«Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1)
di François Xavier Nguyên Van Thuân
Tratto da: 30Giorni
L’evangelista Matteo inizia la sua testimonianza su Gesù con queste parole: «Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo…» (Mt 1, 1).
Quando nelle celebrazioni liturgiche ricorre questo brano evangelico, non di rado sentiamo un certo imbarazzo. C’è chi considera la lettura di tale testo come un esercizio senza significato, quasi un arido elenco di nomi, su cui è difficile costruire prediche ad effetto piene di riflessioni spirituali. Altri lo leggono di corsa, rendendolo incomprensibile ai fedeli; altri ancora ne tagliano alcuni pezzi, abbreviandolo.
Per me che sono vietnamita, e in generale per tutti noi asiatici, la memoria dei nostri antenati è una cosa a cui teniamo molto. Seguendo la nostra cultura, spesso nelle nostre case conserviamo con pietà e devozione il libro della nostra genealogia familiare. Io stesso conosco i nomi di 15 generazioni dei miei antenati, fin dal 1698, quando la mia famiglia ha ricevuto il santo battesimo. Quando ripenso alla mia genealogia, mi accorgo di appartenere ad una storia che è più grande di me. E colgo con maggior profondità il senso della mia propria storia.
Per questo ringrazio la santa madre Chiesa che, almeno due volte all’anno, nel tempo dell’Avvento e nella festa della Natività di Maria, fa risuonare durante le nostre celebrazioni liturgiche, fin nella più sperduta cappellina cattolica, i nomi di quegli uomini che hanno avuto, secondo il misterioso disegno di Dio, un ruolo importante nella storia della salvezza e nella realtà del popolo d’Israele.
Sono convinto che le parole del documento della genealogia di Gesù Cristo esprimono qualcosa di essenziale dell’Antica e della Nuova Alleanza, hanno a che fare con il cuore del mistero della salvezza che ci trova uniti tutti – cattolici, ortodossi e protestanti.
Questo brano della Scrittura ci schiude il mistero della storia della salvezza come mistero della misericordia. Esso ci richiama a quanto proclama la Vergine Maria nel Magnificat, il suo cantico profetico che la Chiesa ripete ogni giorno nella lode del vespro: il disegno misericordioso e fedele di Dio si è compiuto secondo la promessa fatta «ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (Lc 1, 55). Davvero, la misericordia di Dio si estende e si estenderà di generazione in generazione, «perché eterna è la sua misericordia» (cfr. Sal 100, 5; 136).
Il Libro della genealogia di Gesù Cristo si articola in tre parti. Nella prima sono nominati i patriarchi; nella seconda i re prima dell’esilio di Babilonia; nella terza i re venuti dopo l’esilio.
Ciò che colpisce in primo luogo nella lettura del testo è il mistero della predilezione, della scelta da parte di Dio. Dio fa misericordia perché è libero. Il suo è un dono gratuito incomprensibile ai parametri del calcolo umano, tanto da apparire a volte scandaloso.
Così, nel Libro della genealogia di Gesù Cristo appare che Abramo, invece di scegliere il primogenito Ismaele, figlio della schiava Agar, ha scelto Isacco, il secondogenito, figlio della promessa, figlio della moglie Sara («In Isacco ti sarà data una discendenza»). Come notava l’esegeta Erik Peterson: «La generazione carnale non costituisce, da sola, la razza di Abramo nel senso della promessa divina, ma sono figli di Abramo quelli ai quali il nome di Dio è dato in sovrappiù [...]. Non vi è vera filiazione se non là dove c’è la promessa».
A sua volta, Isacco voleva benedire il primogenito Esaù ma, alla fine, ha benedetto piuttosto Giacobbe, secondo il misterioso disegno di Dio.
Giacobbe non trasmette la continuità familiare della stirpe che avanza storicamente verso il Messia, né a Ruben, il primogenito, né a Giuseppe, il più amato, il migliore di tutti, colui che ha perdonato i suoi fratelli e li ha salvati dalla fame in Egitto. La scelta è caduta su Giuda, il quarto figlio, che pure insieme agli altri fratelli aveva venduto Giuseppe ai mercanti che lo avevano condotto in Egitto.
Il mistero sorprendente della libera scelta degli antenati del Messia da parte di Dio incomincia a sollecitare la nostra attenzione. Questa pagina illumina anche il mistero della nostra elezione, di come è capitato anche a noi di diventare, per grazia, cristiani. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Non siamo stati scelti a causa dei nostri meriti, ma solamente a causa della sua misericordia. «Ti ho amato di amore eterno», dice il Signore (Ger 31, 3). Questa è la nostra sicurezza. «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato» (Is 49, 1). È questo il nostro unico vanto: la consapevolezza di essere stati gratuitamente chiamati e scelti. «Egli solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, i principi del suo popolo» (Sal 113, 7-8).
Infatti, se consideriamo i nomi dei re presenti nel documento della genealogia di Gesù, possiamo constatare che prima dell’esilio solo due di essi sono stati fedeli a Dio: Ezechia e Giosia. Gli altri sono stati idolatri, immorali, assassini.
Anche nel periodo dopo l’esilio, fra i numerosi re nominati, troviamo solo due personaggi che sono rimasti sempre fedeli al Signore: Salatiel e Zorobabele. Gli altri sono o pubblici peccatori o figure sconosciute.
In Davide, il più famoso fra i re che hanno dato i natali al Messia, si intrecciano fedeltà a Dio, peccati e delitti: con amare lacrime egli confessa nei suoi salmi i peccati di adulterio e il crimine di assassinio, specialmente nel Salmo 50, che nella liturgia della Chiesa cattolica è diventato preghiera penitenziale.
Anche le donne che Matteo nomina all’inizio del suo Vangelo come madri che trasmettono la vita, dal grembo della benedizione di Dio, ci colpiscono per le loro storie. Sono donne che si trovano tutte in una situazione irregolare e di disordine morale: Tamar è una peccatrice, che con l’inganno ha avuto un’unione incestuosa col genero Giuda; Raab è la prostituta di Gerico, che accoglie e nasconde le due spie israelitiche inviate da Giosuè, e viene ammessa nella comunità israelita; Rut una straniera; della quarta donna non si dice il nome, si dice soltanto «quella che era stata moglie di Uria». Si tratta di Betsabea, la compagna di adulterio di David.
Scriveva il grande poeta francese Charles Péguy, che mi è molto caro: «Bisogna riconoscerlo, la genealogia carnale di Gesù è spaventosa. Pochi uomini hanno avuto forse tanti antenati criminali, e così criminali. Particolarmente così carnalmente criminali. È in parte ciò che dà al mistero dell’Incarnazione tutto il suo valore, tutta la sua profondità, un arretramento spaventoso. Tutto il suo impeto, tutto il suo carico di umanità. Di carnale. Quantomeno per una parte, e per una gran parte».
Perché il fiume di queste generazioni umane, gonfio di peccati e di crimini, diventa una sorgente di acqua limpida man mano che ci avviciniamo alla pienezza dei tempi: con Maria, la Madre, ed in Gesù, il Messia, vengono riscattate tutte le generazioni.
Questa lista di nomi di criminali, di adultere e di meretrici che Matteo evidenzia nella stirpe umana di Gesù non scandalizzi noi poveri peccatori. Essa fa risaltare il mistero della misericordia di Dio. Anche nel Nuovo Testamento, Gesù ha scelto Paolo, che lo ha perseguitato, e Pietro, che lo ha rinnegato, al quale erano così devoti i cristiani lapsi dei primi tempi, quelli che nei momenti più duri delle persecuzioni, per paura, avevano ceduto alle pressioni, abiurando la propria fede. Pietro e Paolo, un rinnegato e uno zelante persecutore, sono le colonne della Chiesa. In questo mondo, se un popolo scrive la sua storia ufficiale, di regime, parlerà delle sue vittorie, dei suoi eroi, della sua grandezza. È un caso unico, mirabile e stupendo, trovare un popolo che nella sua storia ufficiale non nasconde i peccati dei suoi antenati.
Con il parto mirabile e stupendo di Maria, che celebriamo nella festa del Natale, il Regno è venuto, la pienezza dei tempi è già arrivata. Ma Gesù afferma che il Regno sta crescendo lentamente, di nascosto, come un granello di senape. Tra la pienezza e la fine dei tempi, la Chiesa è in cammino come popolo della speranza.
Scriveva ancora Charles Péguy: «La fede che mi piace di più è la speranza».
È questa la nostra grande chiamata. Non per nostro merito, ma «perché eterna è la sua misericordia». Oggi, come nei tempi dell’Antico e del Nuovo Testamento, Dio agisce nei poveri di spirito, negli umili, nei peccatori che per il dono libero della sua predilezione si convertono a lui con tutto il cuore, trovando felicità oltre ogni attesa.