Il Diavolo Berlicche

Posté par atempodiblog le 17 juillet 2014

Il Diavolo Berlicche
Questo racconto è tratto dal libro ‘Le lettere di Berlicche’ (Racconto II) di C.S. Lewis; è una lettera che Berlicche, il capo dei diavoli, scrive a suo nipote Malacoda offrendogli preziosi consigli su come tentare il suo ‘paziente’, un giovane uomo che cercava di vivere bene.
Tratto da: Don Bosco Land

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Mio caro Malacoda,

ho notato con profondo dispiacere che il tuo paziente si è fatto cristiano. Non nutrire speranza alcuna di sfuggire alle punizioni che si solgono infliggere in questi casi. Sono certo del resto che, nei tuoi momenti migliori, neppure tu lo desidereresti. Centinaia di codesti convertiti adulti sono stati recuperati nel campo del Nemico ed ora sono con noi. Tutte le abitudini del paziente, tanto le mentali quanto le spirituali, ci sono ancora favorevoli.

Uno dei nostri grandi alleati, al presente, è la stessa chiesa. Cerca di non fraintendermi. Non intendo alludere alla chiesa come la si vede espandersi attraverso il tempo e lo spazio, e gettare le radici nell’eternità, terribile come un esercito a bandiere spiegate. Confesso che questo è uno spettacolo che rende nervosi i nostri più ardimentosi tentatori. Ma fortunatamente essa è del tutto invisibile a codesti esseri umani. Tutto ciò che il tuo paziente vede è quel palazzo, finito solo a metà, di stile gotico spurio, che si erge su quel nuovo terreno. Quando entra vi trova il droghiere locale, con un’espressione untuosa sul volto, che si dà da fare per offrirgli un librino lustro lustro che contiene una liturgia che nessuno di loro due capisce, e un altro libricino frusto, che contiene corrotti di un certo numero di liriche religiose, la maggior parte orrende, e stampate a caratteri fittissimi. Entra nel banco, e, guardandosi intorno, s’incontra proprio con quella cernita di quei suoi vicini che finora aveva cercato di evitare. Devi far leva più che puoi su quei vicini. Fa’ in modo che la sua mente svolazzi qua e là fra un espressione quale «il corpo di Cristo» e le facce che gli si presentano nel banco accanto.Importa pochissimo, naturalmente, la razza di gente che in realtà s’è messa nel banco vicino. Tu puoi sapere magari che uno di loro è un grande combattente dalla parte del Nemico. Non importa. Il tuo paziente, grazie al Nostro Padre Laggiù, è uno sciocco. Se uno qualsiasi di questi vicini canta con voce stonata, se ha le scarpe che gli scricchiolano, o la pappagorgia, o se porta vestiti strani, il paziente crederà con la massima facilità che perciò la loro religione deve essere qualcosa di ridicolo. Vedi, nella fase in cui si trova al presente, egli ha in mente una certa idea dei ‘cristiani’, che crede sia spirituale, ma che, di fatto, è per molta parte pittoresca. Ha la mente piena di toghe, di sandali, di corazze e di gambe nude, il solo fatto che l’altra gente in chiesa porta vestiti moderni è per lui una seria difficoltà, quantunque, naturalmente, inconscia. Non permettere mai che venga alla superficie; non permettere che si domandi a che cosa s’aspettava che fossero uguali. Fa’ in modo che ogni cosa rimanga ora nebulosa nella sua mente, e avrai a disposizione tutta l’eternità per divertirti a produrre in lui quella speciale chiarezza che l’Inferno offre.

Lavora indefessamente, dunque, sulla disillusione e il disappunto che sorprenderà senza dubbio il tuo paziente nelle primissime settimane che si recherà in chiesa. Il nemico permette che un disappunto di tal genere si presenti sulla soglia di ogni sforzo umano. Esso sorge quando un ragazzo, che da fanciullo s’era acceso d’entusiasmo per i racconti dell’Odissea, si mette seriamente a studiare il greco. Sorge quando i fidanzati sono sposati e cominciano il compito serio di imparare a vivere insieme. In ogni settore della vita esso segna il passaggio dalla sognante aspirazione alla fatica del fare. Il Nemico si prende questo rischio perché nutre il curioso ghiribizzo di fare di tutti codesti disgustosi vermiciattoli umani, altrettanti, come dice Lui, suoi ‘liberi’ amanti e servitori, e ‘figli’ è la parola che adopera, secondo l’inveterato gusto che ha di degradare tutto il mondo spirituale per mezzo di legami innaturali con gli animali di due gambe. Volendo la loro libertà, Egli si rifiuta di portarli di peso, facendo soltanto delle loro affezioni e delle loro abitudini, al raggiungimento di quegli scopi che pone loro innanzi, ma lascia che ‘li raggiungano essi stessi’. Ed è in questo che ci si offre un vantaggio. Ma anche, ricordalo, un pericolo se per caso riescono a superare con successo quest’aridità iniziale, la loro dipendenza dall’emozione diventa molto minore, ed è perciò più difficile tentarli.

Quando sono venuto esponendo finora vale la pena nella ipotesi che la gente del banco vicino non offra alcun motivo ragionevolmente di disillusione. E’ chiaro che se invece lo offrono- se il paziente sa che quella donna con quel cappellino assurdo è una fanatica giocatrice di bridge, che qual signore con le scarpe scricchiolanti è un avaro e uno strozzino- allora il compito ti sarà molto più facile. Si ridurrà a tenergli lontano dalla mente questa domanda: «se io, essendo ciò che sono, posso in qualche senso ritenermi cristiano, per quale motivo i vizi diversi di quella gente che sta lì in quel banco dovrebbero essere una prova che la loro religione non è che ipocrisia e convenzione?». Forse mi chiederai se è possibile tener lontano perfino dalla mente umana un pensiero così evidente. Si, Malacoda, si, è possibile! Trattalo come deve essere trattato, e vedrai che non gli passerà neppure per l’anticamera del cervello. Non è ancora stato a sufficienza con il Nemico per possedere già una vera umiltà. Le parole che ripete, anche in ginocchio, sui suoi numerosi peccati, le ripete pappagallescamente. In fondo crede ancora che lasciandosi convertire, ha fatto salire di molto un saldo attivo in suo favore nel libro maestro del Nemico, e crede di dimostrare grande umiltà e degnazione solo andando in chiesa con codesti ‘compiaciuti’ vicini, gente comune. Mantienigli la mente in questo stato il più a lungo possibile.

Tuo affezionatissimo zio.

Berlicche

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Superbia e umiltà

Posté par atempodiblog le 11 juillet 2014

IL GRANDE PECCATO

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Verrò adesso a quella parte della morale cristiana dove essa differisce più nettamente da tutte le altre. C’è un vizio dal quale nessuno al mondo è esente; un vizio che ognuno aborrisce quando lo vede in altri, e di cui ben pochi, tranne i cristiani, immaginano di essere a propria volta colpevoli. Ho sentito gente ammettere di avere un cattivo carattere, o di non sapersi contenere riguardo alle donne o al bere, e perfino di essere vile. Ma non ho mai sentito nessuno, che non fosse un cristiano, accusarsi di questo vizio. Al tempo stesso, mi è capitato molto raramente di conoscere qualcuno, non cristiano, che riscontrandolo in altri lo considerasse con clemenza. Non c’è difetto che renda un uomo più malvisto, e nessuno di cui siamo meno consapevoli in noi stessi. E più ne siamo intrisi, più lo detestiamo nel prossimo.

Il vizio di cui parlo è la superbia, l’orgoglio presuntuoso; e la virtù opposta, nella morale cristiana, si chiama umiltà. Forse ricorderete che parlando della morale sessuale vi ho avvertito che il punto centrale della morale cristiana non era quello. Ebbene, ora siamo arrivati al punto centrale. Secondo l’insegnamento cristiano, il vizio essenziale, il male supremo, è la superbia. Lussuria, ira, avarizia, ubriachezza, ecc., sono inezie, in confronto: fu per superbia che il diavolo diventò il diavolo; la superbia è la fonte di tutti gli altri vizi, è la condizione di spirito assolutamente contraria a Dio.

Vi sembra un’esagerazione? Pensateci bene. Ho osservato, un momento fa, che più si è superbi, più si prova avversione per la superbia altrui. Se volete misurare la vostra superbia, il modo più facile è domandare a voi stessi: “Mi dispiace, e quanto, che gli altri mi snobbino, non mi prestino attenzione, mi diano sulla voce, mi trattino con degnazione, si mettano in mostra?”.

Il punto è che la superbia di ciascuno è in competizione con quella di tutti. Se mi secca tanto che l’anima della festa sia un altro, è perché volevo esserlo io. Due galli in un pollaio non vanno d’accordo. Ciò che occorre avere ben chiaro è appunto che la superbia è essenzialmente  competitiva – è competitiva per sua natura – mentre gli altri vizi lo sono, per così dire, solo accidentalmente. La superbia non trae soddisfazione dall’avere qualcosa, ma solo dall’averne più del prossimo. Si dice che uno si insuperbisce di essere ricco, intelligente o di bell’aspetto, ma non è così. Si insuperbisce di essere più ricco, più intelligente o più bello degli altri. Se tutti diventassero egualmente ricchi, belli e intelligenti, non ci sarebbe niente di cui insuperbirsi. E’ il confronto che rende superbi: il piacere di essere superiori agli altri. Se svanisce l’elemento competizione, svanisce anche la superbia. Ecco perché dico che la superbia, a differenza degli altri vizi, è essenzialmente competitiva. L’impulso sessuale può spingere alla competizione due uomini che desiderano la stessa donna; ma è un caso, i due potevano benissimo desiderare donne diverse. Il superbo, invece, prende la tua ragazza non perché la desidera, ma solo per provare a se stesso che vale più di te. L’avidità può creare competizione se un dato bene non è sufficiente per tutti; ma il superbo, anche se ha più quanto possa mai occorrergli, cerca di avere ancora di più solo per affermare il suo potere.
Quasi tutti i mali del mondo che vengono imputati all’avidità o all’egoismo derivano in realtà in misura molto maggiore dalla superbia.

Prendiamo il denaro. L’avidità induce certamente un uomo a desiderare di possederne, per avere una casa più bella, vacanze più piacevoli, cose migliori da mangiare e da bere. Ma solo fino a un certo punto. Che cosa spinge un individuo che ha diecimila sterline all’anno a volerne ventimila?
Non la brama di un piacere maggiore: diecimila sterline bastano per tutti i lussi di cui si può effettivamente godere. A spingerlo è la superbia – il desiderio di essere più ricco di qualche altro ricco, e (ancor più) il desiderio di potere. Perché ciò di cui soprattutto gode la superbia è il potere: niente fa sentire tanto superiori agli altri quanto la possibilità di manovrarli come soldatini di latta. Che cosa spinge una ragazza graziosa a seminare dovunque infelicità collezionando ammiratori? Certo non il suo istinto sessuale: ragazze simili sono molto spesso sessualmente frigide. E’ la superbia. Che cosa spinge un leader politico o tutta una nazione a pretendere sempre di più? Ancora la superbia. La superbia è competitiva per sua natura: per questo non si placa mai. Se sono superbo, finché al mondo ci sarà un uomo più potente, più ricco o più intelligente di me, vedrò in lui un rivale e un nemico.

I cristiani hanno ragione: la superbia è stata la causa principale dell’infelicità delle nazioni e delle famiglie da che mondo è mondo. Altri vizi possono a volte avvicinare le persone: tra gente ubriaca o dissoluta ci può essere cameratismo, giovialità, cordialità amichevole. Ma la superbia significa sempre inimicizia – è inimicizia. E non solo inimicizia tra uomo e uomo, ma inimicizia con Dio.
Di fronte a Dio, siamo di fronte a qualcosa che è, sotto ogni riguardo, incommensurabilmente superiore a noi. Chi non riconosce Dio come tale – e quindi non riconosce se stesso come un niente al Suo confronto -  non conosce affatto Dio. Finché sei superbo non puoi conoscere Dio. Un uomo superbo guarda tutto e tutti dall’alto in basso, e se guardi in basso non puoi vedere qualcosa che sta sopra di te.

Sorge qui un grave quesito. Come mai persone palesemente divorate dalla superbia e dall’orgoglio possono dire di credere in Dio e considerarsi religiosissime? Il fatto è, temo, che costoro adorano un Dio immaginario. Ammettono teoricamente di essere niente al cospetto di questo Dio fantomatico, ma in realtà sono convinte che Egli le approvi e le ritenga molto migliori della gente comune: pagano a Dio, cioè, un soldo di umiltà immaginaria, e ne ricavano mille di superbia verso i loro simili. A questa gente pensava Cristo, suppongo, annunciando che alcuni avrebbero predicato e scacciato i demoni in Suo nome, ma alla fine del mondo si sarebbero sentiti dire che Egli non li aveva mai conosciuti. E ognuno di noi può cadere in ogni momento in questa trappola mortale. Fortunatamente c’è una cosa che può metterci sull’avviso. Quando ci accorgiamo che la nostra vita religiosa ci dà la sensazione di essere buoni – di essere, soprattutto, migliori di qualcun altro – possiamo essere sicuri, penso, che in noi agisce non Dio, ma il diavolo. La vera prova che si è in presenza di Dio è dimenticarsi completamente di se stessi, o vedere se stessi come un oggetto piccolo e vile.
Meglio è dimenticarsi completamente di sé.

E’ triste che il peggiore dei vizi riesca a insinuarsi di frodo nel centro stesso della nostra vita religiosa. Ma possiamo capire perché. Gli altri vizi, meno maligni, provengono dall’azione del diavolo in noi tramite la nostra natura animale. Questo vizio, invece, non ha per tramite la nostra natura animale. Viene direttamente dall’Inferno. E’ puramente spirituale, e quindi molto più subdolo e mortifero. Per la stessa ragione, spesso si fa ricorso alla superbia per sconfiggere gli altri vizi. Gli insegnanti, per esempio, fanno spesso appello alla superbia, all’orgoglio, o, come dicono, all’amor proprio di un allievo per indurlo a comportarsi bene; e non di rado accade di vincere la propria pusillanimità, lussuria o iracondia dicendo a se stessi che queste sono cose indegne di noi – ossia, per superbia. Il diavolo se la ride. E’ contentissimo che tu diventi casto, coraggioso e capace di dominarti, purché egli possa istituire dentro di te la dittatura della superbia; così come sarebbe felicissimo che tu guarissi dai geloni, se in cambio gli fosse consentito di farti venire il cancro. La superbia, infatti, è un cancro spirituale: divora ogni possibilità di amore, di contentezza, di semplice buonsenso.

Prima di lasciare questo argomento devo mettere in guardia da alcuni possibili malintesi:

1.     Compiacersi delle lodi non è superbia. Il bambino premiato con una carezza perché ha fatto bene i compiti, la donna di cui l’innamorato loda la bellezza, l’anima salvata a cui Cristo dice “ben fatto”, se ne rallegrano, ed è giusto. Perché qui non c’è compiacimento di ciò che si è, ma del fatto di essere piaciuti a qualcuno a cui si voleva (e giustamente) piacere. I guai cominciano quando si passa dal pensare: “che bello, gli sono piaciuto” al dire a se stessi: “Che persona straordinaria devo essere, per aver fatto questo”. Più ti rallegri di te stesso e meno della lode, peggiore diventi. Quando ti rallegri soltanto di te stesso e non ti curi affatto delle lodi, hai toccato il fondo. Per questo la vanità, sebbene sia la forma di superbia che più si manifesta alla superficie, è in realtà la forma meno cattiva e più perdonabile. Il vanitoso desidera esageratamente la lode, l’applauso, l’ammirazione, e ne va sempre in cerca. E’ un difetto, ma un difetto puerile e perfino (in certo modo) un segno di umiltà. Dimostra che l’ammirazione che hai per te stesso non basta a soddisfarti pienamente. Apprezzi abbastanza gli altri per desiderare che ti considerino; sei ancora umano.

La vera e nera superbia diabolica compare quando disprezzi talmente gli altri da non curarti di cosa pensino di te. Va benissimo, naturalmente, e spesso è nostro dovere, non curarci di quel che la gente pensa di noi, se lo facciamo per la ragione giusta, ossia perché ci importa infinitamente di più quello che pensa Dio. Ma la noncuranza del superbo ha un’altra ragione. “Perché dovrei dare importanza al plauso della marmaglia”, egli dice “come se le sue opinioni avessero qualche valore? E anche se l’avessero, sono io tipo da arrossire di piacere per un complimento, come una ragazzetta al primo ballo? No, io sono una personalità ben formata e adulta. Tutto ciò che ho fatto l’ho fatto per soddisfare i miei ideali – o la mia coscienza artistica – o le tradizioni della mia famiglia – o perché, insomma, io sono chi sono. Se alla gente piace, buon per loro. A me di loro non importa nulla”. In questo modo la vera e assoluta superbia può essere un freno alla vanità; infatti, come ho detto un momento fa, al diavolo piace “guarire” una magagna piccola infliggendocene una grossa. Cerchiamo di non essere vanitosi: ma non ricorriamo mai alla superbia per guarire dalla vanità.

2.     Il tale, si suole dire, è orgoglioso di suo figlio, o di suo padre, della sua scuola, del suo reggimento, ne “va superbo”; e ci si può chiedere se in tal senso l’orgoglio sia un peccato. Penso dipenda da che cosa si intende esattamente con quell’espressione. Molto spesso, in frasi simili, essa significa “nutrire una fervida ammirazione” per qualcosa o qualcuno; e questa ammirazione, naturalmente, è ben lontana dall’essere un peccato. Ma si potrebbe intendere che la persona in questione si dà delle arie a motivo del padre illustre, o perché appartiene a un reggimento famoso. Questo sarebbe chiaramente un difetto; ma sempre preferibile all’andar superbi semplicemente di sé. Amare e ammirare qualcosa al di fuori di noi vuol dire allontanarsi di un passo dall’estrema rovina spirituale – anche se saremo sempre in difetto finché ameremo e ammireremo qualcosa più di quanto amiamo e ammiriamo Dio.

3.     Non dobbiamo pensare che Dio condanni la superbia perché se ne sente offeso, o che Egli esiga l’umiltà come tributo alla Sua dignità: quasi che Dio stesso fosse superbo. Della propria dignità Dio non si preoccupa affatto. Il punto è che Egli vuole che tu Lo conosca: vuole darti se stesso. E tu e Lui siete due cose di natura tale, che se tu entri comunque in contatto con Lui sarai, di fatto, umile: felicemente umile, con un senso di infinito sollievo per esserti alfine sbarazzato delle assurde sciocchezze sulla tua dignità che per tutta la vita ti hanno reso inquieto e infelice. Dio vuole renderci umili per rendere possibile questo momento: per farci spogliare delle stupide e brutte mascherature di cui ci siamo avvolti e in cui ci pavoneggiamo da quei piccoli idioti che siamo. Per parte mia, vorrei essere andato un poco più avanti sulla via dell’umiltà: allora, probabilmente potrei dirvi meglio quanto sollievo, quanta consolazione dia togliersi la maschera, liberarsi del proprio falso io, con tutti i suoi “Guardatemi!” e “Come sono bravo!” e tutte le sue pose e atteggiamenti. Avvicinarsi a questa liberazione, anche per un momento, è come bere un bicchiere d’acqua fresca nel deserto.

4.     Non immaginatevi che un uomo davvero umile, se vi capiterà di incontrarlo, corrisponda a ciò che oggi si suole designare con quell’aggettivo: una persona untuosa e viscida, che dichiara a ogni piè sospinto di non essere nessuno. Probabilmente vi troverete di fronte un uomo vivace e intelligente, che si interessa davvero a ciò che voi gli dite. Se vi riesce antipatico, sarà perché vi sentite un po’ invidiosi di uno che sembra godersi così facilmente la vita. Costui non pensa all’umiltà: non pensa affatto a se stesso. A chi desidera raggiungere l’umiltà, credo di poter dire qual è il primo passo. Il primo passo è rendersi conto della propria superbia e presunzione. E non è un passo da poco; almeno, prima di farlo non si approda a nulla. Se pensi di non essere presuntuoso, vuol dire che lo sei moltissimo.

di Clive Staples Lewis – Mere Christianity
Tratto da: Don Bosco Land

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Inseguire Dio per trovare lei

Posté par atempodiblog le 19 juin 2014

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“Il cuore di una donna dovrebbe essere così vicino a Dio, che un uomo dovrebbe inseguire Lui per trovare lei”.

Clive Staples Lewis

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Dio vuole noi

Posté par atempodiblog le 17 mai 2014

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“Dio non vuole qualcosa da noi, vuole noi”.

Clive Staples Lewis

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La storia del Dio che muore è accaduta realmente

Posté par atempodiblog le 28 mars 2014

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Il Cardinale Schönborn ricorda la conversione del grande scrittore britannico Clive Staples Lewis, che aveva letto un’opera in dodici volumi su questi miti*, ed era giunto alla conclusione che anche questo Gesù, che prese in mano il pane e disse: “Questo è il mio corpo”, fosse soltanto “un’altra divinità del grano, un re del grano che offre la sua vita per la vita del mondo”. Un giorno, tuttavia udì in una conversazione “un ateo convinto […] osservare che le prove della storicità dei Vangeli sarebbero sorprendentemente persuasive”. Allora pensò: “Strana faccenda. Tutta la storia del Dio che muore – pare che, una volta, sia accaduta realmente”. Si è accaduta realmente. Gesù non è un mito, è un uomo fatto di carne e di sangue, una presenza tutta reale nella storia. Possiamo visitare i luoghi e seguire le vie che Egli ha percorso. Possiamo, per il tramite dei testimoni, udire le sue parole. Egli è morto ed è risorto. Il mistero della passione del pane l’ha per così dire aspettato, si è proteso verso di Lui, e i miti hanno aspettato Lui, in cui il desiderio è diventato realtà. Lo stesso vale per il vino. Anch’esso reca una passione; è stato pigiato, e così l’uva si è trasformata in vino. I Padri hanno interpretato ulteriormente questo linguaggio nascosto dei doni eucaristici. Vorrei aggiungere qui un solo esempio. Nella cosiddetta Didaché (un’opera che con buona probabilità risale intorno all’anno 100) si prega sul pane destinato all’Eucaristia: “Come questo pane spezzato era disperso sui monti e, raccolto, è divenuto uno, così la tua Chiesa sia raccolta dalle estremità della terra nel tuo regno” (IX,4)

*della morte e della resurrezione della divinità, di cui il pane era diventato il punto di partenza.

Tratto da Gesù di Nazaret di Benedetto XVI

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Lewis, Salmi che ironia!

Posté par atempodiblog le 20 mars 2014

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«Questo non è un lavoro accademico. Non sono un ebraista, né un biblista, né uno storico antico, né un archeologo. Scrivo per ignoranti su cose che anch’io ignoro». Dice proprio così C.S. Lewis (1898-1963) introducendo un’opera curiosissima Reflections on the Psalms ora tradotta per Lindau in italiano ne I Salmi (pp. 176, euro 19) grazie ad Edoardo Rialti (con prefazione di Jonah Lynch), in libreria da oggi.

Per carità, se il celebre autore de Le Cronache di Narnia e Le lettere di Berlicche non fosse quel fine umorista che abbiamo imparato a conoscere, potremmo anche credergli. In realtà la materia biblica Lewis la mastica eccome se negli anni, oltre a sedurre milioni di lettori, si è ritagliato un posto di rilievo tra gli apologeti cristiani.

Non per nulla tra i più entusiasti ammiratori dello scrittore anglicano c’è Benedetto XVI il quale gli riconosce quella capacità unica di trattare i pericoli dell’uomo moderno in modo spiritoso e ironico. E non è nemmeno falsa modestia quella con la quale C.S. Lewis – «Jack» per gli amici, visto che i nomi Clive Staples li riteneva un brutto tiro dei suoi genitori – si approccia ai Salmi, poema biblico per eccellenza del dialogo tra Dio e l’uomo. È l’umiltà del «convertito più riluttante della storia» come lui stesso si definì prima di quella notte del 1929 in cui «ad un certo punto – disse – mi arresi, riconobbi che Dio era Dio».

Fatale gli fu l’amicizia fraterna con il cattolico J.R.R. Tolkien, suo collega ad Oxford, poiché Lewis prima che scrittore di successo, era già insigne studioso di filologia e letteratura e professore nelle più prestigiose università. Ma suo maestro fu anche quel genio di G.K. Chesterton da cui apprese l’arte dell’umorismo, il più salutare antidoto all’orgoglio perché ti consente di osservarti dall’esterno e ricordarti, sorridendo, di non essere Dio. Con questo spirito umile e intriso di humour tipicamente britannico Lewis rilegge il Salterio, che di colpo ci appare più spassoso e familiare che mai. Il tono confidenziale e leggero prende il lettore per mano: «Dove troviamo una difficoltà possiamo sempre aspettarci una sorpresa».

Lo stile divertito e brillante rende semplici anche argomenti profondi. E la leggerezza e l’arguzia di Lewis non possono essere tacciate di superficialità. Lui ci mette in guardia subito: «I Salmi sono delle poesie, e poesie pensate per essere cantate: non sono trattati dottrinali e nemmeno sermoni». Prima però di addentrarsi tra i versetti premette con onestà intellettuale di scrivere quale «membro della Chiesa d’Inghilterra». Poi lascia correre la sua penna graffiante anche commentando i passi più indigesti. Balza subito infatti ai suoi occhi come il Salmista appaia spesso come una sorta di «querelante indignato». Come l’autore del Salmo 7: «A quanto pare lui è ben sicuro di avere le mani pulite. Egli non ha mai inflitto ad altri le azioni orrende che hanno fatto a lui». Ma la falsa convinzione di essere «giusti» espone al «rischio del moralismo. Potremmo arrivare a “ringraziare Dio perché non siamo come gli altri”».

Tanto più ostici sono i Salmi vendicativi, le maledizioni: «In alcuni Salmi lo spirito d’odio che ci colpisce in piena faccia è simile al calore che viene dalla bocca di una fornace». Eppure senza volerli giustificare Lewis sostiene che «sarebbe mostruosamente riduttivo» fermarsi qui. Non solo perché «subire un torto di solito non rende amabili», ma anche perché «se guardiamo i loro lamenti troviamo che essi sono solitamente in collera non solo perché queste cose sono state fatte a loro, ma perché queste cose sono manifestatamente ingiuste e odiose tanto per Dio quanto per la vittima». E paradossalmente «le parti feroci dei Salmi servono a ricordare che la malvagità è odiosa agli occhi di Dio».

Non meno incomprensibili apparivano inizialmente all’autore i componimenti di lode, al punto da scrivere senza temere di essere irriverente che «al riguardo i Salmi risultavano particolarmente seccanti: “Lodate il Signore”… “Oh, Lodate il Signore assieme a me”…». Ma all’«idea meschina che Dio debba in qualche modo aver bisogno, o bramare, la nostra adorazione» è subentrata la convinzione che «nel dire a tutti gli uomini di lodare Dio, i salmisti fanno come tutti gli altri uomini quando parlano di ciò che gli sta a cuore». Perché «la lode non solo esprime, ma completa il godimento: si tratta della sua conclusione adeguata. Non è per aver finito i complimenti, che gli amanti continuano a dirsi quanto siano belli; e che il diletto risulta incompleto finché non viene espresso».

È quindi la gioia ancora una volta l’ottica prediletta da Lewis: «Ciò che di più prezioso i Salmi compiono per me è esprimere la medesima delizia di Dio che fece danzare Davide» senza che gli importasse di fare «la figura dell’idiota». Per chi come Lewis aveva capito che diventare cristiani vuol dire lasciarsi sorprendere dalla gioia (così intitolò la sua autobiografia: Sorpreso dalla gioia) l’ammirazione era tutta per questi poeti le cui dita «prudono dal desiderio di suonare l’arpa» (42, 4), affamati (letteralmente con l’ «appetito») di Dio sebbene ancora non sapessero che «avrebbe offerto loro una gioia eterna, ancor meno che sarebbe morto per conquistargliela». Sono felici e si rallegrano e «quel che – per così dire – vedo sui volti di quegli antichi poeti mi dice qualcosa di più sul Dio che loro e noi adoriamo».

di Antonio Giuliano – Avvenire

Una città... da favola: Bergamo, gioiello dell'Alta Italia dans Viaggi & Vacanze sb0nxu

Nella Sacra Scrittura, nella rivelazione biblica pian piano si rivela… perché se voi leggete i Salmi… alcuni si spaventano leggendo i salmi, perché Dio dice “Io distruggerò i nemici”, uno che legge nel Vangelo il discorso della montagna di Gesù  può pensare: ma cosa facevano quelli? Come mai i salmi si esprimono in questo modo? Ma è normale! Anzi è un gran passo avanti, perché nei salmi Dio dice io distruggerò i tuoi nemici, cosa vuol dire questo?  Che non li distruggi tu, tu lasci fare a Me, tu deponi le armi. Questo è il grande passaggio che han fatto i salmi: Dio ha disarmato gli uomini. Dio ha detto che la giustizia la fa Lui, non la facciamo noi! Ci pensa Dio a far giustizia, poi come faccia giustizia lo sa Lui come e perché governa il mondo così. Molte volte Dio fa giustizia in un modo molto semplice dopo aver dato la grazia che viene rifiutata, abbandona  quelli che si oppongono a Lui, come dice la Madonna, Regina della Pace, “Dio non manda all’Inferno, siete voi che volete andarci”. Questo solo nella Scrittura… pian piano noi vediamo che Dio si manifesta come Dio misericordioso e già nei Salmi noi vediamo che viene descritta la misericordia di Dio in tutta la creazione, in salmi bellissimi… “benedite voi tutte opere del Signore il Signore” e poi la luna, le stelle,  i mari, i fiumi, gli uccelli, i pesci  su tutta la creazione si effonde la divina misericordia per cui tutta la creazione è un inno alla Divina Misericordia. Cosa emerge dalla Bibbia? Emerge una cosa senza la quale non si può vivere e cioè chi comanda è buono!  Chi ha il potere e il potere assoluto è la Bontà e l’Amore, per fortuna! Questo è il cristianesimo: chi governa è la Giustizia, è la Luce, è la Bontà, è l’Amore, è l’Infinita Misericordia per cui se ti penti ti perdona infinitamente.

di Padre Livio Fanzaga – Radio Maria

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Essere parte della bellezza

Posté par atempodiblog le 19 février 2014

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“Noi non ci accontentiamo di vedere la bellezza, anche se il Cielo sa che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos’altro, che è difficile esprimere a parole – vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarne parte”.

Clive Staples Lewis

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La notte in cui l’ateo Lewis ammise che Dio era Dio

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2013

La notte in cui l’ateo Lewis ammise che Dio era Dio
di Marco Respinti – La nuova Bussola Quotidiana

La notte in cui l'ateo Lewis ammise che Dio era Dio dans Clive Staples Lewis azj609

Mezzo secolo fa, il 22 novembre 1963, Clive Staples Lewis moriva nemmeno 65enne a The Kilns, la sua casa ai bordi del quartiere residenziale di Headington Quarry nel villaggio di Risinghurst, appena fuori Oxford. Era stimato come raffinatissimo studioso di letterature medievali e rinascimentali nonché amato o comunque rispettato da tutti come apologeta cristiano di prima grandezza, ma quel giorno i media gli riservarono poco spazio. Le cronache vennero infatti completamente monopolizzate dal concomitante assassinio del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) a Dallas, in Texas.

Lewis impiegò tempo abbondante, durante l’adolescenza, la giovinezza e la prima età adulta, per girare completamente le spalle a Dio. I suoi notevoli talenti intellettuali li aveva impiegati tutti per elaborare una filosofia pencolante fra l’agnosticismo cinico e l’ateismo cosciente, in nome di un razionalismo arido che gli faceva guardare alle cose della fede con supponenza e che proveniva da quello che, più tardi, Lewis definirà “la madre luciferina di tutti i peccati”, l’orgoglio.

Lo studio delle letterature e delle mitologie con cui, nell’attesa inconsapevole dell’epifania del vero Dio, l’uomo arcaico e i popoli antichi si struggevano a raffigurarsi un legame fondante con il trascendente, lo affascinava fortemente sul piano estetico, ma al contempo lo rafforzava nel convincimento che la religione altro non fosse che una mera invenzione dell’uomo. La complessità di Dio era cioè sin troppo semplice, della semplicità che è propria degli umili e dei piccoli, per un intelletto altezzoso come il suo. Ma arrivò un giorno diverso. Anzi una notte.

Lewis era da anni legato all’insegnamento nella prestigiosa Università di Oxford; nel 1925 divenne docente a pieno titolo. Lì era stato messo debitamente in guardia dai due pericoli maggiori che avrebbe potuto incontrare: i “papisti”, cioè i cattolici, e i filologi, ovvero quei tipi che sono abituati a sviscerare, a calarsi nel profondo, a nutrire le radici e soprattutto a chiamare le cose con il loro nome. In quello stesso anno a Oxford arrivò un nuovo collega, che era e l’una e l’altra cosa. Il suo nome era J.R.R. Tolkien (1892-1973).

Cattolico Tolkien lo era sin dalla più tenera età, grazie alla madre, Mabel Suffield (1870-1904), convertitasi al cattolicesimo in situazioni non certo facili, e per questo chiamata a dure prove sino al giorno in cui spirò. E filologo lo era di professione e passione. Due cose ovviamente diverse, ma che in Tolkien si tenevano strettamente sottobraccio, l’una tracimando nell’altra, e la sua fiducia nella parola dell’uomo sublimandosi nell’adorazione del Verbo incarnato.

Lewis imparò a vincere i timori e con Tolkien strinse amicizia, pur non abbassando mai la guardia. Dai oggi e dai domani, guadagnò l’idea, era il 1929, che Dio esisteva. Fu un primo grande colpo, ma ancora la sua idea di Dio era troppo teorica. Giunse così il 1931, 9 settembre. Lewis invitò a cena i suoi due grandi amici e colleghi dell’epoca, il cattolico Tolkien e l’anglicano Hugo Dyson (1876-1975), docente di Letteratura. Come usavano fare, fecero le ore piccole anche quella notte, discutendo, spiluccando e bevendo. Uscirono poi a fare quattro passi al chiarore della Luna, lungo quel viale alberato che offre una passeggiata tra le più belle, chiamato Addison’s Walk. La discussione tra di loro s’infittì, pure qua e là si accese, e la passione infiammò i tre amici. Tolkien teneva banco, ricco, immaginifico, suggestivo, coinvolgente, supportato abilmente da Dyson, con Lewis sulle difensive. Per Lewis a quel punto Dio esisteva, ma ancora era come una bellissima fiaba. Tolkien, che delle fiabe era un maestro, gliene raccontò allora una, la più grande, la migliore, la più potente e anche la più perfetta, dal momento che, oltre a essere vera sul piano mitico, lo era per di più anche sul piano reale della storia e della concretezza. Gli mostrò cioè il Vangelo, e il mythos che con il logos in esso si fa carne in un punto preciso del tempo e dello spazio, una volta per tutte e per sempre.

I tre erano giunti nei pressi di un albero, un albero che ancora oggi sta là, lungo Addison’s Walk. Una brezza improvvisa li avvolse, e Lewis e Tolkien e Dyson si sentirono avvolti, abbracciati da qualcosa di più grande, dentro una bellezza mai provata. Non sappiamo con esattezza le parole che furono pronunciate quella notte memorabile. Di ciò che allora Tolkien argomentò vi è un resto nel sontuoso saggio Sulle fiabe, del 1937. Nell’autobiografia di Lewis, Sorpreso dalla Gioia. I primi anni della mia vita (trad. it., Jaca Book, Milano 1981), del 1955, la pagina più commovente è quella in cui egli ricorda quel 1929 in cui si arrese e, allora il convertito più riluttante di tutta l’Inghilterra, cadde in ginocchio a pregare, ammettendo che Dio era Dio. Il capitolo in cui è contenuta quella pagina Lewis lo intitola L’inizio. Immaginare che sia accaduto lo stesso, anzi di più, dopo quella passeggiata notturna con Tolkien e Dyson è una bella fiaba vera.

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LEWIS/ Il cristianesimo? Non è cosa per “brave persone”

Posté par atempodiblog le 9 septembre 2013

LEWIS/ Il cristianesimo? Non è cosa per “brave persone”
di Andrea Monda – Il Sussidiario
Tratto da: Il Centro culturale Gli scritti

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Nel 1952 viene pubblicato in Inghilterra un libro dallo strano titolo, Mere Christianity di Clive Staples Lewis, già famoso, anche al di fuori della madrepatria, per Le lettere di Berlicche e Le Cronache di Narnia. Con quest’opera dedicata al «mero» cristianesimo, cioè ai principi-base della fede, comuni ad ogni confessione cristiana, il poliedrico genio del professore di filologia di Cambridge, poeta e apologeta, saggista e romanziere, metteva ordine e raccoglieva in un unico volume le sue riflessioni di oltre una decade sulla fede cristiana, quella fede che alla fine degli anni ’20 aveva riscoperto e abbracciato grazie a diversi “incontri”, con i libri di George MacDonald e di Gilbert Keith Chesterton e con la persona di J.R.R.Tolkien.

Da buon convertito egli fu infatti un energico apologeta: proprio come Chesterton aveva fatto nei primi decenni del secolo, così Lewis tra gli anni ’40 e ’60 percorre in lungo e in largo il territorio britannico per sfidare, dal vivo o anche per radio, atei e agnostici a singolar tenzone e quindi sconfiggerli in virtù di una eccezionale forza dialettica. Quella stessa forza che insieme alla propria cultura filologica, ad un notevole acume psicologico ed una grande conoscenza del cuore umano, troviamo riversata in tutte le sue opere. È proprio dalla sua attività di conferenziere che nasce nel 1942 il volume Broadcast Talks e l’anno successivo Christian Behaviour: A Further Series of Broadcast Talks e poi Beyond Personality: the Christian Idea of God pubblicato nel 1944. Mere Christianity è di fatto l’edizione riveduta e ampliata di questi tre volumi in un’unica raccolta e in qualche modo è la summa del Lewis apologeta (anche se a questo saggio devono essere aggiunti Il problema della sofferenza, La mano nuda di Dio: uno studio preliminare sui miracoli, I quattro amori e L’onere della gloria). In Italia Lewis non ha conosciuto la fortuna del suo amico Tolkien e nemmeno quella del suo “maestro” Chesterton: Mere Christianity è stato tradotto solo nel 1981, prima dalle Edizioni G.B.U. con il titolo Scusi, qual è il suo dio? e poi nel 1997 da Adelphi, con il titolo Il cristianesimo così come è.

In questo libro piccolo quanto prezioso splende la forza intellettuale e il nitore spirituale del Lewis apologeta pugnace, degno erede di Chesterton, forse meno sanguigno e spassoso dell’illustre creatore di Padre Brown, ma dotato di uno stile più limpido e distaccato (e non per questo meno efficace, tutt’altro). Il lettore italiano del terzo millennio riesce a gustare i ragionamenti di Lewis che lo introducono con la forza di un moderno Padre della Chiesa nel vivo della fede cristiana presentata ad un tempo con passione ed equilibrio.

Ritroverà nelle pagine di Lewis gli insegnamenti di Agostino (splendida nella prima parte la critica al dualismo) per cui “…la malvagità non può nemmeno riuscire ad essere un male allo stesso modo in cui la bontà è un bene. La bontà è, per così dire, se stessa, ma la malvagità è solo bontà deteriorata. Ci deve dunque essere, prima, qualcosa di buono, perché possa poi essere guastato [...] Cominciate ora a capire perché il cristianesimo ha sempre affermato che il diavolo è un angelo caduto? Non è semplicemente una storiella per bambini; è il riconoscimento del fatto che il male è un parassita, non qualcosa di originale”, ma anche quella forte rivalutazione dei sensi e della ragione umana di chiara marca “tomista”.

Tutto questo condito con le “salse” tipicamente britanniche del buon senso, dell’umorismo e di un innato sentimento poetico. Se per Borges, “inglese di Buenos Aires”, la poesia è essenzialmente cogliere la stranezza delle cose della vita, anche per Lewis, seguace di Chesterton, il cristianesimo eccelle tra le altre religioni per la sua stranezza, cioè corrispondenza con la realtà: “Di solito, infatti, la realtà è qualcosa che non si sarebbe mai potuta immaginare. Questa è una delle ragioni per cui credo nel cristianesimo: è una religione che non si sarebbe mai potuta immaginare. Se ci proponesse proprio il tipo di universo che ci saremmo sempre aspettati, mi sembrerebbe il frutto di una nostra invenzione. Ma in effetti, non è niente che qualcuno abbia potuto inventare e presenta quelle strane contraddizioni che sono proprie delle cose vere”.

Con questa stessa freschezza e leggerezza Lewis si muove tra i principali dogmi del cristianesimo, dalla creazione all’incarnazione, passando per il peccato originale (“Per quanto ne sappiamo, a Dio non costa nulla creare cose belle; ma convertire delle volontà ribelli gli costa la crocifissione”), con ragionamenti rigorosi e nitidi quanto politicamente scorretti (si tratta sempre di parlare di Cristo, segno di contraddizione) fino alla distinzione finale tra “brave persone” e “uomini nuovi” che il cristianesimo, questa religione sempre giovane, è venuta a sancire definitivamente: “paragonata allo sviluppo dell’uomo su questo pianeta, la diffusione del cristianesimo nella razza umana sembra sia avvenuto nel tempo di un lampo, perché duemila anni sono quasi nulla nella storia dell’universo […] siamo ancora i ‘primi cristiani’ […] stiamo mettendo i primi denti. Il mondo esterno, senza dubbio, pensa esattamente il contrario, e cioè che stiamo morendo di vecchiaia, ma ogni volta il mondo è rimasto deluso [...] L’uniformità è più diffusa tra gli uomini ‘naturali’ che tra chi si arrende a Cristo. Come sono stati monotonamente simili tutti i grandi tiranni e conquistatori! E come sono gloriosamente diversi i santi!”.

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Aspira al Paradiso

Posté par atempodiblog le 23 mars 2013

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“Aspira al Paradiso e lo avrai in terra. Aspira alla terra e non otterrai nulla”.

Clive Staples Lewis

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La lode

Posté par atempodiblog le 11 octobre 2012

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“La lode è il modo dell’amore che ha sempre in sé un elemento di gioia”.

Clive Staples Lewis

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Tu sei un’anima

Posté par atempodiblog le 21 avril 2012

Tu sei un'anima dans Citazioni, frasi e pensieri

Tu non hai un’anima. Tu sei un’anima. Tu hai un corpo”.

Clive Staples Lewis

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Creato per un altro mondo

Posté par atempodiblog le 19 avril 2012

Creato per un altro mondo dans Citazioni, frasi e pensieri

“Se trovo in me un desiderio che niente in questo mondo è in grado di soddisfare, la sola spiegazione logica è che io sono stato creato per un altro mondo”.

Clive Staples Lewis

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La storia dell’asino

Posté par atempodiblog le 8 octobre 2009

La storia dell'asino dans Clive Staples Lewis asino

C’era una volta una coppia con un figlio di 12 anni e un asino. Decisero di viaggiare, di lavorare e di conoscere il mondo. Così partirono tutti e tre con il loro asino.

Arrivati nel primo paese, la gente commentava: « Guardate quel ragazzo quanto è maleducato… lui sull’asino e i poveri genitori, già anziani, che lo tirano ». Allora la moglie disse a suo marito: « Non permettiamo che la gente parli male di nostro figlio. » Il marito lo fece scendere e salì sull’asino.

Arrivati al secondo paese, la gente mormorava: « Guardate che svergognato quel tipo…lascia che il ragazzo e la povera moglie tirino l’asino, mentre lui vi sta comodamente in groppa. » Allora, presero la decisione di far salire la moglie, mentre padre e figlio tenevano le redini per tirare l’asino.

Arrivati al terzo paese, la gente commentava: « Pover’uomo! Dopo aver lavorato tutto il giorno, lascia che la moglie salga sull’asino. E povero figlio. Chissà cosa gli spetta, con una madre del genere! ». Allora si misero d’accordo e decisero di sedersi tutti e tre sull’asino per cominciare nuovamente il pellegrinaggio.

Arrivati al paese successivo, ascoltarono cosa diceva la gente del paese: “Sono delle bestie, più bestie dell’asino che li porta. Gli spaccheranno la schiena! ».
Alla fine, decisero di scendere tutti e camminare insieme all’asino. Ma, passando per il paese seguente, non potevano credere a ciò che le voci dicevano ridendo:
« Guarda quei tre idioti; camminano, anche se hanno un asino che potrebbe portarli! ».

di Charlie Chaplin

cuoreh dans Mormorazione 

“Le persone egoiste e nevrotiche possono distorcere qualunque cosa, persino l’affetto, e farlo diventare causa di infelicità o di sfruttamento”.

di Clive Staples Lewis

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