Il mio Papa gesuita
Ruini giudica l’inizio di Francesco. La burocrazia no, ma la chiesa istituzione è necessaria. Serve una curia nuova per un migliore esercizio del primato petrino
di Marco Burini – Il Foglio
Quello che è successo alla chiesa in questi due mesi resterà nella storia. E se c’è qualcuno che ha fatto la storia della chiesa negli ultimi decenni è il cardinale Camillo Ruini. Per questo gli abbiamo chiesto un parere. Come possiamo leggere il passaggio tra la rinuncia di papa Benedetto e l’elezione di Papa Francesco: si tratta davvero di una transizione epocale? L’istituzione papato sta forse cambiando, e in che direzione? “Non parlerei proprio di transizione epocale. Anzitutto perché non amo le espressioni enfatiche, ma poi ci sono motivi più sostanziali. L’elezione di un papa extraeuropeo, e in particolare latinoamericano, è indubbiamente una novità di grande significato. C’è il nuovo stile di Papa Francesco così semplice e immediato, vorrei dire affettuoso, e ulteriori novità probabilmente emergeranno. Ma la sostanza del compito del successore di Pietro rimane. Anzi, con l’elezione di Bergoglio il papato ha dato una nuova conferma della sua straordinaria attualità: pensiamo solo all’impoverimento che subirebbero le capacità comunicative e missionarie della chiesa nell’odierno mondo della comunicazione se non ci fosse la figura del Papa”.
La luna di miele con i media per intanto regge, ma non potrà durare a lungo; anche perché il nuovo Papa ha già avvertito che la chiesa “non è una ong pietosa”. Mentre gli ambienti tradizionalisti sono in allarme. Roberto de Mattei sul Foglio ha scritto che con la rinuncia di Ratzinger rimane “profondamente ferita la stessa costituzione del papato”. “La rinuncia di Benedetto XVI ha colto tutti di sorpresa e ha suscitato dolore e preoccupazione – osserva Ruini – Non si può però parlare in alcun modo di ferita alla costituzione del papato. E oggi ci rendiamo meglio conto di come quella decisione sia stata feconda di bene”.
Come interpreta la prima vera mossa politica di Papa Francesco, la nomina di un gruppo di otto cardinali “per consigliarlo nel governo della chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione apostolica ‘Pastor bonus’ sulla curia romana” (così il comunicato ufficiale)? In prospettiva cosa può comportare nell’assetto istituzionale? “Questa nomina è un passo importante per l’attuazione più concreta della collegialità dei vescovi, insieme al primato di Pietro. Un suggerimento del genere era già emerso dalle congregazioni dei cardinali prima del Conclave e Papa Francesco l’ha subito raccolto e realizzato. La riforma della ‘Pastor Bonus’ (Costituzione apostolica promulgata da Giovanni Paolo II il 28 giugno 1988, ndr) sembra anche a me molto importante e potenzialmente utile, sebbene non sia un esperto in questo campo. La linea di fondo, secondo me, dovrebbe essere questa: più collegialità non per meno primato ma per un miglior esercizio del primato”.
Come giudica l’assenza da questo gruppo di un vescovo italiano residenziale: è un altro segnale del ridimensionamento della chiesa italiana, già provata dal cosiddetto Vatileaks? E il passaggio da Ratzinger a Bergoglio non ratifica di fatto la fine della centralità della chiesa europea? “Sono chiacchiere poco significative – ribatte l’ex capo della Cei – Infatti la chiesa cattolica è per sua natura universale. E in essa per tutti i popoli e i continenti ci dev’essere pieno spazio e valorizzazione. Come ho detto anche prima del conclave nelle congregazioni generali, non ha alcuna importanza che il prossimo Papa sia italiano o non italiano, europeo e non europeo. Ciò che conta è che venga scelto il candidato migliore per il compito”. E i vescovi italiani? “Sono profondamente contenti e la questione della nazionalità non li tocca minimamente. La sorpresa ci fu con Wojtyla, che era il primo straniero dopo secoli, ma poi con Ratzinger e adesso con Bergoglio si è trattato di una cosa pacifica. Anzi, l’entusiasmo della gente è condiviso dai vescovi”.
La chiesa nelle sue strutture e nei suoi riferimenti ha avuto per secoli il baricentro in Europa, ma adesso l’asse si sta spostando. “In realtà questo è un fenomeno planetario, che certamente riguarda anche la chiesa – precisa Ruini – Oggi siamo nel mondo globalizzato, che poi corrisponde all’essenza del cattolicesimo, a sua volta universale. In questo senso, molti hanno osservato che la chiesa ha anticipato a suo modo la globalizzazione; per sua natura è mandata infatti fino agli estremi confini della terra, e in tutti i tempi”.
Nelle congregazioni generali, prima del conclave, Bergoglio aveva conquistato i cardinali con un intervento schietto: “Quando la chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala. I mali che affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico”. In effetti il suo bersaglio polemico è sempre stato la “mondanità spirituale”. Ha dichiarato che il peccato più brutto è la superbia, il “credersela”. Ma al di là dell’esempio di sobrietà che lui sta dando personalmente, come è possibile combattere l’elefantiasi burocratica che paralizza la chiesa? Lei, come presidente della Cei, che esperienza ha avuto in questo senso? “Il rischio denunciato da Papa Francesco è reale ed è sempre in agguato – riconosce Ruini – Anch’io, negli anni in cui sono stato alla Cei, ho dovuto fare i conti con questo problema e cercare di contrastarlo, con esiti più o meno efficaci. Certo è un rischio che corrono tutte le istituzioni. Le istituzioni in realtà sono necessarie, ma il pericolo dell’autoreferenzialità è reale”. Oggi più di prima. E dunque è ancora più urgente l’esigenza di un’istituzione leggera, flessibile. Come mai tanti preti si riducono a fare i funzionari invece che predicare il Vangelo? “Sono d’accordo sull’esigenza di concentrare i pochi sacerdoti che abbiamo soprattutto nella pastorale”. Il fatto è che non basta la buona volontà, nemmeno quella del Papa. Ci vorrebbe una riforma istituzionale… “Direi che bisogna alleggerire, anche numericamente, le strutture diocesane, oltre che la curia romana. In queste strutture spesso resiste l’idea che la pastorale si faccia attraverso grandi progetti, convegni, e metodologie. In realtà sono questioni secondarie, che producono poco. Ci vuole dunque un serio ridimensionamento, e credo sia possibile: se in una curia invece di tenere venti preti se ne tengono cinque, come si faceva una volta, gli altri si possono mandare sul territorio. Le parrocchie italiane, bene o male, sono ancora abbastanza coperte, ma ci sono altri ambiti della pastorale, penso alla sanità o all’educazione, piuttosto scoperti. Si tratta di avere delle priorità chiare”.
Tra le priorità di Bergoglio c’è senza dubbio la politica nel senso nobile del termine, montiniano (“La forma più alta di carità”). Nel discorso tenuto in occasione del bicentenario dell’indipendenza argentina, il 16 ottobre 2010 (ora pubblicato da Jaca Book con il titolo “Noi come cittadini noi come popolo”), l’arcivescovo di Buenos Aires elabora un pensiero organico per una cittadinanza “in seno a un popolo”, una vera e propria “teologia del popolo”. Ruini dice di “aver letto con interesse il libro intervista con Papa Francesco di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti. Specialmente nell’ultima parte, commentando il poema nazionale ‘El gaucho Martín Fierro’, si vede quanto Papa Francesco sia argentino. Un amore per la patria che noi italiani spesso non abbiamo”. Le vicende di questi giorni sembrano confermarlo. Ma la chiesa italiana come deve muoversi? “La chiesa ha il compito di educare il popolo. Il patriottismo italiano è sempre stato piuttosto debole, anche perché gli italiani sono molto partigiani, a partire dai guelfi e dai ghibellini. Siamo tutti un po’ fatti così. C’è stata, poi, la Questione romana che ha scavato un fossato, ormai fortunatamente colmato, tra la chiesa e lo stato italiano. In Italia, inoltre, domina ancora, in buona misura, l’idea francese di laicità che tende a escludere qualsiasi rilevanza pubblica della religione. Oggi comunque siamo costretti a cercare un minimo di solidarietà e di fiducia e in ciò la chiesa può essere di grande aiuto, anche attraverso gli esempi concreti di solidarietà che un po’ dappertutto fornisce”.
Tornando al discorso del bicentenario argentino, Bergoglio critica con forza “l’individualismo consumistico che unicamente chiede, esige, domanda, critica, moraleggia e, incentrato su se stesso, non aggrega, non scommette, non rischia, non ‘si mette in gioco’ per gli altri”. Questo sfondo può forse aiutare a capire l’insistenza di papa Francesco sui poveri, le periferie, gli ultimi, ecc. Negli ambienti conservatori, però, si sostiene l’equivalenza di fatto fra questa teologia del popolo e la teologia della liberazione. “Negli anni Settanta – ricorda il cardinale – ho tenuto dei corsi monografici, a Reggio Emilia e Bologna, sulla teologia della liberazione, che allora era di moda anche da noi. Così ho studiato un poco anche la teologia argentina, ad esempio del gesuita Juan Carlos Scannone (che è stato insegnante di Bergoglio, ndr). Già allora questa teologia era riconosciuta come essenzialmente diversa, perché non basata sull’analisi marxista della società ma sulla religiosità popolare. Assimilare oggi l’insistenza di Papa Francesco sulla povertà e sulla vicinanza ai poveri alla teologia della liberazione è del tutto fuori luogo. Si tratta invece, semplicemente, di fedeltà a Gesù e al Vangelo”. Anche il grande teologo gesuita Bernard Lonergan era stato molto duro sulla deriva liberista. “Certamente avrebbe letto la crisi economica del 2009 con gli stessi occhi del 1929. Lonergan condannava l’egoismo collettivo. Aveva imparato da un altro suo grande maestro John Henry Newman che ‘il male più sottile non esiste nelle azioni ma sul livello di disposizione a praticarlo, come ad esempio nel caso dell’avarizia’. Molto forte in quegli anni fu la sua critica verso l’irresponsabilità dei grandi leader che hanno in mano le sorti del mondo. Una lezione attuale la sua pensando alla nostra globalizzazione selvaggia”, ha detto pochi anni fa un suo discepolo, il teologo gesuita Michael Paul Gallagher. “Lonergan l’ho avuto come professore in Gregoriana nel ’53-’54, quindi parecchi anni dopo la crisi del ’29. Ho studiato molto i suoi libri filosofici e teologici fondamentali ma non ho avuto modo di studiare i suoi scritti sulle questioni economiche”. Resta il fatto che l’insistenza sulle periferie e sugli ultimi non è una questione sociologica ma squisitamente teologica. Il che non vuol dire disincarnata. “Certamente – conviene Ruini – Non è una questione partitica o ideologica ma di riconoscimento concreto del valore di ogni persona umana”.
Anche sulla questione antropologica Bergoglio è del tutto consapevole, basta sfogliare il suo colloquio con il rabbino di Buenos Aires Abraham Skorka (“Il cielo e la terra”, Mondadori). La chiarezza sui contenuti, però, è accompagnata da un limpido metodo dialogico. In questo stile quanto conta la formazione gesuitica? “Papa Francesco appare costantemente fedele al metodo dialogico e al tempo stesso molto preciso e puntuale sui temi teologici e antropologici. Questa è la migliore tradizione dei padri gesuiti che ho conosciuto negli anni 1949-’57 in cui sono stato loro discepolo in Gregoriana. Bergoglio mi ricorda i padri che conobbi allora: persone estremamente semplici e di vita addirittura spartana, Lonergan compreso, eppure a volte di valore internazionale”. Ma non è un paradosso che proprio ora che la modernità, di cui i gesuiti sono stati i precettori, è finita, la chiesa si affidi a un gesuita e non, ad esempio, al figlio di uno dei movimenti ecclesiali nati nel dopo Concilio? “Ratzinger è, per così dire, molto benedettino, ma ciò non significa che il suo riferimento fosse l’Alto medioevo. Certo, il fatto che Francesco sia il primo Papa gesuita è una novità, ma una novità che direi ‘normale’”.
Bergoglio si è presentato come il vescovo di Roma e su questo ha invitato a concentrare lo sguardo. Come coniugare il primato petrino con la collegialità oggi, cioè non con formule astratte ma nella pratica? In questo tema si può inserire anche il suo rilancio del concilio contro coloro che lo trattano come “un monumento che non dia fastidio” o “le voci che vogliono andare indietro”. “Il Vaticano II deve ancora sprigionare molte delle sue potenzialità – ammette Ruini – Papa Francesco ha fatto molto bene a sottolineare che bisogna andare avanti e non indietro nella sua attuazione. Ciò non contrasta con l’ermeneutica della riforma nella continuità che è la grande lezione di Benedetto XVI. Quanto al modo di coniugare primato e collegialità, un passo pratico è la costituzione del gruppo di otto cardinali di cui si parlava. Per parte mia, non sono un esperto di formule giuridiche e canoniche, posso solo dire che la strada migliore mi sembra quella di cercare di fare sintesi tra l’ecclesiologia del primo millennio, quando prevaleva la collegialità, e l’ecclesiologia del secondo millennio, nel quale invece è stato posto l’accento sul primato, conservando il meglio di entrambe e cercando di adattarle alla realtà di oggi. E’ un’opera grande che richiede del tempo e procederà per tentativi e aggiustamenti. Non credo che ci si fermerà al gruppo degli otto, ma per ora non saprei dire di più”.