“La Confessione non è una condanna, ma perdono e misericordia!”

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2014

“La Confessione non è una condanna, ma perdono e misericordia!”
Il cardinale Piacenza spiega che il confessore è strumento di un’azione che lo trascende, della quale non è e non deve cercare di diventare protagonista
di Antonio Gaspari – Zenit (13 novembre 2014)

“La Confessione non è una condanna, ma perdono e misericordia!” dans Cardinale Mauro Piacenza Confessione

“Il confessionale per i sacerdoti rappresenta una ‘postazione’ privilegiata per contemplare, con sempre rinnovato stupore, gli effetti salvifici della Divina Misericordia”. Lo ha detto oggi il cardinale Mauro Piacenza a conclusione del convegno “Il sigillo confessionale e la privacy pastorale”, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, presso il Palazzo della Cancelleria a Roma.

Il porporato ha raccontato delle tante autentiche conversioni e cambiamenti di vita che avvengono durante la confessione. “Confessare – ha constatato – significa diventare testimoni della reale potenza della Resurrezione di Cristo vincitore della morte. Si comprende che l’ultima parola sul male è sempre ed unicamente di Dio, che rivela la Sua giustizia nella grazia del perdono”.

Nell’ordinamento della giustizia divina – ha proseguito il cardinale – il diritto che gli errori del passato non gravino per sempre sulla reputazione futura della persona è da sempre riconosciuto ad ogni penitente che, con cuore umile e contrito, si accosta al sacramento della riconciliazione. Dopo l’assoluzione impartita dal confessore, infatti, Dio ricco di misericordia non ricorda più il peccato del penitente perché è stato definitivamente cancellato dalla grandezza del Suo amore”.

In questo contesto, secondo Piacenza, l’accompagnamento spirituale è una relazione che “cerca di far scoprire sempre più la vita di Dio in ciascuno di noi e di aiutare le persone che ne sono coinvolte a fare una forte esperienza del Suo amore misericordioso”.

Per introdurre il tema del segreto della confessione, il porporato ha citato Papa Benedetto XVI che nel corso della Lectio divina al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, (11 giugno 2012) ha denunciato la “cultura della menzogna che si presenta sotto la veste della verità e dell’informazione, in cui il moralismo è maschera per confondere e creare confusione e distruzione […]. Non conta la verità ma l’effetto, la sensazione. Sotto il pretesto della verità si distruggono gli uomini e si vuole imporre solo se stessi come vincitori”.

A tal proposito, il Penitenziere Maggiore ha rilevato che dagli interventi svolti al convegno è emerso chiaramente come nell’ambito del sigillo e del segreto sacramentale la Chiesa abbia elaborato nel corso dei secoli una esperienza ricchissima, oltre ad una normativa dettagliata e rigorosa, volta a tutelare e proteggere quella che si può considerare senz’altro come “la forma più alta del segreto, che riguarda in particolare ogni sacerdote confessore”.

“Questa normativa – ha sottolineato – ha fortemente orientato la normativa stessa degli ordinamenti civili in tema di segreto professionale”. “La fiducia del penitente non deve essere tradita” e la Chiesa “deve garantire uno spazio protetto, in grado di attenuare l’esposizione di sé e la vulnerabilità che sempre accompagnano l’atto di confessare il proprio peccato”. Nello stesso tempo la celebrazione della Penitenza deve essere un evento spirituale e un momento di grazia non solo per il fedele ma anche per il ministro del sacramento.

“Il ministro – ha sottolineato poi il cardinale Piacenza – deve perciò sapere che mentre giudica egli viene giudicato, che mentre parla e consiglia egli è un ascoltatore dello Spirito Santo che gli dona di edificare e consolare il cammino di fede dei propri fratelli e delle proprie sorelle”

Per questo, nel Discorso ai partecipanti al XXV Corso sul Foro interno, promosso dalla Penitenzieria Apostolica, Papa Francesco rimarcò la necessità dilavorare molto su noi stessi, sulla nostra umanità, per non essere mai di ostacolo ma sempre favorire l’avvicinarsi alla misericordia e al perdono”.

“La Confessione non è un tribunale di condanna, ma esperienza di perdono e di misericordia!”, ha quindi ribadito il cardinale, citando il Pontefice. Ha quindi concluso ringraziando tutti gli illustri relatori e i convenuti, auspicando che il Convegno abbia contribuito ad una considerazione del sacramento della penitenza come occasione, forse l’unica, “dove ognuno sa di poter essere ben accolto, ascoltato e perdonato, la sua interiorità custodita e salvaguardata e la sua fiducia e speranza nella divina misericordia mai tradita!”.

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La confessione tra segretezza e privacy

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2014

La confessione tra segretezza e privacy
Il cardinale Mauro Piacenza racconta i “miracoli” del confessionale durante il suo intervento al convegno “Il sigillo confessionale e la privacy pastorale”, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica
di Antonio Gaspari – Zenit (12 novembre 2014)

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“Quanti veri e propri miracoli della grazia di Dio avvengono nel segreto di un confessionale, nel colloquio confidenziale che caratterizza la relazione di accompagnamento spirituale, nell’intimo del cuore che pur ferito dal male, si apre alla verità dell’amore di Dio!”.

Così il cardinale Mauro Piacenza, oggi, nel saluto di apertura del convegno “Il sigillo confessionale e la privacy pastorale”, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica presso il Palazzo della Cancelleria a Roma.

Dopo aver ricordato che la Penitenzieria Apostolica, per antica consuetudine, è impegnata nel sensibilizzare sia i sacerdoti che i fedeli laici a riscoprire sempre di nuovo l’importanza del Sacramento della Confessione, il porporato ha spiegato la rilevanza della confessione  soprattutto nei tempi moderni.

“La celebrazione di questo Sacramento – ha precisato  – richiede un’adeguata e aggiornata preparazione teologica, pastorale e canonica perché tutti coloro che si accostano al confessionale possano sperimentare gli effetti pacificanti e salutari del perdono incondizionato di Dio”.

Allora, “perché un Convegno proprio sul segreto confessionale e la privacy pastorale?”, ha domandato il Penitenziere maggiore. Per affrontare con chiarezza il tema, secondo il cardinale Piacenza, occorre dissipare subito ogni sospetto circa il fatto che il sistema di segretezza che l’ordinamento ecclesiale – come ogni ordinamento giuridico si dà – sia volto a coprire trame, complotti o misteri, come qualche volta ingenuamente l’opinione pubblica è portata o, più facilmente, è suggestionata a credere.

“E’ evidente che ognuno ha segreti personali, che confida solamente a persone fidate e discrete”; nello stesso tempo – ha precisato il porporato – “desidera e confida che questi non vengano violati o traditi per ingerenze di terzi o per superficialità o sprovvedutezza”.

Ed è in questo contesto che per Piacenza si trovano le ragioni del perché “grandi e salutari sono gli effetti che con il segreto e la riservatezza si desiderano proteggere e custodire per salvaguardare la fama e la reputazione di qualcuno o rispettare diritti di singoli e di gruppi”.

Compito del parroco, e di ogni sacerdote – ha soggiunto – è quello di tutelare e difendere l’intimità di ogni persona, intesa come spazio vitale in cui proteggere la propria personalità oltre agli affetti più cari e più personali. Scopo del segreto, sia sacramentale, sia extra sacramentale,  è proteggere l’intimità della persona, cioè custodire la presenza di Dio nell’intimo di ogni uomo

Per questo motivo, ha precisato il cardinale, “chi viola questa sfera personalissima e ‘sacra’, compie non solo un atto di ingiustizia, un delitto canonico, ma un vero e proprio atto di irreligiosità”.

Prima di concludere con l’augurio di risvegliare i valori connessi al sacramento della confessione, il cardinale ha ricordato che la Penitenzieria Apostolica è da otto secoli il Tribunale Apostolico deputato alla trattazione delle materie che concernono il foro interno e conosce molto bene “l’inestimabile valore morale e spirituale del segreto sacramentale, della riservatezza, dell’inviolabilità della coscienza e le sue ricadute positive nella vita dei singoli fedeli”.

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Una zucca, anche se di moda, rimane sempre una zucca

Posté par atempodiblog le 28 octobre 2014

Una zucca, anche se di moda, rimane sempre una zucca
Il cardinale Mauro Piacenza spiega il significato liturgico e religioso della Festa di tutti i Santi e della Commemorazione dei defunti

È vero che nella commemorazione dei defunti è possibile ottenere l’indulgenza Plenaria? Le indulgenze valgono per sé, per l’anima del defunto o anche per amici e parenti? E come si fa a contenere gli effetti negativi della festa di Halloween?
Queste e altre domande
ZENIT le ha rivolte al cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore del Tribunale della Penitenzieria Apostolica.

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Eminenza, nei prossimi giorni si celebrerà la Festa di tutti i Santi e la Commemorazione dei defunti. Il Popolo di Dio sente molto questi giorni, che sono anche occasione di riflessione e di preghiera. è ancora valida la pratica delle indulgenze per i defunti?
Certamente sì! Nel giorno del 2 novembre, visitando un cimitero ed avendo assolto alle consuete condizioni (essere confessati, comunicati, recitare il Credo e pregare secondo le intenzioni del Santo Padre), è possibile ottenere l’indulgenza plenaria, applicabile ad un fedele defunto.

Solo in quel giorno è possibile farlo?
No, in quel giorno è possibile farlo in modo particolare e visitando un campo santo, ma ogni altro giorno dell’anno, è possibile lucrare l’indulgenza plenaria, ottemperando alle varie opere di pietà, contenute nell’Enchiridion Indulgentiarium (la raccolta delle modalità con cui è possibile ottenere la cancellazione delle pene dovute per i peccati), e scegliere di applicarla a se stessi, oppure ad un fedele defunto. L’unica “limitazione” a questa pia pratica è che essa può essere compiuta una sola volta al giorno; si può lucrare, quindi, una sola indulgenza al giorno, applicabile a se stessi, o ad un fedele defunto.

Talvolta, in alcune immaginette, ci sono delle preghiere con sotto la dicitura: 100 giorni di indulgenza, 300 giorni di indulgenza. Come si devono interpretare tali iscrizioni?
Fino alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, era possibile incontrare indicazioni di questo tipo. Il corretto approfondimento teologico ci porta a ritenere che, essendo l’eternità fuori dal tempo e non un “tempo prolungato”, non sia propriamente opportuna l’indicazione specifica della pena temporale e della relativa indulgenza. Pertanto, oggi si parla unicamente di due tipi di indulgenza: plenaria, quando tutte le pene dovute per i peccati vengono cancellate, o parziale, quando solo in parte vengono condonate.

Ma non basta l’assoluzione sacramentale? Non basta confessarsi?
Certamente la prima grande Riconciliazione, è l’evento della Morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo! In Cristo, tutte le promesse del Padre sono diventate un “sì” (2Cor 1,20). Egli è la fonte della misericordia, il fine della misericordia e la misericordia stessa. Papa Francesco non cessa di ricordare alla Chiesa come questa realtà della misericordia,sia determinante per l’annuncio e per la sequela cristiana. A ben vedere, il monito “Non abbiate paura” di San Giovanni Paolo II è sulla stessa linea della misericordia. Anche perché come potrebbe l’uomo non avere paura, se non ci fosse la possibilità della misericordia? E come potrebbe la misericordia essere reale esperienza vissuta, e non soltanto parola proclamata, se non determinasse, nella concreta esistenza di ciascuno, la effettiva possibilità di vincere ogni paura grazie alla certezza della verità, alla serenità del bene e, ultimamente, alla vittoria di Cristo su tutte le brutture della storia umana? Come ogni atto umano, anche i peccati hanno delle conseguenze. Il sacramento della Riconciliazione assolve i peccati, ma non ne elimina tutte le relative conseguenze. Attraverso le indulgenze, la Chiesa madre attinge generosamente al tesoro della divina misericordia, offrendo ai fedeli la possibilità della remissione non solo delle colpe, ma anche delle pene ad esse relative. Per esempio, se un uomo percuote un altro uomo, i due si possono riconciliare, ma nulla potrà cancellare il dolore e il segno dello schiaffo sulla guancia. Le indulgenze cancellano anche quel segno.  Si comprende bene come il tesoro dal quale la Chiesa attinge costituisca la sua più vera e preziosa ricchezza.  Quella è la banca più sicura e consolante che esista e i suoi azionisti sono veramente fortunati!

Lei ha detto, Eminenza, che le indulgenze possono essere applicate a se stessi, o a un fedele defunto. Perché non ad un altro fedele, per il quale si prega? Al proprio marito, alla propria moglie, ai propri figli?
Questo non è possibile per il grande mistero della libertà, che ci fa immagine e somiglianza di Dio e che Dio stesso rispetta profondamente. Ciascuno, finché è in vita, cioè finché è nel tempo, può cambiare le proprie scelte esistenziali, può decidere personalmente di convertirsi e in questo senso nessuno può sostituirsi alla libertà dell’altro. Pertanto ciascuno può lucrare le indulgenze e applicarle a se stesso. Certamente si può pregare per la conversione dei fratelli, per la conversione dei peccatori, ma l’indulgenza, per sua natura, è già un pio esercizio, per compiere il quale sono necessari veri atti di conversione, primo tra i quali la Riconciliazione sacramentale. Per quanto riguarda i defunti, essi con la morte sono usciti dal tempo ed è cessato per loro il dono della libertà. Per questa ragione, è sempre importante che la nostra libertà sia orientata al bene e non è affatto prudente permanere a lungo in stato di peccato mortale. Non potendo le anime dei defunti fare più nulla per la propria purificazione, in forza della comunione dei santi, cioè dell’unità profonda di tutti i battezzati in Cristo, noi, che siamo ancora in cammino, possiamo compiere la straordinaria opera di misericordia spirituale in suffragio delle anime, e ciò a beneficio loro e, nel contempo, anche a beneficio nostro.

È questa la ragione per cui la solennità di Ognissanti e la commemorazione di tutti i fedeli defunti sono così ravvicinate? Il primo e il due novembre?
Certamente la Chiesa, fin dalle origini, ha pregato per i fedeli defunti appartenenti alle prime comunità cristiane. Che essi fossero martiri, o comuni fedeli morti di morte naturale, la comunità ha inteso da subito il suffragio per i defunti come una dimensione strutturale della propria vita, della propria preghiera e, soprattutto, della celebrazione Eucaristica. Come a significare che l’unità profonda con Cristo e in Cristo, creatasi con il Battesimo, e la condivisione della medesima Eucaristia, vissuta nella comunità cristiana, non potessero essere spezzati nemmeno dalla morte. Del resto, a ben pensarci, se la morte è stata sconfitta da Cristo, chi è rinato in Cristo non può più essere separato da nulla, nemmeno da quella morte che Cristo ha già sconfitto! La Solennità di tutti i Santi mette in luce proprio la verità della communio sanctorum, dell’unione di tutti i battezzati. Come ci ha ricordato più volte Papa Francesco: “il tempo prevale sullo spazio”. Pertanto l’unione nel tempo di tutti i battezzati, dai primissimi cristiani, fino a coloro che domani mattina riceveranno il Battesimo e fino alla fine della storia, è un unione che nulla potrà mai scalfire e che determina quel camminare della Chiesa nel tempo che è reale anticipazione, qui sulla terra, del Regno dei Cieli. Noi apparteniamo all’unico Corpo ecclesiale che, ininterrottamente, da Gesù Cristo, dalla Beata Vergine Maria e dagli Apostoli, giunge fino a noi, ed è per questa ragione che la Chiesa celeste è molto più numerosa, molto più interessante, molto più dotta e molto più “influente” della Chiesa terrestre.

Nella notte che procede la Solennità dei Santi, da un decennio circa, si è diffusa anche in Europa la moda di Halloween. A che cosa è dovuto questo fenomeno? Che cosa ne pensa?
Come Lei ha ben detto, si tratta di una moda, che certamente ha dei risvolti comunque seri e non solo di ordine consumistico. Mi pare di poter dedurre che la stragrande maggioranza dei ragazzi, che organizzano feste in maschera in quella occasione, sono vittime inconsapevoli sia della moda, sia di chi, a tutti i costi, deve vendere dei prodotti commerciali, manipolando realtà spirituali. Trovo il fenomeno talmente irrazionale da diventare la reale cifra della società contemporanea: chi non crede nella verità finisce per credere a qualunque cosa, comprese le zucche! Non mi sfugge, peraltro, che in taluni casi questo tipo di manifestazioni abbiano origine spiritistica e perfino satanica e, pertanto, alimentarle e non correggerle può trasformarci in inconsapevoli alimentatori di quel “fumo di satana”, che già troppo intossica il mondo. Dobbiamo stare tutti attenti a non respirare fumi tossici; talvolta ciò accade quasi inavvertitamente. Ricordiamoci che una zucca, anche se benedetta, rimane sempre una zucca. Quelle di Halloween non sono nemmeno benedette!

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I santuari, spazi fecondi contro il secolarismo

Posté par atempodiblog le 8 octobre 2011

“Si vuole concentrare l’attenzione su questi luoghi che Paolo VI chiamava ‘le cliniche dello spirito’, perché in un periodo di vasta secolarizzazione probabilmente ancora di più questi santuari hanno una funzione, perché talvolta coloro i quali magari anche non frequentano regolarmente o addirittura non frequentano, trovandosi fuori per una gita o perché comunque sono in villeggiatura, o per motivi d’arte o per altri vari motivi, entrano nel Santuario. Allora si vorrebbe in qualche modo coalizzare tutti gli elementi per aiutare l’incontro con il Signore, la revisione della propria vita, attraverso tutti quegli elementi che il Santuario porta con sé”.

Cardinale Mauro Piacenza

I santuari, spazi fecondi contro il secolarismo dans Apparizioni mariane e santuari santuariodipompei

In un clima di diffuso secolarismo, il santuario continua, ancora oggi, a rappresentare un luogo privilegiato in cui l’uomo, pellegrino su questa terra, fa esperienza della presenza amorevole e salvifica di Dio. In esso egli trova uno spazio fecondo, lontano dagli affanni quotidiani, ove potersi raccogliere e riacquistare vigore spirituale per riprendere il cammino di fede con maggiore ardore e cercare, trovare e amare Cristo nella vita ordinaria, nel mezzo del mondo. Il santuario è il luogo in cui risuona con singolare potenza la Parola di Dio.
(…)
La pietà popolare è di grande rilievo per la fede, la cultura e l’identità cristiana di molti popoli. Essa è espressione della fede di un popolo, «vero tesoro del popolo di Dio» (Ibidem, n. 9) nella e per la Chiesa: per capirlo, basti immaginare la povertà che ne risulterebbe per la storia della spiritualità cristiana d’Occidente l’assenza del «Rosario» o della «Via crucis», come delle processioni. Sono soltanto esempi, ma sufficientemente evidenti per rilevarne l’imprescindibilità.
(…)
[I responsabili della pastorale nei santuari hanno il compito di] istruire i pellegrini sul carattere assolutamente preminente che la celebrazione liturgica deve assumere nella vita di ogni credente. La pratica personale di forme di pietà popolare non va assolutamente ostacolata o rigettata, anzi va favorita, ma non può sostituirsi alla partecipazione al culto liturgico.
(…)
Il santuario è pure il luogo della permanente attualizzazione della misericordia di Dio. Occorre a tale scopo favorire e dove sia possibile intensificare la presenza costante di sacerdoti che, con animo umile e accogliente, si dedichino generosamente all’ascolto delle confessioni sacramentali. I confessori, illuminando la coscienza dei penitenti, pongano pure in evidenza il vincolo stretto che lega la Confessione sacramentale a un’esistenza nuova, orientata verso una decisa conversione. Esortino perciò i fedeli ad avvicinarsi con regolare frequenza e fervente devozione a questo sacramento, affinché, sorretti dalla grazia che in esso è donata, possano alimentare costantemente il loro fedele impegno di adesione a Cristo, progredendo nella perfezione evangelica. Per rispettare la libertà di ogni fedele e anche per favorire la propria piena sincerità nel foro sacramentale, è opportuno che siano, in luoghi adatti (a esempio, possibilmente, cappella della Riconciliazione) disponibili dei confessionali provvisti di una grata fissa.
(…)
I sacerdoti, poi, nel dispensare la misericordia divina, adempiano debitamente questo peculiare ministero aderendo con fedeltà all’insegnamento genuino della Chiesa. Siano ben formati nella dottrina e non trascurino di aggiornarsi periodicamente su questioni attinenti soprattutto all’ambito morale e bioetico (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1466). Anche nel campo matrimoniale, rispettino quanto autorevolmente insegna il magistero ecclesiale. Evitino quindi di manifestare in sede sacramentale dottrine private, opinioni personali o valutazioni arbitrarie non conformi a ciò che la Chiesa crede e insegna.
(…)
La celebrazione eucaristica costituisce il cuore della vita sacramentale del santuario. In essa il Signore si dona a noi. I pellegrini che visitano i santuari siano allora resi consapevoli che, se accolgono fiduciosamente il Cristo eucaristico nel proprio intimo, Egli offre loro la possibilità di una reale trasformazione dell’esistenza. La dignità della celebrazione eucaristica venga anche opportunamente messa in risalto mediante il canto gregoriano, polifonico o popolare (cfr. Sacrosanctum concilium, nn. 116 e 118); ma anche selezionando adeguatamente sia gli strumenti musicali più nobili (organo a canne ed affini, cfr. Ibidem, n. 120) sia le vesti che vengono indossate dai ministri unitamente alle suppellettili utilizzate nella liturgia. Esse devono rispondere a canoni di nobiltà e di sacralità. Il Santo Padre Benedetto XVI scriveva, nell’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), che «la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata» (n. 64).
(…)
Uno stile celebrativo, che introduca innovazioni liturgiche arbitrarie, oltre a generare confusione e divisione tra i fedeli, lede la veneranda tradizione e l’autorità stessa della Chiesa, nonché l’unità ecclesiale.
(…)
Si attribuisca notevolissima importanza al luogo del tabernacolo nel santuario (o anche di una cappella destinata esclusivamente all’adorazione del Santissimo) poiché è in sé «calamita», invito e stimolo alla preghiera, all’adorazione, alla meditazione, all’intimità con il Signore. Il Sommo Pontefice, nella summenzionata esortazione, sottolinea che «la corretta posizione del tabernacolo, infatti, aiuta a riconoscere la presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento. È necessario, pertanto, che il luogo in cui vengono conservate le Specie eucaristiche sia facilmente individuabile, grazie anche alla lampada perenne, da chiunque entri in chiesa» (Ibidem, n. 69). Il tabernacolo, custodia eucaristica, occupi un posto preminente nei santuari, così come anche, nel ricordare la relazione tra arte, fede e celebrazione, si ponga attenzione a «l’unità tra gli elementi propri del presbiterio: altare, crocifisso, tabernacolo, ambone, sede» (Ibidem, n. 41).
(…)
I santuari, nella fedeltà alla loro gloriosa tradizione, non dimentichino di essere impegnati nelle opere caritative e nel servizio assistenziale, nella promozione umana, nella salvaguardia dei diritti della persona, nell’impegno per la giustizia, secondo la dottrina sociale della Chiesa.

della Congregazione per il Clero

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La riforma del santo sacerdote

Posté par atempodiblog le 23 mai 2010

La riforma del santo sacerdote
di Paolo Rodari – Il Foglio

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Nelle difficoltà serve un celibato più puro e una liturgia più aderente al suo senso vero

Il vaticanista Sandro Magister dice una cosa che vale la pena ricordare quando si è di fronte alle richieste di riforma provenienti da una certa base del cattolicesimo, da coloro per i quali il dissenso è divenuto il centro della propria vita di fede: « Nei momenti cruciali, quando la chiesa è maggiormente in difficoltà anche a motivo dei peccati dei suoi componenti, i Pontefici hanno fatto sempre una cosa: rafforzare il celibato sacerdotale. La riformi gregoriana, ma anche quella tridentina, su questo caposaldo si sono affinate. Sulla ricerca di un clero scelto, una squadra di combattenti forti e virtuosi capaci di accettare la mortificazione del corpo a gloria di Dio e per il bene di tutta la chiesa. Preti celibi, preti sposi soltanto della. chiesa. E anche Benedetto XVI sta facendo la medesima cosa. Altrimenti non si spiegherebbe perché la straordinaria indizione di un anno dedicato ai sacerdoti il cui testimone principe è il curato d’Ars, un prete che visse il celibato totalmente, spendendo ogni energia per i suoi fedeli attraverso la celebra Il fuoco contro il celibato sacerdotale, in questo anno dedicato ai preti, è particolarmente insistente. Gli attacchi fanno male perché vengono da dentro la chiesa, dal suo interno, dai suoi uomini.

Non si tratta soltanto di dichiarazioni estemporanee di qualche vescovo della periferia dell’impero. Si tratta di uscite inaspettate di vescovi ritenuti vicini (anche idealmente) a Roma. A loro dire è impellente trovarsi a parlare, a confrontarsi e a discutere, del celibato. Che, fuori dall’ecclesialese, significa una cosa: eliminarlo. Perché soltanto riformando il cuore della vita della chiesa, appunto il sacerdozio, una vera rivoluzione in scia allo spirito dei tempi può avere luogo. Le dichiarazioni anti celibato di qualche giorno fa di monsignor Paul Iby, vescovo del Burgenland, sono soltanto ciò che emerge di una pressione sempre più intensa e sistematica. Una rivolta alimentata anche dall’evidente appoggio di alcuni cardinali. Tre giorni fa l’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, ha detto di capire « le preoccupazioni » di Iby: « Le preoccupazioni sollevate dal vescovo Iby sono le preoccupazioni di tutti noi ». Parole ascoltate con gravità oltre il Tevere, soprattutto alla luce del fatto che il Papa, indicendo l’anno sacerdotale, ha proposto altri modelli. L’ha ricordato due giorni fa sull’Osservatore Romano, probabilmente non a caso, il segretario del Clero, monsignor Mauro Piacenza: « L’anno sacerdotale nasce da una ricorrenza ben precisa, il centocinquantesimo anniversario della nascita al cielo del curato d’Ars, e proprio per indicare un’autentica realizzazione del modello sacerdotale ». E poi l’affondo sul celibato, il cui fondamento è in Cristo,: « Non basta dire che Cristo e la sua vita furono verginali, la verginità non è qualcosa di aggunto all’esistenza terrena di Cristo, ma appartiene alla sua stessa essenza. Cristo è la verginità stessa e quindi ne è il modello. Certamente esistono molteplici ragioni di convenienza del celibato, sia sotto il profilo storico sia biblico, sia sotto quello spirituale e pastorale, tuttavia fondamentale è aderire alla fonte di tutto: Cristo stesso ». C’è chi ricorda che la chiesa di fatto già ammette i preti sposati: diverse comunità anglicane sono state da poco riammesse alla piena comunione con Roma, sacerdoti sposati compresi. E poi si rammenta l’esperienza delle chiese cattoliche di rito orientale: anche qui ci sono sacerdoti coniugati. Don Nicola Bux, consultore della Dottrina della fede, ci tiene però a puntualizzare un po’ di cose. Dice: « Anzitutto vorrei domandare a questi cardinali che continuamente chiedono aperture e nuove discussioni: ha forse ragione Karl Rahner quando sostiene nei ‘Nuovi saggi’ che i cardinali conoscono a mala pena ciò che hanno imparato nelle lezioni di teologia mentre non sanno nulla della dottrina cattolica? Forse si. Forse ha ragione Rahner. Tra l’altro vanno fatti alcuni chiarimenti sui preti sposati orientali. Questi propriamente non sono preti sposati nel senso che erano sposati già prima dell’ordinazione. Ai preti, infatti, non è concesso il matrimonio. Tecnicamente occorrerebbe chiamarli ‘sposati-ordinati preti’. E la cosa non è senza senso: è un sintomo evidente dell’antica tradizione comune con l’occidente che non ammette a chi è ordinato di accedere al matrimonio. Inoltre va ricordato quando e come l’oriente aprì ai preti sposati. Fu durante il Concilio di Trullo che si svolse a Costantinopoli nel 692. Di fatto questa apertura fu un cedimento. Perché occorre dirlo anche se forse è poco ecumenico: nella cristianità soltanto i cattolici di rito latino non hanno ceduto. Orientali, ortodossi e protestanti sono stati meno forti e decisi ». Don Luigi Negri, vescovo di San Marino e voce ascoltata nella galassia ciellina, dice che « la situazione è grave ». Perché? « Ci sono vescovi che prendono posizioni direttamente contrarie alla dottrina. Aprono su questioni sulle quali il Papa ha già detto cose di fatto definitive. Vorrei ricordare che molte dichiarazioni di Giovanni Paolo II erano prossime all’essere considerate come pronunciate ex cathedra, e dunque infallibili. Invece ci sono alcune autorità della chiesa che chiamano in causa il magistero giustificandolo agli occhi della mentalità dominante. Dimenticano Jean Guitton del ‘Cristo dilacerato’. E’ un breve saggio che scrisse di getto durante il Concilio. Disse che l’eresia si verifica quando è il mondo che giudica la fede, che chiama la fede a giustificarsi. Io contesto questa mentalità smascherata da Guitton perché non è più cristiana. E mi sgomenta che siano autorità della chiesa a fare proprie queste posizioni ». Il Papa ha parlato più volte del valore del celibato. Il 12 marzo si trovava a Castel Gandolfo. Qui ricevette i partecipanti a un convegno teologico. Parlò del « valore sacro del celibato ». E affondò il colpo contro le mode che vogliono far sì che anche il sacerdote si adegui, spirito e anima, al mondo. Disse: « Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire e amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale, dal suo essere profondo. Di conseguenza, deve porre ogni cura nel sottrarsi alla mentalità dominante, che tende ad associare il valore del ministro non al suo essere, ma alla sua funzione, misconoscendo, cosi, l’opera di Dio. che incide nell’identità profonda della persona del sacerdote, configurandolo a sé in modo definitivo ». Il richiamo all’abito non è senza senso. L’abito è un segno. Uno schiaffo in faccia al mondo. Ed è anche una forma di difesa dalle insidie e dalle tentazioni del mondo. Eppure, nel post Concilio, alcuni l’hanno abbandonato. E chi teorizza che sia giusto così, dimentica Giovanni Paolo Il. Racconta un frequentatore dell’appartamento wojtyliano: « Un giorno arrivò al Papa l’annuario dei vescovi brasiliani. C’erano i loro nomi e cognomi, gli indirizzi, e anche le foto. Il Papa lo apri e, pochi secondi dopo, lo scagliò contro il muro con violenza. Nelle foto molti vescovi erano in giacca e cravatta. Erano i tempi in cui la teologia della liberazione andava forte e faceva proseliti. n Papa non sopportava un simile tradimento ». Attacco al celibato, attacco al cuore della vocazione sacerdotale, fino agli attacchi alla liturgia, il luogo dove i fedeli, grazie ai ministri di Dio; appunto i sacerdoti, incontrano il mistero. Un Papa, Benedetto XVI, che indice l’anno sacerdotale per ritrovare il baricentro. Per ricordare qual è la giusta direzione. Anche se, a onor del vero; già molto aveva detto quando era cardinale e, ancora prima, vescovo e teologo. Per quanto riguarda la liturgia non si può non ricordare il suo « Introduzione allo spirito della liturgia », un cult alla stessa stregua del libro a cui Ratzinger si rifà, quello « Spirito della liturgia » di Romano Guardini pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugurale della collana « Ecclesia Orans » a cura dell’abate Herwegen: l’opera che, come scrive Ratzinger, « inaugurò il movimento liturgico in Germania. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera essenziale ». Per Ratzinger la riforma liturgica che ha portato il sacerdote a pregare versus populum ha introdotto « una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza. Ora infatti il sacerdote diviene il punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. E’ lui che bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione ». Invece « l’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era celebrazione verso la parete, non significava che il sacerdote volgeva le spalle al popolo: egli non era poi considerato così importante ». Alessandro Gnocchi dice che l’attacco al clero, al significato profondo del sacerdozio e quindi alla liturgia, ha le sue radici nell’immediato post Concilio. « Anche se – spiega – già nella riforma dei riti della Settimana santa del 1955-56 messa in campo, tra gli altri, da monsignor Annibale Bugnini ci furono dei prodromi di questo attacco: i cambiamenti stravolsero i riti secolari. Per la domenica delle Palme viene introdotta una ritualità verso il popolo e con le spalle alla croce e al Cristo dell’altare, il Venerdì santo si riducono gli onori da rendere al Santissimo e si altera la venerazione della croce con il risultato di oscurare la natura sacrificale dell’ultima cena. Per il Lunedì santo si proibisce la preghiera contra persecutores ecclesiae e la preghiera per il Papa ». Perché queste riforme? Difficile rispondere. Secondo padre Carlo Braga – lavorò a stretto contatto con Bugnini – questa riforma fu la « testa d’ariete » che scardinò la liturgia romana dei giorni più santi dell’anno. Secondo Annibale Bugnini, invece, la prima occasione d’inaugurare un nuovo modo di concepire la liturgia. Allora furono alcuni episcopati e anche vari liturgisti come Léon Gromier, consultore della Congregazione dei riti e membro dell’Accademia pontificia di liturgia, a lamentarsi. Ma con pochi risultati: Pio XII non aveva forse più la forza di reagire e la riforma passò. E a poco valse un segno lanciato qualche tempo dopo da Giovanni XXIII: nel 1959, nella sua celebrazione del Venerdì santo a Santa Croce in Gerusalemme, celebrò seguendo le pratiche tradizionali. Bugnini fu il principale protagonista della riforma liturgica. Una riforma che ha cambiato, di fatto, la vita dei fedeli e, insieme, quella dei preti. Dice Gnocchi: « Anzitutto il prete ha iniziato a celebrare ‘verso il popolo’ e non più ‘spalle al popolo’, ovvero volgendo il suo sguardo verso oriente, verso Cristo che viene. Questa è stata una svolta drammatica. Il prete è diventato un protagonista, quasi uno showman, al fondo il padrone della liturgia. In questo modo si è persa la dimensione verticale della celebrazione in favore di una dimensione circolare. Tutto è dentro un circolo chiuso composto dal prete e dai fedeli. Cristo resta fuori. Tant’è vero che il Santissimo è alle spalle del prete. Questa circolarità ha fatto sì che si perdesse il concetto di presenza reale di Cristo. Dell’eucaristia quasi ci si dimentica. Tutto è chiacchiera umana. Tutto è liturgia della parola. Prima del Concilio il celebrante sedeva a lato dell’altare così tutti guardavano a Cristo. Oggi siede dietro l’altare. E tutti sono costretti a guardare lui ».

Tratto da: pastorale.myblog.it

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