Il Papa: chi giudica gli altri è un ipocrita, si mette al posto di Dio

Posté par atempodiblog le 23 juin 2014

“Chi giudica sbaglia, ma non solo sbaglia, anche si confonde. E’ tanto ossessionato da quello che vuole giudicare, da quella persona – tanto, tanto ossessionato!”.
Chi giudica un fratello sbaglia e finirà per essere giudicato allo stesso modo. Dio è “l’unico giudice” e chi è giudicato potrà contare sempre sulla difesa di Gesù, il suo primo difensore, e sullo Spirito Santo. Lo ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa del mattino, celebrata in Casa S. Marta.

di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

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Usurpatore di un posto e di un ruolo che non gli compete e, insieme, anche uno sconfitto, perché finirà vittima della sua stessa mancanza di misericordia. È questo ciò che accade a chi giudica un fratello. Papa Francesco ha appena letto la pagina del Vangelo sulla pagliuzza e la trave nell’occhio ed è subito chiaro nel distinguere: “La persona che giudica – dice – sbaglia, si confonde e diventa sconfitta”, perché “prende il posto di Dio, che è l’unico giudice”. Quell’appellativo, “ipocriti”, che Gesù lancia più volte all’indirizzo dei dottori della legge è in realtà rivolto a chiunque. Anche perché, osserva il Papa, chi giudica lo fa “subito”, mentre “Dio per giudicare si prende tempo”:

“Per questo chi giudica sbaglia, semplicemente perché prende un posto che non è per lui. Ma non solo sbaglia, anche si confonde. E’ tanto ossessionato da quello che vuole giudicare, da quella persona – tanto, tanto ossessionato! – che quella pagliuzza non lo lascia dormire! ‘Ma, io voglio toglierti quella pagliuzza!’… E non si accorge della trave che lui ha. Confonde: crede che la trave sia quella pagliuzza. Confonde la realtà. E’ un fantasioso. E chi giudica diventa uno sconfitto, finisce male, perché la stessa misura sarà usata per giudicare lui. Il giudice che sbaglia posto perché prende il posto di Dio – superbo, sufficiente – scommette su una sconfitta. E qual è la sconfitta? Quella di essere giudicato con la misura con la quale lui giudica”.

“L’unico che giudica è Dio e quelli ai quali Dio dà la potestà di farlo”, soggiunge Papa Francesco, che indica nell’atteggiamento di Gesù l’esempio da imitare, rispetto a chi non si fa scrupoli nel trinciare giudizi sugli altri:

“Gesù, davanti al Padre, mai accusa! E’ il contrario: difende! E’ il primo Paraclito. Poi ci invia il secondo, che è lo Spirito. Lui è il difensore: è davanti al Padre per difenderci dalle accuse. E chi è l’accusatore? Nella Bibbia, si chiama “accusatore” il demonio, satana. Gesù giudicherà, sì: alla fine del mondo, ma nel frattempo intercede, difende..

In definitiva, chi giudica – afferma Papa Francesco, “è un imitatore del principe di questo mondo, che va sempre dietro le persone per accusarle davanti al Padre”. Che il Signore, conclude, “ci dia la grazia di imitare Gesù intercessore, difensore, avvocato, nostro e degli altri”. E di “non imitare l’altro, che alla fine ci distruggerà”:

“Se noi vogliamo andare sulla strada di Gesù, più che accusatori dobbiamo essere difensori degli altri davanti al Padre. Io vedo una cosa brutta a un altro, vado a difenderlo? No! Ma stai zitto! Vai a pregare e difendilo davanti al Padre, come fa Gesù. Prega per lui, ma non giudicare! Perché se lo fai, quando tu farai una cosa brutta, sarai giudicato. Ricordiamo questo bene, ci farà bene nella vita di tutti i giorni, quando ci viene la voglia di giudicare gli altri, di sparlare degli altri, che è una forma di giudicare”.

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Omelia per la Domenica delle Palme di San Josemaría: la lotta interiore

Posté par atempodiblog le 12 avril 2014

La lotta interiore di San Josemaría Escrivá de Balaguer
Tratto da: San Josemaría Escrivá 

Omelia per la Domenica delle Palme di San Josemaría: la lotta interiore dans Commenti al Vangelo ingresso_ges_a_gerusalemme

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73 pixtrans dans San Josemaria Escriva' de Balaguer Al pari di ogni festa cristiana, quella che oggi celebriamo è soprattutto una festa di pace. I rami d’ulivo, nel loro antico simbolismo, evocano un episodio narrato nel libro della Genesi: Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca, e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra                 (Gn 8, 10-11). Ora ricordiamo che l’alleanza tra Dio e il suo popolo è riconfermata e stabilita in Cristo, perché Egli è la nostra pace (Ef 2, 14). Nella meravigliosa unità della Liturgia della Santa Chiesa Cattolica, che ricapitola il vecchio e il nuovo, noi leggiamo oggi parole di profonda gioia: Le folle degli Ebrei, portando rami d’ulivo, andavano incontro al Signore e acclamavano a gran voce: « Osanna all’Altissimo Dio » (antifona alla distribuzione delle palme).
L’acclamazione a Gesù rievoca nel nostro spirito quella che ne salutò la nascita a Betlemme. Via via che egli avanzava — narra san Luca — stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: « Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! » (Lc 19, 36-38).
Pax in coelo! Ma gettiamo uno sguardo anche sul mondo. C’è forse pace sulla terra? No, non c’è. Vi è una pace apparente, l’equilibrio della paura, dei compromessi precari. Non c’è pace nemmeno nella Chiesa, così scossa da tensioni che lacerano la bianca tunica della Sposa di Cristo. Non c’è pace in tanti cuori che tentano invano di compensare l’inquietudine dell’anima con un’attività incessante, con la minuscola soddisfazione di beni che non saziano, perché lasciano dietro di sé il sapore amaro della tristezza.
Le palme — scrive Sant’Agostino — sono segno di trionfo, perché indicano la vittoria. Il Signore avrebbe vinto morendo sulla Croce. Nel segno della Croce avrebbe trionfato sul diavolo, principe della morte (SANT’AGOSTINO, In Ioannis Evangelium tractatus, 51, 2 [PL 35, 1764]). Gesù è la nostra pace perché Egli ha vinto. Ha vinto perché ha combattuto la dura battaglia contro tutto il cumulo di malizia dei cuori umani.
Cristo, nostra pace, è anche Via (cfr Gv 14, 6). Se vogliamo la pace, dobbiamo seguire i suoi passi. La pace è la conseguenza della guerra, della lotta. Lotta ascetica, intima, che ogni cristiano è tenuto a sostenere contro tutto ciò che nella sua vita non viene da Dio: la superbia, la sensualità, l’egoismo, la superficialità, la meschinità del cuore. È inutile reclamare la serenità esteriore quando manca la tranquillità nella coscienza, nell’intimo dell’anima, perché dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie (Mt 15, 19). 
74 pixtrans Ma questo linguaggio non suonerà antiquato? Non è stato forse sostituito da parole d’occasione, da cedimenti personali rivestiti di orpelli falsamente scientifici? Non vige ormai un tacito accordo secondo cui i veri beni sono il denaro che compra tutto, il potere temporale, la furbizia di rimanere sempre sulla cresta dell’onda, la sapienza umana che si autodefinisce adulta e ritiene di aver superato il sacro?
Non sono mai stato né sono pessimista, perché la fede mi dice che la vittoria di Cristo è definitiva e che Egli ci ha dato, a garanzia della sua conquista, un comando che per noi è un impegno: lottare. Noi cristiani siamo vincolati da un impegno d’amore liberamente accettato quando abbiamo accolto la chiamata della grazia divina; siamo vincolati da un obbligo che ci spinge a lottare tenacemente, perché sappiamo bene di essere fragili, al pari degli altri uomini. Ma sappiamo anche che, adoperando i mezzi, saremo il sale, la luce, il lievito del mondo: saremo la consolazione di Dio.
La nostra volontà di perseverare con fermezza in questo proposito d’amore è inoltre un dovere di giustizia. Il modo pratico di corrispondere a questa esigenza, comune a tutti i fedeli, è una battaglia incessante. La tradizione della Chiesa ha sempre considerato i cristiani come milites Christi, soldati di Cristo. Soldati che portano agli altri la serenità mentre combattono costantemente le proprie cattive inclinazioni. Sovente, per scarso senso soprannaturale, per mancanza di fede pratica, non si vuol capire nulla della vita presente concepita come milizia. Si insinua maliziosamente che, considerandoci milites Christi, corriamo il pericolo di servirci della fede per fini temporali di sopraffazione e di parte. Questo modo di pensare è una deprecabile e irragionevole semplificazione che va di pari passo con la comodità e la viltà.
Non c’è niente di più estraneo alla fede cristiana del fanatismo con cui vengono proposti strani connubi tra il profano e lo spirituale, qualunque ne sia il colore. Tale pericolo non esiste se per lotta si intende quello che Cristo ci ha insegnato, e cioè la guerra che ognuno deve combattere contro se stesso, lo sforzo sempre rinnovato di amare di più Dio, di respingere l’egoismo, di servire tutti gli uomini. Rinunciare a questa impresa, sotto qualunque pretesto, significa darsi per vinti anzitempo, restare annientati e senza fede, con l’anima abbattuta e dispersa in compiacenze meschine.
Per il cristiano, combattere la propria battaglia al cospetto di Dio e di tutti i fratelli nella fede, è la necessaria conseguenza della sua condizione. Se pertanto qualcuno non lotta, tradisce Gesù Cristo e il suo Corpo Mistico, che è la Chiesa. 
75 pixtrans La lotta del cristiano non ha soste, perché nella vita interiore si verifica quel continuo cominciare e ricominciare che impedisce che a un dato momento la superbia ci faccia considerare perfetti. È inevitabile che vi siano molte difficoltà nel nostro cammino; se non trovassimo ostacoli, non saremmo creature di carne ed ossa. Vi saranno sempre delle passioni pronte a trascinarci in basso, e dovremo sempre difenderci da tali deliri, più o meno veementi.
Il fatto di sentire nel corpo e nell’anima il pungolo della superbia, della sensualità, dell’invidia, della pigrizia, dello spirito di sopraffazione, non dovrebbe costituire una scoperta. Si tratta di un male antico, sistematicamente verificato nella nostra esperienza personale; esso è il punto di partenza e l’atmosfera abituale per vincere in questo intimo sport, nella nostra corsa verso la casa del Padre. San Paolo insegna infatti: Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato (1 Cor 9, 26-27).
Per cominciare a sostenere la prova, il cristiano non deve aspettare segnali esterni o stati d’animo favorevoli. Nella vita interiore ciò che conta non sono gli stati d’animo, ma la grazia divina, la volontà, l’amore. Tutti i discepoli furono capaci di seguire Gesù nell’ora del trionfo a Gerusalemme, ma quasi tutti lo abbandonarono nell’ora ignominiosa della Croce.
Per amare sul serio è necessario essere forti, leali, avere il cuore saldamente ancorato alla fede, alla speranza e alla carità. Solo chi è inconsistente e fatuo muta capricciosamente l’oggetto dei suoi affetti, che in realtà non sono affetti, ma soddisfazioni egoistiche. Quando c’è amore c’è lealtà, vale a dire capacità di donazione, di sacrificio, di rinuncia. E nel bel mezzo della donazione, del sacrificio e della rinuncia, pur con il tormento delle contrarietà, si trovano la felicità e la gioia; una gioia che nulla e nessuno potrà toglierci.
In questa giostra d’amore, le cadute non devono avvilirci, ancorché fossero gravi, purché ci rivolgiamo a Dio nel Sacramento della Penitenza con dolore sincero e proposito retto. Il cristiano non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia. Gesù Nostro Signore, che tanto si commuove dinanzi all’innocenza e alla fedeltà di Giovanni, si intenerisce allo stesso modo, dopo la caduta di Pietro, per il suo pentimento. Gesù, che comprende la nostra fragilità, ci attrae a sé guidandoci come per un piano inclinato ove si sale a poco a poco, giorno per giorno, perché desidera che il nostro sforzo sia perseverante. Ci cerca come cercò i discepoli di Emmaus, andando loro incontro; come cercò Tommaso per mostrargli e fargli toccare con le sue stesse mani le piaghe aperte sul suo corpo. Proprio perché conosce la nostra fragilità Gesù attende sempre che torniamo a Lui. 
76 pixtrans Ci dice san Paolo: Prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù (2 Tm 2, 3). La vita del cristiano è milizia, è guerra, bellissima guerra di pace che non assomiglia in nulla alle imprese belliche degli uomini, perché queste si ispirano alla divisione e all’odio, mentre la guerra che i figli di Dio combattono contro il proprio egoismo si fonda sull’unità e sull’amore. Noi — insegna infatti san Paolo — viviamo nella carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio (2 Cor 10, 3-4). È la schermaglia senza tregua contro l’orgoglio, contro la prepotenza che ci dispone ad agire malamente, contro l’arroganza nel giudicare.
In questa domenica delle Palme, nel commemorare il giorno in cui il Signore dà inizio alla settimana decisiva per la nostra salvezza, mettiamo da parte le considerazioni superficiali, andiamo all’essenza, a ciò che è veramente importante. Ebbene, la nostra aspirazione è andare in Cielo. Altrimenti non c’è nulla che valga la pena. Per andare in Cielo è indispensabile la fedeltà alla dottrina di Cristo. Per essere fedeli è indispensabile insistere con costanza nella lotta contro gli ostacoli che si oppongono alla nostra felicità eterna.
So bene che, quando si parla di lotta, si erge dinanzi a noi la consapevolezza della nostra fragilità che ci fa prevedere le cadute e gli errori. Ma Dio mette in conto queste cose: mentre si cammina è inevitabile che si alzi la polvere della strada. Siamo creature, e come tali abbiamo tanti difetti. Direi che conviene che ve ne siano sempre: sono come un’ombra che fa sì che nell’anima, per contrasto, risaltino di più la grazia di Dio e il nostro sforzo di corrispondere al favore divino. Questo chiaroscuro ci fa più umani, più umili, più comprensivi, più generosi.
Cerchiamo di non ingannarci: se nella nostra vita costatiamo momenti di slancio e di vittoria, costatiamo pure momenti di decadimento e di sconfitta. Tale è stato sempre il pellegrinaggio terreno dei cristiani, non esclusi quelli che veneriamo sugli altari. Vi ricordate di Pietro, di Agostino, di Francesco? Non ho mai apprezzato quelle biografie che ci presentano — con ingenuità, ma anche con carenza di dottrina — le imprese dei santi come se essi fossero stati confermati in grazia fin dal seno materno. Non è così. Le vere biografie degli eroi della fede sono come la nostra storia personale: lottavano e vincevano, lottavano e perdevano; in tal caso, contriti, tornavano alla lotta.
Non sorprendiamoci di vederci sconfitti con relativa frequenza: di solito, o anche sempre, in cose di poca importanza ma che ci affliggono come se ne avessero molta. Quando c’è amor di Dio, quando c’è umiltà, quando c’è perseveranza e fermezza nella lotta, queste sconfitte non avranno mai molto peso. Non solo, ma verranno le vittorie, che saranno a nostra gloria agli occhi di Dio. Non esiste l’insuccesso quando si agisce con rettitudine di intenzione, quando si vuole compiere la volontà di Dio e si fa affidamento sulla sua grazia, consapevoli del nostro nulla. 
77 pixtrans Ma è in agguato un nemico potente che si oppone al nostro desiderio di incarnare fino in fondo la dottrina di Cristo: è la superbia, che cresce quando non cerchiamo di scoprire dietro agli insuccessi e alle sconfitte la mano benefica e misericordiosa del Signore. L’anima si vela allora di penombra — di triste oscurità — e si sente perduta. L’immaginazione inventa ostacoli irreali che si dissolverebbero se guardassimo le cose con un briciolo di umiltà. A motivo della superbia e dell’immaginazione l’anima si caccia a volte in tortuosi calvari, nei quali però non v’è Cristo, perché dove è il Signore si gode la pace e la gioia, anche quando l’anima è in carne viva e circondata da tenebre.
C’è un altro nemico ipocrita della nostra santificazione: l’idea che la battaglia interiore vada sferrata contro ostacoli straordinari, contro draghi che buttano fuoco dalle fauci. È un altro tranello dell’orgoglio: vogliamo lottare, ma con grande spettacolo, tra squilli di trombe e svettare di stendardi.
Dobbiamo convincerci che il nemico più grande della roccia non è il piccone o altro strumento di demolizione, per potente che sia: è quell’acqua insignificante che penetra, a goccia a goccia, tra le sue fenditure, fino a disgregarne la struttura. Il pericolo più grande per il cristiano è quello di disprezzare la lotta nelle cose piccole che penetrano a poco a poco nell’anima fino a renderla molle, fragile e indifferente, insensibile ai richiami di Dio.
Ascoltiamo il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto (Lc 16, 10). È come se Egli ci ricordasse: lotta ogni istante in quei particolari in apparenza di poco conto, ma grandi al mio cospetto; vivi con precisione il compimento del dovere; sorridi a chi ne ha bisogno, anche se la tua anima è sofferente; dedica all’orazione il tempo necessario, senza ritagliarlo; va’ incontro a chi cerca il tuo aiuto; esercita la giustizia arricchendola con il garbo della carità.
Queste e altre simili sono le mozioni che ogni giorno sentiremo dentro di noi, come richiami silenziosi che ci spingono ad allenarci nello sport soprannaturale del dominio di noi stessi. Ci illumini la luce di Dio, facendoci percepire i suoi ammonimenti; ci aiuti Lui a lottare e sia al nostro fianco nella vittoria; non ci abbandoni al momento della caduta, perché con Lui potremo sempre rialzarci e continuare a combattere.
Non possiamo sostare. Il Signore ci chiede di lottare guadagnando sempre di più in prontezza, in profondità, in estensione. È nostro dovere superarci, perché in questa prova c’è un’unica meta, la gloria del Cielo: se non la raggiungiamo, tutto sarà stato inutile. 
78 pixtrans Colui che vuole lottare fa uso dei mezzi appropriati. E i mezzi, in venti secoli di cristianesimo, non sono cambiati: preghiera, mortificazione e pratica dei Sacramenti. Poiché anche la mortificazione è orazione — preghiera dei sensi — possiamo indicare questi mezzi con due sole parole: preghiera e Sacramenti.
Vorrei ora che considerassimo insieme quella sorgente di grazia divina, quella meravigliosa manifestazione della misericordia di Dio che sono i Sacramenti. Meditiamo lentamente la definizione che di essi dà il Catechismo di san Pio V: Segni sensibili che producono la grazia, e al tempo stesso la manifestano, come ponendola dinanzi agli occhi (Catechismo romano del Concilio di Trento, II, cap. I, 3). Dio Nostro Signore è infinito, il suo amore è inesauribile, la sua clemenza e la sua pietà verso di noi non hanno limiti: e benché ci conceda la sua grazia in tanti altri modi, ha istituito espressamente e liberamente — solo Lui poteva farlo — quei sette segni efficaci per mezzo dei quali, in modo stabile, semplice e accessibile a tutti, gli uomini possono partecipare ai meriti della Redenzione.
Quando si abbandonano i Sacramenti, la vera vita cristiana si estingue. E tuttavia, specialmente ai nostri giorni, è palese che molti dimenticano e persino disprezzano questo flusso redentore di grazia che Cristo ci offre. È doloroso parlare di questa piaga della società che si chiama cristiana, ma è necessario, se vogliamo che nelle nostre anime si consolidi il desiderio di ricorrere con più amore e più gratitudine a queste sorgenti di santificazione.
Non manca oggi chi decide, senza scrupolo alcuno, di rinviare il Battesimo dei neonati e — perpetrando un grave attentato alla giustizia e alla carità — li priva della grazia della fede, del tesoro inestimabile della presenza della Trinità Beatissima nell’anima che viene al mondo macchiata dal peccato originale. Costoro pretendono anche di svilire la natura peculiare del Sacramento della Cresima che la Tradizione, con insegnamento unanime, considera come un irrobustimento della vita spirituale, un’effusione tacita e feconda dello Spirito Santo perché l’uomo, fortificato soprannaturalmente, possa lottare come soldato di Cristo — miles Christi — nella battaglia interiore contro l’egoismo e la concupiscenza.
Quando si perde sensibilità per le cose di Dio, sarà pure difficile comprendere il Sacramento della Penitenza. La confessione sacramentale non è un dialogo umano, ma un colloquio divino; è un tribunale di sicura e divina giustizia, ma soprattutto di misericordia, con un giudice che, nel suo amore, non gode della morte del peccatore, ma desidera che si converta e viva (Ez 33, 11).
È veramente infinita la tenerezza di Nostro Signore. Guardate con quanta delicatezza tratta i suoi figli. Ha fatto del Matrimonio un vincolo santo, l’immagine dell’unione di Cristo con la sua Chiesa (cfr Ef 5, 32), un Sacramento grande, su cui si fonda la famiglia cristiana perché sia, con la grazia di Dio, un ambito di pace e di concordia, una scuola di santità. I genitori sono i cooperatori di Dio: è questo il fondamento dell’amabile dovere di venerazione cui i figli sono tenuti a corrispondere. Ben a ragione il quarto comandamento può essere chiamato — come ho scritto molti anni fa — precetto dolcissimo del decalogo. Quando si vive il matrimonio come Dio vuole, santamente, il focolare sarà un angolo di pace luminoso e allegro. 
79 pixtrans Per mezzo dell’Ordine Sacro, Dio nostro Padre ha reso possibile che alcuni fedeli, in virtù di una nuova e ineffabile infusione dello Spirito Santo, ricevano nell’anima un carattere indelebile che li configura a Cristo Sacerdote perché possano agire in nome di Gesù, Capo del Corpo Mistico (cfr CONCILIO DI TRENTO, Sessione XXIII, c. 4; CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, 2). Grazie al loro sacerdozio ministeriale, che differisce dal sacerdozio comune dei fedeli non solo in grado, ma nell’essenza (cfr CONCILIO VATICANO II, Cost. Lumen Gentium, 10), i ministri sacri possono consacrare il Corpo e il Sangue di Cristo, offrire a Dio il Santo Sacrificio, perdonare i peccati nella confessione sacramentale ed esercitare il ministero della dottrina in iis quae sunt ad Deum (Eb 5, 1), in tutto e soltanto ciò che concerne Dio.
Pertanto il sacerdote deve essere esclusivamente un uomo di Dio, deve respingere la tentazione di affermarsi in campi nei quali i fedeli non hanno bisogno di lui. Il sacerdote non è uno psicologo, né un sociologo, né un antropologo: è un altro Cristo, lo stesso Cristo, con il compito di prendersi cura delle anime dei suoi fratelli. Sarebbe triste che il sacerdote, basandosi su una scienza umana che potrà coltivare solo superficialmente se, al tempo stesso, si dedica al suo ministero, si ritenesse senz’altro autorizzato a pontificare in materia di teologia dogmatica e morale. Dimostrerebbe unicamente la sua duplice ignoranza — sia nella scienza umana che in quella teologica — anche se il suo superficiale rivestimento di sapienza riuscisse a trarre in inganno taluni lettori o uditori sprovveduti.
È di pubblico dominio il fatto che taluni ecclesiastici sembrano oggi disposti a fabbricare una nuova Chiesa, tradendo Cristo, barattando i fini spirituali — la salvezza delle anime, una per una — con fini temporali. Se non superano questa tentazione, tralasceranno il compimento del sacro ministero, perderanno la fiducia e il rispetto del popolo e causeranno una tremenda desolazione in seno alla Chiesa; intromettendosi per di più, indebitamente, nella libertà politica dei fedeli e degli altri uomini, arrecheranno confusione nella convivenza civile, rendendosi pericolosi anche in questo ambito. L’Ordine Sacro è il Sacramento del servizio soprannaturale ai fratelli nella fede; sembra che taluni vogliano mutarlo in strumento terreno di un nuovo dispotismo. 
80 pixtrans Ma continuiamo a contemplare la meravigliosa realtà dei Sacramenti. Nell’Unzione degli Infermi — come oggi viene chiamata l’Estrema Unzione — assistiamo a una preparazione piena d’amore al viaggio che avrà termine nella casa del Padre. Infine, nella Sacra Eucaristia, che potremmo chiamare Sacramento della suprema benignità divina, Dio ci concede la sua grazia donando Se stesso: Gesù Cristo, realmente presente, sempre — e non soltanto durante la Santa Messa — con il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità.
Penso sovente alla responsabilità che grava sui sacerdoti di assicurare a tutti i fedeli l’accesso alla sorgente divina dei Sacramenti. La grazia di Dio si fa incontro ad ogni singola anima; ogni creatura richiede un’assistenza concreta e personale. Le anime non si possono trattare in massa! Non è lecito offendere la dignità umana e la dignità dei figli di Dio non soccorrendo personalmente ciascuno con l’umiltà di chi sa di essere strumento per amministrare l’amore di Cristo. Perché ogni singola anima è un tesoro meraviglioso; ogni uomo è unico, insostituibile. Ogni uomo vale tutto il sangue di Cristo.
Stavamo parlando di lotta. Sappiamo che essa richiede allenamento, alimentazione adeguata, medicine urgenti in caso di infermità, di contusioni, di ferite. I Sacramenti, medicina principale della Chiesa, non sono superflui: quando vengono abbandonati volontariamente, non è possibile fare un solo passo nel cammino al seguito di Gesù. Ne abbiamo bisogno come abbiamo bisogno della respirazione, della circolazione del sangue, della luce. Ne abbiamo bisogno per saper cogliere in ogni istante ciò che il Signore vuole da noi.
L’ascetica esige fortezza, e il cristiano trova la fortezza nel Creatore. Siamo oscurità, ed Egli è vivissimo splendore; siamo infermità, ed Egli è vigorosa salute; siamo miseria, ed Egli è infinita ricchezza; siamo debolezza, ed Egli ci sostiene, quia tu es, Deus, fortitudo mea (Sal 42, 2): tu sei sempre, mio Dio, la nostra fortezza. Non c’è nulla quaggiù che possa opporsi allo sgorgare impaziente del Sangue redentore di Cristo. Ma la nostra piccolezza può offuscarci lo sguardo al punto di non avvertire più la grandezza divina. Ecco dunque la responsabilità di tutti i fedeli, specialmente di coloro che hanno il compito di guidare spiritualmente — di servire — il Popolo di Dio, di non soffocare le fonti della grazia, di non vergognarsi della Croce di Cristo. 
81 pixtrans Nella Chiesa di Dio lo sforzo costante di essere sempre più leali alla dottrina di Cristo è un obbligo per tutti. Nessuno ne è esente. Qualora i pastori non lottassero faccia a faccia con se stessi per acquistare sensibilità di coscienza, rispetto e fedeltà al dogma e alla morale — che costituiscono il deposito della fede, il patrimonio comune — acquisterebbero realtà le parole profetiche di Ezechiele: Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, predici e riferisci ai pastori: « Dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana… Non avete reso le forze alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza » (Ez 34, 2-4).
Il rimprovero è duro, ma più grave è l’offesa che si fa a Dio quando — avendo avuto la missione di vegliare sul bene spirituale di tutti — si maltrattano le creature privandole dell’acqua pura del Battesimo che rigenera l’anima, del balsamo della Confermazione che la fortifica, del tribunale che perdona, dell’alimento che dà la vita eterna.
Quando accadono queste cose? Quando si abbandona la guerra di pace, la lotta interiore. Chi non combatte si espone a ogni forma di schiavitù capace di incatenare i nostri cuori di carne: la schiavitù della visione puramente umana, la schiavitù del desiderio affannoso di potenza e di prestigio temporale, la schiavitù della vanità, la schiavitù del denaro, la servitù della sensualità…
Qualora vi imbattiate in pastori indegni di questo nome — e Dio può permettere questa prova — non scandalizzatevi. Cristo ha promesso alla sua Chiesa un’assistenza infallibile, ma non ha garantito la fedeltà degli uomini che la compongono. Ad essi non mancherà la grazia — abbondante, generosa — se mettono, da parte loro, quel poco che Dio chiede: vigilanza attenta e sforzo per togliere di mezzo, sempre con la grazia di Dio, gli ostacoli alla santità. Quando manca lotta, anche chi sembra collocato in alto può trovarsi molto in basso agli occhi di Dio. Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti  (Ap 3, 1-3).
Sono esortazioni che l’Apostolo Giovanni rivolge nel primo secolo a chi era a capo della Chiesa nella città di Sardi. L’eventuale decadimento del senso di responsabilità in alcuni pastori non è quindi un fenomeno legato ai nostri giorni; si manifesta già al tempo degli Apostoli, nello stesso secolo in cui Gesù Cristo Nostro Signore era vissuto sulla terra. Nessuno può ritenersi sicuro se tralascia di combattere contro se stesso. Nessuno può salvarsi da solo. Nella Chiesa tutti abbiamo bisogno dei mezzi concreti che ci fortificano: l’umiltà, che ci dispone ad accettare l’aiuto e il consiglio; la mortificazione, che prepara il cuore perché vi regni Cristo; lo studio della dottrina sicura di sempre, che ci aiuta a conservare la fede e a propagarla. 
82 pixtrans La liturgia della domenica delle Palme pone sulle labbra dei fedeli questa acclamazione: O porte, alzate i vostri architravi; alzatevi, o porte antiche, perché deve entrare il Re della gloria! (antifona alla distribuzione delle palme). Chi resta chiuso nella cittadella del proprio egoismo non scenderà sul campo di battaglia. Se invece alza le porte del proprio castello e lascia entrare il Re della pace, scenderà poi con Lui a combattere contro tutta la miseria che offusca gli occhi e rende insensibile la coscienza.
Alzatevi, o porte antiche! La necessità della lotta non è una novità nel cristianesimo. È la verità perenne: senza lotta non si conquista la vittoria, senza vittoria non si raggiunge la pace. Senza pace la gioia umana sarà soltanto apparente, falsa, sterile; sarà gioia che non si trasforma in aiuto agli uomini, né in opere di carità e di giustizia, né di perdono e di misericordia, né di servizio a Dio.
Si ha l’impressione che oggi, dentro la Chiesa e fuori, in alto come in basso, molti abbiano rinunciato alla lotta — alla guerra contro se stessi, contro le proprie inclinazioni — per consegnarsi, armi e bagagli, in potere di servitù che avviliscono l’anima. È un pericolo che minaccia da sempre tutti i fedeli.
È necessario pertanto ricorrere insistentemente alla Trinità Beatissima perché abbia compassione di noi tutti. Parlando di queste cose, mi sento turbato nel riferirmi alla giustizia di Dio. Ricorro piuttosto alla sua misericordia, alla sua compassione, perché non guardi i nostri peccati, ma i meriti di Cristo e quelli della sua Santissima Madre — che è anche Madre nostra — del santo Patriarca Giuseppe che gli fece da padre, e di tutti i santi.
Il cristiano può essere ben sicuro che se desidera lottare, il Signore — come leggiamo nella Messa della festa odierna — lo terrà per la mano destra. Gesù, che entra in Gerusalemme cavalcando, Re di pace, un povero asinello, è colui che disse: Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono (Mt 11, 12). Questa forza non è una violenza contro gli altri: ma fortezza per combattere le proprie debolezze e le proprie miserie, coraggio di non mascherare le proprie infedeltà, audacia per confessare la fede anche quando l’ambiente è ostile.
Oggi, come ieri, dal cristiano ci si attende eroismo. Eroismo in grandi conflitti, se è necessario; ed eroismo — più consueto — nelle piccole avvisaglie di ogni giorno. Quando si lotta assiduamente, con Amore, fin nelle cose piccole, in modo tale che la lotta sembri impercettibile, il Signore è sempre accanto ai suoi figli come pastore pieno d’amore: Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata… Abiteranno in piena sicurezza nella loro terra. Sapranno che io sono il Signore, quando avrò spezzato le spranghe del loro giogo e li avrò liberati dalle mani di coloro che li tiranneggiano (Ez 34, 15-16 e 27).

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Il Papa: incontrare Gesù ci cambia la vita, la misericordia è più grande dei pregiudizi

Posté par atempodiblog le 23 mars 2014

“Felici coloro che bevevano lo sguardo dei tuoi occhi”.
Charles Péguy

Il Papa: incontrare Gesù ci cambia la vita, la misericordia è più grande dei pregiudizi dans Commenti al Vangelo 35jc6th

Il Papa: incontrare Gesù ci cambia la vita, la misericordia è più grande dei pregiudizi
“Il Signore è più grande dei pregiudizi”. E’ quanto affermato da Papa Francesco all’Angelus in Piazza San Pietro, dedicato all’incontro tra Gesù e la donna samaritana, raccontato dal Vangelo domenicale. Il Papa ha sottolineato che tutti siamo alla ricerca dell’acqua viva della Misericordia ed ha soggiunto che la Quaresima è il tempo opportuno per “guardarci dentro”. Il Pontefice ha infine dato appuntamento, venerdì prossimo, alla Giornata penitenziale “24 ore per il Signore”. Sarà, ha detto, “una festa del perdono”.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Un gesto che supera “le barriere di ostilità”, un dialogo che “rompe gli schemi di pregiudizio nei confronti delle donne”. Papa Francesco sintetizza così l’incontro tra Gesù e la donna Samaritana al pozzo, narrato dal Vangelo. E mette l’accento su quel “dammi da bere” pronunciato dal Signore:

“La semplice richiesta di Gesù è l’inizio di un dialogo schietto, mediante il quale Lui, con grande delicatezza, entra nel mondo interiore di una persona alla quale, secondo gli schemi sociali, non avrebbe dovuto nemmeno rivolgere la parola. Ma Gesù lo fa! Gesù non ha paura. Gesù quando vede una persona va avanti, perché ama. Ci ama tutti. Non si ferma mai davanti ad una persona per pregiudizi!

Gesù, soggiunge il Papa, pone la Samaritana “davanti alla sua situazione, non giudicandola ma facendola sentire considerata, riconosciuta, e suscitando così in lei il desiderio di andare oltre la routine quotidiana”. Quella di Gesù del resto, prosegue il Papa, “era sete non tanto di acqua, ma di incontrare un’anima inaridita”. Gesù, infatti, “aveva bisogno di incontrare la Samaritana per aprirle il cuore: le chiede da bere per mettere in evidenza la sete che c’era in lei stessa”:

“La donna rimane toccata da questo incontro: rivolge a Gesù quelle domande profonde che tutti abbiamo dentro, ma che spesso ignoriamo. Anche noi abbiamo tante domande da porre, ma non troviamo il coraggio di rivolgerle a Gesù! La Quaresima, cari fratelli e sorelle, è il tempo opportuno per guardarci dentro, per far emergere i nostri bisogni spirituali più veri, e chiedere l’aiuto del Signore nella preghiera”.

E anche oggi, esorta il Pontefice, dobbiamo seguire l’esempio della Samaritana e chiedere l’acqua che ci disseterà in eterno. Il Vangelo, rileva poi Francesco, “dice che i discepoli rimasero meravigliati che il loro Maestro parlasse con quella donna”.

“Ma il Signore è più grande dei pregiudizi, per questo non ebbe timore di fermarsi con la Samaritana: la misericordia è più grande del pregiudizio. Questo dobbiamo impararlo bene! La misericordia è più grande del pregiudizio e Gesù è tanto misericordioso, tanto!”.

Ecco allora che la Samaritana “corse in città a raccontare la sua esperienza straordinaria. Era andata a prendere l’acqua del pozzo, e ha trovato un’altra acqua, l’acqua viva della misericordia che zampilla per la vita eterna”. “Ha trovato l’acqua – ribadisce il Papa – che cercava da sempre” e annuncia a quel villaggio che « la condannava e rifiutava » di aver incontrato il Messia:

“Uno che le ha cambiato la vita, perché ogni incontro con Gesù ci cambia la vita. Sempre. E’ un passo più avanti, un passo più vicino a Dio. E così ogni incontro con Gesù ci cambia la vita. Sempre! Sempre è così”.

In questo Vangelo, prosegue, troviamo anche noi lo stimolo a “lasciare la nostra anfora”, simbolo di tutto ciò che “apparentemente è importante, ma che perde valore di fronte all’amore di Dio”:

“Tutti ne abbiamo una o più di una! Io domando a voi, anche a me: ‘Qual è la tua anfora interiore, quella che ti pesa, quella che ti allontana da Dio?’ Lasciamola un po’ da parte e col cuore sentiamo la voce di Gesù che ci offre un’altra acqua, un’altra acqua che ci avvicina al Signore”.

Anche noi, è l’invito del Papa, siamo dunque “chiamati a riscoprire l’importanza e il senso della nostra vita cristiana, iniziata nel Battesimo e, come la Samaritana, a testimoniare” la gioia dell’incontro con il Signore:

“Testimoniare la gioia dell’incontro con Gesù, perché ho detto che ogni incontro con Gesù ci cambia la vita ed anche ogni incontro con Gesù ci riempie di gioia, quella gioia che viene da dentro. E così è il Signore. E raccontare quante cose meravigliose sa fare il Signore nel nostro cuore, quando noi abbiamo il coraggio di lasciare da parte la nostra anfora”.

Al momento dei saluti ai pellegrini, almeno 40 mila, il Papa ha ricordato la ricorrenza della Giornata Mondiale della Tubercolosi, invitando a pregare “per tutte le persone colpite da questa malattia, e per quanti in diversi modi le sostengono”. Quindi, ha sottolineato che venerdì e sabato prossimi si vivrà “uno speciale momento penitenziale”, chiamato “24 ore per il Signore” che inizierà con la Celebrazione nella Basilica di San Pietro:

“Sarà – possiamo chiamarla così – la festa del perdono, che avrà luogo anche in molte diocesi e parrocchie del mondo. Il perdono che ci dà il Signore si deve festeggiare, come ha fatto il padre della parabola del figliol prodigo, che quando il figlio è tornato a casa ha fatto festa, dimenticandosi di tutti i suoi peccati. Sarà la festa del perdono”.

Dal Papa, infine, anche un saluto ai partecipanti e agli organizzatori della Maratona di Roma. “Un bell’evento sportivo – ha detto – della nostra città”.

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Papa Francesco: “Cosa c’è nel nostro cuore?”. Visita pastorale alla Parrocchia ‘San Tommaso Apostolo’ all’Infernetto

Posté par atempodiblog le 17 février 2014

VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA « SAN TOMMASO APOSTOLO »
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Domenica, 16 febbraio 2014

Video

Papa Francesco: “Cosa c’è nel nostro cuore?”. Visita pastorale alla Parrocchia 'San Tommaso Apostolo' all’Infernetto dans Commenti al Vangelo papa_all_infernetto

Una volta, i discepoli di Gesù mangiavano grano, perché avevano fame; ma era sabato, e il sabato non si poteva mangiare il grano. E lo prendevano, facevano così [strofina le mani] e mangiavano il grano. E [i farisei] hanno detto: “Ma guarda cosa fanno! Chi fa questo, va contro la legge e sporca l’anima, perché non compie la legge!”. E Gesù rispose: “Non sporca l’anima quello che noi prendiamo da fuori. Sporca l’anima quello che viene da dentro, dal tuo cuore”. E credo che ci farà bene, oggi, pensare non se la mia anima è pulita o sporca, ma pensare cosa c’è nel mio cuore, cosa ho dentro, che io so di avere e nessuno lo sa. Dire la verità a noi stessi: e questo non è facile! Perché noi sempre cerchiamo di coprirci quando vediamo qualcosa che non va bene dentro di noi, no? Che non venga fuori, no? Cosa c’è nel nostro cuore: c’è amore? Pensiamo: io amo i miei genitori, i miei figli, mia moglie, mio marito, la gente del quartiere, gli ammalati?… amo? C’è odio? Io odio qualcuno? Perché tante volte noi troviamo che c’è odio, no? “Io amo tutti tranne questo, questo e questa!”. Questo è odio, no? Che cosa c’è nel mio cuore, perdono? C’è un atteggiamento di perdono per quelli che mi hanno offeso, o c’è un atteggiamento di vendetta – “me la pagherai!”. Dobbiamo domandarci cosa c’è dentro, perché questo che è dentro viene fuori e fa il male, se è male; e se è buono, viene fuori e fa il bene. Ed è tanto bello dire la verità a noi stessi, e vergognarci quando ci troviamo in una situazione che non è come Dio la vuole, non è buona; quando il mio cuore è in una situazione di odio, di vendetta, tante situazioni peccaminose. Come è il mio cuore?…

Gesù diceva oggi, per esempio – darò soltanto un esempio: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”. Ma io vi dico, chiunque si adira con il proprio fratello, lo ha ucciso, nel suo cuore». E chiunque insulta suo fratello, lo uccide nel suo cuore, chiunque odia suo fratello, uccide suo fratello nel suo cuore; chiunque chiacchiera contro suo fratello, lo uccide nel suo cuore. Noi forse non ci accorgiamo di questo, e poi parliamo, “spediamo” all’uno e all’altro, sparliamo di questo e di quello… E questo è uccidere il fratello. Per questo è importante conoscere cosa c’è dentro di me, cosa succede nel mio cuore. Se uno capisce suo fratello, le persone, ama, perché perdona: capisce, perdona, è paziente… E’ amore o è odio? Dobbiamo, questo, conoscerlo bene. E chiedere al Signore due grazie. La prima: conoscere cosa c’è nel mio cuore, per non ingannarci, per non vivere ingannati. La seconda grazia: fare quel bene che è nel nostro cuore, e non fare il male che è nel nostro cuore. E su questo di “uccidere”, ricordare che le parole uccidono. Anche i cattivi desideri contro l’altro uccidono. Tante volte, quando sentiamo parlare le persone, parlare male di altri, sembra che il peccato di calunnia, il peccato della diffamazione siano stati tolti dal decalogo, e parlare male di una persona è peccato. E perché parlo male di una persona? Perché ho nel mio cuore odio, antipatia, non amore. Chiedere sempre questa grazia: conoscere cosa succede nel mio cuore, per fare sempre la scelta giusta, la scelta del bene. E che il Signore ci aiuti a volerci bene. E se io non posso volere bene a una persona, perché non posso? Pregare per questa persona, perché il Signore mi faccia volerle bene. E così andare avanti, ricordando che quello che sporca la nostra vita è ciò che di cattivo esce dal nostro cuore. E che il Signore ci aiuti.

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Il Papa: nessun peccato può cancellarci dal cuore di Dio, lasciamoci trasformare da Gesù

Posté par atempodiblog le 3 novembre 2013

“Non c’è peccato o crimine” che possa “cancellare dalla memoria e dal cuore di Dio uno solo dei suoi figli”.
E’ quanto affermato da Papa Francesco all’Angelus in Piazza San Pietro, gremita di fedeli come di consueto la domenica. Il Papa si è soffermato sull’incontro tra Gesù e il pubblicano Zaccheo narrato dal Vangelo per ribadire che Dio sempre aspetta di veder rinascere nel cuore dei peccatori “il desiderio del ritorno a casa”.

di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Il Papa: nessun peccato può cancellarci dal cuore di Dio, lasciamoci trasformare da Gesù  dans Commenti al Vangelo j8fzUn incontro che cambia la vita per sempre. Papa Francesco si è soffermato all’Angelus sull’incontro tra il Signore e il pubblicano Zaccheo. Incontro che avviene a Gerico, mentre Gesù è in cammino verso Gerusalemme:

“Questa è l’ultima tappa di un viaggio che riassume in sé il senso di tutta la vita di Gesù, dedicata a cercare e salvare le pecore perdute della casa d’Israele. Ma quanto più il cammino si avvicina alla meta, tanto più attorno a Gesù si va stringendo un cerchio di ostilità”.

Eppure, ha proseguito, proprio a Gerico accade “uno degli eventi più gioiosi narrati da san Luca: la conversione di Zaccheo”. Quest’uomo, ha detto il Papa, “è una pecora perduta, è disprezzato e scomunicato, perché è un pubblicano”, “amico degli odiati occupanti romani, ladro e sfruttatore”. A Zaccheo viene dunque impedito di avvicinarsi a Gesù per la sua cattiva fama, ma lui non si dà per vinto e si arrampica su un albero per poterlo vedere passare. “Questo gesto esteriore, un po’ ridicolo – ha osservato – esprime però l’atto interiore dell’uomo che cerca di portarsi sopra la folla per avere un contatto con Gesù”. Zaccheo stesso, ha soggiunto, “non sa il senso profondo del suo gesto” e “nemmeno osa sperare che possa essere superata la distanza che lo separa dal Signore”. Si rassegna “a vederlo solo di passaggio”:

“Ma Gesù, quando arriva vicino a quell’albero, lo chiama per nome: ‘Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua’ (Lc 19,5). Quell’uomo piccolo di statura, respinto da tutti e distante da Gesù, è come perduto nell’anonimato; ma Gesù lo chiama, e quel nome, Zaccheo, nella lingua di quel tempo, ha un bel significato pieno di allusioni: ‘Zaccheo’ infatti vuol dire ‘Dio ricorda’. E’ bello: ‘Dio ricorda’”.

Gesù va, dunque, nella casa di Zaccheo, “suscitando le critiche di tutta la gente di Gerico” perché invece di visitare “le brave persone che ci sono in città, va a stare proprio” da un pubblicano. Ed il Papa ha chiosato: “anche in quel tempo si chiacchierava tanto”. A costoro, Gesù risponde che va da Zaccheo proprio “perché lui era perduto”. “Anch’egli è figlio di Abramo”, aggiunge, e da ora nella sua casa, nella sua vita, entra la gioia:

“Non c’è professione o condizione sociale, non c’è peccato o crimine di alcun genere che possa cancellare dalla memoria e dal cuore di Dio uno solo dei suoi figli. ‘Dio ricorda’, sempre, non dimentica nessuno di quelli che ha creato; Egli è Padre, sempre in attesa vigile e amorevole di veder rinascere nel cuore del figlio il desiderio del ritorno a casa. E quando riconosce quel desiderio, anche semplicemente accennato, e tante volte quasi incosciente, subito gli è accanto, e con il suo perdono gli rende più lieve il cammino della conversione e del ritorno”.

Guardiamo Zaccheo oggi sull’albero, ha esortato Papa Francesco: “è ridicolo”, ma il suo “è un gesto di salvezza”:

“Ed io dico a te: se tu hai un peso sulla tua coscienza, se tu hai vergogna di tante cose che hai commesso, fermati un po’, non spaventarti, pensa che Uno ti aspetta, perché mai ha smesso di ricordarti, di pensarti. E questo è il tuo Padre, è Dio, è Gesù che ti aspetta. Arrampicati, come aveva fatto Zaccheo; sali sull’albero della voglia di essere perdonato. Io ti assicuro che non sarai deluso. Gesù è misericordioso e mai si stanca di perdonare. Ricordartelo bene, eh! Così è Gesù”.

Anche oggi, ha detto ancora il Papa, lasciamoci come Zaccheo “chiamare per nome da Gesù”. Anche noi, ha riaffermato, “ascoltiamo la sua voce che ci dice: ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’”, “nella tua vita” e “nel tuo cuore”.

“E accogliamolo con gioia: Lui può cambiarci, può trasformare il nostro cuore di pietra in cuore di carne, può liberarci dall’egoismo e fare della nostra vita un dono d’amore. Gesù può farlo. Lasciati guardare da Gesù”.

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Solo Dio è autentico dispensatore della giustizia

Posté par atempodiblog le 27 octobre 2013

Sui sentieri della Parola: Il fariseo e il pubblicano: la superbia e la verità
Solo Dio è autentico dispensatore della giustizia
di Mons. Marco Frisina – RomaSette

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In questi tempi si sente spesso parlare di giustizia: molti sono impegnati nel giustificare le proprie azioni, altri sono pronti ad accusare gli altri di vere o presunte colpe e chi lo fa si sente sempre con le “mani pulite” e pretende che gli venga riconosciuta l’innocenza. Ma la giustizia è altro e solo Dio ne è autentico dispensatore. Quando noi giudichiamo il prossimo lo facciamo per proclamare la nostra innocenza e ci poniamo al di sopra degli altri sostituendoci a Dio. Nella parabola del fariseo e del pubblicano Gesù ci presenta proprio questa situazione, un uomo “per bene” che giudica un povero peccatore. Sulla bilancia della sua personale giustizia egli pone da una parte se stesso e il suo non essere “come gli altri uomini”, dall’altra parte pone il pubblicano con la sua inettitudine e miseria. Ma la verità del pubblicano attira lo sguardo di Dio che esaudisce la richiesta di perdono e lo giustifica concedendogli la sua misericordia. Il fariseo è così superbo da credere di non dover chiedere il perdono e per questo non lo ottiene.

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Il Papa: una preghiera fatta col cuore apre la porta a Dio e produce miracoli

Posté par atempodiblog le 8 octobre 2013

Un cuore che sa pregare e sa perdonare. Da questo si riconosce un cristiano. Lo ha spiegato questa mattina Papa Francesco all’omelia della Messa presieduta in Casa Santa Marta. E proprio dal Vangelo dedicato alla Santa cui è intitolata la sua residenza, il Papa ha preso le mosse per ricordare che la “preghiera fa miracoli”, purché non sia frutto di un atto meccanico.
di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

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Marta e il profeta Giona. Queste figure plastiche del Nuovo e dell’Antico Testamento, presentate dalla liturgia odierna, erano accomunate da una identica incapacità: non sapevano pregare. Papa Francesco ha sviluppato l’omelia su questo aspetto, partendo dalla famosa scena del Vangelo in cui Marta chiede quasi in tono di rimprovero a Gesù che la sorella l’aiuti a servire, invece di rimanere ferma ad ascoltarlo, mentre Gesù replica: “Maria ha scelto la parte migliore”. E questa “parte”, ribadisce Papa Francesco, è “quella della preghiera, quella della contemplazione di Gesù”:

“Agli occhi della sorella era perdere tempo, anche sembrava, forse, un po’ fantasiosa: guardare il Signore come se fosse una bambina meravigliata. Ma chi la vuole? Il Signore: ‘Questa è la parte migliore’, perché Maria ascoltava il Signore e pregava col suo cuore. E il Signore un po’ ci dice: ‘Il primo compito nella vita è questo: la preghiera’. Ma non la preghiera di parole, come i pappagalli; ma la preghiera, il cuore: guardare il Signore, ascoltare il Signore, chiedere al Signore. Noi sappiamo che la preghiera fa dei miracoli”.

E la preghiera produce un miracolo anche nell’antica città di Ninive, alla quale il profeta Giona annuncia su incarico di Dio l’imminente distruzione e che invece si salva perché gli abitanti, credendo alla profezia, si convertono dal primo all’ultimo invocando il perdono divino con tutte le forze. Tuttavia, anche in questa storia di redenzione il Papa rileva un atteggiamento sbagliato, quello di Giona, più disposto a una giustizia senza misericordia in modo analogo a Marta, incline a un servizio che esclude l’interiorità:

“E Marta faceva questo: faceva cosa? Ma non pregava! Ci sono altri come questo testardo Giona, che sono i giustizieri. Lui andava, profetizzava, ma nel suo cuore diceva: ‘Ma se la meritano. Se la meritano. Se la sono cercata!’. Lui profetizzava, ma non pregava! Non chiedeva al Signore perdono per loro. Soltanto li bastonava. Sono i giustizieri, quelli che si credono giusti! E alla fine – continua il Libro di Giona – si vede che era un uomo egoista, perché quando il Signore ha salvato, per la preghiera del popolo, Ninive, lui si è arrabbiato col Signore: ‘Tu sempre sei così. Tu sempre perdoni!’.

Dunque, conclude Papa Francesco, la preghiera che è solo formula senza cuore, come pure il pessimismo o la voglia di una giustizia senza perdono, sono le tentazioni dalle quali un cristiano deve sempre guardarsi per arrivare a scegliere “la parte migliore”:

“Anche noi quando non preghiamo, quello che facciamo è chiudere la porta al Signore. E non pregare è questo: chiudere la porta al Signore, perché Lui non possa fare nulla. Invece, la preghiera, davanti a un problema, a una situazione difficile, a una calamità è aprire la porta al Signore perché venga. Perché Lui rifà le cose, Lui sa arrangiare le cose, risistemare le cose. Pregare è questo: aprire la porta al Signore, perché possa fare qualcosa. Ma se noi chiudiamo la porta, il Signore non può far nulla! Pensiamo a questa Maria che ha scelto la parte migliore e ci fa vedere la strada, come si apre la porta al Signore”.

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La misericordia è la vera forza

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2013

La misericordia è la vera forza  dans Citazioni, frasi e pensieri 8yt7

La gioia di Dio è perdonare, la gioia di Dio è perdonare! E’ la gioia di un pastore che ritrova la sua pecorella; la gioia di una donna che ritrova la sua moneta; è la gioia di un padre che riaccoglie a casa il figlio che si era perduto, era come morto ed è tornato in vita, è tornato a casa. Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! Al contrario, la misericordia è la vera forza che può salvare l’uomo e il mondo dal “cancro” che è il peccato, il male morale, il male spirituale. Solo l’amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella storia. Solo l’amore può fare questo, e questa è la gioia di Dio!

Papa Francesco

Una città... da favola: Bergamo, gioiello dell'Alta Italia dans Viaggi & Vacanze sb0nxu

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Gesù preferisce il peccatore, sempre, per perdonarlo, per amarlo

Posté par atempodiblog le 25 août 2013

PAPA FRANCESCO

ANGELUS
Piazza San Pietro

Domenica, 25 agosto 2013

Video

Gesù preferisce il peccatore, sempre, per perdonarlo, per amarlo dans Commenti al Vangelo 5zilft

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

il Vangelo di oggi ci invita a riflettere sul tema della salvezza. Gesù sta salendo dalla Galilea verso la città di Gerusalemme e lungo il cammino un tale – racconta l’evangelista Luca – gli si avvicina e gli chiede: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (13,23). Gesù non risponde direttamente alla domanda: non è importante sapere quanti si salvano, ma è importante piuttosto sapere qual è il cammino della salvezza. Ed ecco allora che alla domanda Gesù risponde dicendo: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (v. 24). Che cosa vuol dire Gesù? Qual è la porta per la quale dobbiamo entrare? E perché Gesù parla di una porta stretta?

L’immagine della porta ritorna varie volte nel Vangelo e richiama quella della casa, del focolare domestico, dove troviamo sicurezza, amore, calore. Gesù ci dice che c’è una porta che ci fa entrare nella famiglia di Dio, nel calore della casa di Dio, della comunione con Lui. Questa porta è Gesù stesso (cfr Gv 10,9). Lui è la porta. Lui è il passaggio per la salvezza. Lui ci conduce al Padre. E la porta che è Gesù non è mai chiusa, questa porta non è mai chiusa, è aperta sempre e a tutti, senza distinzione, senza esclusioni, senza privilegi. Perché, sapete, Gesù non esclude nessuno. Qualcuno di voi forse potrà dirmi: “Ma, Padre, sicuramente io sono escluso, perché sono un gran peccatore: ho fatto cose brutte, ne ho fatte tante, nella vita”. No, non sei escluso. Precisamente per questo sei il preferito, perché Gesù preferisce il peccatore, sempre, per perdonarlo, per amarlo. Gesù ti sta aspettando per abbracciarti, per perdonarti. Non avere paura: Lui ti aspetta. Animati, fatti coraggio per entrare per la sua porta. Tutti sono invitati a varcare questa porta, a varcare la porta della fede, ad entrare nella sua vita, e a farlo entrare nella nostra vita, perché Lui la trasformi, la rinnovi, le doni gioia piena e duratura.

Al giorno d’oggi passiamo davanti a tante porte che invitano ad entrare promettendo una felicità che poi noi ci accorgiamo che dura un istante soltanto, che si esaurisce in se stessa e non ha futuro. Ma io vi domando: noi per quale porta vogliamo entrare? E chi vogliamo far entrare per la porta della nostra vita? Vorrei dire con forza: non abbiamo paura di varcare la porta della fede in Gesù, di lasciarlo entrare sempre di più nella nostra vita, di uscire dai nostri egoismi, dalle nostre chiusure, dalle nostre indifferenze verso gli altri. Perché Gesù illumina la nostra vita con una luce che non si spegne più. Non è un fuoco d’artificio, non è un flash! No, è una luce tranquilla che dura sempre e ci da pace. Così è la luce che incontriamo se entriamo per la porta di Gesù.

Certo quella di Gesù è una porta stretta, non perché sia una sala di tortura. No, non per quello! Ma perché ci chiede di aprire il nostro cuore a Lui, di riconoscerci peccatori, bisognosi della sua salvezza, del suo perdono, del suo amore, di avere l’umiltà di accogliere la sua misericordia e farci rinnovare da Lui. Gesù nel Vangelo ci dice che l’essere cristiani non è avere un’«etichetta»! Io domando a voi: voi siete cristiani di etichetta o di verità? E ciascuno si risponda dentro! Non cristiani, mai cristiani di etichetta! Cristiani di verità, di cuore. Essere cristiani è vivere e testimoniare la fede nella preghiera, nelle opere di carità, nel promuovere la giustizia, nel compiere il bene. Per la porta stretta che è Cristo deve passare tutta la nostra vita.

Alla Vergine Maria, Porta del Cielo, chiediamo che ci aiuti a varcare la porta della fede, a lasciare che il suo Figlio trasformi la nostra esistenza come ha trasformato la sua per portare a tutti la gioia del Vangelo.

* * *

APPELLO

Con grande sofferenza e preoccupazione continuo a seguire la situazione in Siria. L’aumento della violenza in una guerra tra fratelli, con il moltiplicarsi di stragi e atti atroci, che tutti abbiamo potuto vedere anche nelle terribili immagini di questi giorni, mi spinge ancora una volta a levare alta la voce perché si fermi il rumore delle armi. Non è lo scontro che offre prospettive di speranza per risolvere i problemi, ma è la capacità di incontro e di dialogo.

Dal profondo del mio cuore, vorrei manifestare la mia vicinanza con la preghiera e la solidarietà a tutte le vittime di questo conflitto, a tutti coloro che soffrono, specialmente i bambini, e invitare a tenere sempre accesa la speranza di pace. Faccio appello alla Comunità Internazionale perché si mostri più sensibile verso questa tragica situazione e metta tutto il suo impegno per aiutare la amata Nazione siriana a trovare una soluzione ad una guerra che semina distruzione e morte. Tutti insieme, preghiamo, tutti insieme preghiamo la Madonna, Regina della Pace: Maria, Regina della Pace, prega per noi. Tutti: Maria, Regina della Pace, prega per noi.


Dopo l’Angelus

Saluto con affetto tutti i pellegrini presenti: le famiglie, i numerosi gruppi e l’Associazione Albergoni. In particolare saluto le Suore Maestre di Santa Dorotea, i giovani di Verona, Siracusa, Nave, Modica e Trento; i cresimandi delle Unità Pastorali di Angarano e Val Liona;  i seminaristi e i sacerdoti del Pontifical North American College; i lavoratori di Cuneo e i pellegrini di Verrua Po, San Zeno Naviglio, Urago d’Oglio, Varano Borghi e San Paolo del Brasile. Per molti questi giorni segnano la fine del periodo delle vacanze estive. Auguro per tutti un ritorno sereno e impegnato alla normale vita quotidiana guardando al futuro con speranza.

A tutti auguro buona domenica, una buona settimana! Buon pranzo e arrivederci!

Tratto da: Vatican.va

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Sforzatevi di entrare per la porta stretta

Posté par atempodiblog le 24 août 2013

Sforzatevi di entrare per la porta stretta  dans Commenti al Vangelo 8dpg

Il testo del vangelo di oggi costituisce un forte richiamo alla consapevolezza e alla responsabilità dell’essere cristiani.

Il brano è introdotto dalla domanda di un anonimo (“un tale”) che fa riferimento a una questione molto dibattuta nel giudaismo del tempo di Gesù: le condizioni della salvezza; anche in Luca 10,25 e 18,18 viene ripetuta la domanda: “che devo fare per ottenere la vita eterna?”

Ora, al tempo di Gesù i farisei sostenevano che gran parte degli ebrei – anzi per alcuni rabbini tutti quanti – si sarebbero salvati, in forza della loro appartenenza al popolo eletto; nei circoli apocalittici, invece, prevaleva l’opinione opposta: solo pochi eletti osservanti si sarebbero salvati.

La domanda fatta al Nazareno verte dunque su questo interrogativo. Ma, come spesso accade nei Vangeli, Egli non risponde direttamente, non soddisfa la curiosità dell’interlocutore, non prende posizione sulla dibattuta questione teologica: si salveranno tutti, o molti, o pochi?

Gesù non risponde alla domanda, per far capire che il vero nocciolo della questione non sta lì e che il problema su cui interrogarsi è un altro; non deve importare a noi se si salvano in tanti o pochi, perché questo rientra nel mistero di Dio. Quello di cui ci dobbiamo preoccupare è ben altro, e cioè che la salvezza non è un fatto tranquillo e scontato per nessuno: né per chi allora osservava la Legge (gli ebrei), né per chi oggi si attiene a comandamenti e precetti della Chiesa (i cristiani); la salvezza non è automaticamente conferita per il solo fatto di appartenere al popolo di Dio.

Così da una domanda sugli “altri” (sono pochi o tanti “quelli” che si salvano?), il Maestro fa passare l’interlocutore a una domanda che riguarda invece proprio lui, di conseguenza ogni uomo, e dunque anche ciascuno di noi! Il Signore pertanto si rivolge a tutti con un chiaro imperativo: “Sforzatevi voi di entrare….”. Quindi: preoccupatevi della vostra situazione, del vostro impegno attuale, vedete di essere voi vigilanti (richiamo contenuto anche nel vangelo della 19° domenica anno C).

“Sforzatevi di entrare per la porta stretta…” dice Gesù al v.24. Che cos’è questa porta stretta? L’immagine evoca certamente qualcosa di molto duro, difficile e impegnativo, mentre la porta larga fa venire in mente facilità e superficialità; ma soprattutto la via stretta è quella che, per chi si mette alla sequela di Gesù, passa attraverso il Getsemani e il Golgota: è la via dell’amore nella dedizione di sé e nella sofferenza. A questo deve essere preparato il discepolo di Cristo, a vivere la propria esistenza nell’amore, nel servizio e nel dono di sé; e, se gli verrà domandato, deve essere disposto (con l’aiuto della Grazia) persino a sacrificare la propria vita per amore.

Questo è ciò che è richiesto per far parte del Regno di Dio, che – come ben ha messo in luce il Concilio Vaticano II° – non coincide con la Chiesa visibile, cui appartiene ogni battezzato.

“..vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti ….verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio” (vv.28-29).

Da chi è costituita questa folla sterminata d’ogni dove, di cui parla Gesù? Proprio da tutti quegli uomini di buona volontà che, pur senza conoscere la Legge e il Vangelo, sono continuamente alla ricerca della verità e della giustizia, vivono secondo i dettami della propria coscienza, che Dio ha immesso in ogni sua creatura e che porta a cogliere, amare e rispettare quei valori universali che ritroviamo in ogni civiltà. Ecco, questi sono coloro che, magari senza neppure saperlo, si troveranno al banchetto del Regno (tipica metafora biblica per indicare la vita eterna con Dio).

E – sorpresa! – forse avranno meritato anche di più di quei cristiani, osservanti e praticanti, che però sono troppo sicuri di sé, convinti che la salvezza sia loro dovuta in quanto battezzati, e incapaci di mettere in pratica il comandamento di Gesù: “Amate come Io vi ho amato!” (cfr. Giov. 15,12); ecco perché Gesù conclude: “ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”.

Tratto da: Qumran2

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I Vangeli sono dei reportages, anche se a qualcuno non va

Posté par atempodiblog le 23 août 2013

«Le Epistole, gli Atti degli Apostoli, tutto il resto del Nuovo Testamento non è che un grido: noi l’abbiamo veramente udito, noi l’abbiamo veramente visto! Se tutto non fosse che un simbolo, perché gli autori di queste pagine insisterebbero tanto, e così tante volte, sulla testimonianza?».
di Marie Christine Ceruti-Cendrier
Tratto da: Unione Cattolici Crisitiani Razionali

I Vangeli sono dei reportages, anche se a qualcuno non va dans Commenti al Vangelo ht06

Immaginate per un istante che vogliate distruggere il Cristianesimo. Come ve la cavereste? Il metodo più semplice, più rapido e più radicale sarebbe attaccare i Vangeli e, per meglio operare, pretendere che raccontino storie false mai accadute. Riflettete ancora sui metodi da usare per convincere la gente: basta affermare con sicurezza che sono stati scritti tardivamente da comunità (una comunità è più abile a modificare le cose nel gioco del passa parola) che non hanno mai né conosciuto nessuno dei testimoni, né vissuto nei luoghi degli avvenimenti. Bisognerà però poter spiegare da dove vengono queste leggende e avrete bisogno di trovare delle fonti: i miti pagani anteriori, i testi ebrei (anche posteriori ai Vangeli, tanto la gente non ne sa niente), potete anche immaginare l’esistenza di testi originari, o di tradizioni segrete conosciute e trasmesse da un’élite…

Purtroppo questo è realtà ed è cosi che vengono trattati i Vangeli, non solo da atei, anticlericali o laici di professione, ma anche nei seminari, nelle facoltà di teologia, nei circoli di pie persone che vogliono saperne di più sulla loro religione e persino nei catechismi per bambini. I danni sono enormi. E non c’è da stupirsi se, specialmente nei paesi più toccati, la pratica religiosa è spaventosamente calata, i preti abbandonano il sacerdozio e c’è anche da chiedersi se delinquenza, violenza, suicidi e depressioni in aumento non trovino là la loro spiegazione.

Era urgente agire e questo mio libro* si è fissato lo scopo di smascherare tutti gli inganni e le menzogne usate per screditare i Vangeli. Oltre alle truffe segnalate qui sopra, occorreva denunciare i “generi letterari” che permettono di trasformare i fatti in miti, screditare la “formgeschichte” che fa degli Evangelisti dei campioni di Lego, smentire le pseudocontraddizioni dei Vangeli, procedere al salvataggio dei miracoli e delle profezie, denunciare giochi di parole tendenziosi, rispondere all’accusa dei Vangeli modificati, dimostrare che gli Evangelisti non erano né sprovveduti né bugiardi… e altre cose ancora. Bisognava naturalmente mettersi unicamente sul piano della razionalità, della logica, delle scoperte scientifiche – specialmente archeologiche e filologiche – poiché gli avversari ponevano le loro idee (per non dire fantasie) sul piano della onnipotente scienza.

Ho ricevuto con gratitudine molte lettere di ringraziamento dopo la pubblicazione francese di questo libro da parte di persone che si sentivano smarrite, umiliate o addirittura vacillanti nella fede. Ho cercato anche di renderlo di facile lettura, con qualche punta di umorismo. Mi dispiacerebbe urtare qualcuno poiché devo riconoscere che i propagatori di queste idee ne sono le prime vittime, ma ho ancora di più in abominio che altri soffrano ben più terribili tormenti nella perdita della fede.

E non posso più sopportare l’oltraggio fatto a Colui che ha detto: “Sono la Via, la Verità e la Vita”.

* I Vangeli sono dei reportages, anche se a qualcuno non va - Mimep-Docete 2009, con prefazione della storica dell’antichità Marta Sordi

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I Vangeli, un racconto di ciò che è avvenuto

Posté par atempodiblog le 21 août 2013

L'incredulità di Tommaso dans Commenti ai Vangeli festivi

“Apro i Vangeli e constato che in essi la fede è sempre una conseguenza. I Vangeli, che riassumono la Parola annunziata agli inizi, non sono una raccolta di proposizioni di fede, ma è un racconto di ciò che è avvenuto”.

Jean Guitton – Gesù. Ed. Elledicì

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Il cronista Giovanni

Posté par atempodiblog le 21 août 2013

Il cronista Giovanni
L’autore del quarto vangelo vide di prima persona quello che poi scrisse. Lo documenta un libro di un’archeologa ebrea francese.

Intervista di Antonio Socci a Jacqueline Genot-Bismuth per Il Sabato (1992)

Il cronista Giovanni dans Antonio Socci rwej

Ebrea-francese [...] agnostica, docente di giudaismo antico medievale alla Sorbona di Parigi, fondatrice del Centro di ricerca sulla cultura rabbinica. Jacqueline Genot-Bismuth ha pubblicato [...] un libro sulle più recenti scoperte archeologiche a Gerusalemme, dopo il volume «Un homme nommé Salut» (Oeil), dedicato alla figura di Gesù nel Vangelo di Giovanni. E all’impatto di Gesù con l’ebraismo del suo tempo. «Il Sabato» le ha chiesto la sua ricostruzione di quegli eventi.

Lei scrive che i farisei cominciano ad allarmarsi per Gesù con la resurrezione di Lazzaro. Perché?
Genot-Bismuth: Tutti credettero a quella resurrezione. Io non posso giudicare se essa vi fu o no, l’importante è rilevare che tutti ne furono colpiti. I farisei erano contrari al potere profetico. Di conseguenza produrre una resurrezione – essendo un potere profetico – voleva dire mettere in discussione tutto ciò contro cui si erano battuti. Significava dare scacco al giudaismo che seguiva la Torà esclusivamente scritta con l’interpretazione di cui essi erano i maestri. Dunque era il loro potere che era battuto in breccia da un giudaismo alternativo che arrischiava la forza in qualche modo rivoluzionaria della profezia.

Non era più ragionevole credere ai propri occhi?
Genot-Bismuth: Un difensore della Legge assoluta non poteva che opporsi al profetismo attivo: ora, la popolazione era effettivamente convinta che Gesù avesse resuscitato Lazzaro, e questo fatto provava la sua pretesa di essere profeta. Dunque ormai non era più che un nemico. È ovvio. Lui stesso doveva saperlo. Del resto dal Vangelo di Giovanni si evince chiaramente che Gesù era molto, molto politico. Quando si rende conto che provocava se ne va via da Gerusalemme perché capisce di essere in pericolo. Insomma fa scelte molto politiche e strategiche. Gesù non appare affatto come un ingenuo, un sognatore naïf, è realista, uno che sa calcolare i suoi rischi e verso la fine gioca il tutto per tutto.

Le ostilità fra farisei e sadducei, dentro il Sinedrio, erano molto forti. Ve ne furono anche nel processo a Gesù?
Genot-Bismuth: Non so dirlo perché non abbiamo il verbale del processo. Ma Paolo, per esempio, quando fu chiamato in giudizio dal Sinedrio riuscì scaltramente a mettere un gruppo contro l’altro facendola franca. Nel Vangelo di Giovanni si vede che nel Sinedrio ci sono farisei che stanno dalla parte di Gesù, come Nicodemo. D’altronde anche nella missione rogatoria del Sinedrio nei confronti di Giovanni Battista sul Giordano, si evidenziano i rappresentanti dei due partiti del Sinedrio. E ciascuno fa le sue domande.

Flusser ipotizza che la condanna di Gesù da parte di Caifa fosse contro la Legge, fuori dall’ebraismo.
Genot-Bismuth: E’ una convinzione ideologica. La Mishna dice che quando uno pseudoprofeta si presenta come tale e si è certi che è uno pseudoprofeta deve subire il giudizio del Sinedrio e la condanna a morte. Tutto questo nella Mishna è molto chiaro.

Cosa teme, Caifa, da Gesù?
Genot-Bismuth: È una ragion di stato, la sua. Caifa è un uomo di governo che ragiona in termini di strategia. Prende la parola nel Sinedrio e dice: voi state dibattendo se è colpevole o no. A me non interessa. Io so che è uno pericoloso. Attirerà su di noi la vendetta dei romani, tutti noi siamo in pericolo dal momento che, alla fine, solleverà la gente contro i romani e contro di noi e il nostro regime. Lo dice chiaramente. Il suo è un giudizio politico. Del resto la carica di sommo sacerdote è nell’orbita del temporale, non è la religione come noi oggi la immaginiamo. È il regime di autonomia della Giudea che è negoziato con i romani, un’autonomia morale, la pax romana. Il sommo sacerdote è soprattutto un etnarca. E dunque ragiona in questo orizzonte politico. Le regole del gioco d’altronde erano chiare per Gesù stesso.

Cosa intende dire?
Genot-Bismuth: Sapeva benissimo di apparire come un sovversivo, che poteva essere visto come un agitatore politico, come i tantissimi messia o pseudo-messia che l’avevano preceduto o che saranno condannati a morte in seguito. Non c’era niente di straordinario, da questo punto di vista, in questa storia. Egli sapeva bene ciò che lo aspettava.

È curioso che lei – scrivendo due libri sul Vangelo di Giovanni – non contesti mai la storicità di ciò che il Vangelo riferisce. Sa che da Renan in poi…
Genot-Bismuth: Di Renan si possono leggere pagine antisemite terrificanti, veri abomini. E’ chiarissimo. La ragione essenziale che muove Renan e la scuola che nasce da lui è precisamente l’odio antisemita. Dichiara di voler fare di Cristo un “ariano” e che il cristianesimo non deve assolutamente nulla a quel popolo degenerato che sono i semiti. Allora gli è necessario negare tutto ciò che è storico di Gesù e della nascita del cristianesimo. Sono le stesse manipolazioni della verità storica in cui si specializzeranno personaggi come Stalin e oggi Le Pen.

Lei ha pubblicato testi rabbinici straordinariamente convergenti con san Giovanni sul racconto del processo a Gesù. E sostiene che il Vangelo di Giovanni è scritto da un contemporaneo, testimone oculare di quegli avvenimenti.
Genot-Bismuth: Il Vangelo si conclude con questa formula: «Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera». Una indicazione scarna come una nota d’archivio del tempo e che, senza dubbio, merita ben più credito di quanto glien’è stato accordato.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dichiara di essere il Figlio di Dio, uno con il Padre.
Genot-Bismuth: Sì, dunque di essere come Dio. Ma usa volutamente un’espressione ambigua, infatti ogni uomo poteva dirsi figlio di Dio. Di per sé era un’espressione accettata. Allora cosa intende Gesù quando si definisce Figlio di Dio? Egli afferma evidentemente la sua divinità («chi vede me, vede il Padre»). Ma gioca sull’ambiguità, è qualcosa di straordinario, usa, manipola il linguaggio in tutti i suoi sensi come un profeta. Di fatto Gesù alla fine si è sostituito a Dio e questo è il punto di non ritorno rispetto all’ebraismo: da qui comincia l’eresia o – secondo il punto di vista che si adotta – completamente un’altra cosa.

I più sostengono ancora oggi che il Vangelo di Giovanni è stato scritto molto tardi.
Genot-Bismuth: Io dico che è stato scritto da chi è stato testimone. Che egli prendesse abitualmente delle note durante gli avvenimenti mi pare evidente per la civiltà in cui era stato educato. Poi può darsi che, sulla base dei ricordi scritti, abbia composto il suo Vangelo in tarda età. Secondo me Giovanni ha dubitato per tutto il tempo, ha cominciato a credere veramente al momento in cui ha scoperto la tomba vuota.

Molti vedono nel suo Vangelo un’impronta ellenistica, soprattutto nel Prologo.
Genot-Bismuth: Solo perché usa il termine Logos. Ma allora anche Ben Sira (l’Ecclesiastico) è ellenistico. No, in realtà Logos è solo la traduzione dell’ebraico «davar» (atto/parola) ed è l’antichissima interpretazione della Genesi. Giovanni appare in una linea di interpretazione molto chiara, che lega la Genesi, l’interpretazione della Genesi fatta dal libro dei Proverbi e infine l’Ecclesiastico che due secoli dopo continua, riprende e amplifica i Proverbi. E poi, due secoli dopo, c’è Giovanni.

Il Prologo è la spiegazione del primo versetto della Genesi?
Genot-Bismuth: Il Targum Neophyti, in aramaico palestinese, traduce così Genesi 1,1: «Fin dall’origine il Verbo (davar) di YHWH creò con saggezza il cielo e…». Giovanni è legato a questa antica traduzione e apre così il suo Vangelo: «E il Verbo (davar) è stato un uomo di carne ed ha posto la sua tenda fra noi…». Propriamente l’incarnazione del davar, del Logos.

Nel libro «Un homme nommé Salut», lei pubblica documenti ebraici del I secolo, dove si parla di libri cristiani che possono far pensare ai Vangeli.
Genot-Bismuth: È un passo dello Sabat 116, vv (tratto dal Talmud completo). Ed è molto chiaro. Non solo parla di «awan-gelayon» e fa dei giochi di parole polemici su «evangelio», ma riporta addirittura una citazione esplicita di Matteo.

Cosa?
Genot-Bismuth: È riportato il dialogo fra un patriarca e un cristiano. E il cristiano ad un certo punto afferma: «È scritto nel Vangelo che “non sono venuto per abolire, ma per compiere”». Testuale. Se non si vuol accettare neanche questo è finita. Allora tutto è falso, nel mondo.

Molti sostengono che non è possibile che i Vangeli siano stati scritti prima del 70.
Genot-Bismuth: È un pregiudizio. Secondo me è più che plausibile. È stupido, per degli studiosi, l’espressione “non è possibile”. E poi come volete, in una civiltà che è l’inventrice della scrittura, che riferisce tutto al testo sacro, scritto, come potete immaginare che quel genere di fatti non sia stato messo per scritto molto presto? Ricordate che per esempio i sadducei non riconoscevano per niente l’oralità, volevano che tutto fosse scritto. Dunque se i cristiani volevano veramente far conoscere il loro annuncio occorreva da subito mettere per scritto.

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E Marco scrisse subito

Posté par atempodiblog le 20 août 2013

Da un autore pagano del primo secolo la conferma che il vangelo di Marco fu scritto pochi anni dopo la morte di Gesù. Come attesta la tradizione cristiana primitiva.
Un punto a favore della credibilità storica del Vangelo.
di Marta Sordi – Il Timone

E Marco scrisse subito dans Commenti al Vangelo E-Marco-scrisse-subito

L’ identificazione, da parte di J. O’Callaghan nel 1972, ribadita poi da C. P. Thiede agli inizi degli anni ’90, di un frammento papiraceo in lingua greca (7Q5), trovato nella grotta 7 di Qumran, con Marco 6,52-53, ha riaperto, come è noto, nonostante le molte contestazioni, il problema della datazione dei Vangeli e di quello di Marco in particolare.
La scrittura del frammento, studiata prima dell’identificazione con il Vangelo, aveva imposto una datazione non posteriore al 50 d.C.; la grotta, inoltre,risultava chiusa dopo il 68; l’identificazione del frammento con un passo di Marco scompaginava così, se convalidata, tutte le ipotesi, date per certe dagli esegeti, della composizione tarda del Vangelo e confermava invece pienamente i dati conservati dalla tradizione cristiana primitiva: Papia di Gerapoli, vissuto tra la fine del I secolo e la prima metà del II (apud Euseb. H. E. II, 15 e III, 39,15) e Clemente di Alessandria (apud Euseb. H. E. II, 15 e VI, 14,6) affermavano infatti che Marco aveva scritto il suo Vangelo, su richiesta dei Romani, che avevano ascoltato la predicazione di Pietro, all’inizio del regno di Claudio (nel 42, secondo la traduzione di Gerolamo del Chronicon di Eusebio).
Una citazione dello stesso passo di Clemente (p. 9 Staehlin) spiegava che i Romani, da cui era partita la richiesta erano Cesariani e cavalieri, ut possent quae dicebantur memoriae commendare. Si trattava di persone della classe dirigente romana, abituate alla comunicazione scritta e la richiesta da loro rivolta a Marco è perfettamente comprensibile; specialmente se si tiene conto del fatto che, nel 42/43, mentre Claudio era assente per la spedizione in Britannia, il governo di Roma era tenuto da L. Vitellio, che nel 36/37, come legato di Siria, aveva avuto occasione di occuparsi dei cristiani a Gerusalemme. Il desiderio di avere ulteriori informazioni sulla nuova “setta” giudaica poteva rientrare nelle normali preoccupazioni per l’ordine pubblico del governo di Roma. Ciò che fu allora appurato dovette tranquillizzare i Romani che, da quel momento e fino al 62, in Giudea come nelle province, cercarono di impedire azioni persecutorie derivate da accuse giudaiche contro i Cristiani. La data del 42/43 è  innanzitutto, secondo Papia e Clemente, la data dell’arrivo di Pietro a Roma: una conferma dell’importanza di questa data per la Chiesa di Roma è che al 42/43 risale, secondo Tacito (Ann. XIII, ro 32), la conversione di Pomponia Grecina, la moglie di Aula Plauzio, il legato le che precedette in Britannia Claudio, ad re una superstizio externa che è certamente il cristianesimo. Ma ciò che ci interessa ora è la stesura del Vangelo di le Marco: si è detto che 7Q5 non fa che a, confermare, con l’autorità di un documento contemporaneo, ciò che sapevamo già da autorevoli fonti del II secolo, che solo l’ipercritica, da tempo el superata negli studi di storia antica, ma ancora presente negli studi delle origini cristiane, ha troppo a lungo e ingiustamente sottovalutato. Paradossalmente, anche se 7Q5 non fosse un frammento di Marco, le testimonianze di Papia e di Clemente dovrebbero indurci ad ammettere come probabile la venuta di Pietro a Roma nel 42 e la stesura in quell’occasione del Vangelo di Marco.
Ma un’ulteriore e importante conferma ci viene ora da un autore pagano, quel Petronio autore del Satyricon, che scrive nel 64/65 e mostra di conoscere il testo marciano, come ha dimostrato, con ottimi argomenti, I. Ramelli in un articolo pubblicato su Aevum nel 1996. Contatti fra i Vangeli e passi del Satyricon erano stati già notati in passato, per la crocifissione, la risurrezione, l’eucaristia, ma erano stati spiegati come pure coincidenze o con interpretazioni antropologiche. Il passo studiato dalla Ramelli (Sat. 77,7-78,4) riguarda l’unzione durante la cena di Betania (Me 14,3-9), un episodio, cioè, la cui importanza non è così grande da poterne spiegare la conoscenza da parte dei pagani in base a semplici voci, come quelle che circolavano in quell’epoca a Roma sui flagitia attribuiti dal volgo ai Cristiani nel 64, come dice Tacito (Ann. XV, 44x) parlando dell’incendio. Qui i contatti sono tali che già il Preuschen, agli inizi del XX secolo, aveva pensato a una dipendenza reciproca, attribuendo però a Marco l’imitazione di Petronio: l’evidente assurdità dell’ipotesi (dato il carattere di sprezzante parodia del passo di Petronio) ne aveva determinato il rifiuto.
Il giudizio è necessariamente diverso se il Vangelo di Marco era già noto nel 64/65 e se ammettiamo che è petronio a parodiare Marco e non Marco a imitare Petronio: c’è l’ampolla di nardo, che solo Marco conosce fra gli evangelisti (i sinottici parlano di un vaso di unguento non specificato, Giovanni parla di una libbra di nardo); c’è la prefigurazione da parte di Trimalcione di un’ unzione funebre, in un contesto che parla continuamente – ma senza giustificazione apparente, visto che Trimalcione dichiara che vivrà ancora 30 anni di morte; c’è, poco prima (ib. 74, 1/3),dalla consuetudine pagana) come profeta di sventura e come index, accusatore. Se Petronio conosce il testo di Marco e intende parodiarlo (e la cosa non ci sorprende alla corte di Nerone, dove, come risulta da Paolo [FiI4,22] il cristianesimo era ben noto), anche gli altri accenni di Petronio che sembrano implicare la conoscenza del cristianesimo diventano importanti: penso in particolare al cap. 141, in cui Eumolpo chiede nel suo testamento che i suoi eredi mangino il suo corpo, e alla novella della matrona di Efeso (cap. III), con il trafugamento del corpo di un crocifisso e la sua « rianimazione » al terzo giorno: un motivo anticristiano reso attuale dal cosiddetto editto di Nazareth, se, come sembra probabile, l’editto è di Nerone e rivela l’ accettazione, da parte del governo romano, delle accuse giudaiche ai discepoli di Cristo di aver trafugato il corpo del loro Signore, come attesta Matteo (28,15).
La parodia di Petronio è dunque la miglior conferma delle notizie della tradizione cristiana del II secolo sull’antichità del Vangelo di Marco.

Ricorda
La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima che i quattro vangeli, di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza ».
(Concilio Vaticano Il, Costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, 19).

Divisore dans San Francesco di Sales

Inoltre Freccia dans Viaggi & Vacanze Vangeli: al centro la storia

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La storicità dei Vangeli

Posté par atempodiblog le 20 août 2013

La storicità dei Vangeli dans Antonio Socci hsk2

Voglio prendere spunto da un paio di notizie arrivate da Israele. Le ha riportate il Jerusalem Post il 21 e il 23 dicembre (2004) e si possono trovare sintetizzate in questa pagina web: http://www.israele.net/sections.php?section_cat=13
La prima riguarda la scoperta a Gerusalemme di una parte della celebre piscina di Siloe, quella menzionata nel Vangelo di Giovanni nella quale Gesù guarì un uomo cieco dalla nascita. Ed ecco la seconda notizia: la Israel Antiquities Authority ha recentemente scoperto i resti del villaggio di Cana dove Gesù compì il suo primo miracolo cambiando l’acqua in vino durante una festa di matrimonio. In alcuni edifici sono stati trovati utensili e i resti di un mikve, un bagno rituale ebraico.

Non è qui il caso di approfondire i particolari che pure sono affascinanti. Tuttavia queste due piccole notizie – che documentano tangibilmente come siano fedeli ai fatti i resoconti del Vangelo – ci mettono ancora una volta, appassionatamente, sulle tracce di quell’Uomo di Nazaret che giganteggia nelle pagine del Vangelo. Riportano alla luce le pietre su cui lui ha camminato, i luoghi che hanno sentito risuonare la sua voce, la terra con cui ha guarito un povero cieco. Tutto esattamente come riferiscono i resoconti evangelici. E’ bene ricordare la colossale importanza che le scoperte archeologiche moderne hanno assunto dopo due secoli di tentata demolizione della credibilità storica dei fatti riportati nei Vangeli. Scoperte clamorose. A cominciare dal più antico frammento del Vangelo, il famoso 7Q5, che riporta un versetto di Marco che fu composto prima del 50 d.C. Ma anche tutti gli altri ritrovamenti archeologici.
Il padre Ignace De La Potterie sj, uno dei grandi esperti di Giovanni, faceva un lucido esempio a questo proposito:
“Fin dalla metà del secolo scorso, la Scuola di Tubinga (David Fr., Strass, Walter Bauer, Ferdinand Ch. Baur) aveva imposto l’idea che nessuno dei redattori dei Vangeli fosse un testimone oculare, tanto meno un apostolo. Quello di Giovanni veniva attribuito a un qualche filosofo ellenizzante dell’Asia Minore o dell’Egitto. Nel 1930 il modernista italiano Adolfo Omodeo, in La mistica giovannea, l’unica opera italiana citata da Rudolf Bultmann, sosteneva ancora che Giovanni era stato scritto da uno gnostico in Egitto, intorno al 120. In questa temperie mentale la precisione delle descrizioni topografiche palestinesi risultava difficile da spiegare, se non addirittura scomoda. E allora si tendeva a interpretarla in modo mitico, fittizio. Esempio: nel capitolo quinto, la guarigione del paralitico avviene nei pressi di una piscina miracolosa che Giovanni chiama Betesda, ‘che ha cinque portici’ (quinque porticus habens). Ricordo di aver studiato, da giovane, su un libro di cento anni fa in cui questo passo veniva interpretato come una simbologia pitagorica…. Dall’inizio del Novecento i numerosi scavi compiuti in Palestina hanno dato conferme archeologiche ai luoghi descritti da Giovanni. La fontana con cinque portici, che doveva essere un simbolo pitagorico, è stata trovata presso il Tempio di Gerusalemme” (Storia e mistero, Sei 1997, pp. 10-11).

Evidentemente è facile intuire che delle descrizioni così precise di Gerusalemme potevano essere fatte solo da un ebreo che viveva in quella città prima della sua distruzione da parte dei Romani, nel 70 d.C. Dunque anche le pietre confermano (gridano!) ciò che Giovanni scrive a chiare lettere, cioè di essere un testimone oculare dei fatti: “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita… lo annunziamo anche a voi” (1Giov 1,1). E Pietro conferma che essi, gli apostoli, non sono “andati dietro a favole artificiosamente inventate”, ma “siamo stati testimoni oculari della sua grandezza” (2Pt 1,16). Quando – alcuni anni fa – riportai alla luce la clamorosa scoperta di padre José O’Callaghan sul 7Q5 – la reazione di molti esegeti fu velenosa (soprattutto di quelli ecclesiastici, perché i papirologi laici accettarono tranquillamente e laicamente la scoperta). Uno di questi biblisti (rimasto famoso per un incredibile svarione scientifico) sibilò su un giornale: “Continua, in modo spesso scomposto e frenetico, l’interesse per il Gesù della storia”. Gli rispose per le rime il grande De La Potterie (vedi AAVV, Vangelo e storicità, p. 165). Io da parte mia devo confessare e lo dichiaro qui apertamente che quell’interesse “scomposto e frenetico per il Gesù della storia” è tutt’altro che sparito. Non si è mai attenuato, ma casomai si è ingigantito con gli anni. Quell’Uomo di nome Gesù, vero uomo e vero Dio, nostro Salvatore, nostro buon Pastore (che porta sulle sue spalle ognuno di noi), è la nostra passione. La sua storia, i suoi gesti, la sua presenza, il suo volto sono l’unica perla preziosa che vale la pena cercare nella vita. Null’altro. Come diceva Charles Moeller, che don Giussani ci ha fatto conoscere: “io credo che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare”.

di Antonio Socci

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