La vera Sapienza

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2015

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Ci affacciamo su questo nuovo anno cominciando con questa proclamazione del Prologo di Giovanni, che abbiamo già ascoltato nella Messa del giorno del Natale. Ecco: la chiave che la liturgia ci dà è quella del capitolo 24° del libro del Siracide, dove si parla della Sapienza che fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto e proclama la sua gloria, apre la bocca dinanzi alle schiere dell’Altissimo e anche nell’assemblea viene ammirata. E’ interessante perché c’è un dualismo in questa proclamazione della Sapienza.

La Sapienza proclama la sua gloria nell’assemblea dell’Altissimo, cioè alla Sua presenza… questo è il Cielo, è la dimensione non umana, però a un dato momento “nella città che Egli ama, mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso. Nella porzione del Signore la mia eredità”, cioè questa Sapienza che sta in Dio scende nel popolo di Dio e, cioè, mette radici in mezzo a un popolo.

E’ interessante l’aspetto del popolo perché noi abbiamo un’idea di Sapienza come di una realtà individuale; noi crediamo che la Sapienza sia un’erudizione personale, sia una forma di possesso di dati e di sintesi, tutto collegato alla nostra intelligenza ossia a un intelletto… No, la Sapienza è l’esperienza di un popolo: è la vita di un popolo. C’è nascosta Sapienza nella vita di un popolo. Nell’assemblea di questa povera gente che Dio ha scelto, lì è la Sapienza e, quindi, non è conoscenza, ma è arte di campare, è vivere, ma vivere non da soli ma con gli altri.

Cos’è la vera Sapienza? Chi è il Sapiente? Colui che si ricorda a memoria il volume della sfera? La Sapienza è saper stare con gli altri.

Esistono molti eruditi che sono degli ignoranti relazionali, degli analfabeti affettivi. La Sapienza è l’amore, la Sapienza è il vivere.

Infatti, guardiamo come si presenta la Sapienza nel Vangelo:

primo è Dio, è presso Dio ed è la vita stessa di Dio e tutto è stato fatto in questa chiave; tutto è nella chiave di questa vita di Dio, che è stare davanti a Lui, essere in Lui, essere Lui, cioè la comunione totale con Dio, che è ciò che poi vediamo compiersi come questa immagine che nella prima lettura viene denominata Sapienza. Allora in Lui è la vita, questo che sta arrivando è la Vita e la Vita sa annunciarsi attraverso san Giovanni Battista, viene incontro a noi ed è la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, alla fin fine di tante cose che possiamo fare o non fare, capire o non capire, essere o non essere, tante prerogative che possiamo avere o non avere, la Luce che ci illumina è proprio il Signore Gesù, che è Sapienza, ma non è una Sapienza da studiare nei libri, come abbiamo già abbondantemente ripetuto, la Sapienza è Qualcuno che viene e può essere rifiutato, può essere non accolto, può essere buttato via, cioè è amore che non si impone. La Sapienza è l’Amore Vero, autentico, che non è violenza, che non conosce aggressività, ma a chi la accoglie dona una nuova identità.

Quando io ho sapienza, quella umana, io ho semplicemente altri dati… quando ho la vita di Dio che è la Sua Sapienza, divento un altro, sfodero qualcosa che in me non era evidente, che è la mia potenzialità di figlio di Dio, perché io posso accogliere il Suo potere, la Sua potenza, la Sua forza, la Sua bellezza, la Sua tenerezza in me… e il Verbo sa farsi carne, questa Sapienza non resta astratta, sa entrare nel reale, sa entrare nelle cose.

Ogni giorno siamo chiamati ad incarnarci, ogni giorno siamo in questa tentazioni di restare incapsulati nei nostri schemi, nelle nostre idee e, invece, la Sapienza è entrare nel reale, mettere la tenda fra gli uomini. Lo fa Gesù Cristo e dobbiamo farlo noi, stare nella realtà. Non vivere aspettare chissà che cosa, non vivere di progetti. E’ saper entrare nella pienezza e ricevere grazia su grazia, ciò che alla fin fine canta questo Prologo, questa poesia meravigliosa, con cui inizia il Vangelo di Giovanni è la rivelazione del Padre, cioè “Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio Unigenito che è Dio ed è nel Seno del Padre, è Lui che Lo ha rivelato”, in fondo è tutto qui il punto, cioè tutto quello che ha fatto “è sceso fra gli uomini”, “ha piantato le sue radici nel popolo”, come diceva la prima lettura, ha posto la Sua dimora in mezzo a noi, ha piantato la Sua tenda fra noi, dà le cose ha chi lo accoglie… alla fin fine tutto questo è rivelare il Padre, rivelare ciò che Adamo aveva perso e fa di Adamo un teoreta, un astratto, che vive di proiezioni, uno che vive di idoli, uno che vive di aspettative.

L’uomo è infelice della sua realtà perché non entra nella realtà in comunione con il Padre perché non crede che Dio sia Padre. Cosa rivela il Figlio? Il Padre. Rivela l’amore del Padre. Quando nel nostro cuore entra l’intuizione, che è dono dello Spirito Santo, della tenerezza di Dio, della Provvidenza sapiente della paternità di Dio, entra la pace.

Io posso entrare in una vita meravigliosa, posso vivere in Lui, abbandonato a Lui senza angustiarmi, senza entrare in ansia, senza dover vivere di possessi, di autoaffermazioni o non so cosa. Vivendo veramente la vita reale, incarnandomi, stando nell’anno che Dio mi dà.

Comincia un anno… un anno per incarnarsi, un anno per fidarsi di Dio, un anno per vivere nella realtà. Non c’è felicità fuori dalla realtà. Se esiste una felicità è nel reale, non può essere in un paradiso fittizio, ideale o chimico, di appagamenti o confort, di fughe dalla realtà o di alienazioni. Se esiste un paradiso è lì dove ognuno di noi sta, quando entra in comunione con il Padre.

Don Fabio Rosini (catechesi audio)

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Il Papa all’Angelus: libertà religiosa, diritto inalienabile

Posté par atempodiblog le 26 décembre 2014

FESTA DI SANTO STEFANO PROTOMARTIRE

PAPA FRANCESCO
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ANGELUS
Piazza San Pietro
Venerdì, 26 dicembre 2014

[Video]


 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi la liturgia ricorda la testimonianza di santo Stefano. Scelto dagli Apostoli, insieme ad altri sei, per la diaconia della carità, cioè per assistere i poveri, gli orfani, le vedove nella comunità di Gerusalemme, egli diviene il primo martire della Chiesa. Con il suo martirio, Stefano onora la venuta nel mondo del Re dei re, dà testimonianza di Lui e offre in dono la sua stessa vita, come faceva nel servizio ai più bisognosi. E così ci mostra come vivere in pienezza il mistero del Natale.

Il Vangelo di questa festa riporta una parte del discorso di Gesù ai suoi discepoli nel momento in cui li invia in missione. Dice tra l’altro: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (Mt 10,22). Queste parole del Signore non turbano la celebrazione del Natale, ma la spogliano di quel falso rivestimento dolciastro che non le appartiene. Ci fanno comprendere che nelle prove accettate a causa della fede, la violenza è sconfitta dall’amore, la morte dalla vita. E per accogliere veramente Gesù nella nostra esistenza e prolungare la gioia della Notte Santa, la strada è proprio quella indicata da questo Vangelo, cioè dare testimonianza a Gesù nell’umiltà, nel servizio silenzioso, senza paura di andare controcorrente e di pagare di persona. E se non tutti sono chiamati, come santo Stefano, a versare il proprio sangue, ad ogni cristiano però è chiesto di essere coerente in ogni circostanza con la fede che professa. E la coerenza cristiana è una grazia che dobbiamo chiedere al Signore. Essere coerenti, vivere come cristiani e non dire: “sono cristiano”, e vivere come pagano. La coerenza è una grazia da chiedere oggi.

Seguire il Vangelo è di certo un cammino esigente, ma bello, bellissimo, e chi lo percorre con fedeltà e coraggio riceve il dono promesso dal Signore agli uomini e alle donne di buona volontà. Come cantavano gli angeli il giorno di Natale: “Pace! Pace!”. Questa pace donata da Dio è in grado di rasserenare la coscienza di coloro che, attraverso le prove della vita, sanno accogliere la Parola di Dio e si impegnano ad osservarla con perseveranza sino alla fine (cfr Mt 10,22).

Oggi, fratelli e sorelle, preghiamo in modo particolare per quanti sono discriminati, perseguitati e uccisi per la testimonianza resa a Cristo. Vorrei dire a ciascuno di loro: se portate questa croce con amore, siete entrati nel mistero del Natale, siete nel cuore di Cristo e della Chiesa.

Preghiamo inoltre perché, grazie anche al sacrificio di questi martiri di oggi – sono tanti, tantissimi! -, si rafforzi in ogni parte del mondo l’impegno per riconoscere e assicurare concretamente la libertà religiosa, che è un diritto inalienabile di ogni persona umana.

Cari fratelli e sorelle, vi auguro di trascorrere serenamente le Feste natalizie. Santo Stefano, diacono e primo martire, ci sostenga nel nostro cammino quotidiano, che speriamo di coronare, alla fine, nella festosa assemblea dei santi in Paradiso.


Dopo l’Angelus:

Cari fratelli e sorelle,

vi saluto nella gioia del Natale e rinnovo a tutti voi l’augurio di pace: pace nelle famiglie, pace nelle comunità parrocchiali e religiose, pace nei movimenti e nelle associazioni. Saluto tutte le persone che si chiamano Stefano o Stefania: tanti auguri!

In queste settimane ho ricevuto tanti messaggi augurali da Roma, e da altre parti. Non essendomi possibile rispondere a ciascuno, esprimo oggi a tutti il mio sentito ringraziamento, specialmente per il dono della preghiera. Grazie di cuore! Il Signore vi ricompensi con la sua generosità!

E non dimenticate: coerenza cristiana, cioè pensare, sentire e vivere come cristiano, e non pensare come cristiano e vivere come pagano: questo no! Oggi chiediamo a Stefano la grazia della coerenza cristiana. E per favore continuate a pregare per me, non lo dimenticate.

Buona festa e buon pranzo! Arrivederci.

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Festa di Cristo Re: amare i fratelli secondo la misura dell’amore di Cristo

Posté par atempodiblog le 23 novembre 2014

Festa di Cristo Re: amare i fratelli secondo la misura dell’amore di Cristo
Don Fabio Rosini (catechesi audio)

Festa di Cristo Re: amare i fratelli secondo la misura dell’amore di Cristo dans Commenti al Vangelo 14a8rqu

E’ molto interessante oggi, come sempre, logicamente, confrontare la prima lettura con il Vangelo perché c’è un rovesciamento di prospettiva… ovverosia nella prima lettura c’è  il famoso rimprovero, fatto per mezzo del profeta Ezechiele, da parte del Dio di Israele ai pastori, a coloro che governano il popolo, a coloro che lo pascolano, perché si son comportati male… non hanno veramente fatto il bene del popolo di Dio. Allora Dio adirato dice: “Io stesso cercherò le mie pecore, siccome non lo fate voi… le passerò in rassegna”. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge, no? “E cosa farò? Condurrò le mie pecore al pascolo, le farò riposare, andrò in cerca della pecora perduta, ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte, le pascerò con giustizia”.

Questa prospettiva ci fa vedere un certo tipo di realtà. Quella cosa per cui, siccome gli uomini non si son occupati dei loro fratelli, Dio stesso andrà a occuparsi di questi bisognosi, di queste persone che hanno bisogno di cura, secondo le loro diverse necessità.

Invece, il Vangelo rovescia la prospettiva se ci pensiamo bene, si da una parte compare questo Re Pastore il quale (come dice l’ultimo versetto della prima lettura: “giudicherò tra pecora e pecora, montoni e capri”) divide, discerne, chiarisce quello che è il confronto tra le opere di alcuni e le opere di altri e  metterà alla destra e alla sinistra chi ha fatto qualcosa – che cosa però? –. Il principio del discernimento è necessario per capire dove vien messa una pecora, dove vien messo un capro: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare. Ho avuto sete e mi avete dato da bere. Ero straniero e mi avete accolto. Nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. Oppure non lo avete fatto…”.

Nella prima lettura era il Signore che si prendeva cura del suo popolo, qui – nel Vangelo – è ognuno di noi che si prende cura di qualcuno. Ed è curioso: “avevo fame…”, cioè Dio si cura di noi, nella prima lettura, perché noi non abbiamo carità fra di noi… nella seconda lettura noi siamo chiamati a prenderci cura, curiosamente, di Lui… “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”, cioè chiamati tutti quanti a essere pastori, chiamati a dare da mangiare a qualcuno, chiamati a visitare qualcuno, chiamati a curare qualcuno.

Dov’è il punto? Ce ne sono due:

Innanzi tutto: ognuno di noi ha qualcuno di cui prendersi cura. Attenzione quando partiamo per grandi opere eclatanti, altisonanti, magari molto estranee al nostro contesto vitale. Partiamo da quello che già Dio ci ha dato da fare ,perché non ci succeda che noi ci stiamo occupando di non si sa chi, mentre non ci stiamo occupando della prima emergenza che ci circonda… delle persone che Dio, in un discernimento che va fatto con semplicità e semplicità, ci affida. Secondo ministero, secondo quello che è la nostra propria condizione.

Prima di tutto noi abbiamo da servire qualcuno. Sicuramente, non c’è ombra di dubbio. Ognuno di noi è chiamato a servire qualcun altro. Noi non viviamo se non ci serviamo reciprocamente, nessun uomo e nessuna donna può vivere se non è aiutato da qualcun altro e noi tutti abbiamo bisogno di essere pascolati e noi tutti siamo, quindi, chiamati a pascolare qualcuno, a pascere qualcuno, a occuparci di qualcuno.

La cosa interessante è, appunto, il rovesciamento rispetto alla prima lettura. Quando faremo questo, infondo, stiamo occupandoci di Cristo. Infatti, qui sia i buoni che i cattivi non Lo riconoscono: “quando mai ti abbiamo visto e ti abbiamo dato da mangiare?”, oppure “quando ti abbiamo visto affamato e non ti abbiamo dato da mangiare?”.

E svelerà, questo Re Pastore, che era nascosto nelle persone che erano intorno. Ovverosia “ogni volta che avete fatto questo ai miei fratelli più piccoli lo avete fatto a Me”.

Qui è il cambio tra le opere di semplice filantropia con la carità cristiana. La carità cristiana è molto diversa dalla filantropia. Quest’ultima è amore dell’uomo secondo concetti di giustizia e di solidarietà, che sono cose molto buone, non c’è niente di male, ma l’amore cristiano è una relazione con Cristo, quando si fanno le cose alle persone non le si fanno perché uno ha un concetto o un’astrazione di bontà, per cui fa le cose che, logicamente, saranno limitate dal concetto, limitate anche dal merito, dalla giustizia, dall’opportunità, dalla quantità di parametri umani che resteranno sempre e comunque validi in questo ambito. Qui si va oltre: si va a una relazione con Cristo ovverosia si fa quello che Lui ha fatto per noi. Qui entrano altri parametri, qui la giustizia diventa meno importante perché non faremo le cose solo per chi se lo merita ma anche per chi non se lo merita… perché Cristo ha fatto questo con noi.

Noi in questo entreremo in categorie come “l’amore al nemico”, che sono straordinarie, oltre l’umano che sono solamente del tipo che appartiene allo Spirito Santo, non appartiene allo spirito umano. Qui noi non facciamo le cose perché sono giuste, perché io con la mia volontà ho capito che vanno fatte, ma perché io ho ricevuto tanto. Si parte nelle opere di misericordia da come Cristo le ha applicate a noi e, quindi, noi le facciamo a Lui. Noi amiamo Lui che ci ha tanto amato, quindi non ho bisogno che l’altro se lo meriti quello che io gli faccio. Lo faccio anche se l’altro non se lo merita, lo faccio perché la mia relazione con lui è una triangolazione con Cristo. Lo so che l’altro è povero… è povero come lo sono stato io, per questo userò misericordia, userò pazienza secondo una misura che non è la misura della mia giustizia, dei miei poveri concetti umani, ma secondo la misura dell’amore di Cristo, il Quale quando ero carcerato nelle mie schiavitù, nelle mie assurdità, è venuto a liberarmi, è venuto a visitarmi, ha avuto pazienza con me, quando avevo fame di una fame più profonda non mi ha lasciato senza sostegno. Quando ero malato delle mie malattie interiori, quelle invisibili, quelle che si vivono tranquillamente senza mostrarle, Lui ha avuto pazienza con me. Piano piano mi ha preso per mano e mi ha condotto a riconoscere la mia malattia e mi ha insegnato a vivere nella sua salute.

E’ dalla relazione con Cristo che partono le  opere di misericordia, altrimenti sono solamente delimitate dallo spazio della nostra razionalità che è tanto piccola, che è tanto mediocre.

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È misericordioso chi cerca misericordia

Posté par atempodiblog le 8 octobre 2014

“Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”

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Nella nostra esperienza di tutti i giorni…, normalmente sono un iroso, uno che reagisce male…: prego sempre con intensità il II° mistero doloroso dove Gesù viene catturato e flagellato alla colonna e gli chiedo: “quando mi darai mitezza, quando risponderò mitemente alle persone, come tu mi rispondi mitemente?”.

Offendi un uomo e vediamo come ti risponde, anche se è un uomo che prega sempre; tu prova ad offenderlo e vedrai quale è la sua reazione: sarà violenta, risponderà male e se tirerà fuori dal suo sacco ciò che ha dentro veramente, la giustizia, rabbia, allora non ha capito il perdono.

Dobbiamo pregare costantemente perché Dio ci dia una reazione mite come il Signore Gesù Cristo, perché i nostri conti con Dio non sono in pareggio; non so come voi siete messi, ma se Dio facesse i conti con me, io non me la cavo.

Se Dio applicasse con me i conti come deve, come sono, mi fulmina davanti a voi, perché è quello che mi merito, e non parlo per parlare; i miei peccati sono molto concreti, sono brutti e, nel passato, quando guardo la croce, vedo le mie impronte digitali, vedo come ho lasciato alcune persone della mia vita, come ho ferito e sono stato freddo con alcuni, quello che ho fatto a mio fratello e via dicendo.

Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia.

È misericordioso chi cerca misericordia, esercita il perdono chi cerca perdono; la misericordia nasce dalla coscienza della nostra povertà, del nostro debito, di un debito impagabile; se noi fossimo nella verità, se noi – semplicemente quelli che siamo qui – fossimo nella pura e semplice verità, oggi chi ci incontra incontrerebbe solo tenerezza, solo misericordia, solo benevolenza… perché siamo tutti molto indietro coi conti!

di don Fabio Rosini (audio)
Tratto da: Collevalenza, Santuario dell’Amore Misericordioso

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“Venga il Tuo Regno”

Posté par atempodiblog le 8 octobre 2014

Venga il Tuo Regno, o nostro dolcissimo Re

Ecco che tu, o Gesù Cristo Re, stendi il tuo regno e spieghi il tuo vessillo da trionfatore su tutto il mondo! Tu non con la violenza della guerra, né con il terrore delle stragi t’impossessasti dei regni, ma solo con l’amore attrai tutti a te, da quando fosti elevato sulla Croce! O beatissimo il popolo su cui regna in pieno Gesù Cristo!

Venga presto, o Signore Gesù Cristo, nostro dolcissimo Re, il giorno desiderato in cui tutto il mondo, a te sottomesso e fedele, goda il frutto della giustizia in ogni attività e relazione umana, nella pienezza della pace intima, domestica, sociale! A te solo, o Gesù Cristo, con il Padre nel Santo Spirito, Re dei secoli, solo Dio, ogni onore e gloria! Amen!

Beato Giustino Maria della Santissima Trinità Russolillo

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Papa Francesco: “Venga il tuo Regno, cresca il tuo Regno”

“A tutti noi può accadere questa cosa. Tutti siamo peccatori e tutti siamo tentati e la tentazione è il pane nostro di ogni giorno. Se qualcuno di noi dicesse: ‘Ma io mai ho avuto tentazioni’, o sei un cherubino o sei un po’ scemo, no? Si capisce… E’ normale nella vita la lotta e il diavolo non sta tranquillo, lui vuole la sua vittoria. Ma il problema – il problema più grave in questo brano – non è tanto la tentazione e il peccato contro il nono comandamento, ma è come agisce Davide. E Davide qui non parla di peccato, parla di un problema che deve risolvere. Questo è un segno! Quando il Regno di Dio viene meno, quando il Regno di Dio diminuisce, uno dei segni è che si perde il senso del peccato”.

Ogni giorno, recitando il “Padre Nostro”, noi chiediamo a Dio “Venga il Tuo Regno…”, il che – spiega Papa Francesco – vuol dire “cresca il Tuo Regno”. Quando invece si perde il senso del peccato, si perde anche “il senso del Regno di Dio” e al suo posto – sottolinea il Papa – emerge una “visione antropologica superpotente”, quella per cui “io posso tutto”:

“La potenza dell’uomo al posto della gloria di Dio! Questo è il pane di ogni giorno. Per questo la preghiera di tutti i giorni a Dio ‘Venga il tuo Regno, cresca il tuo Regno’, perché la salvezza non verrà dalle nostre furbizie, dalle nostre astuzie, dalla nostra intelligenza nel fare gli affari. La salvezza verrà dalla grazia di Dio e dall’allenamento quotidiano che noi facciamo di questa grazia nella vita cristiana”.

“Il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato”.

di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

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Messa inaugurale del Sinodo, il Papa: si cooperi al progetto di Dio

Posté par atempodiblog le 5 octobre 2014

Messa inaugurale del Sinodo, il Papa: si cooperi al progetto di Dio dans Commenti al Vangelo 208ee89

Oggi il profeta Isaia e il Vangelo utilizzano l’immagine della vigna del Signore. La vigna del Signore è il suo “sogno”, il progetto che Egli coltiva con tutto il suo amore, come un contadino si prende cura del suo vigneto. La vite è una pianta che richiede molta cura!

Il “sogno” di Dio è il suo popolo: Egli lo ha piantato e lo coltiva con amore paziente e fedele, perché diventi un popolo santo, un popolo che porti tanti buoni frutti di giustizia.

Ma sia nell’antica profezia, sia nella parabola di Gesù, il sogno di Dio viene frustrato. Isaia dice che la vigna, tanto amata e curata, «ha prodotto acini acerbi» (5,2.4), mentre Dio «si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (v. 7). Nel Vangelo, invece, sono i contadini a rovinare il progetto del Signore: essi non fanno il loro lavoro, ma pensano ai loro interessi.

Gesù, con la sua parabola, si rivolge ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo, cioè ai “saggi”, alla classe dirigente. Ad essi in modo particolare Dio ha affidato il suo “sogno”, cioè il suo popolo, perché lo coltivino, ne abbiano cura, lo custodiscano dagli animali selvatici. Questo è il compito dei capi del popolo: coltivare la vigna con libertà, creatività e operosità.

Dice Gesù che però quei contadini si sono impadroniti della vigna; per la loro cupidigia e superbia vogliono fare di essa quello che vogliono, e così tolgono a Dio la possibilità di realizzare il suo sogno sul popolo che si è scelto.

La tentazione della cupidigia è sempre presente. La troviamo anche nella grande profezia di Ezechiele sui pastori (cfr cap. 34), commentata da sant’Agostino in un suo celebre Discorso che abbiamo appena riletto nella Liturgia delle Ore. Cupidigia di denaro e di potere. E per saziare questa cupidigia i cattivi pastori caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito (cfr Mt 23,4).

Anche noi, nel Sinodo dei Vescovi, siamo chiamati a lavorare per la vigna del Signore. Le Assemblee sinodali non servono per discutere idee belle e originali, o per vedere chi è più intelligente… Servono per coltivare e custodire meglio la vigna del Signore, per cooperare al suo sogno, al suo progetto d’amore sul suo popolo. In questo caso, il Signore ci chiede di prenderci cura della famiglia, che fin dalle origini è parte integrante del suo disegno d’amore per l’umanità.

Noi siamo tutti peccatori e anche per noi ci può essere la tentazione di “impadronirci” della vigna, a causa della cupidigia che non manca mai in noi esseri umani. Il sogno di Dio si scontra sempre con l’ipocrisia di alcuni suoi servitori. Noi possiamo “frustrare” il sogno di Dio se non ci lasciamo guidare dallo Spirito Santo. Lo Spirito ci dona la saggezza che va oltre la scienza, per lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività.

Fratelli Sinodali, per coltivare e custodire bene la vigna, bisogna che i nostri cuori e le nostre menti siano custoditi in Gesù Cristo dalla «pace di Dio che supera ogni intelligenza», (Fil 4,7). Così i nostri pensieri e i nostri progetti saranno conformi al sogno di Dio: formarsi un popolo santo che gli appartenga e che produca i frutti del Regno di Dio (cfr Mt 21,43).

Tratto da: La Santa Sede

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Chi semina «la zizzania delle chiacchiere» è Satana

Posté par atempodiblog le 30 septembre 2014

Papa Francesco alla Gendarmeria vaticana
«Non seminare bombe». È un impegno che per Francesco va perseguito anche trovando il coraggio di dire: «Per favore signore, per favore signora, per favore padre, per favore suora, per favore eccellenza, per favore eminenza, per favore santità, non chiacchierare, qui non si può!».
Tratto da: L’Osservatore Romano

Chi semina «la zizzania delle chiacchiere» è Satana dans Angeli wsjv50

Il diavolo, sicuramente. Chi semina «la zizzania delle chiacchiere», che deflagrano come «bombe» distruggendo «la vita degli altri» e anche «la vita della Chiesa», è il diavolo. Non «un’idea» —  ha puntualizzato Papa Francesco nella messa celebrata per la Gendarmeria dello Stato della Città del Vaticano sabato mattina, 27 settembre, nella cappella del Governatorato —  ma «una persona». Che «è cattiva, astuta» e «sa come uccidere».

A offrire al Pontefice lo spunto per l’omelia è stata la figura del patrono del Corpo, san Michele arcangelo. «Sempre attento» nel «custodire la Chiesa», egli «ci insegna questa virtù del custodire», nella quale è racchiusa la vocazione della Gendarmeria vaticana: «custodire questo Stato — l’ha descritta così Francesco —  che è al servizio della libertà della Chiesa, al servizio del vescovo di Roma, del Papa, perché possa essere libero, perché la Chiesa possa essere libera».

«Custodire», ha sottolineato il Pontefice, è «una bella parola, la stessa che Dio ha affidato come vocazione a san Giuseppe», assegnandogli la missione di «custodire Gesù, custodire Dio, anche custodire la Chiesa dopo». E «voi — ha detto il ai gendarmi —  siete custodi» alla scuola dell’arcangelo, il quale «ci insegna come custodire. È coraggioso, loda Dio».

«Voi lodate Dio? Pregando, lodate Dio come l’angelo?» ha chiesto ai presenti. «Sono domande — ha aggiunto — per essere buoni custodi, come l’angelo: ha il coraggio di cacciare via i demoni». Anche quelli che «rovinano la Chiesa», ha precisato, ricordando che si tratta proprio  di «custodire il popolo di Dio contro il diavolo». E «benché alcuni dicano che il diavolo è un’idea», ha chiarito, «io questa idea voglio averla lontana da me».

«Voi —  ha ribadito —  custodite dal diavolo, dalle tentazioni nell’esterno».  È «una bella vocazione questa: lottare con tutte le virtù umane, anche con la preghiera, con l’adorazione, lottare per custodire». Chi custodisce, ha fatto notare, «non può essere, mi permetto la parola, uno “sciocco”; deve essere svelto, deve essere attento. E voi siete sentinelle, voi sentinelle, con la vostra attenzione, per stare attenti, perché non vengano cose brutte dentro lo Stato».

Riferendosi a  presunte minacce terroristiche contro il Vaticano, enfatizzate in questi giorni dai media, il Papa ha messo l’accento sulle mansioni di vigilanza dei gendarmi: «voi sentinelle — ha detto — guardate le porte, le finestre, perché non entri una bomba». Ma, ha aggiunto, «voglio dirvi una cosa un po’ triste: ci sono bombe dentro, ci sono bombe pericolosissimie dentro. State attenti, per favore. Perché nella notte di tante vite cattive, il nemico ha seminato la zizzania».

Ogni seme di zizzania — ha proseguito il Pontefice — è una bomba che distrugge, non lascia crescere bene il grano, distrugge la vita». Si tratta di «una bomba fatta in casa o una bomba atomica?» si è chiesto. In ogni caso, ha affermato, è una bomba «pericolosa». E «ce ne sono tante», ha constatato, anche se «la peggiore bomba che è dentro il Vaticano è la chiacchiera».

Le chiacchiere, secondo Papa Francesco, «minacciano ogni giorno la vita della Chiesa e la vita dello Stato». Perché «ogni uomo che chiacchiera qui dentro — ha scandito — semina bombe, semina distruzione», in quanto «uccide la vita degli altri». E anche se le sue parole corrispondessero a verità, ha precisato, egli non avrebbe comunque «il diritto di dirlo a tutti», ma solo «a chi ha le responsabilità».  Da qui il lapidario invito rivolto ai gendarmi: «Siate sentinelle dei chiacchieroni».

La chiacchiera, ha incalzato, «è una delle malattie di questo Stato». E mentre «tanti laici, tanti sacerdoti, tante suore, tante consacrate, vescovi, seminano il buon grano», il diavolo «usa anche laici, alcuni preti, consacrati, suore, vescovi, cardinali», persino «Papi, per seminare la zizzania». Dunque «dobbiamo essere attenti a questo: non seminare zizzanie». Un «pericolo» che «anche io ho», ha ammesso Francesco. Perché «il diavolo ti mette dentro la voglia».

«Non seminare bombe: è questo il favore che io vorrei chiedervi» ha ripetuto il Pontefice, invitando la Gendarmeria a «custodire, essere brave sentinelle, perché il nemico non semini la zizzania delle chiacchiere».

È un impegno che per Francesco va perseguito anche trovando il coraggio di dire: «Per favore signore, per favore signora, per favore padre, per favore suora, per favore eccellenza, per favore eminenza, per favore santità, non chiacchierare, qui non si può!». Una determinazione necessaria, perché — ha riaffermato — «voi dovete fermare questa semina di bombe, che distruggono la Chiesa e non seminano vita, non sanno seminare il grano».

Quale sarà il destino di chi alimenta le chiacchiere? Richiamando il brano evangelico della liturgia il Papa ha ricordato che «i seminatori di zizzania, i chiacchieroni sono iniqui, commettono iniquità». E dunque «andranno nella fornace ardente», saranno condannati «alla vergogna e all’infamia eterna», come avverte anche il profeta Daniele. Sarà questa la «fine del chiacchierone».

Ai gendarmi il compito di «vigilare, essere brave sentinelle, perché questa bomba delle chiacchiere, queste bombe non entrino qui in casa». Grazie «al vostro aiuto  — è stato l’augurio concluso — la vita di tutti noi, l’ultima pagina della vita di tutti noi, sia: è stata una buona persona, ha seminato il buon grano. E non che, sarebbe tristissimo, l’ultima pagina sia: è stato un iniquo, ha seminato la bomba della zizzania».

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La parabola dei lavoratori a giornata: l’invidia spirituale

Posté par atempodiblog le 25 septembre 2014

La parabola dei lavoratori a giornata: l’invidia spirituale
Tratto da: Le vie del cuore. Vangelo per la vita quotidiana, di Padre Livio Fanzaga. Ed. PIEMME

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi». (Mt. 20,1-16)

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Nella vigna di Dio tutti abbiamo un compito

Questa parabola illustra mirabilmente il peccato di invidia spirituale, che il catechismo di san Pio X classifica fra i peccati contro lo Spirito Santo. L’invidia della grazia altrui è uno dei peccati più gravi e sotto il suo impulso sono state originate le più grandi catastrofi. Non è forse per invidia che Satana tentò Adamo ed Eva? E non è forse per invidia che i capi religiosi consegnarono Gesù a Pilato? Fra i vizi capitali l’invidia è uno dei più insidiosi, benché nascosto e silenzioso come il serpente infernale che la inocula. Se non viene estirpata per tempo l’invidia diviene omicida.

La prima considerazione che devi fare, per evitare che questa mala pianta metta radici nel tuo cuore, è di prendere coscienza che nel governo divino del mondo tutti siamo importanti e tutti abbiamo un compito insostituibile. Ogni uomo non solo è unico e irripetibile nella sua persona, ma lo è anche nella missione che riceve da Dio. Nel piano divino della salvezza delle anime, ci sono certamente diversità di carismi e di compiti, ma tutti siamo necessari.

Guarda ai fiori. Sono molti diversi gli uni dagli altri. Alcuni si mostrano vistosi e sgargianti di colori, altri invece sono minuscoli e spesso nascosti. Oseresti dire che l’umile violetta è meno bella e importante della rosa e del giglio? San Paolo porta il paragone delle membra. Ogni membro svolge una funzione insostituibile, che un altro non potrebbe compiere. Che ti giova avere un grande cervello se poi non hai la lingua per parlare o la mano per scrivere?

Così è nel campo spirituale. Ognuno uomo ha una sua identità, che riflette una divina perfezione, e riceve da Dio un compito che è un frammento insostituibile nel meraviglioso mosaico della creazione e della redenzione.

Gioisci di essere piccolo e sconosciuto

Colui che ci ha creato ci conosce assai meglio di quanto noi non conosciamo noi stessi. Egli sa quali sono i compiti più adatti alle nostre possibilità. Non dobbiamo perciò commettere l’errore di essere noi a cercare il nostro ruolo nella vita e nella Chiesa. Rischieremo di prendere delle strade che non saremmo neppure in grado di percorrere.

Lasciamo che sia la mano dell’Altissimo a condurci. Egli prepara a lungo e silenziosamente le persone a quelle missioni per le quali le ha create. Sappi attendere nell’umiltà e nella pazienza. Il chicco di grano prima di germogliare rimane nascosto sotto terra.

Non aspirare a cose grandi, come consiglia san Paolo. I compiti vistosi sono anche i più pericolosi. La caduta di chi è posto sul candelabro assume spesso dimensioni catastrofiche. Ama invece il nascondimento e la piccolezza. La vita della Vergine Maria ci insegna che questa è la situazione migliore per operare meraviglie nell’opera della redenzione.

Rallegrati delle grazie che Dio sparge nel mondo

Attendi alla tua missione con impegno e umiltà, ma nel medesimo tempo godi delle opere della grazia nel cuore del prossimo. Ti sia di esempio l’atteggiamento di Giovanni Battista che molti volevano proclamare il Messia. Egli però si ritirò ben volentieri nell’ombra per lasciare che il mondo fosse illuminato dalla luce di Cristo.

Anche noi, nel nostro piccolo, dobbiamo imparare a gioire nelle meraviglie che Dio opera attraverso i fratelli. Rallegrandoti per l’espandersi del bene, ti è concesso di entrare in quella comunione spirituale di tutti i santi, in virtù della quale ogni grazia è condivisa e la gioia come meriti dei singoli diventano la ricchezza di tutti.

Se, dilatando il cuore, entri in questa prospettiva, invece di invidiare e di tormentarti imparerai a rallegrarti e ringraziare per la sinfonia meravigliosa della grazia che si diffonde.

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Per approfondire:

2e2mot5 dans Diego Manetti La storia dei lavoratori a giornata (di don Fabio Rosini)

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La correzione fraterna: evitare il clamore della cronaca e il pettegolezzo della comunità

Posté par atempodiblog le 7 septembre 2014

“Davanti a Dio siamo tutti peccatori e bisognosi di perdono”. E’ quanto affermato da Papa Francesco all’Angelus, in Piazza San Pietro, incentrato sulla “correzione fraterna” nella comunità cristiana. Il Pontefice ha inoltre levato un forte appello per la pace in Ucraina e nel Lesotho, dove nei giorni scorsi vi è stato un colpo di Stato. Quindi, ha rivolto il pensiero ai cristiani perseguitati in Iraq e a quanti sono impegnati a sostenerli.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

La correzione fraterna: evitare il clamore della cronaca e il pettegolezzo della comunità dans Commenti al Vangelo Papa-Francesco

Ucraina e Lesotho, due Paesi molto lontani tra loro e tuttavia, purtroppo, accomunati in questo momento dalla violenza. Ai loro popoli che soffrono è andato il pensiero e la vicinanza di Papa Francesco all’Angelus. Il Pontefice ha osservato che, negli ultimi giorni, “sono stati compiuti passi significativi nella ricerca di una tregua nelle regioni interessate dal conflitto in Ucraina orientale, pur avendo sentito oggi delle notizie poco confortanti”:

“Auspico che essi possano recare sollievo alla popolazione e contribuire agli sforzi per una pace duratura. Preghiamo affinché, nella logica dell’incontro, il dialogo iniziato possa proseguire e portare il frutto sperato. Maria, Regina della Pace, prega per noi. Unisco inoltre la mia voce a quella dei Vescovi del Lesotho, che hanno rivolto un appello per la pace in quel Paese. Condanno ogni atto di violenza e prego il Signore perché nel Regno del Lesotho si ristabilisca la pace nella giustizia e nella fraternità”.

Francesco ha quindi rivolto il pensiero ad un convoglio di volontari della Croce Rossa italiana partito per l’Iraq e che si recherà ad Erbil “dove si sono concentrate decine di migliaia di sfollati iracheni”:

“Esprimendo un sentito apprezzamento per questa opera generosa e concreta, imparto la benedizione a tutti loro e a tutte le persone che cercano concretamente di aiutare i nostri fratelli perseguitati ed oppressi. Il Signore vi benedica”.

Divisore dans San Francesco di Sales

Prima degli appelli di pace, Francesco si era soffermato sul tema della “correzione fraterna” presentato dal Vangelo domenicale. Gesù, ha detto, “suggerisce un progressivo intervento” quando devo correggere un fratello cristiano che “fa una cosa non buona”. Le “tappe di questo itinerario – ha osservato – indicano lo sforzo che il Signore chiede alla sua comunità per accompagnare chi sbaglia, affinché non si perda”:

“Occorre anzitutto evitare il clamore della cronaca e il pettegolezzo della comunità – questa è la prima cosa, evitare questo -.  «Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo» (v. 15). L’atteggiamento è di delicatezza, prudenza, umiltà, attenzione nei confronti di chi ha commesso una colpa, evitando che le parole possano ferire e uccidere il fratello. Perché, voi sapete, anche le parole uccidono! Quando io sparlo, quando io faccio una critica ingiusta, quando io ‘spello’ un fratello con la mia lingua, questo è uccidere la fama dell’altro! Anche le parole uccidono”.

Nello stesso tempo, ha soggiunto, questa discrezione di parlargli da solo ha lo scopo di non mortificare inutilmente il peccatore”. Scopo della correzione fraterna, ha ribadito, “è quello di aiutare la persona a rendersi conto di ciò che ha fatto, e che con la sua colpa ha offeso non solo uno, ma tutti”:

“Ma anche di aiutare noi a liberarci dall’ira o dal risentimento, che fanno solo male: quell’amarezza del cuore che porta l’ira e il risentimento e che ci portano ad insultare e ad aggredire. E’ molto brutto vedere uscire dalla bocca di un cristiano un insulto o una aggressione. E’ brutto. Capito? Niente insulto! Insultare non è cristiano. Capito? Insultare non è cristiano”.

In realtà, ha detto, “davanti a Dio siamo tutti peccatori e bisognosi di perdono. Tutti! Gesù infatti ci ha detto di non giudicare”. La correzione fraterna è, allora, “un aspetto dell’amore e della comunione che devono regnare nella comunità cristiana, è un servizio reciproco che possiamo e dobbiamo renderci gli uni gli altri”. Ma, ha ammonito, “correggere il fratello è un servizio ed è possibile ed efficace solo se ciascuno si riconosce peccatore e bisognoso del perdono del Signore”. Francesco ha evidenziato che “la stessa coscienza che mi fa riconoscere lo sbaglio dell’altro, prima ancora mi ricorda che io stesso ho sbagliato e sbaglio tante volte”. Per questo, all’inizio della Messa, “ogni volta siamo invitati a riconoscere davanti al Signore di essere peccatori”:

“Tra le condizioni che accomunano i partecipanti alla celebrazione eucaristica, due sono fondamentali, due condizioni per andare bene a Messa: tutti siamo peccatori e a tutti Dio dona la sua misericordia. Sono due condizioni che spalancano la porta per entrare a Messa bene. Dobbiamo sempre ricordare questo prima di andare dal fratello per la correzione fraterna”.

Al momento dei saluti ai pellegrini, il Papa ha ricordato che domani celebreremo “la ricorrenza liturgica della Natività della Madonna”. Questo, ha affermato, è “il suo compleanno”:

“E cosa si fa quando la mamma fa la festa di compleanno? La si saluta, si fanno gli auguri… Domani ricordatevi, dal mattino presto, dal vostro cuore e dalle vostre labbra, di salutare la Madonna e dirle: “Tanti auguri!”. E dirle un’Ave Maria che venga dal cuore di figlio e di figlia. Ricordatevi bene!”.

Divisore dans San Francesco di Sales

Per approfondire:

Freccia dans Viaggi & Vacanze Guadagnare un fratello (di don Fabio Rosini)

Freccia dans Viaggi & Vacanze La correzione non sia un atto di accusa (di padre Raniero Cantalamessa)

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Papa: sono con i cristiani perseguitati di Mosul e del Medio Oriente

Posté par atempodiblog le 20 juillet 2014

Papa: sono con i cristiani perseguitati di Mosul e del Medio Oriente
“Il Dio della pace susciti in tutti un autentico desiderio di dialogo e di riconciliazione. La violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace!”. All’Angelus Francesco ha commentato la parabola del buon grano e della zizzania. Dio è “paziente”, sa che “la stessa zizzania, alla fine, può diventare buon grano”. Ma “al tempo della mietitura, cioè del giudizio, i mietitori eseguiranno l’ordine del padrone separando la zizzania per bruciarla”.
di AsiaNews

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Invito alla preghiera di papa Francesco che all’Angelus ha ricordato le situazioni di tensione e di conflitto che persistono in diverse zone del mondo, specialmente in Medio Oriente e in Ucraina”. Il Papa ha detto di aver appreso con preoccupazione le notizie che giungono dalle Comunità cristiane a Mossul (Iraq) e in altre parti del Medio Oriente, dove esse, sin dall’inizio del cristianesimo, hanno vissuto con i loro concittadini offrendo un significativo contributo al bene della società ». « Oggi – ha detto ancora – sono perseguitati i nostri fratelli e sorelle. Sono cacciati via devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente. Assicuro a queste famiglie e a queste persone la mia vicinanza. Sono con voi perseguitati, so quanto soffrite so che siete spogliati di tutto, sono con voi nella fede in Colui che ha vinto il male. A voi qui in piazza e a coloro che ci seguono vi invito a proseguire nella preghiera. Il Dio della pace susciti in tutti un autentico desiderio di dialogo e di riconciliazione. La violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace!”.

Il riferimento è alla situazione di persecuzone che il patriarca della Chiesa cattolica sira, Ignace Joseph III Younan ha descritto raccontando che l’arcivescovado a Mosul è stato bruciato totalmente: manoscritti, biblioteca”, mentre ai pochi cristiani rimasti è stato imposto di convertirsi all’islam, pagare la jizya, la pesante tassa che grava sugli infedeli, o essere uccisi.

Prima della recita della preghiera mariana, il Papa, ha commentato la parabola del buon grano e della zizzania termine che in ebraico deriva dalla stessa radice del nome Satana e richiama il concetto di divisione. Noi sappiamo che il demonio è uno ‘zizzanatore’ e vuole dividere le persone, i popoli. I servitori vorrebbero subito strappare l’erba cattiva, ma il padrone lo impedisce con questa motivazione: «Perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano» (Mt 13, 29)”.

La scena – ha proseguito il Papa – si svolge in un campo dove il padrone semina il grano; ma una notte arriva il nemico e semina la zizzania, nel buio. L’insegnamento della parabola è duplice. Anzitutto dice che il male che c’è nel mondo non proviene da Dio, ma dal suo nemico, il Maligno. Questo nemico è astuto: ha seminato il male in mezzo al bene, così che è impossibile a noi uomini separarli nettamente; ma Dio, alla fine, potrà farlo”.

E qui veniamo al secondo tema: la contrapposizione tra l’impazienza dei servi e la paziente attesa del proprietario del campo, che rappresenta Dio. Noi a volte abbiamo una gran fretta di giudicare, classificare, mettere di qua i buoni, di là i cattivi… Ma ricordatevi la preghiera di quell’uomo superbo, ti ringrazio Dio perché sono buono… Dio invece sa aspettare.

Egli guarda nel ‘campo’ della vita di ogni persona con pazienza e misericordia: vede molto meglio di noi la sporcizia e il male, ma vede anche i germi del bene e attende con fiducia che maturino. Dio è paziente, sa aspettare. Il nostro Dio è un padre paziente che ci aspetta per perdonarci. Sempre ci perdona se andiamo da Lui…

L’atteggiamento del padrone è quello della speranza fondata sulla certezza che il male non ha né la prima né l’ultima parola. Ed è grazie a questa paziente speranza di Dio che la stessa zizzania, alla fine, può diventare buon grano. Ma attenzione: la pazienza evangelica non è indifferenza al male; non si può fare confusione tra bene e male! Difronte alla zizzania presente nel mondo il discepolo del Signore è chiamato a imitare la pazienza di Dio, alimentare la speranza con il sostegno di una incrollabile fiducia nella vittoria finale del bene, cioè di Dio. Alla fine, infatti, il male sarà tolto ed eliminato: al tempo della mietitura, cioè del giudizio, i mietitori eseguiranno l’ordine del padrone separando la zizzania per bruciarla (cfr Mt 13,30)”.

In quel giorno della mietitura finale il giudice sarà Gesù, Colui che ha seminato il buon grano nel mondo e che è diventato Lui stesso ‘chicco di grano’, è morto ed è risorto. Alla fine saremo tutti giudicati con lo stesso metro con cui abbiamo giudicato: la misericordia che avremo usato verso gli altri sarà usata anche con noi.

Chiediamo alla Madonna, nostra Madre, di aiutarci a crescere nella pazienza, nella speranza e nella misericordia”.

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Riconoscere la Sua presenza a partire dai segni disponibili

Posté par atempodiblog le 3 juillet 2014

Tommaso si spinge fino a voler toccare ciò che altri avevano già visto; non ha creduto ai testimoni oculari, suoi amici.
Non fu rimproverato a Tommaso di aver voluto verificare toccando le ferite di Gesù, ma l’iniziale chiusura screditante la testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Tommaso nel Vangelo odierno dice di non conoscere la via e Gesù la via gliela farà toccare: la via è Lui stesso, compresa la via della croce, con le sue ferite.
di Ruggero Sangalli – La nuova Bussola Quotidiana

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[...] Un’imprecisa traduzione dal greco può avvalorare un’interpretazione che suggerisce l’idea che la vera fede sia quella che prescinde totalmente dai segni visibili. Invece quella di Gesù non è la richiesta di una fede cieca, ma la beatitudine di coloro che in umiltà riconoscono la Sua presenza a partire dai segni disponibili, credendo a testimoni affidabili: la fede della Chiesa. Il padre Ignace de la Potterie nota (in Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea) che Gesù, facendosi toccare le ferite da Tommaso, gli dice:  «E non diventare incredulo, ma diventa credente» (Gv 20,27). Spesso lo troviamo tradotto con il verbo “essere” invece del verbo “diventare”. Tommaso infatti, otto giorni dopo la Pasqua, non era ancora ne’ l’uno ne’ l’altro. Scrivere: «E non essere incredulo, ma credente» svia un po’ dal testo originale, che suggerisce l’idea di un divenire derivante dall’incontro con Gesù risorto.

Senza l’incontro con la realtà del Dio vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo, Tommaso può cominciare a diventare “credente”. Eliminando questo movimento, si sottintenderebbe che la fede consista in una decisione statica, da prendersi a cura dell’uomo. I primi annunciatori sono stati invece i testimoni oculari di un fatto. Il cristianesimo è diventato “anche” una religione, perché la notizia trasmessa riguarda il Dio già noto dalle Scritture, profetizzato ed atteso.

Al dunque Tommaso vede Gesù e sulla base di questa esperienza, rompe gli indugi. Se al diventare si sostituisce l’essere sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare per accostarsi alle sue piaghe; ma così sarebbe la fede a creare la realtà da credere. Al contrario è Dio a rivelarsi, ferite comprese. Tommaso alla fine per Giovanni è un grande teologo. La verifica gli varrà un lapidario: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Gesù non è solo il maestro ed il messia, ma è il Signore Dio. 

La predicazione dei primi apostoli non è stata ricca di sapienti parole e di ardite pastorali, ma capace, pur nei limiti dell’umana fragilità, di segni portentosi, a merito di Dio e non delle loro capacità. Sono i segni a dare conferma alle loro parole (Mc 16,20). I fatti nella spiritualità e nella fede cristiana non sono un intralcio, degli intrusi o concessioni all’umana debolezza: fanno parte dell’incarnazione.

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Il Papa: chi giudica gli altri è un ipocrita, si mette al posto di Dio

Posté par atempodiblog le 23 juin 2014

“Chi giudica sbaglia, ma non solo sbaglia, anche si confonde. E’ tanto ossessionato da quello che vuole giudicare, da quella persona – tanto, tanto ossessionato!”.
Chi giudica un fratello sbaglia e finirà per essere giudicato allo stesso modo. Dio è “l’unico giudice” e chi è giudicato potrà contare sempre sulla difesa di Gesù, il suo primo difensore, e sullo Spirito Santo. Lo ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa del mattino, celebrata in Casa S. Marta.

di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

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Usurpatore di un posto e di un ruolo che non gli compete e, insieme, anche uno sconfitto, perché finirà vittima della sua stessa mancanza di misericordia. È questo ciò che accade a chi giudica un fratello. Papa Francesco ha appena letto la pagina del Vangelo sulla pagliuzza e la trave nell’occhio ed è subito chiaro nel distinguere: “La persona che giudica – dice – sbaglia, si confonde e diventa sconfitta”, perché “prende il posto di Dio, che è l’unico giudice”. Quell’appellativo, “ipocriti”, che Gesù lancia più volte all’indirizzo dei dottori della legge è in realtà rivolto a chiunque. Anche perché, osserva il Papa, chi giudica lo fa “subito”, mentre “Dio per giudicare si prende tempo”:

“Per questo chi giudica sbaglia, semplicemente perché prende un posto che non è per lui. Ma non solo sbaglia, anche si confonde. E’ tanto ossessionato da quello che vuole giudicare, da quella persona – tanto, tanto ossessionato! – che quella pagliuzza non lo lascia dormire! ‘Ma, io voglio toglierti quella pagliuzza!’… E non si accorge della trave che lui ha. Confonde: crede che la trave sia quella pagliuzza. Confonde la realtà. E’ un fantasioso. E chi giudica diventa uno sconfitto, finisce male, perché la stessa misura sarà usata per giudicare lui. Il giudice che sbaglia posto perché prende il posto di Dio – superbo, sufficiente – scommette su una sconfitta. E qual è la sconfitta? Quella di essere giudicato con la misura con la quale lui giudica”.

“L’unico che giudica è Dio e quelli ai quali Dio dà la potestà di farlo”, soggiunge Papa Francesco, che indica nell’atteggiamento di Gesù l’esempio da imitare, rispetto a chi non si fa scrupoli nel trinciare giudizi sugli altri:

“Gesù, davanti al Padre, mai accusa! E’ il contrario: difende! E’ il primo Paraclito. Poi ci invia il secondo, che è lo Spirito. Lui è il difensore: è davanti al Padre per difenderci dalle accuse. E chi è l’accusatore? Nella Bibbia, si chiama “accusatore” il demonio, satana. Gesù giudicherà, sì: alla fine del mondo, ma nel frattempo intercede, difende..

In definitiva, chi giudica – afferma Papa Francesco, “è un imitatore del principe di questo mondo, che va sempre dietro le persone per accusarle davanti al Padre”. Che il Signore, conclude, “ci dia la grazia di imitare Gesù intercessore, difensore, avvocato, nostro e degli altri”. E di “non imitare l’altro, che alla fine ci distruggerà”:

“Se noi vogliamo andare sulla strada di Gesù, più che accusatori dobbiamo essere difensori degli altri davanti al Padre. Io vedo una cosa brutta a un altro, vado a difenderlo? No! Ma stai zitto! Vai a pregare e difendilo davanti al Padre, come fa Gesù. Prega per lui, ma non giudicare! Perché se lo fai, quando tu farai una cosa brutta, sarai giudicato. Ricordiamo questo bene, ci farà bene nella vita di tutti i giorni, quando ci viene la voglia di giudicare gli altri, di sparlare degli altri, che è una forma di giudicare”.

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Omelia per la Domenica delle Palme di San Josemaría: la lotta interiore

Posté par atempodiblog le 12 avril 2014

La lotta interiore di San Josemaría Escrivá de Balaguer
Tratto da: San Josemaría Escrivá 

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73 pixtrans dans San Josemaria Escriva' de Balaguer Al pari di ogni festa cristiana, quella che oggi celebriamo è soprattutto una festa di pace. I rami d’ulivo, nel loro antico simbolismo, evocano un episodio narrato nel libro della Genesi: Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca, e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra                 (Gn 8, 10-11). Ora ricordiamo che l’alleanza tra Dio e il suo popolo è riconfermata e stabilita in Cristo, perché Egli è la nostra pace (Ef 2, 14). Nella meravigliosa unità della Liturgia della Santa Chiesa Cattolica, che ricapitola il vecchio e il nuovo, noi leggiamo oggi parole di profonda gioia: Le folle degli Ebrei, portando rami d’ulivo, andavano incontro al Signore e acclamavano a gran voce: « Osanna all’Altissimo Dio » (antifona alla distribuzione delle palme).
L’acclamazione a Gesù rievoca nel nostro spirito quella che ne salutò la nascita a Betlemme. Via via che egli avanzava — narra san Luca — stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: « Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! » (Lc 19, 36-38).
Pax in coelo! Ma gettiamo uno sguardo anche sul mondo. C’è forse pace sulla terra? No, non c’è. Vi è una pace apparente, l’equilibrio della paura, dei compromessi precari. Non c’è pace nemmeno nella Chiesa, così scossa da tensioni che lacerano la bianca tunica della Sposa di Cristo. Non c’è pace in tanti cuori che tentano invano di compensare l’inquietudine dell’anima con un’attività incessante, con la minuscola soddisfazione di beni che non saziano, perché lasciano dietro di sé il sapore amaro della tristezza.
Le palme — scrive Sant’Agostino — sono segno di trionfo, perché indicano la vittoria. Il Signore avrebbe vinto morendo sulla Croce. Nel segno della Croce avrebbe trionfato sul diavolo, principe della morte (SANT’AGOSTINO, In Ioannis Evangelium tractatus, 51, 2 [PL 35, 1764]). Gesù è la nostra pace perché Egli ha vinto. Ha vinto perché ha combattuto la dura battaglia contro tutto il cumulo di malizia dei cuori umani.
Cristo, nostra pace, è anche Via (cfr Gv 14, 6). Se vogliamo la pace, dobbiamo seguire i suoi passi. La pace è la conseguenza della guerra, della lotta. Lotta ascetica, intima, che ogni cristiano è tenuto a sostenere contro tutto ciò che nella sua vita non viene da Dio: la superbia, la sensualità, l’egoismo, la superficialità, la meschinità del cuore. È inutile reclamare la serenità esteriore quando manca la tranquillità nella coscienza, nell’intimo dell’anima, perché dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie (Mt 15, 19). 
74 pixtrans Ma questo linguaggio non suonerà antiquato? Non è stato forse sostituito da parole d’occasione, da cedimenti personali rivestiti di orpelli falsamente scientifici? Non vige ormai un tacito accordo secondo cui i veri beni sono il denaro che compra tutto, il potere temporale, la furbizia di rimanere sempre sulla cresta dell’onda, la sapienza umana che si autodefinisce adulta e ritiene di aver superato il sacro?
Non sono mai stato né sono pessimista, perché la fede mi dice che la vittoria di Cristo è definitiva e che Egli ci ha dato, a garanzia della sua conquista, un comando che per noi è un impegno: lottare. Noi cristiani siamo vincolati da un impegno d’amore liberamente accettato quando abbiamo accolto la chiamata della grazia divina; siamo vincolati da un obbligo che ci spinge a lottare tenacemente, perché sappiamo bene di essere fragili, al pari degli altri uomini. Ma sappiamo anche che, adoperando i mezzi, saremo il sale, la luce, il lievito del mondo: saremo la consolazione di Dio.
La nostra volontà di perseverare con fermezza in questo proposito d’amore è inoltre un dovere di giustizia. Il modo pratico di corrispondere a questa esigenza, comune a tutti i fedeli, è una battaglia incessante. La tradizione della Chiesa ha sempre considerato i cristiani come milites Christi, soldati di Cristo. Soldati che portano agli altri la serenità mentre combattono costantemente le proprie cattive inclinazioni. Sovente, per scarso senso soprannaturale, per mancanza di fede pratica, non si vuol capire nulla della vita presente concepita come milizia. Si insinua maliziosamente che, considerandoci milites Christi, corriamo il pericolo di servirci della fede per fini temporali di sopraffazione e di parte. Questo modo di pensare è una deprecabile e irragionevole semplificazione che va di pari passo con la comodità e la viltà.
Non c’è niente di più estraneo alla fede cristiana del fanatismo con cui vengono proposti strani connubi tra il profano e lo spirituale, qualunque ne sia il colore. Tale pericolo non esiste se per lotta si intende quello che Cristo ci ha insegnato, e cioè la guerra che ognuno deve combattere contro se stesso, lo sforzo sempre rinnovato di amare di più Dio, di respingere l’egoismo, di servire tutti gli uomini. Rinunciare a questa impresa, sotto qualunque pretesto, significa darsi per vinti anzitempo, restare annientati e senza fede, con l’anima abbattuta e dispersa in compiacenze meschine.
Per il cristiano, combattere la propria battaglia al cospetto di Dio e di tutti i fratelli nella fede, è la necessaria conseguenza della sua condizione. Se pertanto qualcuno non lotta, tradisce Gesù Cristo e il suo Corpo Mistico, che è la Chiesa. 
75 pixtrans La lotta del cristiano non ha soste, perché nella vita interiore si verifica quel continuo cominciare e ricominciare che impedisce che a un dato momento la superbia ci faccia considerare perfetti. È inevitabile che vi siano molte difficoltà nel nostro cammino; se non trovassimo ostacoli, non saremmo creature di carne ed ossa. Vi saranno sempre delle passioni pronte a trascinarci in basso, e dovremo sempre difenderci da tali deliri, più o meno veementi.
Il fatto di sentire nel corpo e nell’anima il pungolo della superbia, della sensualità, dell’invidia, della pigrizia, dello spirito di sopraffazione, non dovrebbe costituire una scoperta. Si tratta di un male antico, sistematicamente verificato nella nostra esperienza personale; esso è il punto di partenza e l’atmosfera abituale per vincere in questo intimo sport, nella nostra corsa verso la casa del Padre. San Paolo insegna infatti: Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato (1 Cor 9, 26-27).
Per cominciare a sostenere la prova, il cristiano non deve aspettare segnali esterni o stati d’animo favorevoli. Nella vita interiore ciò che conta non sono gli stati d’animo, ma la grazia divina, la volontà, l’amore. Tutti i discepoli furono capaci di seguire Gesù nell’ora del trionfo a Gerusalemme, ma quasi tutti lo abbandonarono nell’ora ignominiosa della Croce.
Per amare sul serio è necessario essere forti, leali, avere il cuore saldamente ancorato alla fede, alla speranza e alla carità. Solo chi è inconsistente e fatuo muta capricciosamente l’oggetto dei suoi affetti, che in realtà non sono affetti, ma soddisfazioni egoistiche. Quando c’è amore c’è lealtà, vale a dire capacità di donazione, di sacrificio, di rinuncia. E nel bel mezzo della donazione, del sacrificio e della rinuncia, pur con il tormento delle contrarietà, si trovano la felicità e la gioia; una gioia che nulla e nessuno potrà toglierci.
In questa giostra d’amore, le cadute non devono avvilirci, ancorché fossero gravi, purché ci rivolgiamo a Dio nel Sacramento della Penitenza con dolore sincero e proposito retto. Il cristiano non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia. Gesù Nostro Signore, che tanto si commuove dinanzi all’innocenza e alla fedeltà di Giovanni, si intenerisce allo stesso modo, dopo la caduta di Pietro, per il suo pentimento. Gesù, che comprende la nostra fragilità, ci attrae a sé guidandoci come per un piano inclinato ove si sale a poco a poco, giorno per giorno, perché desidera che il nostro sforzo sia perseverante. Ci cerca come cercò i discepoli di Emmaus, andando loro incontro; come cercò Tommaso per mostrargli e fargli toccare con le sue stesse mani le piaghe aperte sul suo corpo. Proprio perché conosce la nostra fragilità Gesù attende sempre che torniamo a Lui. 
76 pixtrans Ci dice san Paolo: Prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù (2 Tm 2, 3). La vita del cristiano è milizia, è guerra, bellissima guerra di pace che non assomiglia in nulla alle imprese belliche degli uomini, perché queste si ispirano alla divisione e all’odio, mentre la guerra che i figli di Dio combattono contro il proprio egoismo si fonda sull’unità e sull’amore. Noi — insegna infatti san Paolo — viviamo nella carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio (2 Cor 10, 3-4). È la schermaglia senza tregua contro l’orgoglio, contro la prepotenza che ci dispone ad agire malamente, contro l’arroganza nel giudicare.
In questa domenica delle Palme, nel commemorare il giorno in cui il Signore dà inizio alla settimana decisiva per la nostra salvezza, mettiamo da parte le considerazioni superficiali, andiamo all’essenza, a ciò che è veramente importante. Ebbene, la nostra aspirazione è andare in Cielo. Altrimenti non c’è nulla che valga la pena. Per andare in Cielo è indispensabile la fedeltà alla dottrina di Cristo. Per essere fedeli è indispensabile insistere con costanza nella lotta contro gli ostacoli che si oppongono alla nostra felicità eterna.
So bene che, quando si parla di lotta, si erge dinanzi a noi la consapevolezza della nostra fragilità che ci fa prevedere le cadute e gli errori. Ma Dio mette in conto queste cose: mentre si cammina è inevitabile che si alzi la polvere della strada. Siamo creature, e come tali abbiamo tanti difetti. Direi che conviene che ve ne siano sempre: sono come un’ombra che fa sì che nell’anima, per contrasto, risaltino di più la grazia di Dio e il nostro sforzo di corrispondere al favore divino. Questo chiaroscuro ci fa più umani, più umili, più comprensivi, più generosi.
Cerchiamo di non ingannarci: se nella nostra vita costatiamo momenti di slancio e di vittoria, costatiamo pure momenti di decadimento e di sconfitta. Tale è stato sempre il pellegrinaggio terreno dei cristiani, non esclusi quelli che veneriamo sugli altari. Vi ricordate di Pietro, di Agostino, di Francesco? Non ho mai apprezzato quelle biografie che ci presentano — con ingenuità, ma anche con carenza di dottrina — le imprese dei santi come se essi fossero stati confermati in grazia fin dal seno materno. Non è così. Le vere biografie degli eroi della fede sono come la nostra storia personale: lottavano e vincevano, lottavano e perdevano; in tal caso, contriti, tornavano alla lotta.
Non sorprendiamoci di vederci sconfitti con relativa frequenza: di solito, o anche sempre, in cose di poca importanza ma che ci affliggono come se ne avessero molta. Quando c’è amor di Dio, quando c’è umiltà, quando c’è perseveranza e fermezza nella lotta, queste sconfitte non avranno mai molto peso. Non solo, ma verranno le vittorie, che saranno a nostra gloria agli occhi di Dio. Non esiste l’insuccesso quando si agisce con rettitudine di intenzione, quando si vuole compiere la volontà di Dio e si fa affidamento sulla sua grazia, consapevoli del nostro nulla. 
77 pixtrans Ma è in agguato un nemico potente che si oppone al nostro desiderio di incarnare fino in fondo la dottrina di Cristo: è la superbia, che cresce quando non cerchiamo di scoprire dietro agli insuccessi e alle sconfitte la mano benefica e misericordiosa del Signore. L’anima si vela allora di penombra — di triste oscurità — e si sente perduta. L’immaginazione inventa ostacoli irreali che si dissolverebbero se guardassimo le cose con un briciolo di umiltà. A motivo della superbia e dell’immaginazione l’anima si caccia a volte in tortuosi calvari, nei quali però non v’è Cristo, perché dove è il Signore si gode la pace e la gioia, anche quando l’anima è in carne viva e circondata da tenebre.
C’è un altro nemico ipocrita della nostra santificazione: l’idea che la battaglia interiore vada sferrata contro ostacoli straordinari, contro draghi che buttano fuoco dalle fauci. È un altro tranello dell’orgoglio: vogliamo lottare, ma con grande spettacolo, tra squilli di trombe e svettare di stendardi.
Dobbiamo convincerci che il nemico più grande della roccia non è il piccone o altro strumento di demolizione, per potente che sia: è quell’acqua insignificante che penetra, a goccia a goccia, tra le sue fenditure, fino a disgregarne la struttura. Il pericolo più grande per il cristiano è quello di disprezzare la lotta nelle cose piccole che penetrano a poco a poco nell’anima fino a renderla molle, fragile e indifferente, insensibile ai richiami di Dio.
Ascoltiamo il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto (Lc 16, 10). È come se Egli ci ricordasse: lotta ogni istante in quei particolari in apparenza di poco conto, ma grandi al mio cospetto; vivi con precisione il compimento del dovere; sorridi a chi ne ha bisogno, anche se la tua anima è sofferente; dedica all’orazione il tempo necessario, senza ritagliarlo; va’ incontro a chi cerca il tuo aiuto; esercita la giustizia arricchendola con il garbo della carità.
Queste e altre simili sono le mozioni che ogni giorno sentiremo dentro di noi, come richiami silenziosi che ci spingono ad allenarci nello sport soprannaturale del dominio di noi stessi. Ci illumini la luce di Dio, facendoci percepire i suoi ammonimenti; ci aiuti Lui a lottare e sia al nostro fianco nella vittoria; non ci abbandoni al momento della caduta, perché con Lui potremo sempre rialzarci e continuare a combattere.
Non possiamo sostare. Il Signore ci chiede di lottare guadagnando sempre di più in prontezza, in profondità, in estensione. È nostro dovere superarci, perché in questa prova c’è un’unica meta, la gloria del Cielo: se non la raggiungiamo, tutto sarà stato inutile. 
78 pixtrans Colui che vuole lottare fa uso dei mezzi appropriati. E i mezzi, in venti secoli di cristianesimo, non sono cambiati: preghiera, mortificazione e pratica dei Sacramenti. Poiché anche la mortificazione è orazione — preghiera dei sensi — possiamo indicare questi mezzi con due sole parole: preghiera e Sacramenti.
Vorrei ora che considerassimo insieme quella sorgente di grazia divina, quella meravigliosa manifestazione della misericordia di Dio che sono i Sacramenti. Meditiamo lentamente la definizione che di essi dà il Catechismo di san Pio V: Segni sensibili che producono la grazia, e al tempo stesso la manifestano, come ponendola dinanzi agli occhi (Catechismo romano del Concilio di Trento, II, cap. I, 3). Dio Nostro Signore è infinito, il suo amore è inesauribile, la sua clemenza e la sua pietà verso di noi non hanno limiti: e benché ci conceda la sua grazia in tanti altri modi, ha istituito espressamente e liberamente — solo Lui poteva farlo — quei sette segni efficaci per mezzo dei quali, in modo stabile, semplice e accessibile a tutti, gli uomini possono partecipare ai meriti della Redenzione.
Quando si abbandonano i Sacramenti, la vera vita cristiana si estingue. E tuttavia, specialmente ai nostri giorni, è palese che molti dimenticano e persino disprezzano questo flusso redentore di grazia che Cristo ci offre. È doloroso parlare di questa piaga della società che si chiama cristiana, ma è necessario, se vogliamo che nelle nostre anime si consolidi il desiderio di ricorrere con più amore e più gratitudine a queste sorgenti di santificazione.
Non manca oggi chi decide, senza scrupolo alcuno, di rinviare il Battesimo dei neonati e — perpetrando un grave attentato alla giustizia e alla carità — li priva della grazia della fede, del tesoro inestimabile della presenza della Trinità Beatissima nell’anima che viene al mondo macchiata dal peccato originale. Costoro pretendono anche di svilire la natura peculiare del Sacramento della Cresima che la Tradizione, con insegnamento unanime, considera come un irrobustimento della vita spirituale, un’effusione tacita e feconda dello Spirito Santo perché l’uomo, fortificato soprannaturalmente, possa lottare come soldato di Cristo — miles Christi — nella battaglia interiore contro l’egoismo e la concupiscenza.
Quando si perde sensibilità per le cose di Dio, sarà pure difficile comprendere il Sacramento della Penitenza. La confessione sacramentale non è un dialogo umano, ma un colloquio divino; è un tribunale di sicura e divina giustizia, ma soprattutto di misericordia, con un giudice che, nel suo amore, non gode della morte del peccatore, ma desidera che si converta e viva (Ez 33, 11).
È veramente infinita la tenerezza di Nostro Signore. Guardate con quanta delicatezza tratta i suoi figli. Ha fatto del Matrimonio un vincolo santo, l’immagine dell’unione di Cristo con la sua Chiesa (cfr Ef 5, 32), un Sacramento grande, su cui si fonda la famiglia cristiana perché sia, con la grazia di Dio, un ambito di pace e di concordia, una scuola di santità. I genitori sono i cooperatori di Dio: è questo il fondamento dell’amabile dovere di venerazione cui i figli sono tenuti a corrispondere. Ben a ragione il quarto comandamento può essere chiamato — come ho scritto molti anni fa — precetto dolcissimo del decalogo. Quando si vive il matrimonio come Dio vuole, santamente, il focolare sarà un angolo di pace luminoso e allegro. 
79 pixtrans Per mezzo dell’Ordine Sacro, Dio nostro Padre ha reso possibile che alcuni fedeli, in virtù di una nuova e ineffabile infusione dello Spirito Santo, ricevano nell’anima un carattere indelebile che li configura a Cristo Sacerdote perché possano agire in nome di Gesù, Capo del Corpo Mistico (cfr CONCILIO DI TRENTO, Sessione XXIII, c. 4; CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, 2). Grazie al loro sacerdozio ministeriale, che differisce dal sacerdozio comune dei fedeli non solo in grado, ma nell’essenza (cfr CONCILIO VATICANO II, Cost. Lumen Gentium, 10), i ministri sacri possono consacrare il Corpo e il Sangue di Cristo, offrire a Dio il Santo Sacrificio, perdonare i peccati nella confessione sacramentale ed esercitare il ministero della dottrina in iis quae sunt ad Deum (Eb 5, 1), in tutto e soltanto ciò che concerne Dio.
Pertanto il sacerdote deve essere esclusivamente un uomo di Dio, deve respingere la tentazione di affermarsi in campi nei quali i fedeli non hanno bisogno di lui. Il sacerdote non è uno psicologo, né un sociologo, né un antropologo: è un altro Cristo, lo stesso Cristo, con il compito di prendersi cura delle anime dei suoi fratelli. Sarebbe triste che il sacerdote, basandosi su una scienza umana che potrà coltivare solo superficialmente se, al tempo stesso, si dedica al suo ministero, si ritenesse senz’altro autorizzato a pontificare in materia di teologia dogmatica e morale. Dimostrerebbe unicamente la sua duplice ignoranza — sia nella scienza umana che in quella teologica — anche se il suo superficiale rivestimento di sapienza riuscisse a trarre in inganno taluni lettori o uditori sprovveduti.
È di pubblico dominio il fatto che taluni ecclesiastici sembrano oggi disposti a fabbricare una nuova Chiesa, tradendo Cristo, barattando i fini spirituali — la salvezza delle anime, una per una — con fini temporali. Se non superano questa tentazione, tralasceranno il compimento del sacro ministero, perderanno la fiducia e il rispetto del popolo e causeranno una tremenda desolazione in seno alla Chiesa; intromettendosi per di più, indebitamente, nella libertà politica dei fedeli e degli altri uomini, arrecheranno confusione nella convivenza civile, rendendosi pericolosi anche in questo ambito. L’Ordine Sacro è il Sacramento del servizio soprannaturale ai fratelli nella fede; sembra che taluni vogliano mutarlo in strumento terreno di un nuovo dispotismo. 
80 pixtrans Ma continuiamo a contemplare la meravigliosa realtà dei Sacramenti. Nell’Unzione degli Infermi — come oggi viene chiamata l’Estrema Unzione — assistiamo a una preparazione piena d’amore al viaggio che avrà termine nella casa del Padre. Infine, nella Sacra Eucaristia, che potremmo chiamare Sacramento della suprema benignità divina, Dio ci concede la sua grazia donando Se stesso: Gesù Cristo, realmente presente, sempre — e non soltanto durante la Santa Messa — con il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità.
Penso sovente alla responsabilità che grava sui sacerdoti di assicurare a tutti i fedeli l’accesso alla sorgente divina dei Sacramenti. La grazia di Dio si fa incontro ad ogni singola anima; ogni creatura richiede un’assistenza concreta e personale. Le anime non si possono trattare in massa! Non è lecito offendere la dignità umana e la dignità dei figli di Dio non soccorrendo personalmente ciascuno con l’umiltà di chi sa di essere strumento per amministrare l’amore di Cristo. Perché ogni singola anima è un tesoro meraviglioso; ogni uomo è unico, insostituibile. Ogni uomo vale tutto il sangue di Cristo.
Stavamo parlando di lotta. Sappiamo che essa richiede allenamento, alimentazione adeguata, medicine urgenti in caso di infermità, di contusioni, di ferite. I Sacramenti, medicina principale della Chiesa, non sono superflui: quando vengono abbandonati volontariamente, non è possibile fare un solo passo nel cammino al seguito di Gesù. Ne abbiamo bisogno come abbiamo bisogno della respirazione, della circolazione del sangue, della luce. Ne abbiamo bisogno per saper cogliere in ogni istante ciò che il Signore vuole da noi.
L’ascetica esige fortezza, e il cristiano trova la fortezza nel Creatore. Siamo oscurità, ed Egli è vivissimo splendore; siamo infermità, ed Egli è vigorosa salute; siamo miseria, ed Egli è infinita ricchezza; siamo debolezza, ed Egli ci sostiene, quia tu es, Deus, fortitudo mea (Sal 42, 2): tu sei sempre, mio Dio, la nostra fortezza. Non c’è nulla quaggiù che possa opporsi allo sgorgare impaziente del Sangue redentore di Cristo. Ma la nostra piccolezza può offuscarci lo sguardo al punto di non avvertire più la grandezza divina. Ecco dunque la responsabilità di tutti i fedeli, specialmente di coloro che hanno il compito di guidare spiritualmente — di servire — il Popolo di Dio, di non soffocare le fonti della grazia, di non vergognarsi della Croce di Cristo. 
81 pixtrans Nella Chiesa di Dio lo sforzo costante di essere sempre più leali alla dottrina di Cristo è un obbligo per tutti. Nessuno ne è esente. Qualora i pastori non lottassero faccia a faccia con se stessi per acquistare sensibilità di coscienza, rispetto e fedeltà al dogma e alla morale — che costituiscono il deposito della fede, il patrimonio comune — acquisterebbero realtà le parole profetiche di Ezechiele: Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, predici e riferisci ai pastori: « Dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana… Non avete reso le forze alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza » (Ez 34, 2-4).
Il rimprovero è duro, ma più grave è l’offesa che si fa a Dio quando — avendo avuto la missione di vegliare sul bene spirituale di tutti — si maltrattano le creature privandole dell’acqua pura del Battesimo che rigenera l’anima, del balsamo della Confermazione che la fortifica, del tribunale che perdona, dell’alimento che dà la vita eterna.
Quando accadono queste cose? Quando si abbandona la guerra di pace, la lotta interiore. Chi non combatte si espone a ogni forma di schiavitù capace di incatenare i nostri cuori di carne: la schiavitù della visione puramente umana, la schiavitù del desiderio affannoso di potenza e di prestigio temporale, la schiavitù della vanità, la schiavitù del denaro, la servitù della sensualità…
Qualora vi imbattiate in pastori indegni di questo nome — e Dio può permettere questa prova — non scandalizzatevi. Cristo ha promesso alla sua Chiesa un’assistenza infallibile, ma non ha garantito la fedeltà degli uomini che la compongono. Ad essi non mancherà la grazia — abbondante, generosa — se mettono, da parte loro, quel poco che Dio chiede: vigilanza attenta e sforzo per togliere di mezzo, sempre con la grazia di Dio, gli ostacoli alla santità. Quando manca lotta, anche chi sembra collocato in alto può trovarsi molto in basso agli occhi di Dio. Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti  (Ap 3, 1-3).
Sono esortazioni che l’Apostolo Giovanni rivolge nel primo secolo a chi era a capo della Chiesa nella città di Sardi. L’eventuale decadimento del senso di responsabilità in alcuni pastori non è quindi un fenomeno legato ai nostri giorni; si manifesta già al tempo degli Apostoli, nello stesso secolo in cui Gesù Cristo Nostro Signore era vissuto sulla terra. Nessuno può ritenersi sicuro se tralascia di combattere contro se stesso. Nessuno può salvarsi da solo. Nella Chiesa tutti abbiamo bisogno dei mezzi concreti che ci fortificano: l’umiltà, che ci dispone ad accettare l’aiuto e il consiglio; la mortificazione, che prepara il cuore perché vi regni Cristo; lo studio della dottrina sicura di sempre, che ci aiuta a conservare la fede e a propagarla. 
82 pixtrans La liturgia della domenica delle Palme pone sulle labbra dei fedeli questa acclamazione: O porte, alzate i vostri architravi; alzatevi, o porte antiche, perché deve entrare il Re della gloria! (antifona alla distribuzione delle palme). Chi resta chiuso nella cittadella del proprio egoismo non scenderà sul campo di battaglia. Se invece alza le porte del proprio castello e lascia entrare il Re della pace, scenderà poi con Lui a combattere contro tutta la miseria che offusca gli occhi e rende insensibile la coscienza.
Alzatevi, o porte antiche! La necessità della lotta non è una novità nel cristianesimo. È la verità perenne: senza lotta non si conquista la vittoria, senza vittoria non si raggiunge la pace. Senza pace la gioia umana sarà soltanto apparente, falsa, sterile; sarà gioia che non si trasforma in aiuto agli uomini, né in opere di carità e di giustizia, né di perdono e di misericordia, né di servizio a Dio.
Si ha l’impressione che oggi, dentro la Chiesa e fuori, in alto come in basso, molti abbiano rinunciato alla lotta — alla guerra contro se stessi, contro le proprie inclinazioni — per consegnarsi, armi e bagagli, in potere di servitù che avviliscono l’anima. È un pericolo che minaccia da sempre tutti i fedeli.
È necessario pertanto ricorrere insistentemente alla Trinità Beatissima perché abbia compassione di noi tutti. Parlando di queste cose, mi sento turbato nel riferirmi alla giustizia di Dio. Ricorro piuttosto alla sua misericordia, alla sua compassione, perché non guardi i nostri peccati, ma i meriti di Cristo e quelli della sua Santissima Madre — che è anche Madre nostra — del santo Patriarca Giuseppe che gli fece da padre, e di tutti i santi.
Il cristiano può essere ben sicuro che se desidera lottare, il Signore — come leggiamo nella Messa della festa odierna — lo terrà per la mano destra. Gesù, che entra in Gerusalemme cavalcando, Re di pace, un povero asinello, è colui che disse: Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono (Mt 11, 12). Questa forza non è una violenza contro gli altri: ma fortezza per combattere le proprie debolezze e le proprie miserie, coraggio di non mascherare le proprie infedeltà, audacia per confessare la fede anche quando l’ambiente è ostile.
Oggi, come ieri, dal cristiano ci si attende eroismo. Eroismo in grandi conflitti, se è necessario; ed eroismo — più consueto — nelle piccole avvisaglie di ogni giorno. Quando si lotta assiduamente, con Amore, fin nelle cose piccole, in modo tale che la lotta sembri impercettibile, il Signore è sempre accanto ai suoi figli come pastore pieno d’amore: Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata… Abiteranno in piena sicurezza nella loro terra. Sapranno che io sono il Signore, quando avrò spezzato le spranghe del loro giogo e li avrò liberati dalle mani di coloro che li tiranneggiano (Ez 34, 15-16 e 27).

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Il Papa: incontrare Gesù ci cambia la vita, la misericordia è più grande dei pregiudizi

Posté par atempodiblog le 23 mars 2014

“Felici coloro che bevevano lo sguardo dei tuoi occhi”.
Charles Péguy

Il Papa: incontrare Gesù ci cambia la vita, la misericordia è più grande dei pregiudizi dans Commenti al Vangelo 35jc6th

Il Papa: incontrare Gesù ci cambia la vita, la misericordia è più grande dei pregiudizi
“Il Signore è più grande dei pregiudizi”. E’ quanto affermato da Papa Francesco all’Angelus in Piazza San Pietro, dedicato all’incontro tra Gesù e la donna samaritana, raccontato dal Vangelo domenicale. Il Papa ha sottolineato che tutti siamo alla ricerca dell’acqua viva della Misericordia ed ha soggiunto che la Quaresima è il tempo opportuno per “guardarci dentro”. Il Pontefice ha infine dato appuntamento, venerdì prossimo, alla Giornata penitenziale “24 ore per il Signore”. Sarà, ha detto, “una festa del perdono”.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Un gesto che supera “le barriere di ostilità”, un dialogo che “rompe gli schemi di pregiudizio nei confronti delle donne”. Papa Francesco sintetizza così l’incontro tra Gesù e la donna Samaritana al pozzo, narrato dal Vangelo. E mette l’accento su quel “dammi da bere” pronunciato dal Signore:

“La semplice richiesta di Gesù è l’inizio di un dialogo schietto, mediante il quale Lui, con grande delicatezza, entra nel mondo interiore di una persona alla quale, secondo gli schemi sociali, non avrebbe dovuto nemmeno rivolgere la parola. Ma Gesù lo fa! Gesù non ha paura. Gesù quando vede una persona va avanti, perché ama. Ci ama tutti. Non si ferma mai davanti ad una persona per pregiudizi!

Gesù, soggiunge il Papa, pone la Samaritana “davanti alla sua situazione, non giudicandola ma facendola sentire considerata, riconosciuta, e suscitando così in lei il desiderio di andare oltre la routine quotidiana”. Quella di Gesù del resto, prosegue il Papa, “era sete non tanto di acqua, ma di incontrare un’anima inaridita”. Gesù, infatti, “aveva bisogno di incontrare la Samaritana per aprirle il cuore: le chiede da bere per mettere in evidenza la sete che c’era in lei stessa”:

“La donna rimane toccata da questo incontro: rivolge a Gesù quelle domande profonde che tutti abbiamo dentro, ma che spesso ignoriamo. Anche noi abbiamo tante domande da porre, ma non troviamo il coraggio di rivolgerle a Gesù! La Quaresima, cari fratelli e sorelle, è il tempo opportuno per guardarci dentro, per far emergere i nostri bisogni spirituali più veri, e chiedere l’aiuto del Signore nella preghiera”.

E anche oggi, esorta il Pontefice, dobbiamo seguire l’esempio della Samaritana e chiedere l’acqua che ci disseterà in eterno. Il Vangelo, rileva poi Francesco, “dice che i discepoli rimasero meravigliati che il loro Maestro parlasse con quella donna”.

“Ma il Signore è più grande dei pregiudizi, per questo non ebbe timore di fermarsi con la Samaritana: la misericordia è più grande del pregiudizio. Questo dobbiamo impararlo bene! La misericordia è più grande del pregiudizio e Gesù è tanto misericordioso, tanto!”.

Ecco allora che la Samaritana “corse in città a raccontare la sua esperienza straordinaria. Era andata a prendere l’acqua del pozzo, e ha trovato un’altra acqua, l’acqua viva della misericordia che zampilla per la vita eterna”. “Ha trovato l’acqua – ribadisce il Papa – che cercava da sempre” e annuncia a quel villaggio che « la condannava e rifiutava » di aver incontrato il Messia:

“Uno che le ha cambiato la vita, perché ogni incontro con Gesù ci cambia la vita. Sempre. E’ un passo più avanti, un passo più vicino a Dio. E così ogni incontro con Gesù ci cambia la vita. Sempre! Sempre è così”.

In questo Vangelo, prosegue, troviamo anche noi lo stimolo a “lasciare la nostra anfora”, simbolo di tutto ciò che “apparentemente è importante, ma che perde valore di fronte all’amore di Dio”:

“Tutti ne abbiamo una o più di una! Io domando a voi, anche a me: ‘Qual è la tua anfora interiore, quella che ti pesa, quella che ti allontana da Dio?’ Lasciamola un po’ da parte e col cuore sentiamo la voce di Gesù che ci offre un’altra acqua, un’altra acqua che ci avvicina al Signore”.

Anche noi, è l’invito del Papa, siamo dunque “chiamati a riscoprire l’importanza e il senso della nostra vita cristiana, iniziata nel Battesimo e, come la Samaritana, a testimoniare” la gioia dell’incontro con il Signore:

“Testimoniare la gioia dell’incontro con Gesù, perché ho detto che ogni incontro con Gesù ci cambia la vita ed anche ogni incontro con Gesù ci riempie di gioia, quella gioia che viene da dentro. E così è il Signore. E raccontare quante cose meravigliose sa fare il Signore nel nostro cuore, quando noi abbiamo il coraggio di lasciare da parte la nostra anfora”.

Al momento dei saluti ai pellegrini, almeno 40 mila, il Papa ha ricordato la ricorrenza della Giornata Mondiale della Tubercolosi, invitando a pregare “per tutte le persone colpite da questa malattia, e per quanti in diversi modi le sostengono”. Quindi, ha sottolineato che venerdì e sabato prossimi si vivrà “uno speciale momento penitenziale”, chiamato “24 ore per il Signore” che inizierà con la Celebrazione nella Basilica di San Pietro:

“Sarà – possiamo chiamarla così – la festa del perdono, che avrà luogo anche in molte diocesi e parrocchie del mondo. Il perdono che ci dà il Signore si deve festeggiare, come ha fatto il padre della parabola del figliol prodigo, che quando il figlio è tornato a casa ha fatto festa, dimenticandosi di tutti i suoi peccati. Sarà la festa del perdono”.

Dal Papa, infine, anche un saluto ai partecipanti e agli organizzatori della Maratona di Roma. “Un bell’evento sportivo – ha detto – della nostra città”.

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Papa Francesco: “Cosa c’è nel nostro cuore?”. Visita pastorale alla Parrocchia ‘San Tommaso Apostolo’ all’Infernetto

Posté par atempodiblog le 17 février 2014

VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA « SAN TOMMASO APOSTOLO »
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Domenica, 16 febbraio 2014

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Papa Francesco: “Cosa c’è nel nostro cuore?”. Visita pastorale alla Parrocchia 'San Tommaso Apostolo' all’Infernetto dans Commenti al Vangelo papa_all_infernetto

Una volta, i discepoli di Gesù mangiavano grano, perché avevano fame; ma era sabato, e il sabato non si poteva mangiare il grano. E lo prendevano, facevano così [strofina le mani] e mangiavano il grano. E [i farisei] hanno detto: “Ma guarda cosa fanno! Chi fa questo, va contro la legge e sporca l’anima, perché non compie la legge!”. E Gesù rispose: “Non sporca l’anima quello che noi prendiamo da fuori. Sporca l’anima quello che viene da dentro, dal tuo cuore”. E credo che ci farà bene, oggi, pensare non se la mia anima è pulita o sporca, ma pensare cosa c’è nel mio cuore, cosa ho dentro, che io so di avere e nessuno lo sa. Dire la verità a noi stessi: e questo non è facile! Perché noi sempre cerchiamo di coprirci quando vediamo qualcosa che non va bene dentro di noi, no? Che non venga fuori, no? Cosa c’è nel nostro cuore: c’è amore? Pensiamo: io amo i miei genitori, i miei figli, mia moglie, mio marito, la gente del quartiere, gli ammalati?… amo? C’è odio? Io odio qualcuno? Perché tante volte noi troviamo che c’è odio, no? “Io amo tutti tranne questo, questo e questa!”. Questo è odio, no? Che cosa c’è nel mio cuore, perdono? C’è un atteggiamento di perdono per quelli che mi hanno offeso, o c’è un atteggiamento di vendetta – “me la pagherai!”. Dobbiamo domandarci cosa c’è dentro, perché questo che è dentro viene fuori e fa il male, se è male; e se è buono, viene fuori e fa il bene. Ed è tanto bello dire la verità a noi stessi, e vergognarci quando ci troviamo in una situazione che non è come Dio la vuole, non è buona; quando il mio cuore è in una situazione di odio, di vendetta, tante situazioni peccaminose. Come è il mio cuore?…

Gesù diceva oggi, per esempio – darò soltanto un esempio: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”. Ma io vi dico, chiunque si adira con il proprio fratello, lo ha ucciso, nel suo cuore». E chiunque insulta suo fratello, lo uccide nel suo cuore, chiunque odia suo fratello, uccide suo fratello nel suo cuore; chiunque chiacchiera contro suo fratello, lo uccide nel suo cuore. Noi forse non ci accorgiamo di questo, e poi parliamo, “spediamo” all’uno e all’altro, sparliamo di questo e di quello… E questo è uccidere il fratello. Per questo è importante conoscere cosa c’è dentro di me, cosa succede nel mio cuore. Se uno capisce suo fratello, le persone, ama, perché perdona: capisce, perdona, è paziente… E’ amore o è odio? Dobbiamo, questo, conoscerlo bene. E chiedere al Signore due grazie. La prima: conoscere cosa c’è nel mio cuore, per non ingannarci, per non vivere ingannati. La seconda grazia: fare quel bene che è nel nostro cuore, e non fare il male che è nel nostro cuore. E su questo di “uccidere”, ricordare che le parole uccidono. Anche i cattivi desideri contro l’altro uccidono. Tante volte, quando sentiamo parlare le persone, parlare male di altri, sembra che il peccato di calunnia, il peccato della diffamazione siano stati tolti dal decalogo, e parlare male di una persona è peccato. E perché parlo male di una persona? Perché ho nel mio cuore odio, antipatia, non amore. Chiedere sempre questa grazia: conoscere cosa succede nel mio cuore, per fare sempre la scelta giusta, la scelta del bene. E che il Signore ci aiuti a volerci bene. E se io non posso volere bene a una persona, perché non posso? Pregare per questa persona, perché il Signore mi faccia volerle bene. E così andare avanti, ricordando che quello che sporca la nostra vita è ciò che di cattivo esce dal nostro cuore. E che il Signore ci aiuti.

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