L’avventura della speranza ci porta oltre

Posté par atempodiblog le 12 janvier 2015

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«Non di rado, nel mondo moderno, ci sentiamo perdenti. Ma l’avventura della speranza ci porta oltre. Un giorno ho trovato scritto su un calendario queste parole: “Il mondo è di chi lo ama e sa meglio dargliene la prova”. Quanto sono vere queste parole!

Nel cuore di ogni persona c’è un’infinita sete d’amore e noi, con quell’amore che Dio ha effuso nei nostri cuori, possiamo saziarla».

del card. François Xavier Nguyên Van Thuân

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Il contagio della carità

Posté par atempodiblog le 4 juillet 2013

Il contagio della  carità
del card. François Xavier Nguyên Van Thuân
Tratto da: 30Giorni, 2002

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[...] poiché si agisce attraverso la politica, bisogna formare la gente che fa politica. Per questo io oso parlarne, facendolo da pastore. E, se il Santo Padre ha parlato del decalogo di Assisi, io vi parlo delle beatitudini del politico. Non peccati, ma beatitudini.

Le otto beatitudini del politico.

      1. Beato il politico che ha un’alta consapevolezza ed una profonda coscienza del suo ruolo.
Il Concilio Vaticano II ha definito la politica «arte nobile e difficile» (Gaudium et spes n. 73). Ad oltre trent’anni di distanza e in pieno fenomeno di globalizzazione, tale affermazione trova conferma nel considerare che alla debolezza e alla fragilità dei meccanismi economici di dimensioni planetarie si può rispondere solo con la forza della politica, cioè con un’architettura politica globale che sia forte e fondata su valori globalmente condivisi.

      2. Beato il politico la cui persona rispecchia la credibilità.
Ai nostri giorni, gli scandali nel mondo della politica, legati per lo più all’alto costo delle campagne elettorali, si moltiplicano facendo perdere credibilità ai suoi protagonisti. Per ribaltare questa situazione, una risposta forte è necessaria, una risposta che implichi riforma e purificazione al fine di riabilitare la figura del politico.

      3. Beato il politico che lavora per il bene comune e non per il suo proprio interesse.
Per vivere questa beatitudine, il politico interpelli la sua coscienza e si domandi: sto lavorando per il popolo o per me? Sto lavorando per la patria, per la cultura? Sto lavorando per onorare la moralità? Sto lavorando per l’umanità?

      4. Beato il politico che si mantiene fedelmente coerente.
Occorre una coerenza costante fra la sua fede e la sua vita di persona impegnata in politica; una coerenza ferma fra le sue parole e le sue azioni; una coerenza che onori e rispetti le promesse elettorali.

      5. Beato il politico che realizza l’unità e, facendone di Gesù il fulcro, la difende.
Questo, perché la divisione è autodistruzione. Si dice in Francia: «I cattolici francesi non sono mai in piedi tutti insieme, salvo che al momento del Vangelo». Mi sembra che questo detto popolare si possa applicare anche ai cattolici di molti altri Paesi!

      6. Beato il politico che è impegnato nella realizzazione di un cambiamento radicale.
Tale cambiamento avviene lottando contro la perversione intellettuale; avviene non chiamando bene ciò che è male; non relegando la religione nel privato; bensì stabilendo le priorità delle scelte sulla base della sua fede; avendo una magna charta: il Vangelo.

      7. Beato il politico che sa ascoltare.
Che sa ascoltare il popolo, prima, durante e dopo le elezioni; che sa ascoltare la propria coscienza; che sa ascoltare Dio nella preghiera. La sua attività ne trarrà certezze, sicurezza ed efficacia.

      8. Beato il politico che non ha paura.
Che non ha paura, prima di tutto, della verità: «La verità» dice Giovanni Paolo II «non ha bisogno di voti!». È di se stesso, piuttosto, che dovrà aver paura. Il ventesimo presidente degli Stati Uniti, James Garfield, usava dire: «Garfield ha paura soltanto di Garfield, perché si conosce». Non tema, il politico, i mass media. Al momento del giudizio finale egli dovrà rispondere a Dio, non ai mass media!

Quello che vi ho appena proposto è un sommario da pastore: io non entro nel campo della politica, posso sbagliare, ma parlo semplicemente da pastore.

Divisore dans Fede, morale e teologia

      E adesso, da vescovo che è stato in prigione, una piccola testimonianza, il racconto di una piccola esperienza. Sono stato in prigione per tredici anni, e nove anni in isolamento senza mai una visita della famiglia – soltanto due lettere della mia mamma – e senza giornali e libri. È una tortura mentale. La prigione era completamente vuota, c’era soltanto un’équipe di cinque giovani poliziotti comunisti che mi sorvegliavano senza rivolgermi mai la parola. Io mi domandavo che cosa potessi aver fatto loro, ma eravamo agli antipodi e loro evitavano di parlarmi, di comunicare. C’era soltanto una cosa: io avevo deciso di amarli. Ma poiché non potevo dare niente – ero così povero –, come mostrare loro che li amavo? Allora cominciai a raccontare loro della vita in Italia, dove avevo studiato, della mia vita prima in Europa, poi in America, in Asia, in Australia e in Nuova Zelanda. E allora pian piano la loro curiosità si eccitava, si avvicinavano e mi domandavano varie cose. Io rispondevo sempre, rispondevo anche alle domande offensive. Pian piano diventarono miei amici, mi chiesero di insegnare loro il francese e l’inglese e mi portarono libri affinché potessi studiare il russo: eravamo, infatti, sotto il comunismo.
      Un giorno dovevo tagliare della legna e chiesi ad uno di loro se mi poteva fare il favore di lasciarmi tagliare un pezzo di legno a forma di croce. «È vietato!», rispose. Poi aggiunse: «È vietato, non si può avere nessun segno religioso in prigione, ma lei è mio amico», e mi lasciò fare. «È impossibile», disse ancora, «andrò in prigione per questo», ma chiuse gli occhi e mi lasciò fare. «Sono tuo amico» mi disse; non poté più resistere. Ed andò via.
      Così mi lasciò il tempo per tagliare un pezzo di legno in forma di croce, che io nascosi nel sapone per tanti anni, fino alla mia liberazione, per evitare che i capi lo scoprissero durante i controlli. Poi lo incastonai nel metallo e ne feci la mia croce pettorale. Questa croce che oggi porto è fatta con il legno preso dalla prigione ed è stata costruita con la complicità dei poliziotti comunisti.

      In un’altra prigione un giorno domandai ad un poliziotto se mi poteva dare un filo elettrico. «Che cosa vuole fare con il filo elettrico?» mi chiese, «vuole suicidarsi?»; «No», risposi. «E allora a cosa le serve il filo elettrico?»; «vorrei fare una catena per portare la mia croce». «Ma come si può fare una catena con il filo elettrico?». In effetti i vescovi hanno almeno delle catene d’argento, ma un filo elettrico… Risposi che lo potevo fare. «Prestami due piccole tenaglie e ti mostrerò». «È contro la sicurezza» mi disse», «non posso». Ma pochi giorni dopo tornò per dirmi: «Lei è un buon amico, non posso rifiutare, domani è il mio turno di guardia ed io verrò con il filo elettrico. Ma in quattro ore bisogna finire il lavoro, dalle sette alle undici, altrimenti, se qualcuno ci vede, può denunciarci». Allora mi aiutò. Con pezzi di fiammiferi misurammo il filo elettrico per tagliarlo, e con le piccole tenaglie facemmo in quattro ore la catena per portare la croce. Anche questo con la complicità di poliziotti comunisti diventati amici di un vescovo.
Loro poi mi raccontarono: «Quando il capo ci ha convocati per mandarci a controllarla, ci ha detto: “Andate a sorvegliare questo pericoloso vescovo. Non parlategli, altrimenti lui vi contaminerà e sarò costretto a cambiarvi dopo due settimane con un altro gruppo”». Il capo però li seguiva per controllare i loro atteggiamenti. Alla fine li riconvocò e disse loro: «Ormai non vi cambierò più, perché se vi cambio ogni due settimane, questo pericoloso vescovo contaminerà tutta la polizia». 
     Ciò di cui avevano paura è l’amore cristiano. Questi poliziotti mi domandavano spesso: «Lei ci ama o no?». «Sì, io vi amo, ho vissuto con voi tanti anni». «È veramente molto bello, ma impossibile. La mettiamo in prigione per più di dieci anni senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama?». «Io vi amo». «Perché?». «Perché Gesù mi ha insegnato ad amarvi e se voi volete uccidermi io continuo ad amarvi». «Noi abbiamo imparato soltanto l’odio e la vendetta, è impossibile amare i nemici». «Ma siamo insieme, voi siete miei amici». «È vero, ma è incomprensibile».
Io penso, carissimi amici, che ciò che la Chiesa può fare nella giustizia, nel perdono, nella riconciliazione è un contributo molto valido per la giustizia e per la pace nel mondo di oggi. Grazie.

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«Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1)

Posté par atempodiblog le 23 décembre 2011

«Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1)
di François Xavier Nguyên Van Thuân
Tratto da: 30Giorni

«Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1) dans Articoli di Giornali e News cardinale-Fran-ois-Xavier-Nguy-n-Van-Thu-n

L’evangelista Matteo inizia la sua testimonianza su Gesù con queste parole: «Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo…» (Mt 1, 1).
Quando nelle celebrazioni liturgiche ricorre questo brano evangelico, non di rado sentiamo un certo imbarazzo. C’è chi considera la lettura di tale testo come un esercizio senza significato, quasi un arido elenco di nomi, su cui è difficile costruire prediche ad effetto piene di riflessioni spirituali. Altri lo leggono di corsa, rendendolo incomprensibile ai fedeli; altri ancora ne tagliano alcuni pezzi, abbreviandolo.
Per me che sono vietnamita, e in generale per tutti noi asiatici, la memoria dei nostri antenati è una cosa a cui teniamo molto. Seguendo la nostra cultura, spesso nelle nostre case conserviamo con pietà e devozione il libro della nostra genealogia familiare. Io stesso conosco i nomi di 15 generazioni dei miei antenati, fin dal 1698, quando la mia famiglia ha ricevuto il santo battesimo. Quando ripenso alla mia genealogia, mi accorgo di appartenere ad una storia che è più grande di me. E colgo con maggior profondità il senso della mia propria storia.
Per questo ringrazio la santa madre Chiesa che, almeno due volte all’anno, nel tempo dell’Avvento e nella festa della Natività di Maria, fa risuonare durante le nostre celebrazioni liturgiche, fin nella più sperduta cappellina cattolica, i nomi di quegli uomini che hanno avuto, secondo il misterioso disegno di Dio, un ruolo importante nella storia della salvezza e nella realtà del popolo d’Israele.
Sono convinto che le parole del documento della genealogia di Gesù Cristo esprimono qualcosa di essenziale dell’Antica e della Nuova Alleanza, hanno a che fare con il cuore del mistero della salvezza che ci trova uniti tutti – cattolici, ortodossi e protestanti.
Questo brano della Scrittura ci schiude il mistero della storia della salvezza come mistero della misericordia. Esso ci richiama a quanto proclama la Vergine Maria nel Magnificat, il suo cantico profetico che la Chiesa ripete ogni giorno nella lode del vespro: il disegno misericordioso e fedele di Dio si è compiuto secondo la promessa fatta «ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (Lc 1, 55). Davvero, la misericordia di Dio si estende e si estenderà di generazione in generazione, «perché eterna è la sua misericordia» (cfr. Sal 100, 5; 136).
Il Libro della genealogia di Gesù Cristo si articola in tre parti. Nella prima sono nominati i patriarchi; nella seconda i re prima dell’esilio di Babilonia; nella terza i re venuti dopo l’esilio.
Ciò che colpisce in primo luogo nella lettura del testo è il mistero della predilezione, della scelta da parte di Dio. Dio fa misericordia perché è libero. Il suo è un dono gratuito incomprensibile ai parametri del calcolo umano, tanto da apparire a volte scandaloso.
Così, nel Libro della genealogia di Gesù Cristo appare che Abramo, invece di scegliere il primogenito Ismaele, figlio della schiava Agar, ha scelto Isacco, il secondogenito, figlio della promessa, figlio della moglie Sara («In Isacco ti sarà data una discendenza»). Come notava l’esegeta Erik Peterson: «La generazione carnale non costituisce, da sola, la razza di Abramo nel senso della promessa divina, ma sono figli di Abramo quelli ai quali il nome di Dio è dato in sovrappiù [...]. Non vi è vera filiazione se non là dove c’è la promessa».
A sua volta, Isacco voleva benedire il primogenito Esaù ma, alla fine, ha benedetto piuttosto Giacobbe, secondo il misterioso disegno di Dio.
Giacobbe non trasmette la continuità familiare della stirpe che avanza storicamente verso il Messia, né a Ruben, il primogenito, né a Giuseppe, il più amato, il migliore di tutti, colui che ha perdonato i suoi fratelli e li ha salvati dalla fame in Egitto. La scelta è caduta su Giuda, il quarto figlio, che pure insieme agli altri fratelli aveva venduto Giuseppe ai mercanti che lo avevano condotto in Egitto.
Il mistero sorprendente della libera scelta degli antenati del Messia da parte di Dio incomincia a sollecitare la nostra attenzione. Questa pagina illumina anche il mistero della nostra elezione, di come è capitato anche a noi di diventare, per grazia, cristiani. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Non siamo stati scelti a causa dei nostri meriti, ma solamente a causa della sua misericordia. «Ti ho amato di amore eterno», dice il Signore (Ger 31, 3). Questa è la nostra sicurezza. «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato» (Is 49, 1). È questo il nostro unico vanto: la consapevolezza di essere stati gratuitamente chiamati e scelti. «Egli solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, i principi del suo popolo» (Sal 113, 7-8).
Infatti, se consideriamo i nomi dei re presenti nel documento della genealogia di Gesù, possiamo constatare che prima dell’esilio solo due di essi sono stati fedeli a Dio: Ezechia e Giosia. Gli altri sono stati idolatri, immorali, assassini.
Anche nel periodo dopo l’esilio, fra i numerosi re nominati, troviamo solo due personaggi che sono rimasti sempre fedeli al Signore: Salatiel e Zorobabele. Gli altri sono o pubblici peccatori o figure sconosciute.
In Davide, il più famoso fra i re che hanno dato i natali al Messia, si intrecciano fedeltà a Dio, peccati e delitti: con amare lacrime egli confessa nei suoi salmi i peccati di adulterio e il crimine di assassinio, specialmente nel Salmo 50, che nella liturgia della Chiesa cattolica è diventato preghiera penitenziale.
Anche le donne che Matteo nomina all’inizio del suo Vangelo come madri che trasmettono la vita, dal grembo della benedizione di Dio, ci colpiscono per le loro storie. Sono donne che si trovano tutte in una situazione irregolare e di disordine morale: Tamar è una peccatrice, che con l’inganno ha avuto un’unione incestuosa col genero Giuda; Raab è la prostituta di Gerico, che accoglie e nasconde le due spie israelitiche inviate da Giosuè, e viene ammessa nella comunità israelita; Rut una straniera; della quarta donna non si dice il nome, si dice soltanto «quella che era stata moglie di Uria». Si tratta di Betsabea, la compagna di adulterio di David.
Scriveva il grande poeta francese Charles Péguy, che mi è molto caro: «Bisogna riconoscerlo, la genealogia carnale di Gesù è spaventosa. Pochi uomini hanno avuto forse tanti antenati criminali, e così criminali. Particolarmente così carnalmente criminali. È in parte ciò che dà al mistero dell’Incarnazione tutto il suo valore, tutta la sua profondità, un arretramento spaventoso. Tutto il suo impeto, tutto il suo carico di umanità. Di carnale. Quantomeno per una parte, e per una gran parte».
Perché il fiume di queste generazioni umane, gonfio di peccati e di crimini, diventa una sorgente di acqua limpida man mano che ci avviciniamo alla pienezza dei tempi: con Maria, la Madre, ed in Gesù, il Messia, vengono riscattate tutte le generazioni.
Questa lista di nomi di criminali, di adultere e di meretrici che Matteo evidenzia nella stirpe umana di Gesù non scandalizzi noi poveri peccatori. Essa fa risaltare il mistero della misericordia di Dio. Anche nel Nuovo Testamento, Gesù ha scelto Paolo, che lo ha perseguitato, e Pietro, che lo ha rinnegato, al quale erano così devoti i cristiani lapsi dei primi tempi, quelli che nei momenti più duri delle persecuzioni, per paura, avevano ceduto alle pressioni, abiurando la propria fede. Pietro e Paolo, un rinnegato e uno zelante persecutore, sono le colonne della Chiesa. In questo mondo, se un popolo scrive la sua storia ufficiale, di regime, parlerà delle sue vittorie, dei suoi eroi, della sua grandezza. È un caso unico, mirabile e stupendo, trovare un popolo che nella sua storia ufficiale non nasconde i peccati dei suoi antenati.
Con il parto mirabile e stupendo di Maria, che celebriamo nella festa del Natale, il Regno è venuto, la pienezza dei tempi è già arrivata. Ma Gesù afferma che il Regno sta crescendo lentamente, di nascosto, come un granello di senape. Tra la pienezza e la fine dei tempi, la Chiesa è in cammino come popolo della speranza.
Scriveva ancora Charles Péguy: «La fede che mi piace di più è la speranza».
È questa la nostra grande chiamata. Non per nostro merito, ma «perché eterna è la sua misericordia». Oggi, come nei tempi dell’Antico e del Nuovo Testamento, Dio agisce nei poveri di spirito, negli umili, nei peccatori che per il dono libero della sua predilezione si convertono a lui con tutto il cuore, trovando felicità oltre ogni attesa.

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