufficiente ad affermarne la storicità: Se l’evento fosse accaduto veramente nel modo descritto, se ne dovrebbe trovare traccia nelle tradizioni trasmesse dagli altri evangelisti”, scrive; ma si dimentica il significativo passo di Marco riguardante l’ultimo atto del Risorto: Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio” (16,19-20) e quel passo di Giovanni nel quale Gesù risorto dice alla Maddalena: Non sono ancora salito al Padre: ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (20,17).
Quindi una traccia” c’è, anche se Luca è più ricco di particolari: Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse alloro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti che si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra di voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1, 9-11).
A parer mio non vi è alcuna enfasi in questo racconto, che mi sembra anzi assai realistico nella sua essenzialità, e nel suo quasi umoristico ricondurre con i piedi a terra quegli apostoli con il naso ancora per aria. Imbach parla inoltre di divergenze geografiche e cronologiche.
La presunta divergenza geografica”: nel vangelo Luca dice: verso Betania”, mentre negli Atti scrive: Allora tornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi”. Ma basta aprire una cartina geografica per accorgersi che il monte degli Ulivi è verso Betania”, cioè esattamente sulla strada che da Gerusalemme conduce a Betania.
Quanto alla presunta divergenza cronologica”, starebbe tutta qui: negli Atti, l’Ascensione avviene quaranta giorni dopo la Pasqua, mentre, per Imbach, il testo evangelico tende a collocare l’ evento nel giorno di Pasqua”.
Ora, quest’ultima affermazione si fonda su un grave errore interpretativo. Imbach pesca il complemento di tempo che si trova all’inizio del capitolo 24 di Luca (ove si parla della Risurrezione, nel giorno di Pasqua) e lo applica anche alla fine dello stesso capitolo, ove si parla dell’Ascensione. Così Resurrezione e Ascensione risultano allo stesso giorno. Ma si tratta di un applicazione arbitraria, errata.
lo preferisco schierarmi con il Magistero, con il Catechismo della Chiesa Cattolica per il quale l’Ascensione, come la Risurrezione, è un avvenimento ad un tempo storico e trascendente” (n. 660).
Non sarebbe ora che i teologi leggessero e spiegassero questo prezioso testo del Magistero ancora tutto da scoprire?

Inoltre

Come la Risurrezione, anche l’Ascensione è evento sia fisico che metafisico. Il Magistero della Chiesa, infatti, definisce l’avvenimento «ad un tempo storico e trascendente» (CCC 660). Storico (e non mitologico) ma anche trascendente, perché il cielo che accoglie il Risorto non è quello fisico, ma quello metafisico, il regno dei cieli da cui il Verbo era venuto ed a cui ritorna nella gloria. Ecco allora che il cielo fisico, o la nuvola, pur appartenendo alla reale esperienza degli apostoli, diventano simbolo di realtà più alte ed a loro ancora invisibili.
Il vero carattere dell’Ascensione è escatologico e le Scritture stesse la collegano alla promessa del dono dello Spirito, alla venuta del Regno, ed alla Parusia finale del ritorno di Gesù (cfr At 1,1-14). Dice il Catechismo: «Il Corpo di Cristo è stato glorificato fin dall’istante della sua Risurrezione, come provano le proprietà nuove e soprannaturali di cui ormai gode in permanenza. Ma durante i quaranta giorni nei quali egli mangia e beve familiarmente con i suoi discepoli e li istruisce sul Regno, la sua gloria resta ancora velata sotto i tratti di un’umanità ordinaria. L’ultima apparizione di Gesù termina con l’entrata irreversibile della sua umanità nella gloria divina simbolizzata dalla nube e dal cielo ove egli siede ormai alla destra di Dio» (CCC 659). Il Figlio, che con l’Incarnazione era sceso nella natura umana, ora, con l’Ascensione, la riconsegna al Padre redenta. «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo. Ora lascio il mondo e vado al Padre» (Gv 16,28).
La sua missione è compiuta e torna nella gloria vittorioso e carico di doni per noi. «Ora io vi dico la verità: è meglio per voi che io parta, perché se non parto il Paraclito non verrà a voi. Se invece me ne vado lo manderò a voi» (Gv 16,7).

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Gesù è la Misericordia incarnata

Posté par atempodiblog le 7 avril 2013

Gesù è la Misericordia incarnata dans Commenti al Vangelo papafrancesco

Cari fratelli e sorelle! Buon giorno!

In questa domenica che conclude l’Ottava di Pasqua, rinnovo a tutti l’augurio pasquale con le parole stesse di Gesù Risorto: «Pace a voi!» (Gv 20,19.21.26). Non è un saluto, e nemmeno un semplice augurio: è un dono, anzi, il dono prezioso che Cristo offre ai suoi discepoli dopo essere passato attraverso la morte e gli inferi. Dona la pace, come aveva promesso: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Questa pace è il frutto della vittoria dell’amore di Dio sul male, è il frutto del perdono. Ed è proprio così: la vera pace, quella profonda, viene dal fare esperienza della misericordia di Dio. Oggi è la Domenica della Divina Misericordia, per volontà del beato Giovanni Paolo II, che chiuse gli occhi a questo mondo proprio alla vigilia di questa ricorrenza.

Il Vangelo di Giovanni ci riferisce che Gesù apparve due volte agli Apostoli chiusi nel Cenacolo: la prima, la sera stessa della Risurrezione, e quella volta non c’era Tommaso, il quale disse: se io non vedo e non tocco, non credo. La seconda volta, otto giorni dopo, c’era anche Tommaso. E Gesù si
rivolse proprio a lui, lo invitò a guardare le ferite, a toccarle; e Tommaso esclamò: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Gesù allora disse: «Perché
mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (v. 29). E chi erano questi che avevano creduto senza vedere? Altri discepoli, altri uomini e donne di Gerusalemme che, pur non avendo incontrato Gesù risorto, credettero sulla testimonianza degli Apostoli e delle donne.

Questa è una parola molto importante sulla fede, possiamo chiamarla la beatitudine della fede. Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto: questa è la beatitudine della fede!

In ogni tempo e in ogni luogo sono beati coloro che, attraverso la Parola di Dio, proclamata nella Chiesa e testimoniata dai cristiani, credono 0 che Gesù Cristo è l’amore di Dio incarnato, la Misericordia incarnata. E questo vale per ciascuno di noi!

Agli Apostoli Gesù donò, insieme con la sua pace, lo Spirito Santo, perché potessero diffondere nel mondo il perdono dei peccati, quel perdono che solo Dio può dare, e che è costato il Sangue del Figlio (cfr Gv 20,21-23). La Chiesa è mandata da Cristo risorto a trasmettere agli uomini la remissione dei peccati, e così far crescere il Regno dell’amore, seminare la pace nei cuori, perché si affermi anche nelle relazioni, nelle società, nelle istituzioni. E lo Spirito di Cristo Risorto scaccia la paura dal cuore degli Apostoli e li spinge ad uscire dal Cenacolo per portare il Vangelo.
Abbiamo anche noi più coraggio di testimoniare la fede nel Cristo Risorto! Non dobbiamo avere paura di essere cristiani e di vivere da cristiani! Noi

dobbiamo avere questo coraggio, di andare e annunciare Cristo Risorto, perché Lui è la nostra pace, Lui ha fatto la pace, con il suo amore, con il suo perdono, con il suo sangue, con la sua misericordia.

Cari amici, oggi pomeriggio celebrerò l’Eucaristia nella Basilica di San Giovanni in Laterano, che è la Cattedrale del Vescovo di Roma.
Preghiamo insieme la Vergine Maria, perché ci aiuti, Vescovo e Popolo, a camminare nella fede e nella carità, fiduciosi sempre nella misericordia
del Signore: Lui sempre ci aspetta, ci ama, ci ha perdonato con il suo sangue e ci perdona ogni volta che andiamo da Lui a chiedere il perdono. Abbiamo fiducia nella sua misericordia!


Dopo il Regina Coeli

Rivolgo un saluto cordiale ai pellegrini che hanno partecipato alla santa Messa presieduta dal Cardinale Vicario di Roma nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, centro di devozione alla Divina Misericordia. Cari fratelli e sorelle, siate messaggeri e testimoni della misericordia di Dio.

Sono lieto poi di salutare i numerosi membri di Movimenti e Associazioni presenti a questo nostro momento di preghiera, in particolare le comunità neocatecumenali di Roma, che iniziano oggi una speciale missione nelle piazze della Città. Invito tutti a portare la Buona Notizia, in ogni ambiente di vita, «con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,16)! Andate nelle piazze e annunciate Gesù Cristo, il Nostro Salvatore.

Saluto tutti i ragazzi e i giovani presenti, in particolare gli alunni del Collège Saint-Jean de Passy di Parigi e quelli della Scuola Giuseppe Mazzini di Marsala, come pure il gruppo di ministranti di Taranto.

Saluto il Coro della Basilica di Collemaggio dell’Aquila, i fedeli di Campoverde di Aprilia, Verolanuova e Valentano, e la comunità Scout Foulard Bianchi.

Il Signore vi benedica, e buon pranzo!

Papa Francesco - Regina Coeli
II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, 7  aprile 2013

Tratto da: Vatican.va

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L’importanza dei segni

Posté par atempodiblog le 6 avril 2013

“E’ importantissimo, signori, sottolineare il fatto empirico e sensibile dell’apparizione pasquale. Se non facciamo questo, noi cristiani corriamo il grande rischio di trasformare il cristianesimo in una gnosi”.
Paolo VI

L'importanza dei segni dans Commenti al Vangelo L-incredulit-di-Tommaso

L’importanza dei segni
Tommaso viene rimproverato da Gesù perché avrebbe già dovuto credere per la testimonianza degli altri discepoli
di Padre Ignace de la Potterie

[...] Nell’ultimo episodio Gesù riappare ai discepoli una settimana dopo. Adesso c’è anche Tommaso, assente la prima volta. L’inizio è lo stesso, la vera novità è costituita dalla presenza di Tommaso, che riveste qui un duplice ruolo: essendo «uno dei Dodici» deve aver visto il Signore risorto; ma d’altra parte, lui è anche uno di quelli che non l’ha visto la prima volta e quindi rappresenta un pò tutti noi. Così il caso di Tommaso prefigura l’atteggiamento di tutti i credenti. Perciò vale per tutti l’invito: «Diventa un uomo di fede». Ma poi Gesù dice: «Perché mi hai visto, Tommaso, hai creduto», e l’evangelista utilizza due volte il perfetto. Ma viene rimproverato da Gesù perché avrebbe già dovuto credere per la testimonianza degli altri discepoli, i quali a loro volta avevano creduto a ciò che aveva detto loro la Maddalena.

Credere sui segni
Gesù dice allora all’apostolo: «Beati coloro che senza aver visto hanno creduto». Su questo versetto c’è molta confusione. Per Bultmann e per Marxsen sarebbe una critica radicale all’importanza dei segni e dell’apparizione pasquale del risorto. Una apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore. Il fedele non deve vedere i segni come fatti storici ma come una rappresentazione simbolica che serve a far comprendere l’efficacia della croce. Allora la resurrezione non c’è! Ma un’altra lettura sbagliata è anche quella che traduce: «Beati coloro che senza aver visto crederanno». Non è corretto tradurre con un futuro. Ci sono due verbi all’aoristo, e in tutti gli altri casi di aoristo utilizzati da Giovanni questi hanno valore di anteriorità. Gesù si riferisce quindi al passato ed è questa la ripresa di quanto è accaduto all’inizio del capitolo, cioè il fatto che i discepoli hanno cominciato a credere già sui segni e poi anche sulla testimonianza degli altri senza avere visto il risorto. [...]

Per approfondire Freccia dans Viaggi & Vacanze Non è la richiesta di una fede cieca

Per approfondire Freccia dans Viaggi & Vacanze Guardare per credere

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La donna adultera nella visione di Marthe Robin

Posté par atempodiblog le 17 mars 2013

La donna adultera nella visione di Marthe Robin dans Commenti al Vangelo gesadulteraipocrisia

“Di fronte alle accuse degli scribi e dei farisei contro questa donna Gesù stava in silenzio.
Sembrava ignorarli e teneva lo sguardo fisso a terra. Non guardava neppure la donna, messa ben in vista per sua vergogna. Poi si è messo a scrivere per terra con il dito. Innervositi dal silenzio di Gesù e incuriositi nel vederlo tracciare segni, alcuni si sono fatti coraggio e si sono avvicinati a Lui. Che cosa stava scrivendo? Il primo dei farisei, arrivato vicino a lui, ha scoperto con stupore che Gesù conosceva i suoi peccati più segreti che erano scritti a grandi lettere per terra! Confuso e spaventato ha guardato Gesù che poteva con una sola parola distruggerlo davanti agli altri.

Ma al contrario, con grande bontà e umile maestà, il Salvatore ha cancellato con la mano il peccato dell’uomo. Finito! Sparito! L’uomo ha letto il perdono negli occhi di Gesù ed è ripartito in silenzio. Poi si è avvicinato un altro, che non poteva evidentemente conoscere i torti del primo. Gesù ha scritto allora il peccato del secondo che, dopo aver letto, se ne è andato anche lui sconvolto.

Tutti si sono avvicendati in questo modo presso Gesù. Così gli accusatori della donna confusi fino in fondo all’anima, ma rispettati nella loro intimità, hanno abbandonato la scena uno dopo l’altro. La maldicenza e le intenzioni perverse, sono state lasciate sul posto, insieme alle pietre destinate alla peccatrice”.

Marthe Robin
Fonte: Cristo, Pietre Vive

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“Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”

Posté par atempodiblog le 16 mars 2013

“Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” dans Commenti al Vangelo benedettoxvimadonna

Il brano evangelico narra l’episodio della donna adultera in due suggestive scene: nella prima assistiamo a una disputa tra Gesù e gli scribi e i farisei riguardo a una donna sorpresa in flagrante adulterio e, secondo la prescrizione contenuta nel Libro del Levitico (cfr 20,10), condannata alla lapidazione. Nella seconda scena si snoda un breve e commovente dialogo tra Gesù e la peccatrice. Gli spietati accusatori della donna, citando la legge di Mosè provocano Gesù – lo chiamano maestro” (Didáskale) – chiedendogli se sia giusto lapidarla. Conoscono la sua misericordia e il suo amore per i peccatori e sono curiosi di vedere come se la caverà in un caso del genere, che secondo la legge mosaica non presentava dubbi. Ma Gesù si mette subito dalla parte della donna; in primo luogo scrivendo per terra parole misteriose, che l’evangelista non rivela, e poi pronunciando quella frase diventata famosa: Chi di voi è senza peccato (usa il termine anamártetos, che viene utilizzato nel Nuovo Testamento soltanto qui), scagli per primo la pietra contro di lei » (Gv 8,7). Nota sant’Agostino che il Signore, rispondendo, rispetta la legge e non abbandona la sua mansuetudine”. Ed aggiunge che con queste sue parole obbliga gli accusatori a entrare dentro se stessi e guardando se stessi a scoprirsi peccatori. Per cui, colpiti da queste parole come da una freccia grossa quanto una trave, uno dopo l’altro se ne andarono” (In Io. Ev. tract 33,5).

Uno dopo l’altro, dunque, gli accusatori che avevano voluto provocare Gesù, se ne vanno cominciando dai più anziani fino agli ultimi”. Quando tutti sono partiti il divino Maestro resta solo con la donna. Conciso ed efficace il commento di sant’Agostino: relicti sunt duo: misera et misericordia, restano solo loro due, la misera e la misericordia” (Ibid.). Fermiamoci, cari fratelli e sorelle, a contemplare questa scena dove si trovano a confronto la miseria dell’uomo e la misericordia divina, una donna accusata di un grande peccato e Colui, che pur essendo senza peccato, si è addossato i peccati del mondo intero. Egli, che era rimasto chinato a scrivere nella polvere, ora alza gli occhi ed incontra quelli della donna. Non chiede spiegazioni, non esige scuse. Non è ironico quando le domanda: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” (8,10). Ed è sconvolgente nella sua replica: Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (8,11). Ancora sant’Agostino, nel suo commento, osserva: Il Signore condanna il peccato, non il peccatore. Infatti, se avesse tollerato il peccato avrebbe detto: Neppure io ti condanno, va’, vivi come vuoi… per quanto grandi siano i tuoi peccati, io ti libererò da ogni pena e da ogni sofferenza. Ma non disse così” (Io. Ev. tract. 33,6).

Cari amici, dalla parola di Dio che abbiamo ascoltato emergono indicazioni concrete per la nostra vita. Gesù non intavola con i suoi interlocutori una discussione teorica: non gli interessa vincere una disputa a proposito di un’interpretazione della legge mosaica, ma il suo obbiettivo è salvare un’anima e rivelare che la salvezza si trova solo nell’amore di Dio. Per questo è venuto sulla terra, per questo morirà in croce ed il Padre lo risusciterà il terzo giorno. E’ venuto Gesù per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore. Anche in questo episodio, dunque, comprendiamo che il vero nostro nemico è l’attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza. Gesù congeda la donna adultera con questa consegna: Va e d’ora in poi non peccare più”. Le concede il perdono affinché d’ora in poi” non pecchi più.

Benedetto XVI

Per leggere il brano dell’opera di Maria Valtorta su questo Vangelo cliccare iconarrowti7 La donna adultera e l’ipocrisia dei suoi accusatori

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Rivolgere nuovamente lo sguardo al cielo

Posté par atempodiblog le 10 mars 2013

Dio è il Padre che aspetta i suoi figli dans Commenti ai Vangeli festivi

Sant’Ambrogio, commentando questa parabola del padre prodigo d’amore nei confronti del figlio prodigo di peccato, introduce la presenza della Trinità: “Alzati, vieni di corsa alla Chiesa: qui c’è il Padre, qui c’è il Figlio, qui c’è lo Spirito Santo. Egli ti corre incontro, perché ti ascolta mentre stai riflettendo tra te e te nel segreto del cuore. E quando ancora sei lontano, ti vede e si mette a correre. Egli vede nel tuo cuore, accorre perché nessuno ti trattenga, e per di più ti abbraccia… Egli si getta al collo, per sollevare chi giaceva a terra, e per far sì che chi già era oppresso dal peso dei peccati e chino verso le cose terrene, rivolgesse nuovamente lo sguardo al cielo, ove doveva cercare il proprio Creatore. Cristo ti si getta al collo, perché vuol toglierti dalla nuca il giogo della schiavitù e imporre sul tuo collo un dolce giogo” (In Lucam VII, 229-230). 

Tratto dall’Udienza Generale di Giovanni Paolo II del 30 agosto 2000

Inoltre, per approfondire la parabola dei due fratelli e del Padre misericordioso cliccare sui link sottostanti :

2e2mot5 dans Diego Manetti Il pericolo che corrono le persone pie

2e2mot5 dans Diego Manetti Dio è il Padre che aspetta i suoi figli

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La donna dell’Apocalisse e l’anticristo

Posté par atempodiblog le 20 janvier 2013

La donna dell’Apocalisse e l’anticristo
di Ignace de la Potterie – 30Giorni

La donna dell’Apocalisse e l’anticristo dans Anticristo La-bestia-che-sale-dal-mare-una-delle-scene-dell-Apocalisse-affrescata-da-Giusto-de-Menabuoi-nell
La bestia che sale dal mare, una delle scene dell’Apocalisse affrescata da Giusto de’ Menabuoi nell’abside del Battistero di Padova

[...] Erik Peterson (1890-1960) e Heinrich Schlier (1900-1978)[...] Per i due teologi tedeschi, entrambi convertiti dal protestantesimo, le visioni narrate nell’Apocalisse raffigurano la battaglia terribile e insieme reale in corso nella storia tra il Redentore e il suo nemico escatologico. I due esegeti considerano l’anticristo come un attore dell’Apocalisse, rappresentato nei simboli del drago e delle due bestie. Peterson, nel suo studio del 1938 sull’Apocalisse, parlando della bestia che viene dalla terra la identifica con «il falso profeta che si può anche chiamare il teologo dell’anticristo». Schlier più di vent’anni dopo scrive tutto un articolo sull’anticristo concentrandosi unicamente sul capitolo 13 dell’Apocalisse, nel quale egli scopre tutta la simbologia del culto imperiale. L’anticristo nella sua lettura si identifica con l’Impero romano e, più in generale, con le potenze mondane che perseguitano la Chiesa.
A una lettura esclusivamente politica dei segni dell’Apocalisse sono ricorsi in molti nel corso dei secoli, dentro e fuori la Chiesa. Tutti i persecutori e tutti i protagonisti tragici e negativi della storia, fino a Hitler e Stalin, sono stati identificati di volta in volta come personificazioni dell’anticristo. Lutero ha attribuito le caratteristiche dell’anticristo addirittura al papa di Roma.
Una tale inflazione di anticristi rischia di generare equivoci. Per questo sembra opportuno riscoprire cosa è veramente l’anticristo per Giovanni, il discepolo che ne ha parlato.
Innanzitutto c’è da notare che, anche se molti commenti mettono in relazione anticristo e Apocalisse, l’espressione “anticristo” non compare mai esplicitamente nel libro scritto da Giovanni a Patmos. Ci sono, è vero, le figure terribili delle due bestie e del drago. Ma anche qui, se da una parte la bestia che viene dal mare si identifica con Roma e i regni mondani, l’altra bestia, quella che viene dalla terra, rappresenta il potere religioso incarnato dalla casta sacerdotale giudaica (la prostituta), come ha messo bene in rilievo Eugenio Corsini nel suo volume Apocalisse prima e dopo (Sei, Torino 1980). La bestia religiosa è pericolosa in quanto strumento del maligno così come lo sono i grandi poteri mondani.
Se poi vogliamo sapere cosa sia per Giovanni l’anticristo, più che all’Apocalisse dobbiamo guardare alle sue prime due lettere. È qui che il termine anti-cristo, coniato da Giovanni, compare per la prima volta; esso significa: “Colui che è contro Cristo” ossia «colui che nega che Gesù è il Cristo» (1Gv 2, 22). Il brano fondamentale sta un po’ prima: «Figlioli, è l’ultima ora, e avete udito che un anticristo deve venire, ma ora molti anticristi sono apparsi; da ciò riconosciamo che è l’ultima ora. Di mezzo a noi sono usciti, ma non erano di noi; se fossero stati di noi, sarebbero rimasti con noi; ma doveva essere reso manifesto che loro, tutti quanti, non sono di noi» (1Gv 2, 18-19). Ecco, dunque, la prima caratteristica dell’avvento dell’anticristo: si tratta di un evento ecclesiale, prima che politico. L’anticristo come figura misteriosa, ancora non precisata, la cui venuta viene descritta anche da Paolo (2Ts 2, 7-8) come uno dei segni degli ultimi tempi, assume nelle lettere di Giovanni dei connotati storici precisi. Coincide con il manifestarsi della prima dolorosa frattura nel seno della comunità cristiana. Gli anticristi sono i primi eretici, come gli gnostici, coloro cioè che hanno rotto l’unità della comunità attorno a Cristo. Il loro è il delitto più grave, quello che Giovanni chiama «peccato d’iniquità»: essere contro Gesù Cristo. Non riconoscere Gesù venuto nella carne, e quindi, come spiega anche la seconda lettera, voler andare oltre: «Chi va oltre e non rimane nella dottrina di Cristo, non possiede Dio» (2Gv 9). Nella prima lettera, la figura dell’anticristo viene menzionata insieme agli altri due antagonisti dei cristiani: il maligno («Ve lo scrivo, giovani: avete vinto il maligno», 1Gv 2, 13) e il mondo («Non amate il mondo, né ciò che è nel mondo», 1Gv 2, 15). Tra questi tre soggetti c’è un legame stretto: le singole persone, definite anticristi, che rinnegando Gesù Cristo hanno provocato la divisione della comunità, rappresentano un potere collettivo, il mondo, che si è chiuso all’amore del Padre ma che è ispirato dal potere del maligno. In questo senso l’anticristo, in quanto ispirato dal maligno, cioè satana, svela la sua dimensione essenziale, escatologica, che ci riconduce all’Apocalisse. L’evento ecclesiale dello scisma per eresia viene svelato nella sua drammaticità di evento escatologico: dietro il delitto degli anticristi c’è l’azione del maligno nella sua lotta contro il regno messianico. Un’opposizione destinata alla sconfitta, perché il maligno sa che il Signore ha già vinto. Ma proprio l’approssimarsi del rivelarsi definitivo della vittoria rende il diavolo più rabbioso nella persecuzione dei discepoli di Gesù lungo la storia: «Esultate dunque, o cieli, e voi che abitate in essi. Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è precipitato sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo» (Ap12, 12).

La-donna-vestita-di-sole-e-il-drago-che-tenta-di-divorarne-il-bambino-una-delle-scene-dell-Apocalis dans Commenti al Vangelo
La donna vestita di sole e il drago che tenta di divorarne il bambino, una delle scene dell’Apocalisse affrescata da Giusto de’ Menabuoi nell’abside del Battistero di Padova [© Archivi Alinari, Firenze]

Tutta la seconda parte dell’Apocalisse (capitoli 12-22) è consacrata al destino di persecuzione della Chiesa nel corso del tempo fino alla vittoria finale nella nuova Gerusalemme che scende dal cielo. All’inizio di questa sezione la Chiesa perseguitata è descritta nel simbolo della lotta tra la donna e il drago. Proprio per la figura della donna, oltre alla interpretazione che già nei commenti dei Padri vedeva in essa un’immagine della Chiesa, è stata proposta a partire dal Medioevo una chiave di lettura mariana, che ha influenzato largamente la tradizione iconografica e liturgica. In effetti i primi cristiani e in particolare la comunità giovannea, considerato il rapporto filiale di Giovanni con Maria iniziato sul Calvario, non potevano non riferire l’immagine della donna dell’Apocalisse alla donna concreta di cui parla il Vangelo, la madre di Gesù che egli stesso chiama «donna» prima alle nozze di Cana (Gv 2, 4) e poi quando ella è sotto la croce, insieme a Giovanni («Donna, ecco tuo figlio [...]. Ecco tua madre», Gv 19, 26-27). Si possono fare varie considerazioni che confermano la legittimità della duplice lettura. La donna è vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi. Grida per le doglie del parto e il figlio maschio che partorisce viene insidiato come lei dal drago. Tutti simboli e immagini attribuibili sia a Maria che alla Chiesa. Ad esempio il parto doloroso, che non può essere un riferimento alla natività di Gesù da Maria (lì il parto fu verginale e senza dolore: l’enciclica di Pio XII Mediator Dei, riassumendo tutta la Tradizione, lo ha definito «felice parto»), simboleggia invece l’evento pasquale, con la nascita della Chiesa. Evento che accade proprio ai piedi della croce: Maria e Giovanni ai piedi del Redentore crocifisso sono la Chiesa nascente. Ed è lì che la madre di Gesù diventa madre di tutti i discepoli. Quei discepoli su cui, come dice ancora l’Apocalisse, si riverserà la collera del drago: «Allora, per placare la sua collera contro la donna, il drago se ne andò a guerreggiare con il resto dei suoi figli, cioè quelli che obbediscono agli ordini di Dio e custodiscono la testimonianza di Gesù» (Ap 12, 17).
Se è dunque lecita la lettura mariana della donna dell’Apocalisse, ci interessa qui cogliere proprio il senso della lotta tra la donna Maria e il drago. Ossia la contrapposizione tra Maria e quel simbolo del male escatologico che, come abbiamo visto, per Giovanni emerge storicamente nella fuoriuscita dalla Chiesa dei primi eretici. C’è una bellissima antifona, che s’incontrava nelle feste mariane del passato e che la riforma liturgica ha eliminato sia dal breviario che dal messale: «Gaude, Maria Virgo, cunctas haereses tu sola interemisti in universo mundo» (Rallegrati, Vergine Maria, tu sola hai distrutto tutte le eresie nel mondo intero). Non è che Maria abbia fatto nella sua vita qualcosa contro le eresie. Ma certo il riconoscimento di Maria nei dogmi mariani è sintomo e baluardo della saldezza della fede. Anche il cardinale Ratzinger, nel suo libro-intervista con Vittorio Messori, sottolinea che «Maria trionfa su tutte le eresie»: se si accorda a Maria il posto che le conviene nella Tradizione e nel dogma, ci si trova già veramente al centro della cristologia della Chiesa. I primi dogmi, riguardanti la verginità perpetua e la maternità divina, ma anche gli ultimi (immacolata concezione e assunzione corporale nella gloria celeste), sono la base sicura per la fede cristiana nell’incarnazione del Figlio di Dio. Ma anche la fede nel Dio vivente, che può intervenire nel mondo e nella materia, così come la fede circa le realtà ultime (risurrezione nella carne, e quindi trasfigurazione dello stesso mondo materiale) è confessata implicitamente nel riconoscimento dei dogmi mariani. Anche per questo si spera che verrà realizzato il progetto di reintrodurre, magari nella festa dell’Assunzione corporea di Maria al cielo, il 15 agosto, la bella antifona accantonata dalla riforma liturgica.

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Al di là delle apparenze

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2012

Al di là delle apparenze dans Citazioni, frasi e pensieri vedovaaltempio

“Gesù ci invita a posare, come Lui, uno sguardo buono e giusto sulle persone e sugli eventi. Spesso, ci  lasciamo  impressionare e condizionare dalle apparenze e dagli slogan che distorcono  le cose. Cerchiamo di vedere, al di là di ciò che sembra, la scintilla di bontà che è deposta e che potrà illuminare il nostro giudizio. Allora il nostro rapporto con Dio e con gli altri sarà più vero, e le nostre scelte saranno più libere. L’umiltà ci insegna che noi non valiamo se non quello che siamo davanti a Dio!  Su questo cammino che la Vergine Maria sia il nostro modello!”.

Dall’Angelus del Santo Padre Benedetto XVI (saluto ai pellegrini di lingua francese, traduzione a cura di atempodiblog)

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